martedì 31 marzo 2015

Gli scatoloni della sinistra


weremoving1
di Alfredo MORGANTI

Prima ancora che la minoranza PD decida il proprio futuro, Renzi ha già deciso il suo.
Ieri 30 marzo in Direzione è nato il Partito della Nazione, o almeno i suoi prodromi.
Senza la ‘zavorra’ della sinistra il partito democratico è ormai pronto a spiccare il volo verso i verdiniani e verso quel mondo politico profondamente anticomunista che ha visto come manna piovuta dal cielo l’assunzione al trono dell’attuale premier.
Sarà un partito né di destra né di sinistra, ma piazzato là in mezzo come un grande carrozzone su cui possono salire tutti a partire dai passanti, ma meno i comunisti (a meno che non siano pronti a fare tappezzeria in streaming).
Rosy Bindi oggi su Repubblica è più precisa. Lo chiama ‘il partito unico della nazione, che avrà alla sola Camera una maggioranza pigliatutto di 340 deputati e avrà intorno 4 o 5 partiti in lotta tra loro”. “È la fine del bipolarismo nel nostro Paese”, aggiunge.
Ci vuol poco in fondo, basta soltanto appellarsi concretamente a quella parte di elettorato silenzioso che non vede l’ora di azzerare le ‘chiacchiere’ parlamentari, le presunte indecisioni, i ritmi forse più ponderati ma sani della democrazia rappresentativa, per mettere in un angolo la politica e consegnare il Paese (il suo presente e il suo futuro) a qualcuno che ‘decida’ in fretta e ce lo comunichi poi, con comodo, magari direttamente da un balcone.
Che questa sia l’aria (un’aria da resa dei conti di una parte del Paese verso la sinistra) lo si intravede anche dalle opinioni di un uomo mite come Stefano Folli, ma dal dente avvelenato pure lui verso i comunisti.
Insomma, dice oggi sempre su Repubblica (l’house organ del Partito Renziano), il vecchio PD ha chiuso la sua parabola. Nasce oggi un altro soggetto politico rappresentante effettivo dell’Italia renziana. La sinistra interna, quella reduce dai vecchi partiti, resta come testimone del passato. Anzi deve “assistere al lento smantellamento di un sistema di potere”. Quale? Ovvio: “le iniziative della magistratura hanno un retrogusto politico, colpiscono un certo mondo della sinistra fatto di quadri locali, di piccoli e medi amministratori connessi in forma diretta o indiretta, alla rete delle cooperative”. Insomma si sta incrinando un sistema, e il “vecchio rapporto tra il partito e i centri economici … viene messo in discussione dall’avanzata del renzismo”.
Capite? I notabili locali, la rete collaterale delle coop stanno saltando a causa dell’avanzata renziana, conclude Folli. Curioso, perché a un italiano un po’ avveduto che legge i giornali seri (che, peraltro, questi sì, stanno scomparendo) verrebbe invece in mente che i notabili locali sono TUTTI con Renzi (De Luca, per dire) e al Dicastero del Lavoro c’è proprio l’ex capo di Legacoop, quello dell’art. 18 per intenderci, del lavoro come ‘scommessa’, che credo stia lì anche per qualche, legittimo ma evidente, patto elettorale con lo stesso Renzi, a partire dalle primarie.
Folli si aggiorni, dunque.
In ultimo faccio ammenda. Sono venticinque anni che faccio scatoloni, e transito di partito in partito. È stato faticoso, lo ammetto. Ma l’ho fatto in piena coscienza. Pensavo che l’obiettivo fosse un altro, o così mi facevano credere, o così ho creduto io.
Oggi mi sento, nel mio piccolo, responsabile di un vero e proprio disastro politico, che lascerà molte donne e uomini senza una proprio tutela e una propria rappresentanza. Sono tanti. Spero che altrettanto responsabili, nel loro grande però, siano tutti quegli altri che non si sono limitati a fare gli scatoloni, ma che il trasloco lo hanno ogni volta progettato e condotto, dicendoci che la casa nuova sarebbe stata migliore. Col risultato che siamo senza casa, con gli scatoloni in mano e non sappiamo che fare. A loro, adesso, il compito di indicare un obiettivo che non siano quattro modifiche a pie’ di pagina di una riforma di dubbia costituzionalità.
Io le mie alternative personali ce l’ho: scrivo, leggo, faccio musica, vado al cinema e al teatro, ho una bella famiglia, amici e un lavoro. Posso anche sopravvivere senza essere rappresentato da nessuno, anche se è complicato. Ho la scorza dura, insomma, e una certa età. Ma ai più giovani, quelli a cui abbiamo acchittato questo mondo tecnico e antipolitico, tutto concentrato sul consumo rapido di merci sempre più costose, cosa diciamo? Lo so che forse nemmeno sanno di vivere nel peggiore dei mondi possibili e pochi di loro vorrebbero davvero trasformarlo nel profondo. Lo so che l’ideologia dominate, quello neoliberista, è forte e ci ha circuiti un po’ tutti, io per primo. Tuttavia noi abbiamo il dovere di proporre una soluzione e indicare un percorso. Se non lo facciamo prima o poi i giovani si dimenticheranno di noi. Non dei loro padri o madri, non è questione psicanalitica. Ma di chi ha la responsabilità politica di indicare delle alternative a questo sfacelo anche etico.
E se lui, Renzi, pensa al partito unico della nazione con Marchionne, i notabili locali e le oligarchie, tocca a noi pensare ad altro. All’altro. Al partito della sinistra italiana. Sarebbe ora, dopo tanti traslochi andati a male.

IL POMPIERE


Era partito dalla dichiarazione di guerra contro i grandi della terra nel 2001 ed è finito a fare il dirigente di SeL, passando per una trombatura alle elezioni nella lista Tsipras. Una parabola che più triste non si può. E’ proprio vero: c’è chi nasce “incendiario” ma è destinato a morire pompiere.

Come fare informazione infame sulle pensioni di Claudio Conti, Contropiano.org

Come fare informazione infame sulle pensioni

I media di regime fanno schifo, e va bene. Chi ne controlla i pacchetti azionari “sollecita” i suoi dipendenti-giornalisti a diffondere le notizie nel modo e nalla misura che più si confà agli interessi del proprietario.
Ma dovrebbe esistere un limite deontologico oltre il quale il giornalista professionista o il caporedattore – in realtà un lavoratore dipendente a tutti gli effetti - anche se ancora non se n'è reso conto e coltiva antichi immaginari corporativo-artigianali, “ordine” compreso – non si dovrebbe mai spingere. E ci dispiace sinceramente che lo scivolone che stiamo analizzando sia stato compiuto sulle pagine de IlSole24Ore, organo di Confindustria (l'insieme dei padroni, non un padrone solo) che proprio della serietà dell'informazione economica ha fatto il suo marchio di fabbrica.
Sul quotidiano di oggi campeggia un incredibile L'età della pensione? In sei anni è salita solo di sette mesi. Frenano le uscite dal mondo del lavoro. Ci siamo guardati attorno, contando gli amici, i padri e le madri, i parenti che maledicono Dini, Maroni, Fornero, Monti fino alla settima generazione, e tutti i componenti di tutti i governi degli ultimi venti anni, diversi nelle parole e nelle “cene eleganti”, ma assolutamente uguali nel trattare le pensioni come una cassaforte di liquidità in cui mettere le mani. Semplicemente ritardando l'età pensionabile e adottando “coefficienti” più miserabili per calcolare l'assegno pensionistico. Abbiamo ripassato in rassegna le biografie di gente che pensava di andare in pensione a 57 anni, con 35 di contributi, e invece sta ancora attendendo pur avendo passato i 63 e i 40 anni di “anzianità”.
Ci deve essere un errore, ci siamo detti, magari un refuso (“mesi” al posto di “anni”, per dire). Ma quando ci siamo messi a leggere c'è salita la pressione.
L'articolo di Davide Colombo parte citando dati dell'Inps, quindi veri: “Tra il 2009 e i primi due mesi del 2015 sono andati in pensione un milione e 503.450 lavoratori, di cui 745.495 con l'anzianità (o l'anticipo) e 757.955 con la vecchiaia. Per loro l'età media non è mai stata più alta di 62 anni e sei mesi. In sei anni dunque - tenendo conto del fatto che il dato di inizio 2015 non è ancora adeguatamente popolato - l'età media effettiva di pensionamento è aumentata di sette mesi e una settimana”.
Cosa c'è di sbagliato? Che si tratta di dati a consuntivo, che prendono in considerazione soltanto coloro che in pensione sono riusciti comunque ad andarci, senza tenere peraltro conto di tutto il settore pubblico (come ammette lo stesso articolista), e tantomeno di tutti coloro che – per effetto delle “riforme pensionistiche” degli ultimo 20 anni – hanno dovuto vedere il loro “ritiro” allontanarsi di anni. Per dirne una: gli esodati, in questo calcolo, dove sarebbero finiti? Tra gli attuali pensionati, ovvio (sono rimasti sospesi tra lo scadere di ammortizzatori sociali chiesti dalle aziende e l'allungamento dell'età pensionabile). E infatti ci sono quelli per cui c'è stato un “intervento riparatore”, mentre mancano quelli per cui ancora non è stato fatto niente.
Nel corso dell'articolo, poi, Colombo dettaglia meglio le diverse posizioni, dà conto dello “scalino” creato da Maroni e Fornero, in qualche misura fa intuire che la situazione sociale effettiva è assai meno rosea di quanto detto nel titolo; spiega anche gli effetti distorsivi provocati dalle norme più punitive, che hanno convinto a "fuggire" - rimettendoci qualcosa, ma meno di quanto non sarebbe accaduto restando al lavoro - molti lavoratori "maturi". Ma ormai la frittata era fatta. E il titolista, invece di arivare alla fine del pezzo, ha preso la frase che più si confaceva agli interessi dell'azionista. E dunque vai con quell'infame “L'età della pensione? In sei anni è salita solo di sette mesi” piuttostoche con il più corretto “tot milioni di persone non sono più potute andare in pensione”. Non era neanche difficile: in fondo basta specificare davvero cosa significa "Frenano le uscite dal lavoro"...
Chi possiede anche soltanto un minimo di conoscenza, neanche “scientifica”, del mondo del lavoro, sa che la “generazione del boom” - i nati fino all'inizio degli anni '60, insomma gli over 55 – ha avuto l'indubbia fortuna di crescere in un'economia mista (pubblica e privata), in piena esplosione di crescita da ricostruzione” dopo la guerra, in cui si trovava dunque lavoro con relativa facilità; al punto che non è difficile trovare oggi dei 58enni che hanno abbondantemente superato i 40 anni di carriera lavorativa regolare, “con i contributi” si diceva una volta. Tutta questa gente è stata attraversata peraltro da un ciclone di crisi e di cambiamento delle regole pensionistiche che hanno creato disparità inqualificabili (potersi ritirare o no per una questione di giorni o settimane di differenza, come accaduto ai “quota 96” della scuola) e situazioni insostenibili (gli “esodati” sono solo una delle tante figure di questa scena).
Se si eliminano dal conteggio tutti i “bloccati sul lavoro” (o più probabilmente in cassa integrazione o in mobilità), si possono truccare i calcoli in qualsiasi modo. Senza neppure considerare la condizione disperante cui sono state consegnate le nuove generazioni (di fatto: chiunque abbia oggi meno di 55 anni), che andranno - forse - in pensione molto più tardi e con ancora meno soldi.
Perché viene fatto?
Quella sull'età effettiva di pensionamento è una delle statistiche prese in esame dai comitati tecnici della Commissione europea (a partire dal Working group on ageing, population e sustainability) e dall'Ocse per verificare l'impatto delle riforme. Sono dati su cui riflettere prima di introdurre le nuove misure, di cui tanto si discute, per favorire una maggior flessibilità in uscita”.
E qui tutto diventa più chiaro. Si devono mettere le mani su diversi problemi convergenti alle soglie del nodo pensioni/ammortizzatori sociali. Ci sono gli ultrasessantenni espulsi dal lavoro ma che non hanno i requisiti per la pensione; c'è la necessità di far uscire i più anziani e lasciare posto ai giovani, ma senza gravare l'Inps di oneri che si vorrebbero invece diminuire (basterebbe lasciar andare al loro destino i dirigenti d'azienda, la cui “Cassa di previdenza” è fallita a causa degli assegni troppo ricchi e che sono stati girati all'Inps senza alcuna riduzione di trattamento; a spese nostre, insomma).
La proposta che più ottiene ascolto in sede governativa è quella di favorire l'uscita volontaria di chi è vicino comunque all'età del ritiro, ma accollando a chi sceglie di andarsene prima il costo dell'operazione. Col vecchio metodo delle “penalizzazioni”, sia rispetto al calcolo della liquidazione (col solo “contributivo”, anziché con sistema misto per quanti avevano già 18 anni di anzianità lavoratica nel '95, all'epoca della “riforma Dini”), che alla determinazione dell'assegno mensile. A spese nostre, insomma...
E allora si capisce benissimo la “caduta di stile” del titolista de Il Sole...
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L'età della pensione? In sei anni è salita solo di sette mesi. Frenano le uscite dal mondo del lavoro
di Davide Colombo
Le nuove regole previdenziali introdotte negli ultimi anni, dalle finestre mobili di Maurizio Sacconi ai più stretti requisiti di età e contribuzione di Elsa Fornero, hanno avuto un effetto piuttosto modesto sull'età di pensionamento effettiva degli italiani se si guarda alla media generale alla decorrenza del primo assegno Inps. Tra il 2009 e i primi due mesi del 2015 sono andati in pensione un milione e 503.450 lavoratori, di cui 745.495 con l'anzianità (o l'anticipo) e 757.955 con la vecchiaia. Per loro l'età media non è mai stata più alta di 62 anni e sei mesi.
In sei anni dunque - tenendo conto del fatto che il dato di inizio 2015 non è ancora adeguatamente popolato - l'età media effettiva di pensionamento è aumentata di sette mesi e una settimana. L'età media all'incasso del primo assegno Inps, in particolare, è aumentata di tre anni per le pensioni di vecchiaia (dai 62,5 del 2009 ai 65,6 del 2014) e di quasi un anno per quelle di anzianità (dai 59 anni ai 59,9 anni).
I numeri sono contenuti nelle tabelle di calcolo sull'età effettiva di pensionamento nelle gestioni principali monitorate dall'Inps e ancora in fase di elaborazione per diverse categorie - a partire dal pubblico impiego che qui è escluso - e che Il Sole-24 Ore è in grado di anticipare. Quella sull'età effettiva di pensionamento è una delle statistiche prese in esame dai comitati tecnici della Commissione europea (a partire dal Working group on ageing, population e sustainability) e dall'Ocse per verificare l'impatto delle riforme. Sono dati su cui riflettere prima di introdurre le nuove misure, di cui tanto si discute, per favorire una maggior flessibilità in uscita.
I numeri in questione comprendono anche le pensioni supplementari, i prepensionamenti, gli assegni di invalidità trasformati al raggiungimento dell'età di vecchiaia e le pensioni erogate agli ex esodati. Di questi ultimi, secondo l'aggiornamento Inps del 20 marzo, già per 69.693 sono state liquidate le pensioni, a fronte delle 109.278 certificazioni su un totale di 170.230 soggetti salvaguardati.Ad abbattere l'aumento di età effettiva ci sono le numerose deroghe previste dal nostro ordinamento e che consentono il ritiro anticipato: i lavoratori usuranti, i marittimi, i minatori, le diverse gestioni speciali (dai lavoratori del trasporto alle ferrovie al volo, dove l'età di pensionamento è di 60 anni). E c'è l'effetto del regime sperimentale e transitorio riservato alle lavoratrici dalla riforma Maroni (legge 243/2004) che prevede il possibile ritiro anticipato con 35 anni di contributi a 57 anni di età se dipendenti e 58 se autonome. Ma si tratta di pochi casi.
A fare la differenza vera hanno continuato però ad essere i pensionamenti anticipati degli uomini, che con molta più facilità delle donne raggiungono il requisito contributivo minimo (42 anni e un mese nel 2012 gradualmente innalzato di un mese nel 2013 e di un altro mese nel 2014 oltre ai tre mesi della speranza di vita) grazie a carriere lavorative più lunghe e meno discontinue. Basta guardare le cifre: tra il 2010 e il 2014 si sono pensionati con l'anzianità (o l'anticipata) 443.429 uomini e solo 173.924 donne.Gli effetti più significativi delle nuove regole si osservano poi sul numero dei pensionamenti. Se i dati relativi al 2012 non si possono includere nella fase transitoria post-riforma Fornero perché sono in larga parte persone che avevano maturato i requisiti nel 2011 e sono andati in pensione con la finestra, nel 2013 lo scalino c'è: le pensioni di vecchiaia scendono da 130.727 dell'anno prima a 92.993 e quelle di anzianità da 115.674 a 99.958.
Nell'anno dello scatto in avanti di tre mesi dei requisiti di età legati all'aspettativa di vita sono state liquidate oltre 53mila pensioni in meno. E la discesa è proseguita nel 2014, con altre 40mila pensioni in meno dell'anno prima. Un “effetto blocco” generato dalla riforma Fornero, che è stata improvvisa e che nel 2012 ha inglobato la cosiddetta finestra mobile nell'età di pensionamento. A questo stop si contrappone invece il picco dei 53.601 pensionamenti in più del 2010 (in totale furono 339.955, il dato più elevato nei sei anni, contro i 286.354 del 2009). Ha avuto ragione chi, in questo caso, aveva previsto un “effetto fuga” determinato dalla manovra che ha introdotto (dal gennaio 2011) le finestre “mobili” sia per pensioni ordinarie di vecchiaia che per pensioni di anzianità, con uno slittamento di 12 mesi per i lavoratori dipendenti e di 18 per gli autonomi.
Una “fuga” che ha condizionato i previsti effetti di risparmio e di aumento dell'età di pensionamento complessivo.Tornando all'età effettiva che è salita poco - con buona pace di quanti si sono allarmati per l'annuncio del futuro adeguamento alla speranza di vita che farà crescere di quattro mesi l'età per la vecchiaia dal gennaio prossimo (66 anni e 7 mesi per gli uomini) - dalle tabelle esce infine la conferma di un trend che sarà più evidente nel 2018, anno di passaggio a regime degli ultimi requisiti: allora le pensioni di vecchiaia saranno un po' più numerose e l'età effettiva delle donne potrebbe superare quella degli uomini. Insomma, oltre ad avere più difficoltà nel concludere una carriera lavorativa piena, le donne dovranno pagare lo scotto di un pensionamento più ritardato.

Renzi vuole mettere mano pure alla riforma del Terzo settore, che lancia l'allarme: "Troppo potere ai privati"



La legge-delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale nei prossimi giorni sbarcherà in aula per ottenere il primo via libera. Il Cnca (Coordinamento nazionale delle comunità d’ccoglienza) ha lanciato l’allarme. Nel corso di una conferenza stampa convocata per questa mattina alla Camera dei deputati, il Cnca ha messo in evidenza i rischi di attribuire un ruolo maggiormente definita all'impresa privata. Da tempo alcune lobbies economiche stanno spingendo perché pezzi di welfare vengano messi a frutto sul versante del profitto. E questa spinta va di pari passo, ormai in larga parte del continente europeo, con politiche di destrutturazione dei sistemi di tutela e cura delle persone. Risultato, nel testo presentato dal Governo c’è un chiaro rafforzamento della figura giuridica dell’impresa sociale. E questo in un contesto in cui “l’accentramento delle risorse, la tendenza al monopolio, l’abbattimento dei costi, la massimizzazione dei profitti, la colonizzazione e il trasferimento dell’intervento in altre aree territoriali, oltre i territori naturali di prossimità” avanzano quasi senza difese.
Il rafforzamento della figura giuridica dell’impresa sociale appare a molti come un superamento dell’esperienza della cooperazione a vantaggio di un soggetto che risponda sul piano giuridico alle necessità di investitore privato. Alcuni recenti episodi, vedi innanzitutto “Mafia-capitale”, denuncia il Cnca, "ci spingono a contrastare ancor più puntualmente le logiche mercantili degli appalti al massimo ribasso e i processi di accentramento dei servizi in pochi soggetti di grandi dimensioni. Ci preoccupa il rischio ‎della possibile entrata nel settore di organizzazioni in cui non sussiste una vera democrazia partecipativa, nodo centrale di una maniera differente di attivare processi di liberazione".
Pur valutando positivamente il passaggio sul 5 per mille, l’idea di un servizio civile universale, il rafforzamento del ruolo del terzo settore nella gestione dei beni confiscati, contenuti nel provvedimento il Coordinamento rivendica con forza il ruolo del sociale come spazio di incontro dei diritti e dei servizi: “Non abbiamo bisogno di un nuovo spazio low del profitto costruito attorno all’impresa sociale, ma di uno spazio sempre più ampio dove i diritti di cittadinanza e del lavoro incontrino soggetti di economia sociale che se ne facciano promotori e sostenitori”.

Imsomma, il sociale non è un nuovo mercato per l’appetito di qualcuno, le persone non sono nuovi potenziali clienti di un sistema privatistico di erogazione di servizi sociali ma cittadini protagonisti della qualità del vivere costruita collettivamente anche in tempi inediti e difficili. Hanno partecipato alla conferenza stampa il presidente del Cnca Armando Zappolini, Carlo De Angelis Consigliere nazionale Cnca con delega al welfare, Simona Panzino del Roma Social Pride, Giovanni Moro di Fondaca, Giulio Marcon di Sinistra ecologia e libertà e Paolo Beni del Partito Democratico. “Il rischio che ravvediamo in questo tipo di operazione è quello di vedere trascinato il sociale nelle logiche del mercato con una conseguente ricaduta su chi usufruisce dei servizi e per chi lavora in questo settore.”

Care minoranze Pd di Alessandro Gilioli


Cara minoranza Pd, anzi care minoranze Pd visto che siete diverse tra voi, beh, io ve lo dico, poi vedete voi se credermi o no:
1. A eccezione dei vostri cari, fuori dai palazzi l'interesse nei vostri confronti - già scarsino all'inizio - ultimamente è calato parecchio. Diciamo che al momento siete seguiti grosso modo come il campionato di curling - ma non quello di serie A.
2. Dopo la riunione all'Acquario di Roma, in particolare, le vostre gesta vengono recepite dalla stessa area del cervello che induce talvolta a cliccare sulle dichiarazioni di Sara Tommasi o sui siti sciichimisti. Credo che sia la zona dell'eccentrico-curioso-trash.
3. Ogni volta che parla D'Alema, da Palazzo Chigi parte un ordine di Moët & Chandon; quando si aggiunge D'Attorre, arrivano anche le tartine.
4. Le vostre reiterate minacce di scissione non vengono più quotate nemmeno dai bookmaker più spregiudicati di Londra, quelli che pure accettano scommesse sull'arrivo degli alieni entro la fine dell'anno.
5. Bersani che invita Renzi a "non decidere da solo" sembra il cardinale Bagnasco quando invita i giovani a non fare sesso prima del matrimonio: tuttavia ha molte meno probabilità di successo.
6. In linea generale, chi tra voi ha fatto per anni la corte all'Udc di Casini (ma anche a Fini), poi ha votato tutte le riforme di Monti (compresa quella costituzionale) e infine ha fatto il governo con Berlusconi (magari entrandoci pure) quando rivendica di essere di sinistra risulta credibile come Pacciani che parla di rispetto per le donne.
7. Nulla di personale verso (quasi) nessuno di voi, ma ho la sensazione che se voleste davvero servire le idee che oggi manifestate, e a esse risultare utili, per la più parte di voi un dignitoso ritiro a vita privata sarebbe la scelta migliore - e probabilmente gioverebbe anche a voi, sul lungo, in termini reputazionali.
Senza acrimonia, anzi con umana solidarietà per la vostra attuale difficile condizione

MA NON ERA FINITA? A FEBBRAIO 23 MILA DISOCCUPATI IN PIÙ


 
ISTAT: Si interrompe il calo della disoccupazione. 
Il tasso torna a salire al 12,7%. Per i giovani al 42,6%
 
Ma Poletti vede 1 milione di posti di lavoro (ma che si fuma?)

 
 

Corruzione, un romanzo letto al contrario —  Massimo Villone, Il Manifesto

Abbiamo capito. La cor­ru­zione è il vero romanzo ita­liano, e un nuovo Man­zoni ci scri­ve­rebbe il sequel ai Pro­messi Sposi. A quel che si legge, nell’inchiesta su Ischia c’è tutto. Il poli­tico che rimane a galla tra­smi­grando da una sponda all’altra; i par­titi di suc­ces­siva appar­te­nenza che abbrac­ciano il suo pac­chetto di voti; i fun­zio­nari com­pia­centi che fir­mano le carte par­te­ci­pando al mal­tolto; i parenti; il fan­goso rap­porto tra poli­tica, ammi­ni­stra­zione, denaro; l’impresa, per di più amman­tata di una sto­ria antica e per­sino un tempo nobile; il poli­tico potente, magari un po’ deca­duto. E soprat­tutto l’omertà di tanti, che cer­ta­mente sape­vano o sospet­ta­vano, e hanno valo­ro­sa­mente taciuto.

È l’Italia di oggi. Un remake con un copione nem­meno ori­gi­nale, che non ci inse­gna nulla di nuovo. Ma ci dà l’ennesima prova di quanto debole sia l’argine che la poli­tica vor­rebbe costruire. Il dise­gno di legge con­tro la cor­ru­zione arranca in senato, e va ancora ricor­dato che il dise­gno di legge AS 19 a firma di Grasso e altri fu pre­sen­tato il 15 marzo 2013, all’avvio della legi­sla­tura. Sono pas­sati due anni, e non più di un mese fa venne negata l’urgenza.
La lotta alla cor­ru­zione arranca, men­tre con­ti­nuano le fibril­la­zioni sulla que­stione della pre­scri­zione. Il punto è che una parte della mag­gio­ranza con­si­dera la cor­ru­zione come un pec­ca­tuc­cio, da con­fes­sio­nale piut­to­sto che da galera. La rilut­tanza di pezzi della poli­tica verso inter­venti dra­stici riflette il pen­siero di pezzi del paese che con la cor­ru­zione vivono senza pro­blemi. Per­ché ne appro­fit­tano, per­ché la tol­le­rano, per­ché pen­sano che non li riguarda.
Com­bat­tere la cor­ru­zione è ovun­que dif­fi­cile, per­ché è un reato in cui è dif­fi­cile distin­guere un car­ne­fice e una vit­tima. Cor­rut­tore e cor­rotto sono indis­so­lu­bil­mente legati dall’interesse a coprire il reato, e man­ter­ranno entrambi il silen­zio se appena potranno.
E può essere anche dif­fi­cile dare la prova, che spesso richiede di sman­tel­lare appa­renze ben nasco­ste. Leg­giamo che i pro­venti della cor­ru­zione sareb­bero nella spe­cie venuti anche da con­su­lenze — mec­ca­ni­smo ben noto e ormai sospetto in prin­ci­pio — e dalla messa a dispo­si­zione di camere di albergo per i dipen­denti della impresa coin­volta. E qui un po’ di fan­ta­sia c’è.
Per que­sto la via di un con­tra­sto effi­cace è più nella pre­ven­zione che nell’inasprimento della san­zione penale. Biso­gna sti­mo­lare chi è fuori del dise­gno cor­rut­tivo a rico­no­scerlo, darne noti­zia, ren­dere visi­bile ciò che non lo è. Dando nuova vita­lità ai mec­ca­ni­smi di respon­sa­bi­lità poli­tica e isti­tu­zio­nale, agli stru­menti di con­trollo sociale, alla con­sa­pe­vo­lezza che la cor­ru­zione è in senso tec­nico un costo. Cer­ta­mente occulto, ma non meno reale. Anche se è dif­fi­cile quan­ti­fi­carlo, è un pacco di miliardi che viene sot­tratto al bene comune.
Ma pro­prio gli ele­menti del romanzo prima elen­cati ci dicono che la via è lunga. Non basta un tocco di bac­chetta magica. Come ripu­lire la poli­tica senza rico­struirla dalle fon­da­menta? Quella che abbiamo è fon­data sulla per­so­na­liz­za­zione estrema, sul suc­cesso com­mi­su­rato ai pac­chetti di voti di cui si dispone, su par­titi disgre­gati che vei­co­lano falsi riti pseu­do­de­mo­cra­tici come le pri­ma­rie. Né si ritro­vano stru­menti effi­caci di respon­sa­bi­lità poli­tica senza rivi­ta­liz­zare le assem­blee elet­tive regio­nali e locali, oggi in larga parte occu­pate da ecto­pla­smi di nuovo nota­bi­lato attenti solo al pro­prio con­senso. Né ancora si rin­salda una gestione cor­retta del denaro pub­blico se non si ripensa a fondo la sepa­ra­tezza tra poli­tica e ammi­ni­stra­zione costruita a par­tire dagli anni ‘90. È pro­ba­bile che, secondo le regole, il sin­daco di cui si parla non abbia fir­mato alcuna carta. Ma lo avrà fatto un fun­zio­na­rio da lui nomi­nato, o da lui lasciato sulla pol­trona già occu­pata. Di sicuro non il por­ta­tore di una diversa con­ce­zione di vita.
Quel che pre­oc­cupa è che le stor­ture in atto andreb­bero cor­rette con riforme oppo­ste a quelle che il governo porta avanti: sulla Costi­tu­zione, sul sistema elet­to­rale, sulla Pa, senza dimen­ti­care le inter­cet­ta­zioni e la respon­sa­bi­lità dei magi­strati. In spe­cie, un’occhiuta vigi­lanza e il ripri­stino dell’etica pub­blica si ritro­vano con una par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica effet­tiva e dif­fusa, e un sistema solido di checks and balances.
Al con­tra­rio, le pro­po­ste in discus­sione ridu­cono la rap­pre­sen­ta­ti­vità e con­cen­trano il potere in poche mani. Men­tre la lotta alla cor­ru­zione non guarda alla pre­ven­zione, ma si riduce a un dise­gno san­zio­na­to­rio penale che sof­fre di salute par­la­men­tare cagio­ne­vole. Non è un caso che rima­niamo sul fondo delle clas­si­fi­che inter­na­zio­nali sulla cor­ru­zione. Men­tre si affida ancora alla logica del deus ex machina — Can­tone e auto­rità anti­cor­ru­zione — il mes­sag­gio che il paese risale la china. È falso, e non dipende dalle per­sone. Qua­lun­que auto­rità può solo inter­ve­nire in pochi casi emble­ma­tici, a danno già pro­dotto. Non cura la malat­tia dif­fusa ed endemica.
La cau­tela è d’obbligo. Dun­que non distri­buiamo con­danne, e con la for­mula usuale auspi­chiamo che la magi­stra­tura fac­cia in fretta e bene. Ma intanto notiamo che è pas­sato appena qual­che giorno dall’esortazione di Mat­ta­rella a che la Pub­blica ammi­ni­stra­zione operi con tena­cia e tra­spa­renza con­tro la cor­ru­zione. E non c’è dub­bio che qual­cuno si muova con tena­cia: ma contromano.

lunedì 30 marzo 2015

Landini: una nuova sinistra sindacale? di Aldo Giannuli


landini 940Con la nascita della “cosa” landiniana, sembra tornata di attualità la “sinistra sindacale”, come leva per una sinistra diversa, basata sul primato del sociale sul politico. Forse non sarà inutile ricordare la prima esperienza in questo senso, la sinistra sindacale degli anni sessanta-settanta, per ricavare qualche utile indicazione su esperienze già fatte.

Nella prima metà degli anni sessanta, la situazione politica in Italia e Francia sembrò schiodarsi dall’immobilismo del quindicennio precedente. In Italia il Centro sinistra, in Francia la prima candidatura di Françoise Mitterrand sostenuto da comunisti e socialisti insieme, profilarono una alternativa all’egemonia di centro destra vigente sino a quel momento.
Tuttavia, in Francia Mitterrand non vinse (anche se il 45% del secondo turno fu un notevole successo) ed in Italia il Centro-sinistra andò rapidamente perdendo la sua primitiva carica riformista. D’altra parte, i condizionamenti internazionali del mondo diviso in due blocchi non si erano certo affievoliti, per cui l’ipotesi di una vittoria elettorale della sinistra appariva decisamente improbabile, per lo meno nel tempo politicamente prevedibile e, con essa, anche un programma di trasformazione sociale.
Questa situazione di blocco istituzionale spinse settori della sinistra a cercare un’altra strada che non passasse per le istituzioni, ma attraverso le lotte sociali ed, in particolare, quelle sindacali. A farsene fautori, in Francia, furono intellettuali di formazione socialista ed un piccolo partito di estrema sinistra come il Psu di Michel Rocard, ma soprattutto l’ex confederazione sindacale cristiana (la Ctfc) che aveva mutato il nome in Cfdt.
Anche in Italia il troncone originario di derivazione socialista fu l’iniziatore, con il gruppo di sindacalisti del Psiup (Elio Giovannini, Gastone Sclavi, Antonio Lettieri, Giacinto Militello ecc.) che si erano riuniti sotto l’ala di Lelio Basso e di Vittorio Foa (e la rivista di Basso, “Problemi del Socialismo” ne fu, per un decennio, l’espressione). Alla corrente sindacale psiuppina (non tutta aderente all’indirizzo della sinistra bassiana), si affiancò anche la parte ingraiana della corrente comunista (Bruno Trentin, Renato Lattes, Sergio Garavini), talvolta supportata anche dal gruppo dei “secchiani” milanesi.
Ma non fu la sola Cgil ad ospitare una sinistra interna, anche nella Cisl, sotto la suggestione della Cfdt, si formò una sinistra sindacale che ebbe nella Cisl di Pierre Carniti la sua roccaforte.
Le due sinistre furono le principali sostenitrici di una rapida unificazione delle tre centrali che, invece, si fermò allo stadio di Federazione Unitaria.
Il progetto in cui confluivano le due sinistre sindacali (pur nella diversa cultura politica di ciascuna delle due e cui si aggiunse alla fine la Uilm di Benvenuto e Mattina) andava molto oltre i limiti di una maggiore carica rivendicativa ed aspirava a fare del sindacato il vero soggetto di trasformazione sociale del paese. Il sindacato basato sui consigli diventava, nelle teorizzazioni della sinistra sindacale, una sorta di contropotere istituzionale, la leva principale di una politica riformista. Erano gli anni in cui intellettuali della sinistra socialista come Andrè Gorz, Lelio Basso, Serge Mallet, Oskar Negt ed altri, teorizzavano la fuoruscita dal capitalismo attraverso una sorta di riformismo rivoluzionario, che combinava l’azione parlamentare ed istituzionale con la pressione dei movimenti sociali, in primo luogo nei posti di lavoro. Una sorta di “presa di potere” dal basso che non aveva bisogno di una rivoluzione violenta, recuperando parzialmente temi cari all’anarcosindacalismo.
Nella versione della sinistra sindacale italiana, questo assumeva la forma di un blocco sociale riunito intorno al sindacato soggetto direttamente politico e non solo rivendicativo, che aveva la sua punta di lancia nelle categorie dell’industria (come si vede, Landini non ha inventato nulla e la Camusso semplicemente ignora questa storia). I partiti si divisero fra quanti (destra Dc, Psdi, Psi, Pli, e, manco a dirlo, fascisti) deprecarono questa “deriva politica” del sindacato e quanti (sinistra Dc, Psi e Pci) guardavano alla triplice Cgil-Cisl-Uil come alla loro principale base di massa e ne difendevano ruolo e richieste. Questo ufficialmente, perché in realtà non mancavano affatto diffidenze e  critiche al “pansindacalismo” della triplice (in particolare della destra amendoliana del Pci, ma anche della corrente demartiniana e nenniana del Psi, ed anche in settori della sinistra Dc come la “Base”). Ad essere più aperti, in realtà, erano la sinistra ingraiana del Pci e quella lombardiana del Psi.
Non c’è dubbio che quella fu la stagione più brillante del sindacato italiano, quella delle maggiori conquiste contrattuali e legislative.
Tuttavia, al declino di quell’ esperienza contribuirono tre fattori decisivi: il processo di burocratizzazione del sindacato (cui non fu estranea la stessa sinistra sindacale), la saldatura del ceto politico nella solidarietà nazionale (che rappresentò il ritorno pieno al predominio della politica istituzionale ed alla subordinazione ad esso del sindacato) ed il riflusso delle lotte, favorito dalla sciagurata avventura terroristica (che privò il sindacato del suo principale potere contrattuale).
Dopo, il sopravvenire delle delocalizzazioni e gli incalzanti processi di globalizzazione fecero il resto, relegando il sindacato nella posizione subalterna che conosciamo. E lo scioglimento della Federazione e delle strutture unitarie. Come la Flm, nel 1984, furono la sanzione della fine del progetto di un sindacato soggetto politico.
Ma in tutto questo, un peso lo ebbero anche le insufficienze politiche e culturali della sinistra sindacale che dimostrò la sua inadeguatezza proprio nel momento in cui i suoi maggiori esponenti (Macario, Benvenuto, Carniti e Trentin) giunsero al vertice delle rispettive confederazioni, ma senza produrre alcun cambiamento di linea, ma appiattendosi sulla consueta routine.
In particolare, la sinistra Cisl si dissolse e, andata al “potere” nella Confederazione con Macario e Carniti, divenne la prima sostenitrice delle politiche di contenimento salariale (decreto dello 0,1% e taglio dei punti della scala mobile con il decreto Craxi)  e chi non si adeguava (come la Fim Cisl milanese di Tiboni) verrà espulso proprio dagli ex alfieri della sinistra Cisl.
Il declino nella Cgil fu più lento e, dopo una infelicissima proposta di democrazia industriale (un pasticcio iperburocratico battezzato “piano d’impresa”), la sinistra interna ripiegò sulle sue categorie (in particolare la Fiom) cercando di caratterizzarsi per qualche accenno rivendicativo in più.
In realtà, la sinistra sindacale fu sconfitta dalla sua lentezza nel capire i mutamenti in atto e, di conseguenza, nella scelta di una tattica idonea a farvi fronte e questo dipese in larga parte dalle insufficienze costituzionali alla cultura sindacale, per sua natura parziale e inidonea ad un ruolo di direzione politica.
Che il sindacato possa caratterizzarsi come soggetto politico può tranquillamente accadere, che possa svolgere un ruolo di unificazione sociale è decisamente auspicabile, ma assumere un ruolo di direzione politica è molto di più che questo. E, infatti, la sinistra sindacale, giunta al vertice delle confederazioni, si dimostrò non in grado di guidarle su una linea diversa e fallì nel suo compito.
La cultura del conflitto è un elemento necessario ma non sufficiente, per un vero ruolo di direzione politica, occorre una cultura delle istituzioni, una visione strategica, una capacità di elaborare una politica internazionale che sono estranee alla pratica sindacale. Alla sinistra sindacale mancò la necessaria sponda politica (che peraltro non cercò) che può essere assicurata solo da un partito politico in grado di rapportarsi ai movimenti. La sinistra sindacale è una articolazione necessaria ma non sufficiente nella costruzione di una nuova sinistra all’altezza dei tempi. Ed il primato del sociale sulla politica è solo una leggenda.
Forse è il caso di rifletterci oggi, di fronte a questa riproposizione povera della sinistra sindacale.

Expò, ritratto autobiografico dell’Italia Di ilsimplicissimus


expo-milano-belvedereRaramente capita che un esposizione sia anche un autodafé freudiano, un atto di accusa implicito contro il Paese che la ospita. Ma il miracolo è riuscito all’Expò di Milano dove si concentrano tutti i mali e i vizi del Paese, la corruzione, come la mancanza di visione di una classe dirigente, spiaggiata ormai sulla sua stessa nullità.
Il fatto che la manifestazione si presenti incompleta, monca, affollata da camouflage, come una sorta di squallida periferia in costruzione, che dopo la scoperta della corruzione a tappeto dalla quale è stata soffocata, si sia persino costretti a rinunciare a qualunque controllo e a fidarsi delle autocertificazioni per i lavori e i rattoppi, non è un incidente, ma soltanto l’ovvia conclusione della logica vera in cui è nata: creare un’occasione di speculazione e di tangenti per un milieu affaristico – politico dipendente dalle grandi opere e dai grandi eventi come da una droga. Il vero obiettivo era quello, non la nutrizione del pianeta e non certo la creazione di un biglietto da visita per l’Italia migliore, ma solo una nuova boccata di aria viziata per alimentare un sistema entrato in apnea per la crisi.
Così a questo peccato strutturale che ha portato non a valorizzare aree pubbliche, ma ad acquisirne di nuove dai soliti privati che immagino si saranno mostrati riconoscenti, se ne sono aggiunti molti altri a cominciare dalla massiccia infiltrazione delle mafie, alle concessioni senza gara  al ristoratore ufficiale del renzismo, ovvero l’eatalian Farinetti, probabilmente nient’altro che la punta di un’ iceberg di situazioni non propriamente candide, alla scelta di Expò come luogo di sperimentazione dell’umiliazione del lavoro con i diecimila “volontari” pagati zero o stagisti retribuiti con buoni pasto, alla sfacciata connivenza con le multinazionali del cibo, dell’agricoltura e dell’acqua che di fatto imporranno una visione insostenibile per la nutrizione del pianeta, fatta di business selvaggio, deforestazioni, omologazione alimentare, concezione proprietaria delle sementi, sequestro dei beni comuni e quant’altro. McDonald e Coca cola, sponsor della’esposizione sono davvero una barzelletta, come lo sono del resto i buoni propositi del “protocollo di Milano” sulla nutrizione prodotto dagli uffici della Barilla Center for Food & Nutrition.
Non c’è da meravigliarsi se i lavori sono in grande ritardo, se alcuni sono stati cancellati, altri saranno terminati solo ad Expò chiuso, se non si riesce a capire quanti biglietti siano stati effettivamente venduti se gli otto milioni che “narra” il commissario unico Sala o i tre milioni citati da Renzi, se l’obiettivo finale consista ancora nei 20 milioni di tagliandi totali  (una cifra comunque già da flop) o  i 10 milioni di cui si è vantato il  premier. Nè è chiaro come verranno gestiti terreni e strutture alla fine della fiera. Insomma ciò che i cittadini dovranno pagare per questo pantagruelico magna magna, tanto per rimanere in tema di cibo.  Ma con due paradossali certezze finali: che l’Expò è già certamente fallito da ogni punto di vista, ma che sarà sbandierato come un successo con la complicità dei media, qualunque sia il risultato.
In effetti la classe dirigente italiana ha già ottenuto molti ritorni: dalle speculazioni iniziali a quelle finali ancora da definire, dall’affermazione di una logica di lavoro gratuito in caso di emergenza come virtuoso precedente, ai guadagni finali sulle opere affidate alla solita costellazione di imprese fidate, alle tangenti e infine al lucro politico che verrà fatto su tutto questo. Al Paese invece rimangono molti soldi pubblici sperperati, l’immagine di un’esposizione messa in piedi alla carlona, abborracciata, fangosa, di gusto cementizio, tribuna ideologica di spacciatori globali di cibo industriale e di sementi col copyright confusa con la vendita ipocrita, ma a caro prezzo di retorica alimentare strapaesana. E la certezza di avere mostrato al mondo ciò di cui siamo incapaci.

Lettera a un partito mai nato



Lettera aperta al PD da parte di un gruppo di iscritti e fondadori del Partito.

Siamo un gruppo di iscritti e fondatori del PD, abbiamo partecipato con entusiasmo e impegno alla nascita del PD nel 2007 cercando in questi anni ripetutamente, nelle varie sedi istituzionali e di partito, di orientare le scelte del partito verso la tutela dell'ambiente, lo sviluppo sostenibile, la tutela del lavoro e delle regole della concorrenza, una sanità trasparente ed efficiente, il rispetto della legalità, la questione morale, la certezza del diritto ed il rispetto dei valori costituzionali dettati dai nostri padri fondatori. In occasione dell'ultimo congresso nazionale abbiamo sostenuto la candidatura di Pippo Civati.
Nel corso degli anni ci siamo imbattuti costantemente in una resistenza dell'apparato politico del partito impermeabile a qualsiasi critica e cambiamento. Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad un'ulteriore involuzione del Partito democratico, ridotto ormai ad un vero e proprio comitato elettorale che ha volutamente dimenticato le radici "uliviste" che avevano contribuito in modo determinante alla sua nascita. Le regole statutarie vengono spesso eluse ed il metodo di selezione della classe dirigente è ormai delegato al segretario di turno. Non ci sono "cambiamenti di verso" e meno che mai ci sono state le famose rottamazioni. Le leggi delega votate dal Parlamento sono diventate vere e proprie cambiali in bianco nelle mani dell'Esecutivo e le slides di slogan come nuova fonte del diritto.
Gran parte della vecchia classe dirigente è passata con armi e bagagli sul "carro renziano", trovando ampi spazi politici. Al contrario, ogni forma di dissenso sulle scelte governative viene vista con fastidio, impedendo, di fatto, un serio e costruttivo confronto negli organismi di partito ed istituzionali competenti. Da dicembre ad oggi abbiamo assistito attoniti ed increduli alla approvazione, a colpi di fiducia, della legge di stabilità, del decreto "sblocca Italia", del "Jobs Act", e della riforma costituzionale. Tutti atti che non porteranno nessun vantaggio concreto ai cittadini o lo snellimento della macchina burocratico amministrativa. Al contrario, il risultato sarà un minor controllo degli elettori nei confronti dell'operato del Governo.
Non abbiamo voluto partecipare, per protesta, alle primarie per la scelta del segretario comunale di Livorno, perché avevamo capito che non esistevano più le condizioni minime di rappresentanza politica. Il risultato finale ha dimostrato per l'ennesima volta l'inamovibilità del sistema fondato su puri tatticismi di potere. I cittadini livornesi hanno manifestato ampiamente il loro dissenso nei confronti di questo partito democratico, alle scorse amministrative ed in queste ultime primarie, stante la scarsissima affluenza al voto. Riteniamo dunque non più eludibile dare un segnale di forte discontinuità con questo sistema, che non ci appartiene, dimettendoci da tutti gli organismi in cui siamo stati eletti in occasione dell'ultimo congresso territoriale.
Pertanto, in coerenza con quanto scritto sopra, non rinnoveremo l'iscrizione al PD. Riteniamo infatti più costruttivo confrontarci con i cittadini sui temi amministrativi che caratterizzano il nostro territorio, non essendo mai stati politici di professione e meno che mai dipendenti direttamente o indirettamente dalla politica.
Con l'occasione salutiamo tutti i compagni ed amici che abbiamo conosciuto e con cui abbiamo lavorato in questi anni.

Antonio Ceccantini, Oriana Rossi, Marco Di Bisceglie, Alessandra Calcagno, Andrea Colli, Giuseppe Sanso', Elena Betti, Fabio Bernardini, Carlo Santucci, Ilaria Porciani.

L'Italia cambiaverso: i cittadini pagano l'abolizione delle province

Scuola, dalle Province maxi tagli ai fondi. Per le bollette i genitori fanno la colletta

Scuola, dalle Province maxi tagli ai fondi. Per le bollette i genitori fanno la colletta

Gli enti territoriali agonizzanti dopo i tagli del governo Monti e la riforma Delrio non sono più in grado di pagare i costi amministrativi necessari al funzionamento degli istituti superiori. È già successo nel 2014, a Verona, Venezia, Biella, Savona e Taranto: “Prendiamo atto delle vostre problematiche contabili - ha risposto la provincia scaligera alle richieste dei presidi - ma non abbiamo possibilità di comunicare l’ammontare delle risorse. E non è dato sapere se e quando sarà eventualmente possibile provvedere”. Così i genitori devono pagare le bollette


Troppi vincoli di bilancio, pochi soldi in cassa: le Province agonizzanti dopo i tagli del governo Monti e la riforma Delrio non sono più in grado di assolvere i loro compiti. Anche quelli fondamentali, come il funzionamento degli istituti superiori: in primis, il pagamento delle bollette. È già successo nel 2014, al Nord come al Sud: “Prendiamo atto delle vostre comprensibili problematiche contabili – ha risposto nel 2014 la provincia di Verona alle richieste dei presidi – ma non abbiamo possibilità di comunicare l’ammontare delle risorse per le spese di funzionamento. E non è dato sapere se e quando sarà eventualmente possibile provvedere”. Così alle scuole, allora, devono pensare i genitori, con i presidi che hanno utilizzato i contributi delle famiglie per pagare le bollette. E nel 2015, con l’entrata in vigore dei nuovi risparmi stabiliti dalla manovra, quello dei fondi potrebbe diventare una vera e propria emergenza su scala nazionale.
Gli istituti superiori a carico delle Province
Da circa vent’anni (dalla famosa legge 23/1996), gli istituti secondari (licei, professionali, tecnici e via dicendo) sono di competenza delle Province. Parliamo di oltre 5mila edifici, in cui studiano 2,5 milioni di ragazzi. Nel bilancio di ogni ente locale c’è un capitolo destinato all’istruzione, con le spese di manutenzione (l’edilizia scolastica, al netto degli investimenti per lavori straordinari), e le spese per il funzionamento ordinario. Bollette, internet, cancelleria e segreteria, costi amministrativi: ciò che serve per mandare avanti materialmente una scuola. Non esiste una stima precisa su scala nazionale (l’importo varia di territorio in territorio, per numero di strutture, densità di popolazione ed altre variabili). In totale una cifra che – secondo alcuni esperti – si può quantificare fra i 100 e i 150 milioni di euro. Peccato, però, che le Province non abbiano più in cassa questi soldi.
Gli effetti delle presunta “abolizione”
L’abolizione delle Province è uno dei cavalli di battaglia sia dell’esecutivo Monti che di Matteo Renzi. È stato il “governo dei tecnici” a cominciare a smantellare il sistema, azzerando il fondo sperimentale di riequilibrio (circa 1,5 miliardi di euro). Poi sono venuti i 444 milioni di taglio del decreto 66/2014, che diventano 576 milioni nel 2015. E la stangata finale dell’ultima legge di stabilità: un altro miliardo nel 2015, poi due nel 2016 e addirittura tre nel 2017. Le Province, però, non sono state abolite. “Siamo di fronte ad una riforma dislessica: ci hanno svuotato di risorse, non di competenze”, afferma Luigi Oliveri, dirigente dell’amministrazione provinciale di Verona.  
La legge Delrio, infatti, riafferma tra le funzioni fondamentali dell’ente il mantenimento degli istituti superiori. Senza indicare, però, con quali fondi ottemperarle, visto che negli ultimi 5 anni la spesa corrente è calata del 15% e quella degli investimenti addirittura del 44%. Ad alleviare il carico dovrebbe provvedere la redistribuzione delle competenze fra gli altri enti locali: tutte le Regioni dovevano varare i provvedimenti di riconversione entro la fine del 2014, termine prorogato al 30 aprile. Ma ad oggi solo la Toscana è riuscita ad approvare un testo. In tutte le altre Regioni siamo ancora alla discussione in Consiglio, in Emilia-Romagna e Calabria l’iter non è neppure cominciato. E a rimetterci da questa situazione sono i servizi basilari nella vita dei cittadini. Come le scuole.
Tagli e vincoli: a Verona niente soldi per gli istituti
Emblematico a tal proposito il caso di Verona. Nel 2014 gli istituti non hanno avuto un centesimo per pagare le spese di funzionamento. E le proteste dei presidi hanno ricevuto in risposta solo poche, inequivocabili righe. “Prendiamo atto delle vostre comprensibili problematiche contabili, ma non abbiamo possibilità di comunicare l’ammontare delle risorse per le spese di funzionamento. E non è dato sapere se e quando sarà eventualmente possibile provvedere”. “Ma non è colpa nostra, infatti con le scuole non c’è stata conflittualità”, spiega Oliveri. Nella città veneta hanno contribuito al problema una serie di fattori: prima la “gestione provvisoria” determinata ex lege dalla riforma Delrio, che bloccava tutte le spese tranne quelle per pagare contratti già in essere; poi, quando è venuto meno questo status, un taglio improvviso di circa 5-6 milioni di euro. “Con il bilancio già approntato rischiavamo di far saltare il patto di stabilità e andare in squilibrio”, aggiunge il dirigente. “Perciò abbiamo liquidato solo le spese di mantenimento in sicurezza, che potevamo giustificare di fronte ai vincoli”. Appena 160mila euro dei 600mila stanziati per l’edilizia; neanche un centesimo, dei 400mila euro per il funzionamento. Né si è trattato di una situazione isolata: in Veneto è successo anche a Venezia. In Piemonte, a Biella, a causa del dissesto di bilancio l’ente ha potuto erogare solo la metà dei fondi previsti, già tagliati del 30%. Oppure a Savona in Liguria, o a Taranto in Puglia. Una casistica a macchia di leopardo, ma che testimonia di un disagio diffuso dal Nord al Sud della penisola.
Emergenza nazionale in arrivo?
Un po’ ovunque le scuole per andare avanti si sono aggrappate alle famiglie degli studenti, come denuncia Arianna Vecchini, del Coordinamento genitori scuole superiori di Verona. “Gli istituti hanno dovuto coprire con un anticipo di cassa queste spese inderogabili, ricorrendo al contributo volontario delle famiglie. Sono anni che andiamo avanti così: soldi che dovrebbero servire per l’ampliamento dell’offerta formativa e per attività supplementari vengono utilizzati per sopperire alle carenze dello Stato. Ma la situazione non è mai stata così drammatica”. E potrebbe anche peggiorare, sottolinea l’Upi (Unione delle Province d’Italia): “Con la nuova sforbiciata sancita dalla legge di stabilità, nel 2015 quasi nessuno sarà in grado di garantire queste fondi”.
“È improprio parlare di tagli – conclude Roberto Carucci, dirigente della ragioneria della Provincia di Taranto –, dopo il governo Monti non c’è più nulla da tagliare: adesso siamo alla restituzione. Continuiamo a riscuotere le entrate ma le consegniamo allo Stato: quest’anno invece di pagare i servizi per i cittadini dovremo versare un bonifico di quasi 15 milioni al Ministero dell’Interno. E se non lo facciamo ce lo confisca l’Agenzia delle Entrate. È normale che poi non siamo in grado di far fronte a certe spese: nell’ipotesi di bilancio 2015 gli stanziamenti per l’istruzione sono ridotti almeno del 60%. E noi non siamo neanche quelli messi peggio”. Così al funzionamento delle scuole devono pensare i genitori.

Pirelli e Fiat, come finisce un grande Paese di Furio Colombo, Il Fatto Quotidiano

Ti dicono che le aziende vanno e vengono, cambia la proprietà, la tecnologia, la formazione dei consigli di amministrazione, dei voti prevalenti, il tipo di manager, il modo di arruolare i dipendenti, la natura dei legami, la qualità dei prodotti, le aree di mercato. Salgono e scendono a volte in relazione alle crisi economiche che tormentano tutti, a volte resistendo meglio e da sole, nonostante il vento forte. E vogliono farti credere che questa evoluzione naturale del cambiamento riguarda anche la nazionalità dell’impresa e la nazionalità della proprietà dell’impresa. Che cosa importa la nazionalità dell’azionista se entra e prende il controllo qualcuno autorevole che viene dall’altra parte del mondo?
Primo, garantisce la continuità anche nei giorni difficili. Secondo, rende più facile l’espansione (nuovi mercati, nuove aree, nuovi Paesi). Terzo è una bella garanzia per i dipendenti e i dirigenti che sanno di entrare a far parte di una struttura più grande, che non confina più (soltanto) con il proprio Paese, ma si allarga nel modo e attribuisce un che di universale alla tua fabbrica. Per esempio, in Italia entra la Cina, compra la Pirelli e scrosciano addirittura gli applausi. Come conforto si usa citare il precedente di Krizia, comprata da una avvenente ingegnere (come si dice ingegnere, se è donna? chiedo a Laura Boldrini) di Shanghai, dimenticando la vocazione apolide di quel tipo di impresa, anche quando è grandissima perché è, per vocazione, trasportabile. Il caso Pirelli, un’azienda italiana simbolo mondiale, che improvvisamente diventa di proprietà cinese è come un fortissimo colpo di gong che dà un annuncio. La parte importante di quell’annuncio è che la Pirelli, benché impieghi gli stessi lavoratori italiani e gli stessi manager italiani a tutti i livelli (certo una garanzia per il prodotto e un grado di sicurezza per i dipendenti) non è più un’azienda italiana. E dunque una pedina importante va rimossa dalla tavola del gioco. Qual è il gioco? È un gioco per metà economico, per metà di influenza e prestigio: quanto conti nel mondo? È un gioco meno grossolano di quello che sembra, perché non parliamo di armi e neppure di ricchezza, ma di prestigio.
L’Italia ha, e ha avuto, brutti momenti, ma certi aspetti del suo prestigio (per esempio il suo riconosciuto potere industriale e la dimensione di quel potere) ha mantenuto rilevante e rispettabile la sua immagine nonostante il perdurante spettacolo di sangue di mafia, ’ndrangheta e camorra, allo stesso tragico e ridicolo. Ma come fai a non rispettare, anche nelle relazioni internazionali, anche nei confronti delle piccole e minime imprese (piccole ma italiane), anche nei confronti dei suoi scienziati e dei suoi studenti, un Paese che ha la Pirelli e la Fiat? Mentre si apre l’evento di cui stiamo parlando (la Pirelli sarà anche stata un prodigio di ingegneria italiana, ma adesso è cinese, e non c’entra la globalizzazione, c’entra la convenienza di qualcuno a vendere) è impossibile non parlare di Fiat, ovvero di Fca. La Fca possiede alcuni stabilimenti in Italia, ma adesso è una fabbrica di automobili americana.
L’America, come la Cina, è un paese forte, egemone, e sproporzionatamente grande. Questo fatto non è geografico, è culturale e politico. Un Paese che può dominare, domina. Anche se non fosse già scritto nel tipo di riassetto voluto dalla ex proprietà italiana della ex Fiat, e benché il fatto sia negato da tutti coloro che non possono permettersi di perdere pubblicità Fca, l’Italia ha perduto per sempre il prestigio che veniva dall’essere la casa (dunque anche il luogo) della Fiat, con il valore, conosciuto e apprezzato, non solo dei prodotti ma anche delle persone addette alla grande fabbrica mondiale italiana. Infatti, per non creare equivoci, la Fca ha rapidamente americanizzato anche la Ferrari, che aveva dato per decenni al Paese Italia il prestigio che nessun governo e nessuna politica avrebbe mai potuto dare. E ormai si deve dire “ai tempi di Agnelli” e “ai tempi di Montezemolo” per indicare epoche diverse in cui tutto ciò che adesso è americano e quotato alla borsa di New York (ma con tasse pagate a Londra e sede legale in Olanda) era italiano.
Dunque il caso Pirelli (grande impresa-simbolo italiana, che resta teoricamente in Italia benchè diventata di proprietà cinese) e il caso Fiat, che ha radicalmente traslocato nell’altro Paese egemone, gli Usa, pur lasciando fabbriche minori (alcune ferme) in Italia, sono casi identici di amputazione dal corpo italiano di parti essenziali all’identificazione di questo Paese. Si può capire che il governo se ne occupi poco e finga anzi di leggere a rovescio questi due gravissimi episodi di perdita del prestigio industriale italiano (lealmente Marchionne aveva ritirato la Fiat dalla Confindustria prima della rimozione dei suoi punti decisionali, industriale, fiscale, legale) andando a dire che ci comprano perché finalmente siamo desiderabili. Renzi, infatti, come Berlusconi, preferisce fabbricarsi il prestigio da solo attraverso il controllo delle notizie e – mentre perde Fiat e Pirelli – mostra di compiacersi (spero non in buona fede) per i grandi risultati raggiunti. Come è noto, una parte dell’indotto ex Fiat si è accodato all’esodo verso Detroit, e la stessa cosa sta succedendo – verso la Cina – intorno alla Pirelli.
Ma i contraccolpi saranno duri per la piccola e laboriosa e popolatissima Italia dell’industria minore. Chiunque si presenti in giro per il mondo non viene più dal Paese della Fiat, della Pirelli, della Ferrari. Viene da un Paese di vacanze a cui, fuori stagione, non è così urgente prestare attenzione. Ora la grande impresa (vedere il fatturato) resta la malavita, con sede operativa e manodopera tutta italiana.