lunedì 29 maggio 2017

Partito, movimento politico organizzato, programma minimo. Sul progetto politico dei comunisti, di Enzo Gamba

lenin 5aecIn Italia si sta ripresentando, per l’ennesima volta, nel dibattito politico dei comunisti (siano essi organizzati o no) in riferimento al progetto politico da perseguire in questa fase di sconfitta storica (in altre parole: quale obiettivo porre per i comunisti, il “cosa fare” adesso), l’alternativa secca tra partito/unità dei comunisti da una parte e movimento/unità delle “sinistre” dall’altra. Da anni la riproposizione di questo dibattito avviene con una puntualità ricorrente, segnata in primo luogo dalle scadenze elettorali, poi dalle loro successive sconfitte e in ultimo dalle fasi congressuali dove i nodi solitamente vengono al pettine.
Per chi ha anche una minima memoria storica si ricorderà che un dibattito simile ci fu, tra le altre volte, anche verso la fine degli anni ‘80, dopo la batosta elettorale del 1988, e dopo il secondo governo Prodi e l’allora congresso del Prc. Le ipotesi che venivano messe in campo allora per uscire dalla crisi nera in cui ci eravamo cacciati (al punto che in parlamento non vi era più nemmeno una forza organizzata che si richiamasse al comunismo), erano l’ipotesi della “Costituente dei comunisti” in contrapposizione alla “costituente della sinistra”. Se dopo quasi trent’anni, con una situazione che per i “comunisti” si è fatta talmente tragica che più tragica non si può, si è ancora fermi alle opzioni politiche di allora forse qualche ripensamento dovrebbe (im)porsi nella testa di coloro che si richiamano, se non al comunismo, alla sinistra, sia essa di classe, anticapitalistica, antiliberista, antagonista, ecc.: qua gli aggettivi necessariamente si sprecano per tentare di connotare un termine così generico!
 
Questa autocritica riflessione dovrebbe essere ineluttabile se si considera che le due “opzioni/necessità” politiche di allora (e che ci ritroviamo tra le mani tuttora basti pensare al dibattito interno al Prc tra coloro che ripropongono la necessità di discriminanti programmatiche comuniste da partito comunista in contrapposizione alternativa con il progetto di un “soggetto unitario e plurale della sinistra” alternativo al PD) hanno portato in questi anni, non solo ad un bel nulla, ma ad un ulteriore arretramento politico, frammentazione, minoritarismo al limite dell’estinzione, dei comunisti. Ambedue gli obiettivi che si ponevano allora i due progetti politici non si sono concretizzati. Non si è formato nessun partito comunista degno di questo nome, né tantomeno si è formato a livello politico un movimento/partito unitario di sinistra.
Stante tale situazione si imporrebbero quantomeno due domande. La prima è la seguente: se non è stata possibile la realizzazione di quelle ipotesi politiche, quali furono le motivazioni del loro insuccesso? Forse è il caso di pensare che non era possibile che si concretizzassero o che non lo erano in quelle condizioni? La seconda domanda, forse più importante, è: ci sono le condizioni attualmente perché ciò si verifichi? Iniziamo con il tentare di dare risposta a queste due domande.
 
Dopo trent’anni di continue sconfitte a tutti i livelli dello scontro di classe, dal livello teorico, ideologico, a quello politico fino a quello economico sociale, tra coloro che più coerentemente si richiamano al comunismo l’obiettivo e il progetto della “costruzione del partito” o quanto meno di una organizzazione che risolva il problema dell’unità dei comunisti, viene sentito prioritario e preliminare rispetto all’ennesima riproposizione “movimentista”, “politicista” e spesso solo “elettoralistica” di una “unità delle sinistre”. Ciò è comprensibilissimo. Un partito comunista (almeno come storicamente lo abbiamo conosciuto nel secolo scorso nel movimento operaio e comunista), coeso attorno ad un solido gruppo dirigente unito, significa storicamente (e non solo nell’immaginario collettivo dei militanti) garanzia di una autonomia teorica rivoluzionaria, condizione prioritaria e fondamentale per ipotizzare, in relazione sia alla conquista delle “avanguardie di classe” che all’egemonia di settori fondamentali della società, un progetto di rivoluzione e trasformazione sociale che apra una fase di transizione socialista.
Il problema che però fin dall’inizio si pone nell’affrontare questa questione, è se e come sia possibile concretizzare l’unità dei comunisti attorno alla teoria rivoluzionaria, dando per scontato comunque che, pur contraddittoria, disomogenea e sfilacciata, nel suo complesso essa ancora ci sia. E qui sta il problema, visto che nessuna unità è possibile ad un livello così alto e complessivo, il partito appunto, senza un minimo di omogeneità teorica e di progettualità politica strategica. Ecco che allora il problema si delinea in maniera chiara concretizzandosi in una fondamentale questione: quella dello stato del variegato e disomogeneo patrimonio teorico conoscitivo posseduto dai comunisti ( cioè del marxismo inteso nella sua accezione storica più vasta) e del più generale patrimonio ideologico-politico di conoscenza e trasformazione sociale della classe. Ora, se c’è qualcosa che in questi ultimi decenni ha sempre più evidenziato i segni del logoramento e della crisi, a fronte della reazione-restaurazione neocorporativa del capitale imperialistico transnazionale che ha saputo trasformare la sua crisi ormai quarantennale nella più grave crisi del potenziale blocco sociale proletario e popolare e delle forze politiche che ad esso si rifacevano, è il nostro patrimonio teorico e ideologico politico.
Nell’iniziare la disamina della questione, considerata la vastità e la complessità dell’argomento, per comodità di analisi e di ragionamento tralasceremo il riferimento al blocco e alla sconfitta dei processi di transizione socialista in quei paesi dove, in vario modo, vi era stata una presa del potere politico delle forze comuniste (l’inadeguatezza teorica nel comprendere e gestire le contraddizioni e le difficoltà della fase di transizione sono indubitabili). Ciò, pur consapevoli dell’importanza della fase di transizione quale riferimento strategico a cui relazionare anche la complessiva tattica delle forze rivoluzionarie in una fase non rivoluzionaria (ivi compreso tutta la tematica del programma minimo). Per restare nel contesto storico-sociale più vicino a noi e in particolare nel nostro paese, il segno della crisi del patrimonio ideologico-politico di conoscenza e trasformazione sociale e del patrimonio teorico conoscitivo che lo sostanzia, si evidenzia e si esplicita da un lato nell’incapacità di comprendere le modalità nuove e “creative” con cui, cambiando pelle, l’imperialismo transnazionale ha riattivato tutte le varie controtendenze alla crisi. L’accoglimento nel nostro complessivo patrimonio di concezioni teoriche che sono l’espressione, (a livello teorico-scientifiche appunto), del campo sociale a noi antagonista è figlio di questa situazione: la lotta di classe avviene a maggior ragione anche nell’ambito teorico e culturale (là dove vince chi convince). Ragionare con le teorie economiche-sociali del capitale non può che portare a una sua ennesima vittoria (e alla nostra ulteriore sconfitta) e, nella sostanza, all’idea dell’ineluttabilità del rapporto sociale capitalistico.
Dall’altro lato la crisi del nostro patrimonio si palesa nell’incapacità ideologica e politica di comprendere i processi neocorporativi a tal punto che sembra essersi persa ogni visione classista dei processi sociali e di conseguenza dei processi politici che su questi si basano, con il risultato di aver inanellato sconfitte a non finire ad ogni livello dello scontro di classe, da quello ideologico- politico a quello economico rivendicativo: si pensi, per fare solo un esempio, a quanto si sia ridotto contemporaneamente il livello di coscienza della classe e il livello del suo salario sociale complessivo.
Anche se in misura non così accentuata come oggi, tale inadeguatezza e tali limiti del nostro complessivo patrimonio erano presenti già più di una trentina di anni fa nelle forze che riproponevano un percorso unitario rifondativo riconducibili, schematicamente, l’una alla cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” (quantomeno a quello che ne restava) e l’altra alla “sinistra” dell’ormai defunto Pci. Infatti, a fronte dell’inadeguata conoscenza del marxismo che accomunava tutti o quasi, la ripresa dello storico patrimonio teorico e politico del movimento comunista e proletario avveniva attraverso le “lenti” dei precedenti impianti teorico politici di riferimento dei vari gruppi. Vi era chi, come nel caso della “sinistra rivoluzionaria”, si riferiva al patrimonio marxista-leninista, terzo internazionalista (nelle sue varianti più o meno staliniste o maoiste), chi alla sinistra comunista, chi al trotskismo o all’operaismo, e nel contempo, ed è il caso di coloro che provenivano dall’esperienza del Pci, vi era chi si riferiva al patrimonio del Pci togliattiano/berlingueriano o ancor prima a quello del Kominform. In sintesi quella ripresa fu viziata, contemporaneamente, da estremismo infantile e da concezioni revisioniste e socialdemocratiche. Il risultato era quanto di più disomogeneo si potesse pensare. Il tentativo di risoluzione dei problemi teorici e il contemporaneo progetto di rifondazione di un complessivo e unitario impianto teorico e politico in ogni caso sortirono due risposte. Da un lato il teoricismo che, sull’onda di quella che allora veniva chiamata “crisi del marxismo” ipotizzava una “prassi teorica” che, “lavorando” sulle categorie ne enucleasse i limiti e le contraddizioni per poi superarli. Dall’altra la concezione che fosse possibile avanzare “assemblando” i migliori contributi che i nuovi movimenti sociali in quegli anni, di volta in volta proponevano (da quello ambientalista a quello terzomondista, da quello di genere a quello studentesco e via discorrendo). Tali risposte, che apparentemente sembravano agli antipodi, ebbero però lo stesso negativo risultato: non risolsero il problema dell’approfondimento/sviluppo del patrimonio teorico conoscitivo, né seppero garantire l’unitarietà dei comunisti in una unica organizzazione/partito.
Tale esperienza storica non può essere accantonata come un incidente di percorso, che sostanzialmente non inficia la possibilità di riprovarci e di riprovarci con le stesse modalità. Essa ci impone di rivedere quell’impostazione politica e di riacquisire e approfondire meglio le modalità con cui sia possibile la ripresa e lo sviluppo del patrimonio teorico conoscitivo.
In quanto scienza sociale esso non si auto sviluppa categorialmente (dalla teoria alla teoria come ritenevano i teoricisti), né si sviluppa nella sommatoria meccanica di spezzoni di altre scienze e ideologie sociali (con le quali ci si rapporta in maniera dialettica sulla base della propria teoria). Esso si approfondisce nel rapporto dialettico con la prassi sociale, quella prassi, sociale e politica, che si pone l’obiettivo della trasformazione e che ha valenza storica, oltre che tempi storici. L’approfondimento e lo sviluppo del patrimonio teorico comunista quindi non può che essere pensato quale risultato di una fase storica, in relazione dialettica col patrimonio ideologico/politico di conoscenza e trasformazione della realtà sociale di cui è parte integrante e, conseguentemente, con le avanguardie rivoluzionarie che questo patrimonio lo “praticano”, sulla base del fatto che nella sua contraddittorietà esso mantiene elementi di “verità” e di “certezza” che lo rendono comunque in parte usabile e praticabile. Ecco perché un progetto politico dei comunisti in questa fase dovrà essere un progetto che possa contemporaneamente far ripartire il processo rivoluzionario di classe nel nostro paese e la centralizzazione delle avanguardie, processo quest’ultimo che potrà portare alla formazione del gruppo dirigente del futuro partito. Il tentare di saltare o ovviare a queste modalità e a questi tempi perseguendo altre strade porta (come dimostrato da questi ultimi trent’anni) al fallimento, come è dimostrato dalla creazione, nel frattempo, di diversi partitini e/o organizzazioni di comunisti. Dobbiamo materialisticamente essere consapevoli che rimarremo per anni con le diversità e contraddizioni all’interno del nostro patrimonio (e conseguentemente con i diversi gruppi, forze e partitini, ognuno con i loro piccoli gruppi dirigenti). Tali diversità e contraddizioni saranno risolte in parte, di volta in volta, solo quando il processo rivoluzionario procederà sia in generale che in particolare nel nostro paese.
Partendo quindi dall’assunto che, senza omogeneità teorica non vi può essere per i comunisti nel loro complesso l’unità in un unico partito o organizzazione, tale obiettivo, ancor più oggi e in questa fase storica, non è nemmeno lontanamente possibile ipotizzarlo e (ri)proporlo. Quindi, lungi dal riprendere scorciatoie fondative o rifondative di partito, financo sotto la mentita spoglia di cartelli elettorali, quello che, in quanto comunisti è possibile e necessario attuare (ognuno con le proprie strutture e organizzazioni), è, per ritornare al progetto politico dei comunisti di cui sopra, un confronto serrato sui quei problemi teorici e politici che sottendono la possibilità di ripresa di un movimento di classe nel nostro paese: dall’analisi della fase a livello economico e sociale all’interno della più generale crisi/ristrutturazione dell’imperialismo finanziario transnazionale, all’analisi delle classi (in particolare del proletariato e del “lavoro subordinato”), alle forze motrici sociali e politiche, alla individuazione delle linee guida (tattiche e strategiche) che devono orientare il progetto politico dei comunisti. Cominciando a entrare nel merito a questi problemi potremo verificare anche se l’ipotesi politica contrapposta a quella del “Partito”, cioè quella di un movimento/partito che sia “soggetto unitario e plurale della sinistra” sia funzionale allo svolgimento di questi compiti.
Il dato da cui dobbiamo partire, è quello che caratterizza la fase storica di scontro di classe in cui ci troviamo ad operare. Tale fase è, se relazionata all’obiettivo rivoluzionario dell’instaurazione del socialismo, indubitabilmente una fase non rivoluzionaria. A fronte di una potenza dell’avversario di classe che ribalta la sua crisi e le sue contraddizioni sul proletariato e gli strati popolari della società, abbiamo nel nostro campo un proletariato (nazionale e non) che dal punto di vista materiale e sociale è disgregato, frantumato e, quando non rientra nelle diverse forme di esercito industriale di riserva, differenziato nelle innumerevoli forme con cui vende la sua forza-lavoro. Ben si comprende che in questa condizione, in relazione alla crisi dell’autonomia teorica di classe comunista, la coscienza di classe sia regredita a livelli pre novecenteschi. L’egemonia neocorporativa (coercizione e consenso) che la grande borghesia finanziaria sovranazionale mantiene sulla classe proletaria e sulle classi popolari, di semi proletariato e piccola borghesia è tale che in questi strati sociali sono maggioritarie e spesso egemoni ideologie aclassiste e piccolo borghesi, reazionarie, scioviniste e razziste. Le stesse ideologie riformiste e socialdemocratiche che conoscevamo fino al secolo scorso sono in netta minoranza. Nel contempo, a livello ideologico e politico, non esistono quasi più forze politiche connotate in termini di classe e di “sinistra”.
In riferimento a tale situazione emergono due considerazioni, l’una strettamente connessa dialetticamente all’altra. La prima consiste nel fatto che i comunisti, pur in riferimento strategico ad una fase prerivoluzionaria, in questa fase, proprio perché non è rivoluzionaria, devono praticare una tattica tesa a modificare e invertire gli attuali rapporti di forza tra le classi, accumulare le forze conquistando la maggioranza della classe al nostro progetto di cambiamento sociale e stabilendo, sulla base di quello, rapporti di “alleanza” sociale e politica con settori popolari non immediatamente riconducibili al proletariato, ma che, in forza dei processi di espropriazione ed oppressione economico-sociale connaturate alla fase imperialista del capitalismo (si pensi a tutta la problematica sulla difesa del salario sociale di classe o all‘opposizione alle tendenze reazionarie), si rendono disponibili appunto ad un processo di cambiamento. La seconda considerazione è riferita al programma con cui si concretizza la tattica sopra indicata. In questo contesto non rivoluzionario, che esclude a priori la praticabilità di obiettivi di transizione socialista, si pone la necessità di ricostruire l’unità della classe e le sue alleanze attorno ad un “programma minimo” che (in riferimento strategico ad una prima fase di transizione dopo la rottura rivoluzionaria) deve assumere in questa fase un carattere popolare, democratico e di resistenza sociale di massa; un programma che sia capace, agendo sulle contraddizioni e divisioni del fronte avversario, non solo di ricompattare il potenziale blocco sociale anticapitalistico, ma anche di strappare quegli obiettivi che di volta in volta si rendano praticabili in base ai reali rapporti di forza.
La tattica che sopra sinteticamente delineavamo necessariamente può articolarsi solo attorno ad un programma minimo di classe e un programma minimo non può che concretizzarsi mediante una tattica come quella sopra indicata, tattica che nel movimento operaio, in concomitanza con gli sviluppi che, dopo Marx ed Engels, ne diedero Lenin e i primi congressi della Terza Internazionale, venne chiamata di “Fronte Unico” ed in seguito, nei suoi aspetti più legati al problema delle alleanze, di “Fronte Unito”. Qui però è fondamentale capire che il livello sociale in cui “agisce” questo “fronte” è quello politico della lotta di classe (quindi né teorico ideologico comunista, né pan sindacale rivendicativo), e la forma che assume il suo essere soggetto politico in grado di dirigere e nel contempo essere espressione del processo sociale che si pone l’obiettivo di una alternativa socialista, in grado di concretizzare e “personificare” il livello dell’unità politica della classe e di questa con le masse popolari (financo nei suoi aspetti istituzionali e parlamentari), di essere struttura operativa, organizzativa, contenitiva delle masse, non può che essere quello di un movimento politico organizzato e non quella di un partito ideologicamente comunista (che tra l’altro non c’è e non potrà esserci per molto, come abbiamo visto), neanche nell’ambigua forma del partito comunista di massa, così come è stata acriticamente ripresa dalla tradizione del Pci. Su obiettivi quali quelli del programma minimo che pongono discriminanti politiche anticapitalistiche di classe e non ideologiche comuniste, tale soggetto non può che essere un soggetto politico unitario connotato politicamente (dalle discriminanti anticapitaliste, antiliberiste, democratiche ecc.), “largo”, espressione diretta della classe e delle sue “avanguardie”, un soggetto che assomigli di più a un organismo di “fronte” più che a un partito politico ideologicamente contrassegnato; un organismo di “fronte” che sappia essere coagulo e organizzazione dal basso dei diversi movimenti e lotte che, appunto sulla base del programma minimo e della sua articolazione, devono sorgere nel paese ai vari livelli, da quello economico sindacale (fondamentale), a quello politico democratico fino a quello culturale e strutturarsi come organismi di massa e di base (come provarono a essere per un certo periodo oltre ai consigli di fabbrica anche i consigli di zona). Quindi un movimento politico organizzato e centralizzato su un progetto di cambiamento politico, che si dovrà dotare di strutture consiliari, territoriali, democratiche (una testa un voto). Strutture/comitati che possano esercitare minimi rapporti di forza in contrapposizione all’avversario di classe, la grande borghesia sovranazionale e i suoi subalterni alleati, al suo stato, al suo governo e alle sue politiche liberiste e antidemocratiche. Tali strutture dovranno essere in grado innanzitutto in questa fase di raccogliere il vasto fronte del lavoro subordinato al capitale. Le iniziative per la costruzione di un movimento di tal genere sono concettualmente parte integrante degli obiettivi immediati dei comunisti. Come nell’ambito sindacale, proprio l’impegno in questi organismi di massa della classe rappresenta il principale lavoro politico della “parte” dei comunisti. I comunisti, quelli che siano, devono porsi il problema di far crescere questo “movimento politico organizzato” che come discriminante politica (non ideologica) ha il “programma minimo”e devono porsi il compito di egemonizzarlo in termini di analisi, di indicazioni politiche, di obiettivi e di lotte, di presenza di compagni che ai vari livelli il movimento selezionerà come quadri dirigenti.
 
Diventa a questo punto necessario una precisazione. Spesso, fraintendendo l’esperienza storica del movimento operaio e comunista, la cosiddetta “politica di massa” dei comunisti, quando non significava accodarsi alla ciclicità spontanea delle lotte rivendicative, veniva intesa come la propria riproposizione in quanto partito o organizzazione in ogni contesto in cui era possibile organizzare momenti di lotta di classe. Tale impostazione, che non vede nessuna mediazione politica tra il tuo essere “partito” (o il ritenersi tale) e la lotta politica e rivendicativa sociale, è la base del settarismo che ha portato e porta all’isolamento dalle avanguardie sociali e dalle masse in genere. Anche quando, in passato, si tentavano momenti “unitari” questi non erano nient’altro che organismi “interpartitici” o “intergruppi” che non andavano oltre la sommatoria momentanea delle rispettive forze. Bisogna invece pensare che negli organismi di massa, di base, unitari e democratici di un movimento politico che sviluppa lotta politico-sociale, noi comunisti non agiamo come “delegati” di un partito, non “rappresentiamo” un partito o un gruppo, ma contiamo per noi stessi, con le nostre analisi e idee (quelle si “comuniste”), con le nostre indicazioni e il nostro impegno (quello si militante), negli organismi di massa unitari vige, fin dai tempi dei soviet, la democrazia di “una testa un voto”.
 
In questa fase l’obiettivo della costruzione di un “movimento politico organizzato” può rappresentare l’obiettivo e l’ambito in cui i comunisti operano politicamente in prima persona fin da subito, misurandosi con i reali problemi politici di un processo di alternativa sociale, affrontando i problemi teorici sottesi alla formulazione del “programma minimo”, ristabilendo il rapporto con le avanguardie di classe e innescando un generale processo di crescita politico-sociale che le sappia centralizzare. Questo è il “progetto politico” dei comunisti in questa fase.
 
 
Sulla scorta di quanto detto, di come si concretizzi il progetto politico dei comunisti (un movimento politico organizzato imperniato attorno ad un programma minimo e strutturato su organismi di base di ”unità popolare”) e possibile valutare meglio anche l’altro progetto politico, quello della costruzione di una “soggettività unitaria della sinistra” che, in opposizione a quello della “costruzione del Partito”, si muove nel dibattito dei comunisti e non solo.
Il primo aspetto che colpisce è quello per cui questo progetto ripropone, con l’obiettivo di un soggetto unitario della sinistra, una unità tra forze politiche i cui patrimoni teorici, ideologici e strategici sono ben diversi (a volte contrapposti) gli uni dagli altri. Sappiamo bene quanto sia rischiosa di per sé questa proposta e ancor più a quale rischi e fallimenti si vada incontro qualora la si voglia piegare e snaturare per riproporre e ricercare un impossibile livello di unità più alto (in termini di partito comunista). A questo livello l’unità dei comunisti non è possibile. Là invece dove è possibile raggiungere una unità tra i comunisti, ma non solo tra loro (vedi l’ampio arco di forze e militanti di “sinistra”), è a livello tattico politico. Su tutta una serie di battaglie politico sociali e obiettivi (quali quelli del programma minimo) è possibile e necessario arrivare a momenti unitari non saltuari, ma organizzati, arrivando financo a livello elettorale e parlamentare. In tal senso la proposta del soggetto unitario della sinistra ha in generale una indiscutibile validità, anche se con dei limiti che ora proveremo ad illustrare.
Infatti questo progetto prevede una ipotesi di soggetto unitario della sinistra quale risultato dell’unità delle forze di sinistra alternative al PD, comuniste e non, senza pensare (o lasciando molto in ombra questo aspetto) alle strutture sociali nelle quali, in termini programmatici, sia possibile e necessario essere unitari, quelle che nel progetto del movimento politico organizzato individuavamo come le strutture di base (comitati, consigli, circoli, ecc.) su cui potesse reggersi e organizzarsi il movimento politico organizzato che a questo punto può essere il soggetto politico unitario che agisce anche sul piano istituzionale e elettorale (con un nome e un simbolo che ne evidenzi i caratteri di “fronte unitario popolare” nella prospettiva socialista). Senza questa impostazione e strutturazione che permetta fin dalla base una effettiva unità democratica che scongiuri rischi di rottura e scissione, l’unità tra le varie forze alla sinistra del PD rischia di essere una fusione a freddo: raggruppa solo l’esistente in termini di gruppi dirigenti e di militanti e non è in grado di ristabilire il rapporto con le avanguardie politico-sociale della classe e iniziare una fase di radicamento sociale.
A tale limite poi si aggiunge quello relativo al programma, al suo orizzonte e caratterizzazione politica, alle sue modalità di elaborazione. In tal senso se ci rapportiamo a quello che abbiamo definito “programma minimo”, un “programma di attuazione della Costituzione Repubblicana”, pur cogliendo la necessaria minimalità di un programma di obiettivi che sono tutti interni alle regole capitalistiche borghesi, sembra essere estremamente riduttivo nel momento in cui non fa i conti con la contraddittorietà di classe insita in un patto costituzionale frutto di una fase storica di compromesso tra le forze che uscirono dalla resistenza. Sull’impostazione e sui limiti della proposta di un soggetto unitario e plurale della sinistra antiliberista è giusto che si discuta anche al fine di precisare diversità e assonanze col progetto politico da noi qui proposto e far fare un passo in avanti al dibattito sul progetto politico tra tutti i comunisti nel loro complesso.
Riteniamo infatti che l’obiettivo della costruzione di un “movimento politico organizzato” per i comunisti non annulla o sostituisce, ma bensì conferma la necessità di mantenere nel contempo il loro riferimento teorico e ideologico organizzato (in quanto partito, organizzazione, associazione, rivista, gruppo o giornale comunista che sia), questo perché nel loro complesso essi rappresentano l’ambito in cui è possibile affrontare e dibattere dal punto di vista teorico e politico le problematiche che maturano nel “movimento politico organizzato” in relazione allo scontro di classe, riavviando così sia il processo di elaborazione teorica (per non parlare dell’alfabetizzazione teorica), che il processo unitario tra gli stessi comunisti.

mercoledì 24 maggio 2017

Lo spostamento a destra della politica italiana. Cosa sta succedendo e come reagire, Scritto da Ex-OPG occupato "Je so' Pazzo"



1. ricostruiremo velocemente cosa è accaduto dal 4 dicembre, giorno del NO al referendum costituzionale, fino a oggi, in cui la situazione politica italiana si è delineata con maggiore precisione; 
2. rifletteremo sui motivi dello spostamento a destra di tutto il quadro politico; 
3. cercheremo di capire come le classi popolari, le associazioni, i collettivi, i comitati territoriali, tutta quella galassia che si sente lontana dal razzismo e dall’odio, che ha a cuore i diritti dei lavoratori e dei subalterni, può reagire a questa situazione che ci danneggia tutti. 
   
1. Dal referendum a oggi
Non smetteremo mai di ripeterlo: il 4 dicembre è successo qualcosa di importantissimo, un’esplosione le cui onde si avvertono ancora. Il 60% di NO al referendum costituzionale ha rappresentato una sonora bocciatura non solo di Renzi, ma di tutte le politiche predisposte dal padronato negli ultimi anni. Politiche di austerità, che hanno portato – secondo tutte le statistiche! – a un aumento generalizzato della povertà, a una diminuzione dei servizi sociali (istruzione, sanità, trasporti…) e dei diritti. 
Su questo non ci dilunghiamo, perché tutti, persino gli analisti borghesi, vedendo come si è delineato il NO su una precisa linea di classe, al Sud, nelle periferie, fra i giovani, hanno potuto osservare che il voto ha rappresentato un forte messaggio che le classi popolari hanno mandato a Renzi e alla borghesia che governa il paese. L’alto tasso di partecipazione è significativo: appena le masse hanno avuto uno strumento per esprimersi, hanno detto a gran voce “non ne possiamo più delle vostre riforme, non ci serve cancellare la Costituzione, ci servono piuttosto misure per mettere fine allo scivolamento verso la povertà, ci serve lavoro vero, ci servono servizi e diritti”. 
Per questo il voto referendario ha rappresentato una brutta botta per il padronato italiano. Che a quel punto ha dovuto immaginare una via d’uscita dall’impasse politica che si è venuta a creare. Ma quali sono stati gli effetti del referendum e quale la via d’uscita? 
- Il primo risultato è che Renzi ha dovuto fare un passo indietro e l’azione del padronato, che aveva usato quel Governo come suo ariete, è stata rallentata o bloccata. Non si poteva andare con la stessa velocità di prima perché si rischiava di perdere troppo consenso. Si pensi alle politiche del lavoro (che sono al cuore del problema, visto che è attraverso il lavoro delle masse che si crea la ricchezza di cui il padronato si appropria poi in diversi modi). Prima del referendum, Renzi preparava una legge sulla “produttività”, che avrebbe dovuto aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Nei mesi successivi, temendo un altro voto referendario – questa volta sui quesiti proposti dalla CGIL, sull’articolo 18 etc –, il Governo PD è addirittura dovuto tornare indietro sul tema dei voucher (ora aboliti) e sul codice degli appalti! 
Ma è anche su altri temi che la politica del Governo PD ha dovuto rallentare: in particolare nel Mezzogiorno, dove la sconfitta era stata pesante, ha provato a mettere una pezza nominando ministro De Vincenti, che a differenza di Renzi ha ostentato un atteggiamento più dialogante (solo apparentemente, basti vedere la vicenda TAP, in cui il Governo ha assecondato in tutto e per tutto le multinazionali). 
- Il secondo risultato del voto referendario è stata la destrutturazione del PD, che è terminata con la scissione di una sua parte. Abbiamo assistito a un regolamento di conti interno al personale politico delle classi dominanti. Infatti, mentre una parte maggioritaria del PD, quella di Renzi, pensa di poter continuare perfettamente come prima, e dunque fare riforme che mirano a privatizzare i servizi e abbattere il costo del lavoro, di modo da rendere il paese più profittevole per gli investimenti dei capitalisti italiani e stranieri, un’altra parte vuole opportunisticamente cavalcare la domanda che proviene dalle masse per “recuperarla”. Attraverso la creazione di un “nuovo centrosinistra”, Bersani, D’Alema, Speranza, in parte Emiliano e Pisapia, vorrebbero introdurre qualche misura redistributiva che possa permettere di salvare capra e cavoli: di continuare a ottemperare alle esigenze dei centri di potere neo-liberisti ma anche di mantenere un po’ di consenso almeno fra i settori più strutturati delle masse (lavoratori dipendenti, operai, insegnanti etc). Questa strategia ha perso la battaglia dentro il PD e si propone come minoritaria a livello nazionale, anche se sul territorio Renzi ne pagherà le conseguenze, visto che il pezzo di partito che è uscito aveva militanti e contatto con la base. 
- Qui arriviamo al terzo risultato del Referendum. Anche se le persone non sono scese in piazza subito dopo il 4 dicembre (d’altronde le immediate dimissioni di Renzi, il periodo natalizio, l’incertezza generale e la mancanza di una chiara proposta mobilitativa hanno subito “raffreddato” gli spiriti), si è prodotto un ulteriore scollamento dalle masse dagli apparati di Governo. Se il Governo Renzi qualche piccolo entusiasmo – si ricordino gli 80 euro – l’aveva saputo suscitare, questo governo è visto da tutti gli italiani come inutile, autoreferenziale, lontano. Il segnale più importante che viene dalle primarie del PD non è certo la vittoria di Renzi, che solo il giornale di regime “La Repubblica” può presentare come un trionfo, ma il calo mostruoso di partecipazione. Notevole per un partito che è al Governo, che resta la maggiore e più visibile forza politica del paese, che gestisce quote non irrilevanti di potere nello Stato e sui territori… 
Così, per gestire senza troppi danni la botta del Referendum, c’era bisogno di un traghettatore, di una figura anonima che abbassasse la tensione nel paese, mentre però continuasse sotterraneamente a fare gli interessi di una parte del padronato. Questo è stato il Governo Gentiloni. 
Da un lato, visto che gli italiani dopo quasi un due anni di sovraesposizione mediatica di Renzi non ne potevano più, ci voleva qualcuno che li portasse a disinteressarsi della politica, che facesse sparire le grandi questioni del Governo dalla quotidianità degli italiani, che svolgesse l’ordinaria amministrazione e ottemperasse agli accordi presi a livello internazionale. Da un altro lato, Gentiloni doveva assicurare una continuità del Governo Renzi (si pensi all’opera di ministri come Lotti, Boschi, Poletti), perché gli affari dovevano procedere, c’erano nomine importanti nelle aziende pubbliche, bisognava assicurarsi i bacini di voti, respingere gli assalti di un’altra parte del padronato che voleva approfittare della situazione di sbandamento di Renzi per contrattare nuove condizioni di spartizione della torta pubblica. 
Nel frattempo nessuna forza politica in questi cinque mesi è stata interessata più di tanto a premere sull’acceleratore, a interpretare la domanda uscita dalle urne. Al di là di qualche polemica fisiologica per sottrarre all’avversario qualche voto, tutti hanno badato soprattutto a prepararsi alle elezioni. Per questo passaggio – che viene visto come momento di “chiusura della crisi”, anche se è evidente che non chiuderà alcuna crisi, come vedremo fra poco – c’è bisogno soprattutto di due cose: 
a) legge elettorale; 
b) organizzazione interna ed esterna delle tre maggiori forze politiche (PD, centrodestra e Movimento 5 Stelle). 

È per questo motivo che il paese è rimasto bloccato in questi mesi: era impossibile fare la legge elettorale se non si chiudeva la partita nel PD. Ora, con il ritorno di Renzi, ci si può accordare (e i 5 Stelle si dimostrano malleabili e tutt’altro che “uno vale uno”, viste le proposte di sbarramento e di premio maggioritario che mettono in campo…). Certo, è un dibattito non semplice nella misura in cui ognuno vuole fare le scarpe all’altro e cerca la legge elettorale che può permettergli di salire. Ma è un dibattito che troverà di sicuro un suo punto di convergenza contro le istanze popolari, che decisamente sarebbero meglio rappresentate da un proporzionale puro, che trasformasse il Parlamento nello specchio della società e permettesse l’ingresso nelle istituzioni di forze maggiormente collegate ai territori...  
Su b) organizzazione interna ed esterna dei tre blocchi, torneremo fra poco. Quello che ci interessa, in chiusura di paragrafo, è ribadire il dato politico complessivo di questi mesi. Nel momento in cui il popolo ha chiesto a gran voce la fine delle politiche di austerità, a questa domanda nessuno ha risposto proponendo l’unica soluzione conseguente e immediatamente attuabile: drenare risorse dalla grande borghesia al mondo del lavoro, per migliorare la condizione di vita delle masse. Tutti hanno ignorato completamente la domanda dal basso e fabbricato delle finte risposte. 

Non solo il PD o il PDL, ma anche le forze apparentemente più “innovative” dell’opposizione, Lega e Movimento 5 Stelle, hanno ripetuto esattamente quello che accade in Italia da 25 anni. Nessuno ha avuto intenzione di farsi portatore della domanda delle masse, perché nessuno ha voluto mettersi contro il padronato ed i poteri che governano il paese. 
Così, se con il voto referendario si è riusciti a rallentare l’attacco padronale, non si è riusciti certo a riequilibrare i rapporti di forza fra le classi. Questo rallentamento è stato senza dubbio positivo; ma rischia di diventare inutile se non siamo in grado di utilizzarlo per trasformarlo in un elemento di coscienza di classe, per mostrare che chi ci governa non è invincibile, ma che è una minoranza che può perdere, se non lo usiamo per organizzarci, imporre dal basso un altro ordine del giorno. Se non facciamo tutto questo, questo rallentamento servirà solo ad aver rimandato ulteriori sconfitte. 
Per certi aspetti è proprio questo quello che sembra accadere nelle ultime settimane. 

2. Lo spostamento a destra del quadro politico
Pensateci: una questione che non c’era nel voto contrario al referendum era quella della “sicurezza”. Nessuno ne parlava prima del referendum, nessuno ne parlava subito dopo. Nelle ultime settimane invece il dibattito si è caratterizzato proprio su questo tema – ovviamente tutto letto in connessione a quello dell’“immigrazione”. A rimettere insieme i pezzi del puzzle, la fotografia che esce dell’Italia fa paura: le sparate di Salvini senza ormai più nessuna reazione, la polemica dei 5 Stelle intorno alle ONG, le dichiarazioni vergognose della Serracchiani, sono il contraltare dell’azione del Governo e delle sue forze di polizia: rastrellamenti a Milano, blitz a Roma che causa la morte di un ambulante senegalese; multe a Ventimiglia a chi osa dare da mangiare agli immigrati… E ancora l’approvazione del Decreto Minniti, la riforma del diritto d’asilo, la legge sulla legittima difesa (in un paese in cui diminuiscono i reati!)… 
Si sbaglierebbe a pensare che queste siano risposte che le forze politiche danno dall’alto a delle domande sincere che vengono dal basso: se uno cercasse mobilitazione popolari su questi temi non troverebbe granché (quel poco che troverebbe è sempre roba manipolata da attori perfettamente riconducibili alla Lega o all'estrema destra: ogni volta si ripete sempre lo stesso schema, in cui di spontaneo c'è ben poco). Certo, decenni di propaganda di destra, uniti agli effetti della crisi, hanno sedimentato anche nella fasce popolari elementi di diffidenza, intolleranza, esclusione, che si riverberano nel linguaggio, nei pregiudizi, in una certa tensione nella condivisione degli spazi. Tuttavia questi elementi sono pompati mediaticamente proprio per incentivarli, mentre le pratiche e idee antirazziste, le esperienze di incontro e solidarietà, l’embrionale riconoscersi come appartenenti alla stessa classe, non riescono mai ad emergere, perché non c’è nessun megafono, nessuna forza politica che abbia il coraggio di sfidare il consenso tacito che c’è fra tutti e tre i blocchi – PD, centrodestra e Movimento 5 Stelle –: parlare di sicurezza e immigrazione per non parlare dei veri problemi, a cui non si può dare soluzione perché per dare soluzione si dovrebbe attaccare il padronato. E siccome tutti questi soggetti sono espressione di segmenti di padronato e non possono governare senza di questo, non lo possono attaccare.  
Così tutto il quadro politico si sposta a destra, nel silenzio accondiscendente e nella passività di tutto il mondo culturale e intellettuale (fa eccezione il solo Saviano al quale, davvero non pensavamo di poterlo mai dire, va riconosciuto il coraggio di aver detto cose in assoluta controtendenza). È davvero paradossale vedere come i temi economici e del lavoro che riguardano direttamente le masse popolari siano letteralmente scomparsi dall'agenda politica. D'altronde tutti hanno interesse a sviare dal vero tema che da qui a breve si imporrà ovvero l'ennesima manovra economica finalizzata a rispettare gli obiettivi di bilancio imposti dal Fiscal Compact (nei prossimi mesi si dovranno infatti trovare ben 20 miliardi, altrimenti scatteranno le cosiddette “clausole di salvaguardia”, ovvero l’aumento delle aliquote IVA, misura estremamente impopolare che nessuno si vuole accollare…).
Tornando allo spostamento a destra delle forze politiche istituzionali, possiamo affermare con certezza che il cambiamento più eclatante riguarda il Movimento 5 Stelle che ormai si è caratterizzato come partito reazionario. Un fatto particolarmente rilevante, non fosse altro perché riguarda, stando ai sondaggi, una forza politica fra il 27 e il 30% dei consensi che in questi anni si è presentata come “alternativa al sistema”.
Osserviamo l’attività dei 5 Stelle sfrondata da ogni propaganda, attenendoci ai fatti: all’indomani del referendum i 5 Stelle non mobilitano le piazze per dare seguito alla domanda popolare, non elaborano proposte di carattere redistributivo, non aprono problemi in Parlamento animando un dibattito sul governo Gentiloni o opponendosi ai suoi decreti più scandalosi (le critiche che fanno al Decreto Minniti o alla Legittima Difesa sono tutte da destra!). In accordo con le altre forze politiche prendono tempo e cercano di prepararsi alla tornata elettorale. Come lo fanno? Innanzitutto accreditandosi presso i poteri forti: da qui le visite internazionali negli USA e nei vari giri che contano, il convegno di Ivrea etc… Da un altro lato, mettendo bene in chiaro che non vogliono fare politiche di “rottura”. In questi mesi dicono di essere contrari alla patrimoniale, non riconoscono in alcun modo la contraddizione capitale/lavoro e le differenze di classe, dunque l’unica misura “sociale” che immaginano è un reddito di cittadinanza. Reddito di cittadinanza il cui finanziamento proviene solo in piccolissima parte dalla tassazione di chi in questi anni si è arricchito, ma da una molteplicità di misure molte delle quali di dubbia efficacia ed applicabilità. Misure che vanno dai tagli alla spesa pubblica, alla riduzione delle detrazioni fino ad arrivare al divieto di cumulo pensionistico, mentre curiosamente rimangono fuori le spese militari e in particolare le missioni all’estero.

Il caso Roma e il caso Torino da questo punto di vista sono emblematici. A Torino la Appendino, proveniente dalle classi borghesi della città, è di fatto la continuazione delle amministrazioni precedenti. Dalle cariche in piazza al 1° Maggio ai pubblici ringraziamenti alle forze dell’ordine per l’attività contro gli ambulanti “abusivi”, l’Appendino non ha portato alcun elemento di rottura, ma è pienamente compatibile con le logiche di gestione liberali della città. Gestione che ha trionfato anche a Roma. La Raggi, proveniente da ambienti contigui al centrodestra cittadino, ha scelto per la sua amministrazione la continuità più totale, ripescando una serie di nomi in auge nelle amministrazioni passate. Che le inchieste abbiano fatto saltare alcuni di questi nomi (Morra, Muraro), non certifica il loro “essere scomodi per il potere”, ma al contrario, una lotta tutta interna agli apparati di potere, nell’indifferenza dei cittadini romani che per lo più la subiscono. La partita dello Stadio ha attestato l’assorbimento della Raggi dentro la logica liberale: pur di essere riconosciuta come forza responsabile e di governo, l’amministrazione 5 Stelle ha permesso la gigantesca speculazione dei palazzinari romani, tradendo le istanze di molti…
Purtroppo questi aspetti problematici del movimento non riescono mai pienamente ad emergere perché da un lato non è su questo che si focalizza la critica del PD e dei media (attaccare i 5 Stelle su questi punti vorrebbe dire attaccare anche se stessi), e da un lato perché il dibattito interno alla loro compagine è davvero scarso. È veramente impressionante la capacità che hanno i dirigenti di orientare i propri sostenitori prescindendo da qualsiasi elemento di realtà. Nei confronti del Movimento c’è un atteggiamento fideistico che non ha nessuna forza politica: qualsiasi altra fonte di informazione che non siano i siti del Movimento viene infatti ignorata e pregiudizialmente giudicata inattendibile.

Ma, come dicevamo in precedenza, non sono solo i 5 Stelle ad essersi spostati a destra. Lo stesso PD con le ultime primarie ha dimostrato la propria collocazione tra le fila delle forze ultra-liberiste con simpatie destrorse. Il Partito Democratico si è infatti liberato definitivamente da un punto di vista simbolico e materiale di tutti i residui sia della sinistra social-democratica che del cattolicesimo sociale che in qualche modo rallentavano l’azione del gruppo dirigente. A differenza del M5S, il PD non gode di piena fiducia da parte della sua base ma grazie ad una fitta rete clientelare riesce comunque a mantenere un certo livello di consenso. Il gruppo dirigente del PD in questo momento sta operando in modo da aizzare le pulsioni più razziste del paese per potersi presentare, alla vigilia delle elezioni, come quelli che comprendono umanamente queste spinte ma a differenza dei razzisti più beceri le sanno temperare con un generico umanitarismo e con il rispetto delle regole. Il PD vuole presentarsi come la forza responsabile che sa governare il fenomeno, che sa fare sicurezza: per questo però ha bisogno che i mostri esistano (l’immigrato stupratore, il leghista anti-europeista) e siano ben presenti nell’immaginario complessivo.

In ultimo abbiamo il centrodestra. Con in primo piano la Lega Nord di Matteo Salvini, che in questi anni ha cercato di accreditarsi come forza non più regionale ma nazionale. La strategia di Salvini è estremamente semplice e ricalca sia politicamente che comunicativamente l’esperienza del Front National in Francia e dell’Alternative Right di Trump negli USA. Un esperimento, quello di Salvini, che però sembra essersi consumato. Salvini ha infatti una serie di problemi di non facile soluzione. Da una parte ha qualche difficoltà a far digerire questa svolta nazionale alla base storica della Lega e a una parte dell’apparato (anche se con le ultime “primarie” sembra aver liquidato l’opposizione interna), da un’altra ha un’oggettiva difficoltà ad accreditarsi al Sud a causa della storia del suo partito da sempre caratterizzato da un forte anti-meridionalismo. Infine, la connotazione regionale e secessionista della Lega gli impedisce di assorbire la galassia della destra nazionalista, che resta scomposta in altre formazioni. Non a caso i sondaggi danno da molto tempo la Lega inchiodata al 12-13%.
L’altro pezzo significativo del centrodestra, ovvero Forza Italia, ha invece adottato un atteggiamento attendista. Aspetta che si chiarisca meglio il quadro generale e in particolare la situazione dal punto di vista della eleggibilità di Silvio Berlusconi. Si sente più forte di prima perché sa che la Lega non ha possibilità di sfondare, e che ha bisogno dell’alleanza con loro e con Fratelli d’Italia, e pensa così di poter guidare la coalizione, magari recuperando vecchi ceti politico-clientelari sui territori (da qui la proposta di un proporzionale con premio di alla coalizione, per mettere su un listone di 10-15 formazioni che racimoli percentuali ovunque, come sta già accadendo nella tornata amministrativa).

Insomma, sul piano della politica istituzionale non c'è al momento nessuno in grado di contrastare la destra nelle sue varie declinazioni. Possiamo infatti chiudere questa carrellata con Sinistra Italiana e i fuoriusciti del PD: parliamo di soggetti la cui inadeguatezza umana, la cui ignoranza della vita della classe, la cui storia del tutto compromessa con le contro-riforme dagli anni ’90, li rende invisi alle masse. È davvero difficile ipotizzare che soggetti del genere possano giocare il ruolo che – partendo, andrebbe sempre ricordato, da una posizione di outsider – hanno giocato Syriza, Podemos e Mélenchon. Davvero difficile ipotizzare che questo ceto politico, litigioso, più preoccupato delle poltrone che dei cittadini, incapace di una proposta politica realmente di rottura, possa rispondere alle reali esigenze delle classi popolari e di suscitarne l'entusiasmo. Una volta che il PD di Renzi chiuderà la partita della legge elettorale, magari con una soglia di sbarramento alta, del 5%, non resterà a questo puzzle che mettersi insieme e sperare che la loro piccola base non opti per il “voto utile” a Matteo Renzi, in chiave anti-lega e anti-5 Stelle…

La situazione è quindi veramente brutta. Non possiamo sapere chi uscirà formalmente vincitore dalle elezioni che ormai si preparano ma, da un punto di vista sostanziale, possiamo affermare che sarà di certo la destra a vincere. Destra che potrebbe trionfare nella sua variante più reazionaria e fascista proprio a causa di questa folle competizione tra M5S, PD e Lega. Cosa fare per contrastare tutto questo?

3. Come reagire?
Da una situazione difficile non si esce facilmente. Quindi sarebbe assurdo pretendere di avere la Soluzione e di poterla esporre in una pagina. D’altra parte siamo stanchi di chi non sa offrire nessun tipo di appiglio, neppure in via sperimentale, e adotta una posizione attendista, immaginando di potersi sedere e aspettare che la bufera passi… Certo, se le masse irrompessero sulla scena pubblica facendo saltare questi equilibri, tutto sarebbe più facile: ma nel frattempo che questo accada, noi abbiamo comunque il compito di incentivare tale presa di coscienza, di educare e di autoeducarci, di sviluppare pratiche che possano da subito liberare i nostri territori, e dare al momento giusto la spinta decisiva.
Nella Lettera del mese scorso abbiamo provato a spiegare come ci stiamo organizzando e abbiamo sintetizzato alcuni concetti per noi centrali in questa fase: http://jesopazzo.org/index.php/blog/426-una-lettera-da-je-so-pazzo Ora vogliamo aggiungere alcune considerazioni su ciò che ci serve, sperando di aprire un dibattito a livello nazionale, o almeno di avere qualche riscontro. 

1. Dobbiamo imporre il nostro piano di gioco. Se le forze politiche istituzionali, non avendo risposte da dare ai veri problemi delle classi popolari, cercano di guadagnare consenso facendo leva sulle paure, alimentando odio e razzismo, noi dobbiamo rifiutare il loro piano di gioco. Dobbiamo sforzarci di portare il dibattito sul piano in cui noi abbiamo proposte e soluzioni, mentre loro non hanno nulla da dire e non possono fare nulla. Per quanto assurdo possa sembrare, siamo noi gli unici ad avere le ricette per migliorare la condizione di vita delle masse. Siamo noi che non abbiamo paura a dire dove vogliamo andare a prendere i soldi. Dobbiamo investire il piano politico-generale non solo facendo testimonianza, ma ponendoci in termini di proposte concrete, in grado di incidere realmente, di accumulare anche piccole vittorie tattiche, di avere un programma. 
L’insegnamento che viene dalla Francia è che, se si affrontano i temi che interessano le classi popolari, il riscontro in termini di consenso si ha. Non bisogna farsi ipnotizzare dall’avversario ma mantenere un contatto con le masse che ci permetta di interpretarne le istanze. Sembra una cosa estremamente complessa da attuare ma in realtà, come dimostra per certi versi il buon risultato di Mélenchon in Francia, è più facile di quanto non si pensi. 
2. Non cedere su antifascismo e antirazzismo. Ovviamente, non possiamo non pronunciarci sulle questioni sicurezza e razzismo. Ma non ci serve alcun “sì, ma…”: non c’è da scimmiottare o da inseguire la destra: dobbiamo avere in ogni contesto il coraggio delle nostre idee, internazionaliste, per la pace fra i popoli, contro le armi. Dobbiamo denunciare il carattere razzista e classista dei provvedimenti come quello di Minniti, fare corretta informazioni sui numeri, sui reati. E soprattutto proporre dei momenti di affratellamento, di comunicazione, in cui la potenza dei legami umani si mostri in tutta la sua bellezza. A un discorso di odio fra gli oppressi dobbiamo saper contrapporre un discorso di amore fra gli oppressi e di odio contro gli oppressori. Un messaggio semplice, quello di una nuova umanità. 
Nel frattempo dobbiamo applicare rigorosamente il controllo popolare sull’accoglienza, e mostrare che su quel tema c’è una convergenza palese fra Stato e mafia, che quei soldi sono tolti alle tasche degli italiani e non arrivano mai agli stranieri, che nella materialità italiani e stranieri hanno lo stesso nemico.  
3. In tutte le organizzazioni di sinistra serve una rottura forte con il passato. In termini di personale, generazionale, in termini di stile comunicativo. Non è una questione di inseguire il nuovo per il nuovo e tutte quelle sciocchezze che ci hanno propinato per anni. È un problema di credibilità dei dirigenti, di liberare energie ed entusiasmi. A guidare le organizzazioni di sinistra raramente troviamo dei combattenti: più probabilmente troviamo delle persone che ormai hanno accettato il loro ruolo subordinato, e anche se sono rimaste fedeli a certi ideali, non credono davvero che possano avere successo. Così è impossibile conseguire anche la più piccola vittoria. Non conseguire vittorie ti fa diventare risentito, più teso ad affossare gli altri piccoli gruppi con cui ti senti in competizione che a relazionarti alle masse e capire insieme come crescere. Dal Kurdistan, dalla Spagna, dalla Francia, ci è giunto un messaggio di tipo diverso: dobbiamo saperlo ascoltare. 
4. Non ci si può limitare alla metropoli. Sappiamo infatti "dove" si giocherà la partita politica in Italia: in provincia. Ormai è un dato assodato, come dimostrano le consultazioni elettorali e referendarie in USA, GB, Turchia e Francia, che è nella provincia che sfondano le forze della destra. Questa diventa quindi anche per noi una priorità che si traduce nel prestare massima attenzione e supporto a ciò che si muove nei piccoli centri. La destra sfonda non tanto o non solo dove il territorio è più povero o dove è più forte la crisi, ma dove incide di più la paura mediatica e l’ignoranza, dove c’è poca circolazione di cultura, di idee, di arte, di qualsiasi tipo di rinnovamento. Dove c’è poco presidio delle forze democratiche. Lì una piccola minoranza “cattiva”, attenta alla piccola proprietà, timorosa di vedere peggiorate le proprie condizioni, può ottenere una rilevanza politica nazionale, grazie all’attenzione dei media. Per questo dobbiamo cercare di rinforzare in ogni modo possibile l’intervento nelle province.  
Intorno a questi quattro punti pensiamo possa essere costruita una campagna nazionale, un maggiore livello di coordinamento, pensiamo si possano utilizzare questi mesi per animare il dibattito e per imporre dal basso il nostro ordine del giorno. Ricominciamo a parlare di come riprenderci la ricchezza e di quali sono i rapporti di produzione. È questo quello che le classi popolari vogliono sentire. 
E comunque la si pensi, è certo che non possiamo stare a guardare una partita fra Renzi, Grillo e Salvini. Diamoci una sveglia, la nostra vita merita di più, molto di più…

sabato 20 maggio 2017

Globalisti contro sovranisti. Un conflitto tutto interno alle classi dominanti

Paolo di Lella intervista Stefano G. Azzarà

Ancora sul fenomeno cosiddetto "populista". Dopo le interviste, pubblicate sui numeri di dicembre e gennaio, a Fulvio Scaglione, Carlo Formenti, Marcello Foa e Giulietto Chiesa, questo mese, in esclusiva per i nostri lettori, affrontiamo lo stesso tema con Stefano Azzarà, docente di Filosofia moderna presso l’Università di Urbino e autore del volume "Democrazia cercasi"
 
trump america firstVisto che lei è un marxista, inizierei dalla critica. Uno dei paradigmi interpretativi che si sta affermando nettamente, non solo tra i rappresentanti dell'establishment (lo ha dichiarato qualche settimana fa in un'intervista sul Corriere della Sera, il direttore del Wall Street Journal, Gerard Baker) ma anche tra molti compagni, riguardo alla reazione che sta montando in occidente contro chi ha governato la globalizzazione negli ultimi 20 anni, è quello secondo cui lo scontro fondamentale non è più fra destra e sinistra ma tra populisti e globalisti. Ecco, rispetto a questo, qual è la sua analisi?
Ritengo profondamente sbagliata, per non dire foriera di grandi pericoli, questa impostazione, che appare nuova ma che in realtà si è presentata più volte sulla scena politica e culturale non solo nel XX ma già nel XIX secolo. La vera differenza rispetto al passato è semmai che mentre prima queste tesi erano smentite nella pratica, oltre che nella teoria, oggi l'impotenza pressoché totale acquisita dalla sinistra lascia un campo totalmente aperto alle destre per un'operazione egemonica in grande stile. Un’operazione che sta già cambiando il modo di pensare delle generazioni più giovani e ha aperto una breccia anche a sinistra.
Come lei stesso fa notare, oltretutto, il fantomatico potenziale “antagonistico’* di questa impostazione, che individua la contraddizione fondamentale non più in quella capitale-lavoro ma nella coppia antagonistica universale/particolare (globale/nazionale; astratto/concreto; artificiale/storico), e per questo invita a superare categorie considerate obsolete, è immediatamente smentito dal fatto che la versione più influente di questa tesi - che io chiamo Mito Transpolitico e che ha molte sfaccettature e varianti - è appunto e in primo luogo la versione tecnocratica, ovvero quella neoliberale. Su questo terreno, si può dire, de Benoist e Dugin la pensano esattamente come Matteo Renzi e Mario Draghi, perché in effetti si tratta di due facce diverse di un'egemonia che è però tutta di destra. Siamo purtroppo in una situazione nella quale le idee delle classi dominanti occupano senza trovare resistenza tutto lo spettro ideologico e soddisfano perciò tutti i bisogni simbolici sociali. Tutto si riduce insomma a un confronto interno alle destre. La sinistra è letteralmente assente, come diceva un recente libro di Domenico Losurdo.
In realtà, destra e sinistra sono ancora categorie politiche irrinunciabili, senza le quali non è possibile comprendere il nostro tempo e il nostro mondo. Esse vengono ridefinite dalla storia, come ogni cosa umana, ma non è possibile prescinderne per l’interpretazione della realtà. L'equivoco di fondo, che è presente in primo luogo in un autore al quale sono stato assai legato sul piano culturale come Costanzo Preve - un autore che però non si è mantenuto fino in fondo all'altezza di quanto aveva prodotto negli anni Novanta e ha finito per generare anche una “destra previana", oltre che una “sinistra previana" - è tutto di natura nominalistica. Si tende cioè a identificare la sinistra con ciò che si autodefinisce tale o che tale viene definito dal sistema dei media. E di conseguenza si denuncia la presenza di un'egemonia culturale della sinistra che farebbe da accompagnamento universalistico, dirittumanista e libertario all’avanzata di un capitalismo finanziario globale e disgregante.
In realtà, proprio per criticare la sinistra ufficiale - nelle sue varianti idealtipiche della sinistra imperiale e di quella postmoderna - e per mostrarne le gravi responsabilità, noi siamo costretti sistematicamente a fare riferimento a queste categorie presunte obsolete e a dire che essa ha fatto proprio il programma della destra. A denunciare anzi come essa si sia fatta destra pur mantenendo il nome di sinistra e conservando questa collocazione convenzionale nella rappresentazione dei sistemi politici. Bisogna ancora spiegare le profonde e complicate ragioni storiche per cui questo è avvenuto, ovviamente. E però non si capisce nulla di quanto è accaduto negli ultimi decenni se non si coglie il gigantesco slittamento a destra che ha traslato l’intero quadro politico: questo slittamento è infatti l'esito di una gigantesca sconfitta delle classi subalterne nell'ambito del conflitto politico-sociale all’interno delle nazioni come su scala globale. Affermare che destra e sinistra non esistono più significa esattamente rimuovere sia la sconfitta, sia - ancor prima - l'esistenza stessa del conflitto. Giudicare il conflitto di classe insussistente mi sembra un modo veramente super partes per dimostrare l’obsolescenza di destra e sinistra...
Va allora ribadito che rimangono pienamente operative la destra come la sinistra ma che queste categorie vanno profondamente ridefinite. Come dicevo prima, infatti, la destra occupa oggi nelle sue diverse forme pressoché tutto lo spettro politico mentre la sinistra vera e propria, quella che è tale non solo nella nomenclatura ma anche sul piano programmatico e storico, si è ridotta ai minimi termini, oltre ad essere assai confusa.
Per come la penso io, dalla fase giacobina della Rivoluzione francese in avanti la sinistra dovrebbe essere il partito dell’emancipazione e del progresso integrali, che guarda a un universalismo pieno e compiuto, capace di riconoscere le differenze. In questo senso, la sinistra è anzitutto il partito della mediazione e della totalità (linea Hegel-Marx). La destra nelle sue diverse forme - e questo ne spiega anche il facile successo popolare - è invece il partito dell'immediatezza e della parzialità, ovvero il partito del particolarismo. La contrapposizione tra populismo e globalismo, se affrontata da questo punto di vista, è del tutto formale e incapace di spiegare la realtà. Bisognerebbe entrare nel merito e qui manca lo spazio E però già ad un approccio superficiale è del tutto evidente che vengono oggi rivendicati sia un “populismo" di sinistra (kirchnerismo, Podemos, Syriza ) che uno di destra (Trump, Le Pen); così come vengono rivendicati sia un “globalismo” di sinistra (sinistra liberale) che uno di destra (tecnocrazia) Ma in questo modo non abbiamo fatto un solo passo avanti, perché si tratta appunto di andare oltre il formalismo per guardare la sostanza delle cose.
Personalmente, allora, distinguo tra un processo di “mondializzazione" che accompagna tutta l'età moderna e lo sviluppo del modo di produzione capitalistico e che, attraverso innumerevoli contraddizioni, si è intrecciato al processo di costruzione del genere umano, da un processo di ‘globalizzazione" che costituisce invece la versione distorta del primo processo, conseguenza dell'affermazione dell'imperialismo statunitense. La globalizzazione di marca americana, che rimonta al progetto wilsoniano e poi a Bretton Woods, era in realtà non un fenomeno naturale o endogeno allo sviluppo tecnologico ma nient’altro che il progetto di costruzione dell'egemonia statunitense nel XXI secolo. Questo processo ha inevitabilmente generato spinte e controspinte, perché mai nella storia chi ha scatenato energie immani ha poi potuto controllare tutta la catena di cause e concause. La crisi economica è ad esempio un inciampo imprevisto di questo progetto. Ma lo è anche il risveglio di alcune aree geopolitiche, penso anzitutto alla Cina, che hanno saputo cavalcare le contraddizioni della globalizzazione americana per installarvi un proprio autonomo piano di modernizzazione.
L'emergere dell'ex Terzo Mondo colonizzato inevitabilmente ha ridotto la “torta" a disposizione per l'Occidente Ma questa torta non si è ridotta in maniera proporzionale per tutti. Gli USA ne ricevono comunque una porzione maggiore e anche in Europa, come è noto, ci sono forti squilibri tra gli Stati. AH'intemo di ciascuna nazione, poi, è chiaro che le classi dominanti scaricano il più possibile su quelle subalterne la necessità di fare posto a tavola anche ad altri Paesi che prima erano esclusivamente dominati.
Chi respinge tout court la “globalizzazione" con una negazione indeterminata, allora, respinge non solo i suoi effetti negativi come la concorrenza crescente e l'impauperimento di massa ma anche quelli positivi, anche la “mondializzazione", anche la costruzione del genere. Rimuovendo tra l’altro il ruolo delle classi dominanti all'Interno degli Stati nazionali: in nome di una comunità compatta e organica che non esiste da nessuna parte, respinge in realtà un grandioso processo rivoluzionario che riguarda il mondo ex coloniale. In maniera reciproca, chi esalta la "globalizzazione" in maniera acritica, senza fare distinzioni, fiancheggia di fatto l’imperialismo statunitense e i vari sub-imperialismi regionali. Si tratta perciò, come in ogni processo, di sviluppare un'analisi concreta della situazione concreta. E di capire, come ha spiegato assai bene di recente Xi Jinping a Davos, che il processo di mondializzazione non è univoco ma è un campo di forze. Un campo nel quale, semmai, dobbiamo aiutare a prevalere le forze favorevoli allo sviluppo di una forma di democrazia internazionale e di un commercio più equo. L'arresto della globalizzazione non eliminerà lo sfruttamento di classe. Al contrario, l’affermazione di ideologie organicistiche, che nascondono dietro l’idea di popolo quella che è una guerra ferocissima interna alle classi dominanti, in parte favorite e in parte svantaggiate dalla globalizzazione - come negli anni Venti e Trenta del Novecento l’industria leggera era favorevole al libero scambio e quella pesante al protezionismo - ne renderà ancora più difficile la critica.
 
Dunque, la vittoria di Trump negli USA non è affatto uno schiaffo alle élite dominanti, semmai dimostra - come direbbe Christian Lavai - la capacità di queste ultime di recuperare l'opposizione... Si tratta, in definitiva di uno scontro interno al fronte neo-liberale, giusto?
Non ho alcun dubbio su questo punto. Il fascino che Trump esercita a sinistra è il sintomo della compensazione di un'insormontabile impotenza, oltre che il sintomo di una confusione a causa della quale abbiamo dimenticato anche l'ABC della politica. La crisi economica impoverisce i ceti medi, i quali ad un certo punto hanno revocato il mandato che dopo la Seconda guerra mondiale avevano conferito alla grande borghesia a patto che questa tutelasse in parte anche loro. Ecco che le élites dominanti sul terreno economico, politico ma anche culturale e ideologico (banche, corporations, “caste" politiche, grandi giornali e tv, cordate universitarie), si sono trovate improvvisamente delegittimate dallo scioglimento di un intero blocco sociale. La piccola borghesia pretenderebbe ora di fare da sé, di salvarsi da sé, e genera movimenti populistici. Ma ovviamente non ne è capace, perché è per definizione priva di autonomia, di forza di direzione e di un ceto intellettuale. Essa diventa perciò preda di una contesa furibonda dentro le classi dominanti. Nelle quali le vecchie cordate “stabilite" che avevano approfittato della globalizzazione americana devono subire l’assalto di nuove cordate “outsider", che non sono state capaci di cavalcarla fino in fondo. E che si ergono adesso a improbabili rappresentanti della piccola borghesia offesa e degli strati più poveri (essi stessi totalmente privi di autonomia e consapevolezza). E ne sfruttano perciò le energie di mobilitazione. Si tratta di un normalissimo fenomeno di circolazione delle élites interno alle classi dominanti, con gli ovvi corollari della cooptazione di élites emergenti provenienti da altri strati sociali.
Il fatto che Trump sia - a parole - più attento ai bisogni sociali e ai ceti disagiati non è affatto una novità, sotto questo aspetto, ma rientra nella tradizione del liberal-conservatorismo compassionevole. Anche l’atteggiamento della nuova amministrazione statunitense verso lo Stato - visto che molti a sinistra si eccitano solo a sentire questa parola tanto quanto altri, di tendenza anarcoide, se ne adontano - non è chissà quale grande sconvolgimento. Il liberalismo sa modulare pragmaticamente l’intervento statale secondo le esigenze di fase dei propri stakeholders. Non è affatto vero che liberalismo è sempre stato sinonimo di laissez-faire e di non intervento statale. Intanto, anche il non intervento è un intervento al contrario, se messo in relazione alle forze del mercato. In secondo luogo, infinite volte i liberali hanno sviluppato politiche interveniste. L'intervento statale è certamente importante ma anche questa categoria è formalistica: si tratta di vedere che tipo di intervento e in quale direzione si muove.
Anche sul piano della politica estera, mi pare che molti a sinistra stiano prendendo lucciole per lanterne. “America First“, lo slogan principale del discorso di insediamento di Trump, è una diversa formula per ribadire il primato e l’eccezionalismo americano, il Manifest Destiny. Il quale può essere perseguito tramite una strategia egemonica e il soft power, associato a un’ideologia pseudo-universalistica che sfrutta la retorica della democrazia sovranazionale, dei diritti umani, ecc. ecc. Ma che può essere perseguito anche tramite strategie diverse, nelle quali la rinuncia alla retorica universalistica in nome di un esplicito approccio particolaristico non comporta minori pericoli per la pace nel mondo e per la giustizia internazionale.
Leggo ad esempio che molti sono impressionati dalle “confessioni" di Trump e vi leggono l’avvio di un processo di revisione della storia degli Stati Uniti, i quali ammetterebbero finalmente le loro colpe imperialiste per voltare pagina. Mi spiace per chi crede alle favole ma non è affatto così. Nell’ideologia dominante, il crimine colonialista viene di solito imbellettato con fiumi di retorica al fine di apparire sempre e comunque buoni (universalismo, Wilson, Fukuyama); ma in determinate fasi storiche lo stesso crimine può essere rivendicato in maniera cinica e sprezzante (particolarismo, Spengler, Huntington) Noi siamo esattamente in una di queste fasi.
Certamente molti a sinistra sono rimasti impressionati dalla simpatia di Trump verso la Russia di Putin, come se la Russia di Putin fosse l’URSS. Abbiamo qui una dimostrazione di quanta confusione e frustrazione ci siano in giro: la politica è ridotta a tifo e, privi di un progetto autonomo e sensato, non siamo più in grado di guardare dialetticamente la realtà senza identificarci con questo o con quel campione, senza distinguere ciò che è positivo da ciò che è negativo. Personalmente ritengo che la Russia svolga un positivo ruolo geopolitico e che sia un pilastro imprescindibile di un futuribile ordine multipolare e della pace nel mondo. Tuttavia, pur essendomi trovato il più delle volte dalla parte di Putin, non ci penso minimamente a identificarmi con lui e lo sostengo solo nella misura in cui le sue scelte vanno nella direzione di un programma oggettivamente progressista.
La cosa più importante è però questa. Trump non mette in discussione la globalizzazione nella misura in cui coincide con il progetto imperialista americano per il XXI secolo. Prende semplicemente atto delle sue defaillances, dei contraccolpi indesiderati, e la ridefinisce su basi bilaterali al fine di rafforzarla in chiave americana. In particolare, intende porre rimedio ad alcune spiacevoli conseguenze della diffusione degli accordi commerciali e cioè, come si diceva prima, all'ascesa della Cina e di alcuni altri paesi. Consapevole del rischio di overstretching del proprio Impero (Paul Kennedy), Trump vuole fare la pace a Est per fare la guerra a Ovest, o viceversa a seconda del punto di vista geografico. Vuole cioè congelare i conflitti con la Russia per aprire il vero fronte, quello contro la Cina, il vero avversario strategico del XXI secolo.
Voglio vederli, i populisti italiani “oltre destra e sinistra" che sono convinti di controllare ora il Cremlino come la Casa Bianca, cosa faranno quando le frizioni con la Cina diventeranno più calde. È facile auspicare un asse eurasiatico o pan-populista con i russi, che sono bianchi. Voglio proprio vederli mantenere lo stesso equilibrio e la stessa voglia di multipolarismo quando i nemici dell'Occidente diventeranno i musi gialli, ovvero i sottouomini asiatici già massacrati al tempo del colonialismo europeo in Cina, i quali oltretutto si schierano oggi per il libero commercio. Per fortuna, come attesta la telefonata a Xi a proposito del principio "Una sola Cina", Trump sembra aver trovato consiglieri più saggi e realisti di quanto lui stesso non sia.
In sintesi, non ci vuole molto a capire che Trump si sta semplicemente sbarazzando di ogni artificio morale e che critica la Nato perchè vuole mano ancor più libera e pretende che gli alleati ci mettano più soldi. Cosi come non ci vuole molto per capire che Marine Le Pen attacca la UE per ragioni molto diverse da quelle che sono sempre state e dovrebbero ancora essere le preoccupazioni della sinistra. Il problema non è allora, come si sente dire, che una cosa rimane valida anche se a dirla è uno di destra: il problema è che si possono volere cose apparentemente simili per ragioni molto diverse e che le ragioni per cui si vuole una cosa non sono secondarie. Non è che per andare contro “sinistra" neoliberale o postmoderna uno è costretto a diventare di destra: è sufficiente ragionare in maniera dialettica e non binaria e rimanere coerentemente di sinistra.
Do per scontato che in queste condizioni ogni ipotesi di "Fronte Ampio", praticabile in teoria durante le fasi di ascesa e quando il movimento cresce, significhi consegnarsi mani e piedi a queste destre, che sono largamente egemoni. E vada respinta perché è un suicidio deliberato. Lo dico pensando a chi lancia campagne per l'uscita dall'UE o dalla Nato pensando di fare propaganda all'assemblea nazionale della Lega Nord, o pescando nel bacino dei sovranisti.
 
La critica della globalizzazione capitalista è stata sempre una prerogativa della sinistra, per lo meno fino a quando si è conclusa l'esperienza del Social Forum. Oggi siamo al punto che personalità autorevoli della sinistra storica iniziano a tifare per Trump e a invocare la discesa in campo di un "uomo forte"...
Non sono d'accordo su questa premessa. Non c'è bisogno di tornare a Marx ed Engels e al Manifesto, con la sua elegia della globalizzazione (che si contrapponeva all’atteggiamento di molti socialisti piccolo-borghesi o nostalgici del feudalesimo). In realtà la critica della globalizzazione è stata sin dalla prima metà del XX secolo un argomento della destra europea, la quale nella tendenza alla globalizzazione descritta come spinta verso lo Stato Mondiale o l’Impero ha individuato una messa in discussione del primato europeo e della storicità differenziata e stratificata dell'Europa, culla della civiltà in contrapposizione alla barbarie dei sottouomini delle colonie in rivolta ma anche all’"artificiale" rappresentato dagli Stati Uniti o dalla Russia bolscevica. Penso a Heidegger e Schmitt in primo luogo. Dopo la Seconda guerra mondiale e ancora negli anni Ottanta e Novanta, la critica dell'estrema destra di ispirazione neonazista al “mondialismo" è esplicita. È in quell’ambiente che vanno rintracciati i prodromi dell’attuale rivolta “populistica" di ispirazione eurasiatista, ad esempio.
Nei Social Forum io all’epoca ho visto un'altra cosa, invece. Non ho mai visto nessun “No Global'. Ho visto invece da un lato tantissimi 'Sì Global', ovvero tantissimi fautori di una globalizzazione ancora più spinta. Che pretendevano una totale liberalizzazione dei movimenti delle persone e della circolazione delle idee, criticando le restrizioni dovute alla direzione capitalistica della globalizzazione stessa da parte delle Corporations. Era una posizione nella quale c’era qualcosa di buono, perché si teneva ferma l'esigenza della costruzione del genere e si sviluppava una critica della sua amministrazione capitalistica. Tuttavia era anche una posizione ingenua, perché la globalizzazione del genere deve comunque avere a che fare con il commercio internazionale e la liberalizzazione degli scambi. Mentre invece - e qui entra in gioco la seconda componente, quella luddista - i Social Forum pretendevano di coniugarla con la negazione dello sviluppo delle forze produttive, con la decrescita, con la piccola produzione locale e artigianale. E con la negazione del ruolo dello Stato nazionale come degli organismi sovranazionali e regionali, immaginando una rete di produttori indipendenti in armoniosa cooperazione, secondo un sogno anarco-proudhoniano di esodo. In questo modo, per questa ingenuità, è stata completamente mancata la questione di una reale democratizzazione degli organismi sovranazionali, che a sua volta si sarebbe potuta porre però solo a partire da un riconoscimento del ruolo ancora persistente degli Stati nazione. Tutto ciò ha lasciato un vuoto spaventoso, che la critica della globalizzazione da destra ha provveduto a riempire. È qualcosa di simile a quanto è accaduto nella Germania di Weimar. Quando la sinistra ha sottovalutato clamorosamente la questione nazionale, rispetto alla quale era la più titolata a intervenire, lasciando campo aperto alle destre.
All’epoca, Karl Radek fu uno dei pochi comunisti che negli anni Venti compresero la lezione leninista sul nesso tra questione nazionale e questione sociale. Proprio la scarsa ricezione della sua linea, in un contesto politico e ideologico ancora fortemente influenzato dal luxemburghismo, spalancò le porte all'egemonia dell’estrema destra sulla piccola borghesia tedesca. La situazione oggi è completamente diversa, ovviamente, perché anche se avessimo le migliori posizioni soggettive manco esistiamo. Però le sue parole possono essere ancora di utile orientamento. Ma quando Radek parla dei tedeschi come di un «popolo che fa parte della famiglia dei popoli che lottano per la propria liberazione» e esalta la «libertà di tutti coloro che lavorano e soffrono in Germania», troviamo formule decisive per distinguere l'internazionalismo universalista e il mondialismo anti-imperialistico del leninismo dal mero sovranismo piccolo-borghese come dal cosmopolitismo astratto.
Sono parole pronunciate da Radek tre anni dopo aver stroncato la frazione cosiddetta "na-zional-bolscevica" di Amburgo (esecrata da Lenin nell’Estremismo), gli equivalenti di quei rozzo-bruni che oggi vorrebbero fare il “fronte comune anticapitalista oltre destra e sinistra". Ieri come oggi, nella contestazione dei processi di globalizzazione le destre fanno certamente leva sulle contraddizioni e i disagi sociali che essi provocano, ma lo fanno con l’obietttivo chiarissimo di una contestazione della costruzione del genere umano e della riaffermazione del primato bianco e euro-occidentale. In queste aree politiche comincia già adesso a farsi strada una rivendicazione aperta del diritto dell’Europa alla ricolonizzazione del mondo, a partire dall’Africa. Per il momento c'è ancora qualche remora ad affrontare questo tabu. Ma se il linguaggio razziale non è praticabile, esso viene metaforizzato nel senso delle differenze culturali.
Di fronte a questa ripresa delle destre, la sinistra è impotente perché assente. La sinistra non ha ancora smaltito la sconfitta di sistema della fine della Guerra Fredda, sebbene in molti casi non voglia ammetterlo. Percepisce vagamente gli errori commessi in questi decenni ma ormai è troppo tardi. Ed ecco che di fronte a certi argomenti "sociali" è esposta all’egemonia delle destre. Così come negli anni passati è stata completamente egemonizzata dalla narrazione neoliberale, oggi è succube della revanche piccolo borghese. L'attrazione verso Trump, o Putin, l'esigenza di un uomo forte che magicamente risolva ogni contraddizione e indichi la via giusta, è in questo senso la compensazione proiettiva di una impotenza acquisita, rispetto alla quale non sembra esserci via d’uscita. Del resto, questo atteggiamento codista è favorito da decenni di politica neobonapartista, la quale in Italia è stata sperimentata proprio a sinistra. Penso all’uso disinvolto del maggioritario, o al mito delle primarie e della leadership carismatica, tutte cose che chiamano in causa responsabilità precise dell’estrema sinistra.
 
Quali dovrebbero essere le parole d’ordine di una sinistra autonoma che si ponga l'obiettivo di recuperare il consenso popolare - il popolo della Rust Belt, per capirci - senza tuttavia cedere alle debolezze nostalgiche di un ritorno al protezionismo?
Il segreto della democrazia moderna è nell’unità conseguita dalle classi subalterne in un secolo e mezzo di storia. Ceti sociali dispersi e debolissimi nel XIX secolo, attraverso il conflitto sono riusciti ad affermare la propria dignità, tanto che il primo aspetto della lotta di classe consiste in una lotta per il riconoscimento della comune umanità. Ma i deboli possono difendersi dai forti e sconfiggerli solo se uniscono le proprie debolezze. La crisi della democrazia moderna, che è la crisi di un riequilibrio sociale avvenuto appunto nell'interesse dei più deboli (i più forti non hanno bisogno della democrazia), è di conseguenza proprio la frantumazione di quella unità. Una frantumazione che è avvenuta nel corso di due o tre decenni.
La prima cosa da fare perciò è capire dove siamo, capire che usciamo da una sconfitta storica e che alla fine degli anni Ottanta è iniziata una fase di resistenza e di ritirata strategica che durerà per decenni. Non c’è nessuna ragione di credere che il compito che abbiamo davanti - che è un compito obbligato e che consiste nel riunire ciò che è stato diviso, nel perseguire una nuova unità che, sola, può consentirci di difenderci - possa richiedere meno tempo di quanto non ne abbia già richiesto nell’epoca della costruzione del movimento operaio. In questo senso, dobbiamo ripercorrere oggi, in condizioni diverse, quanto è stato fatto dai nostri progenitori politici. E per far ciò dobbiamo prendere atto che siamo di fronte a un compito di lunga durata, il cui contenuto è la ricucitura del mondo del lavoro e di un’alleanza di ceti sociali attorno ad esso.
È un compito che richiederà 20 o 30 anni, sempre che partiamo subito, e che comporterà un massiccio lavoro culturale, sindacale e politico che sarà per un lungo tratto oscuro e misconosciuto. Ma se questa è la prospettiva che abbiamo di fronte, l’ultima cosa che dobbiamo fare è disperderci in quello che è ormai lo sport nazionale della sinistra in Italia: la preparazione delle liste elettorali. Finché la misurazione elettoralistica della nostra impotenza sarà l’ossessione pressoché unica della sinistra - e dunque finché due o tre generazioni non avranno passato la mano - non ci sarà tempo e non ci saranno energie sufficienti per occuparci di quello che è invece il compito principale ma che viene sempre rimandato.
Per il resto, si tratta di fare il mestiere della sinistra riscoprire la centralità del lavoro e riscoprire il fatto che le classi sociali esistono, che esse sono in conflitto perché alcune sono più forti e altre più deboli -altro che “popolo" indifferenziato nel quale tutte le vacche sono nere... - e sono la dimensione fondamentale dei processi in atto. Tutto il resto è importante, certamente, e anche le elezioni lo sono; ma nulla ha senso se non a partire da ciò, da questo preliminare lavoro di radicamento.
In che modo, ad esempio, mettersi tutti dietro a D'Alema dovrebbe modificare in senso progressivo i rapporti di forza nella società e dare finalmente un programma condiviso e sensato a chi sinora non è mai riuscito nemmeno a capire cosa vuole dalla vita, conciliando strategie che sono sempre state opposte nel nome del comune interesse al superamento del quorum? Lo abbiamo già fatto innumerevoli volte e ogni volta ci siamo divisi il giorno dopo: non funziona. Le camarille come quella di D'Alema e Vendola, da questo punto di vista, sono semmai proprio quegli incomprensibili marchingegni che spingono la sinistra dispersa a esprimere la propria frustrazione votando i grillini o astenendosi.
Mi chiedo: quale essere senziente, dopo aver ripetutamente verificato nel corso di 20 anni di merda che nei vigenti rapporti di forza un determinato percorso politico, magari sensato in altre epoche, non offre altro sbocco se non - di compromesso al ribasso in compromesso al ribasso -un ulteriore slittamento a destra, si ostina a ripetere il medesimo errore ad ogni nuovo baluginare delle elezioni, sbavando cupido al pensiero dello scranno e ratto rimuovendo ogni accenno di autocritica formulato dopo l'ultimo recentissimo fallimento, perché tanto “non c'è alternativa"? È anche a partire da questo contesto che va spiegato il successo del Movimento 5 Stelle.
Scorciatoie perciò non ce ne sono, con i baffi o senza. Se non facciamo i conti con la realtà e con noi stessi - Europa, migrazioni, capitale e lavoro, fisco e Welfare - nemmeno Togliatti redivivo potrebbe salvarci, altro che D'Alema. Non siamo più espressione di bisogni e interessi sociali reali. Un'epoca è finita per sempre. Finché non riusciremo ad esserlo, stiamo a casa che è meglio. La fiducia e il consenso si riguadagnano con un umile lavoro di ricucitura di lunga durata, non giocando a risiko a tavolino. Tutto ciò spiace assai, perchè dio sa quanto sarebbe necessario un processo di convergenza a sinistra. Ma un processo serio, programmatico e ancorato a dei referenti sociali reali, non questi trucchetti da ceto politico che riproduce se stesso.
Il problema a questo punto è un altro. Quasi 30 anni di maggioritario hanno devastato i partiti politici, che già non se la passavano particolarmente bene. Adesso abbiamo un accenno di proporzionale che non solo è virtuale (la spinta alle coalizioni crescerà in relazione all'altezza degli sbarramenti), ma è soprattutto privo di quelle forme fondamentali di auto-organizzazione e partecipazione delle classi sociali che sono indispensabili al suo funzionamento. Tutte le forze politiche rimangono infatti sigle in franchising e comitati elettorali in perpetua competizione interna e privi di programma e autonomia. Nessuna di esse ha una proposta condivisa e sensata su ciascuna delle questioni fondamentali, dall’Europa alle migrazioni, dal rapporto capitale-lavoro all'ambiente. Ma non sarà possibile ricostruire un programma politico che aiuti la ricomposizione del mondo del lavoro se non ricostruiremo anche le forme della nostra organizzazione, se non ricostruiremo nel XXI secolo quel tessuto politico, sindacale, associativo e cooperativo che ha segnato la fortuna e la crescita del socialismo dal XIX.
 
Analogamente, come si esce dalla contrapposizione fanatica - anche questa interna alla sinistra - tra chi sostiene la funzione progressiva a-priori della moneta unica e chi invece vede in essa l'origine di tutti i mali?
Più leggo in giro più me ne convinco: né quelli che sono assolutamente certi che sarebbe meglio uscire dall’euro, né quelli che vogliono rimanere ad ogni costo - parlo degli esperti di queste faccende, non degli sprovveduti dei social network - hanno in realtà la piu pallida idea delle conseguenze dell'una e dell’altra scelta, sul breve, medio e lungo periodo. Per lo più sviluppano un ragionamento politico e ci costruiscono sopra un discorso, forti del fatto che comunque non dipende certamente da loro e nessuno gliene chiederà mai conto. È evidente che il nocciolo della questione è squisitamente politico, come del resto in tutti i ragionamenti relativi all’economia. Proprio per questo, bisognerebbe invece affrontare queste questioni in maniera lucida e non dogmatica, senza ridurre la politica a tifo e propaganda.
Penso che la questione del rapporto con i'UE e l'Euro sia paradigmatica dello stato di impotenza delle classi subalterne e persino della ‘‘tragicità" della loro condizione. Nel senso che esse si trovano letteralmente in un vicolo cieco. Sono in difficoltà sia in un caso che nell’altro e non esiste uno scenario che si presenti come immediatamente più favorevole, perché in entrambe le circostanze ciò che conta sono i rapporti di forza reali tra le classi e questi rapporti in nessun modo sarebbero messi in discussione dalla scelta di uscire come da quella di rimanere In quest'ultima alternativa, dunque, ciò che è in gioco è in primo luogo una resa dei conti tutta interna alle classi dominanti stesse.
È ormai a tutti chiaro ciò che del resto era già chiaro sin dall’inizio, ovvero che l’architettura di Maastricht non è neutrale ma politicamente orientata. L'Euro e l’attuale UE nascono con l’obiettivo esplicito di ridurre il costo del lavoro e ri-sottomettere le classi lavoratrici, consentendo una facile accumulazione di ricchezza alle classi proprietarie. In questo, l'Euro è stato un grande successo ed è evidente che lo scenario di una persistenza degli attuali assetti sia uno scenario di destra estrema tecnocratica. Uno scenario nel quale andremo incontro a ulteriori umiliazioni del lavoro, costretto a vendersi a un costo sempre più basso.
In questo senso, poiché nel giudizio storico-politico ciò che conta per capire se un processo sia progressivo o regressivo sono appunto i rapporti di forza, è del tutto fuori luogo l’analogia che alcuni sostenitori dell'UE fanno tra il processo di convergenza europea e quello che ha condotto agli Stati nazionali, in particolare alla formazione di quello italiano e di quello tedesco Perché in quei casi il processo finiva per metter capo a una costellazione progressiva, in quanto metteva almeno in parte in discussione l'Ancien Régime, doveva fare i conti con i residui di feudalesimo presenti in quei paesi, favoriva la diffusione dei principi liberali, facilitava l'unificazione delle classi subalterne e la loro lotta per aumentare i salari. La convergenza europea ottiene invece esattamente l'effetto programmatico opposto. Mentre il superamento dell'anarchia e del particolarismo verso lo Stato nazionale era un processo progressivo, qui è avvenuto l’inverso e la UE, come ha dimostrato Vladimiro Giacché, è in contraddizione con quell'equilibrio relativo dei rapporti di forza definito dalla Costituzione italiana, la quale è a sua volta un vero e proprio monumento alla lotta delle classi subalterne in Italia. Lo Stato nazionale è stato storicamente il luogo nel quale la classi lavoratrici hanno accumulato la maggior quota di ricchezza e potere, è stato il luogo della democrazia moderna. Chi denuncia le posizioni dei difensori dello Stato nazionale come retrograde, antiprogressiste, ecc. ecc. dice solo sciocchezze perché non si pone nemmeno il problema di fare i conti con un bilancio dei rapporti di forza. Magari quella situazione potesse essere ripristinata! Le ragioni per cui le posizioni euroscettiche lasciano perplessi, perciò, non hanno niente a che fare con la paura ridicola del “nazionalismo", oltretutto in un paese che è una semicolonia e che da un sano nazionalismo - ovvero dall'internazionalismo - avrebbe tutto da guadagnare. Le ragioni sono altre. Anzitutto, infatti, già dentro la cornice nazionale i rapporti di forza “costituzionali" erano stati squilibrati in favore delle classi dominanti già molto prima dell’adesione all’Euro. È dalla metà degli anni Settanta che è iniziata la restaurazione borghese. Soprattutto, però, nelle condizioni attuali non ci sono dubbi sulla tragicità della situazione in cui ci troviamo se rimanere significa ancorarsi a destra, anche l'uscita avverrebbe a destra.
In questo senso possiamo misurare in tutta la sua portata la vera e propria catastrofe politica compiuta da Tsipras e dai suoi sostenitori, i quali sono una vera e propria iattura, un'ipoteca e una zavorra per chiunque voglia impegnarsi a ricostruire il campo progressista. Se fosse stato fatto il necessario e preliminare lavoro internazionale, ci sarebbe stata la possibilità di un’uscita da sinistra dall’Euro, che costituisse un modello e che ponesse le basi per una ridiscussione del processo di integrazione europea tramite un incastro, nel nome delle classi subalterne, tra il conflitto organizzato dal basso e una costellazione di Stati nazionali, la quale avrebbe potuto cercare le proprie sponde. Invece la sinistra, che per la sua cultura politica non è internazionalista ma è cosmopolita e succube dell'europeismo ideologico strumentale, ha avuto terrore e si è tirata indietro. È stata perduta così un’occasione storica. L'unico vero caso di uscita è stato infatti Brexit, e cioè una fuoriuscita che sin dall'inizio è stata ampiamente egemonizzata da destra.
Ecco allora che nel primo caso, Remain, abbiamo l'egemonia di una destra tecnocratica interessata a gestire nei propri interessi il libero scambio. Ma nel secondo, Exit, abbiamo l'egemonia di una destra populista protezionista a base piccolo borghese, che inevitabilmente scaricherebbe sul costo del lavoro i margini di svalutazione della eventuale Lira 2.0 nei confronti dell'Euro, in maniera analoga a quanto per ragioni diverse avviene oggi. Sia in un caso che nell'altro a rimetterci sarebbero i segmenti inferiori del mercato del lavoro.
C'è chi ritiene addirittura possibile un fronte ampio che guardi con favore a questo mondo della piccola borghesia in fibrillazione. Ma anche tra chi semplicemente ritiene che con un'Exit comunque si determinerebbero condizioni più favorevoli e la sinistra potrebbe giocarsi meglio le sue carte, a mio avviso sbaglia suonata: la sinistra sarebbe completamente fagocitata e ci vorrebbero comunque decenni per ricostruirla.
Ecco allora il punto decisivo: sia nel primo scenario che nel secondo, qualcosa impedisce alla sinistra di fare ciò che dovrebbe comunque fare per rientrare in sintonia con i propri ceti di riferimento? Sia in un caso che nell'altro, quel lavoro di ricucitura di cui parlavo prima andrebbe fatto comunque. Senza quel lavoro, infatti, sia che si rimanga sia, che si esca, prenderemo solo dolorose bastonate. Rispetto alla priorità di questo lavoro, allora, la decisione sul rimanere o uscire, che tra l'altro non spetta a noi, è del tutto secondaria. Essa, anzi, potrebbe essere presa con più facilità e con la coscienza tranquilla. Perché avremmo comunque fatto i compiti a casa e ci saremmo comunque messi nelle condizioni di resistere e combattere più efficacemente, nel primo come nel secondo scenario. Ancora una volta, invece, siamo di fronte al pensiero magico. All'idea che un coniglio dal cilindro - rimanere o uscire - possa miracolisticamente risolvere tutti i nostri problemi. E possa soprattutto evitarci la fatica di quel duro lavoro di lunga durata senza il quale è meglio andare a casa sin d'ora.