di Alberto Lucarelli -
Il parere del Consiglio di Stato n. 213 del 25 gennaio del 2013 conferma le ragioni dei 27 milioni di italiani che il 12 ed il 13 giugno del 2011 si pronunciarono per l’eliminazione «dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito» quale elemento di determinazione della tariffa del servizio idrico integrato. Tale, infatti, è il risultato chiaro e netto dell’abrogazione: la tariffa di un bene comune per eccellenza quale l’acqua non può, nell’ordinamento italiano, garantire alcuna remuneratività ai suoi gestori. E ciò, come si ricava dalla sentenza di ammissibilità della Corte costituzionale di quel quesito, non è in contrasto con la Costituzione, come pure si era cercato di sostenere presentando la remuneratività del capitale come necessario elemento dell’attività di impresa. Né contrasta con il diritto comunitario, che anziché di servizi di rilevanza economica parla di servizi di interesse economico generale il cui carattere economico è garantito dal riferimento alla mera copertura dei costi, che possono essere sottratti all’applicazione della regola della concorrenza quando ne sia pregiudicata la missione, ossia il fine pubblico.
La Corte costituzionale, con la sentenza 26 del 2011, oltre a ritenere che il quesito referendario fosse chiaro e univoco il fine intrinseco perseguito, affermava come lo stesso perseguisse chiaramente la finalità di rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell’acqua e che una volta abolito il meccanismo della remunerazione del capitale investito gli oneri finanziari, fiscali e il rischio di impresa sarebbero stati coperti con altri meccanismi. Nel ragionamento della Corte, nella nuova tariffa avrebbero dovuto trovare riconoscimento soltanto i costi di investimento ed esercizio, non potendo trovare spazio alcuna logica remunerativa del capitale investito. In questo senso si accoglieva in pieno l’intento del comitato promotore.
Il Consiglio di Stato, anche richiamando la giurisprudenza costituzionale, fa dunque chiarezza e dà giustizia all’esito referendario: gli effetti del referendum devono essere estesi al D.M. 1° agosto 1996, nella parte in cui lo stesso richiamava ed applicava il criterio della «adeguatezza della remunerazione del capitale investito». Al referendum abrogativo è riconosciuta una sorta di valenza espansiva rispetto alle disposizioni legislative non coinvolte in maniera espressa dal quesito referendario, ma comunque incompatibili con la volontà manifestata dagli elettori.
A questo punto i comuni dovrebbero agire in solido per la restituzione delle somme indebitamente percepite dai gestori, ricorrendo, in caso contrario, all’istituto della risoluzione del contratto e/o dell’affidamento del servizio con i gestori stessi. Ciò faciliterebbe quelli che hanno più volte espresso la volontà di ripubblicizzare il servizio, impediti tuttavia dalla vigenza dei contratti di gestione e affidamento in corso, la cui rescissione unilaterale avrebbe determinato costi non facilmente sopportabili.
Ma ora spostiamoci al mese di dicembre, quando l’Autorità dell’energia e del gas ha approvato la delibera n. 585 che, nel fissare il nuovo metodo di determinazione della tariffa, faceva ricomprendere sotto la voce «oneri finanziari» i costi finanziari degli investimenti e della gestione (compresi gli oneri fiscali ed i rischi di impresa connessi agli investimenti e alla gestione). Insomma la recente delibera viola la giurisprudenza della Consulta e l’esito referendario qualificando il rischio di gestione quale costo ammissibile nella voce oneri finanziari, riproducendo di fatto l’abrogata «adeguata remunerazione del capitale investito». A ciò si aggiunge la nota fatta circolare qualche giorno fa dall’Autorità dell’energia e del gas con la quale si intende risarcire i cittadini sulla base del nuovo metodo tariffario, nel quale sarebbero già considerati gli effetti del referendum abrogativo.
Questi azzeccagarbugli, che rispondono ai gestori e alle banche, devono sapere che i cittadini vanno rimborsati, ancor più dopo il parere del Consiglio di Stato, di tutto quel 7% della remunerazione del capitale investito. E il nuovo parlamento approvi subito una legge di attuazione dei quesiti referendari, impedendo altre furbesche soluzioni o peggio ancora lasciando ad improbabili authority il potere di decidere sui diritti fondamentali dei cittadini.
Il parere del Consiglio di Stato n. 213 del 25 gennaio del 2013 conferma le ragioni dei 27 milioni di italiani che il 12 ed il 13 giugno del 2011 si pronunciarono per l’eliminazione «dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito» quale elemento di determinazione della tariffa del servizio idrico integrato. Tale, infatti, è il risultato chiaro e netto dell’abrogazione: la tariffa di un bene comune per eccellenza quale l’acqua non può, nell’ordinamento italiano, garantire alcuna remuneratività ai suoi gestori. E ciò, come si ricava dalla sentenza di ammissibilità della Corte costituzionale di quel quesito, non è in contrasto con la Costituzione, come pure si era cercato di sostenere presentando la remuneratività del capitale come necessario elemento dell’attività di impresa. Né contrasta con il diritto comunitario, che anziché di servizi di rilevanza economica parla di servizi di interesse economico generale il cui carattere economico è garantito dal riferimento alla mera copertura dei costi, che possono essere sottratti all’applicazione della regola della concorrenza quando ne sia pregiudicata la missione, ossia il fine pubblico.
La Corte costituzionale, con la sentenza 26 del 2011, oltre a ritenere che il quesito referendario fosse chiaro e univoco il fine intrinseco perseguito, affermava come lo stesso perseguisse chiaramente la finalità di rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell’acqua e che una volta abolito il meccanismo della remunerazione del capitale investito gli oneri finanziari, fiscali e il rischio di impresa sarebbero stati coperti con altri meccanismi. Nel ragionamento della Corte, nella nuova tariffa avrebbero dovuto trovare riconoscimento soltanto i costi di investimento ed esercizio, non potendo trovare spazio alcuna logica remunerativa del capitale investito. In questo senso si accoglieva in pieno l’intento del comitato promotore.
Il Consiglio di Stato, anche richiamando la giurisprudenza costituzionale, fa dunque chiarezza e dà giustizia all’esito referendario: gli effetti del referendum devono essere estesi al D.M. 1° agosto 1996, nella parte in cui lo stesso richiamava ed applicava il criterio della «adeguatezza della remunerazione del capitale investito». Al referendum abrogativo è riconosciuta una sorta di valenza espansiva rispetto alle disposizioni legislative non coinvolte in maniera espressa dal quesito referendario, ma comunque incompatibili con la volontà manifestata dagli elettori.
A questo punto i comuni dovrebbero agire in solido per la restituzione delle somme indebitamente percepite dai gestori, ricorrendo, in caso contrario, all’istituto della risoluzione del contratto e/o dell’affidamento del servizio con i gestori stessi. Ciò faciliterebbe quelli che hanno più volte espresso la volontà di ripubblicizzare il servizio, impediti tuttavia dalla vigenza dei contratti di gestione e affidamento in corso, la cui rescissione unilaterale avrebbe determinato costi non facilmente sopportabili.
Ma ora spostiamoci al mese di dicembre, quando l’Autorità dell’energia e del gas ha approvato la delibera n. 585 che, nel fissare il nuovo metodo di determinazione della tariffa, faceva ricomprendere sotto la voce «oneri finanziari» i costi finanziari degli investimenti e della gestione (compresi gli oneri fiscali ed i rischi di impresa connessi agli investimenti e alla gestione). Insomma la recente delibera viola la giurisprudenza della Consulta e l’esito referendario qualificando il rischio di gestione quale costo ammissibile nella voce oneri finanziari, riproducendo di fatto l’abrogata «adeguata remunerazione del capitale investito». A ciò si aggiunge la nota fatta circolare qualche giorno fa dall’Autorità dell’energia e del gas con la quale si intende risarcire i cittadini sulla base del nuovo metodo tariffario, nel quale sarebbero già considerati gli effetti del referendum abrogativo.
Questi azzeccagarbugli, che rispondono ai gestori e alle banche, devono sapere che i cittadini vanno rimborsati, ancor più dopo il parere del Consiglio di Stato, di tutto quel 7% della remunerazione del capitale investito. E il nuovo parlamento approvi subito una legge di attuazione dei quesiti referendari, impedendo altre furbesche soluzioni o peggio ancora lasciando ad improbabili authority il potere di decidere sui diritti fondamentali dei cittadini.
Il Manifesto
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