venerdì 30 novembre 2012

Acqua ancora privata, denunciato Acquedotto pugliese

E' ancora una Spa nonostante le promesse di Vendola. I comitati referendari ci provano con le vie legali 

di Checchino Antonini, http://popoff.globalist.it

L'acqua pugliese è ancora privata, l'Acquedotto pugliese è ancora una spa nonostante i ripetuti annunci, tra il 2005 e il 2011, del governatore Vendola e un anno e mezzo dal referendum abrogativo, primo stop popolare alle dinamiche impresse dalle politiche neiliberiste.

Non solo l'Acquedotto pugliese, la più grande azienda del genere in Europa, è ancora una società per azioni ma i cittadini continuano a pagare la remunerazione del capitale sulle tariffe. Vendola fu esplicito il giorno della vittoria nel dire che era il giorno più bello della sua vita e altrettanto perentorio ad annunciare all'indomani della proclamazione dei referendum che lui quei soldi non li avrebbe mai tagliati. Un'assessora della sua Giunta si spinse a far pubblicare a tutta pagina su Liberazione un titolo choc, sostenendo a sei colonne che la Puglia fosse l'unica regione con l'acqua pubblica. I comitati la smentirono seccamente.

A complicare il quadro scelte di politica aziendale fortemente centrate sulla riduzione dei costi operativi, dismissione del patrimonio e indebitamento paventano una possibile privatizzazione totale dell'Aqp.

Per questo il Comitato pugliese "Acqua Bene Comune" (www.lacquanonsivende.blogspot.com) adisce le vie legali contro la Spa per la restituzione di quanto indebitamente percepito a causa del mancato rispetto degli esiti referendari e lancia l'allarme sulla privatizzazione totale con il triplice evento "E mo basta", che si terrà sabato 1 dicembre davanti all'Acquedotto Pugliese in Via Cognetti, 36 a Bari, a partire dalle ore 10.00. Quel giorno ci sarà la presentazione delle azioni legali per l'eliminazione del profitto dalla tariffa.

Verranno date, anche con un volantinaggio a tappeto in città, informazioni per l'assistenza legale gratuita per tutti i cittadini che volessero fare ricorso per l'eliminazione del profitto dalle proprie tariffe più altri dati sulla violazione del diritto all'acqua in Puglia e sul rischio di privatizzazione totale.

DI PASSEROTTI, DI TACCHINI E DI UCCELLI PADULO (SUL DUELLO TELEVISIVO TRA BERSANI E RENZI) da http://postillanea.blogspot.it

Inevitabilmente vuoto, il faccia a faccia tra Bersani e Renzi, che precede il ballottaggio delle primarie del centrosinistra. Non avrebbe potuto essere diversamente: si tratta pur sempre di un faccia a faccia tra esponenti di un partito - qual è il PD - che ha sempre mostrato fedeltà all’austerità del governo Monti. Neppure la supposta necessità di una continuità alla linea dell’attuale governo è stata mai nascosta. La Carta d’intenti sottoscritta dai partecipanti alle primarie, altro non è che il suggello del centrosinistra alle politiche da “Robin Hood al contrario” del governo Monti.

Ed infatti nel duello televisivo tra Bersani e Renzi non si è parlato di Fiscal Compact, di pareggio di bilancio in Costituzione, della riforma del mercato del lavoro e solo un accenno è stato fatto alla questione esodati. D’altronde questi sono temi fuori dalla discussione delle primarie. Il fatto è che le risposte sono necessariamente supine al volere della Troika e sono messe in forma di intenti per il prossimo governo, nella famosa Carta.
Ma mentre i candidati alla presidenza del Consiglio in quota Goldman Sachs… ops! scusate: in quota PD, chiedono scusa alla moglie ed alle figlie (Bersani) o al fratello (Renzi), rimane in sostanza senza risposta il dramma di 350.000 persone lasciate nel limbo tra lavoro e pensione; rimangono i tagli alla sanità e la negazione dei diritti sul lavoro; rimangono disoccupazione e morti di lavoro; rimangono povertà diffusa e riduzione dei servizi. Chi vive quotidianamente quei drammi non riceve scuse. Mica è colpa di Renzi e Bersani se c’è stata una riforma del lavoro ed una delle pensioni; mica è colpa del PD se il pareggio di bilancio messo in Costituzione ed il Fiscal Compact saranno un massacro sociale: è che lo chiede l’Europa (sic!).
 
Quelle questioni, che riguardano il Paese reale, che sono vissute nella vita di ogni giorno di milioni di persone e che si fanno dramma quotidiano, non sono contemplate negli studi televisivi. E quando, in maniera fuggevole, ci entrano, è solo per richiamare, chi subisce e dovrebbe essere protetto, ad una responsabilità che è di altri e cioè delle banche, della finanza e, al fondo, del capitalismo inevitabilmente in crisi, che invece vengono salvati. “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso” affermava Debord.
Eppure c’è chi continua a nutrire vane speranze in un cambiamento di rotta che possa passare dal centrosinistra. E Vendola in questo senso fa la parte dell’imbonitore, quando afferma di non poter sostenere Renzi, perché “non ha alcun cenno critico verso l'austerity e la cultura liberista” e che “sul piano del lavoro, è più a destra dell'Udc”. Come se Bersani non avesse votato i provvedimenti di assoluta austerità, figli della più estremista cultura neoliberista. Si vorrebbe far credere che con Bersani alla guida del centrosinistra e del Paese, attraverso un accordo politico con Sel si possano modificare in meglio le condizioni di lavoratori, studenti, pensionati. Ma, come diceva Ernst Bloch, il filosofo della speranza, “non ci si deve solo nutrire di speranza, bisogna anche trovare in essa qualcosa da cucinare”. Ma se gli ingredienti sono gli stessi, sia per Renzi che per Bersani, la speranza di un cambiamento reale avrà comunque il cattivo e amaro sapore della disillusione.

A quel punto ci si accorgerà che mentre Bersani fa la sua scelta “tra passerotti in mano o tacchini sul tetto”, indisturbato continuerà a volare basso il solito uccello padulo.

Tav, pessimi segnali di Fabio Balocco, Il Fatto Quotidiano


La situazione qui in valle sta peggiorando sensibilmente.
Sono stato l’altro ieri ad una serata di presentazione del libro di Livio Pepino, ex magistrato molto stimato nell’ambiente torinese e non solo, dal titolo significativo “Forti con i deboli”. Pepino ha esaminato lucidamente la situazione italiana nel suo complesso in questi ultimi anni, indicando i sintomi di un potere sempre più distante dai cittadini e di un sistema giudiziario che pericolosamente tende a colpire sempre più i deboli. Come appunto accade in valle.
Nella stessa serata ha parlato la madre del ragazzo inviato ai servizi sociali per avere semplicemente fatto volantinaggio No Tav, descrivendo la surreale situazione venutasi a creare fra loro genitori e l’assistente sociale in evidente stato di imbarazzo per una procedura assolutamente anomala. Un ragazzo segnalato ai servizi sociali senza che avesse commesso alcun reato ma solo per aver volantinato.
Ed ecco ieri alla radio la notizia dell’ordinanza applicativa di misure cautelari contro 17 persone ree di essersi introdotte negli uffici della Geostudio e della Geo Val Susa di Torino (ditte interessate agli appalti per la realizzazione della Tav). La vicenda è descritta da un giornalista che ha assistito ai fatti e non pare coincidere esattamente con ciò che viene affermato nell’ordinanza. Ma, al di là di ciò, quello che sconcerta non è tanto il fatto che le persone siano indagate, ma che siano sottoposte a misure cautelari anche molto restrittive, come comuni delinquenti. Se questo fatto lo colleghiamo con quello dei servizi sociali, abbiamo del resto la conferma che il movimento No Tav è ormai considerato eversivo. E questo non può che creare una sempre più netta frattura fra lo Stato ed i valligiani.
Lunedì andremo a Lione, dove si incontrano Monti e Hollande per l’opera inutile a manifestare, perché il potere sappia che non riuscirà a soffocare la protesta mostrando i muscoli.

Ricoverati in barelle. Ospedali, la «scomparsa» dei posti letto

121128sanitadi Michela Giachetta
«Signora, suo padre non può stare qui, non abbiamo più posti letto. Sa, i tagli…Dobbiamo trasferirlo in una clinica convenzionata ». Francesco, il padre della signora Anna, ha addosso tre infarti, 5 by pass e 90 anni. Una sera si è sentito male, i parenti lo hanno trasportato all’Ospedale Maggiore di Bologna, quello più vicino alla zona in cui abita. I controlli e l’esito: «Ha poco ferro, servono trasfusioni». Ma al Maggiore non hanno posto. Francesco viene trasferito a Villa Chiara, clinica convenzionata. Nella stanza in cui lo ricoverano c’è un altro paziente, ma un solo tavolino da letto per poter mangiare. Devono fare a turno. Mancano i pappagalli usa e getta per le urine.
L’acqua da bere non viene più fornita, se ne devono fare carico parenti e amici. E non c’è nemmeno spazio per i vestiti nell ’armadietto. «Sa, i tagli…», si sente ripetere per la seconda volta, nell’arco di poche ore, Anna. Spazi ridotti, servizi ridotti. Come in tanti altri nosocomi. Al Pertini, ospedale romano, con un bacino di utenza di 600mila persone, i posti letto vengono aggiunti, in caso di necessità, nei corridoi e nelle stanze: 12 bis, 13 bis, 14 bis. «Quando arriva qualche paziente nuovo mi avvisano con una telefonata da un altro reparto - dice un medico - Il posto letto riusciamo ad aggiungerlo, ma se dobbiamo fare qualche analisi particolare la situazione si complica, perché il letto aggiunto non ha la fonte di ossigeno e tutto quello che hanno gli altri letti». «Capita anche che pazienti appena operati rimangono in medicina non essendoci posti in chirurgia. E l’assistenza è ovviamente diversa», aggiunge un’infermiera.
Al Policlinico di Palermo quando mancano i letti si usano le barelle. «Se ci tagliano i posti e arriva un malato in qualche modo dobbiamo sistemarlo, non possiamo certo mandarlo via», spiega Renato Costa, internista e medico nucleare al Policlinico. Per i materiali, lo scambio da un reparto all’altro è prassi quotidiana. Tutti gli ospedali in Sicilia stanno dando fondo alle riserve di magazzino. «Uno dei maggiori problemi qui da noi è che manca qualsiasi struttura intermedia fra il medico di base e l’ospedale. Non ci sono i servizi territoriali. Per questo i cittadini sono costretti a rivolgersi direttamente al nosocomio », incalza Costa. A Napoli va ancora peggio, non ci sono nemmeno più le barelle disponibili. «In caso di ricovero urgente - si legge in una disposizione della direzione sanitaria dell’ospedale Pellegrini - in caso di negatività della ricerca di posti letto sul territorio e in assenza di letti di degenza e di barelle disponibili nel Presidio, si autorizza il ricovero dei pazienti direttamente in Pronto soccorso utilizzando i materassi sanificati anche senza letto». Pazienti, persone che stanno male buttate per terra. «È una cosa scandalosa - dicono i medici del pronto soccorso - La direzione sta scaricando la responsabilità di questa situazione disastrosa sulle spalle dei medici. Non siamo un Paese in guerra, in questo modo viene messa sotto i piedi la dignità dei medici e dei pazienti». I tagli dei posti letto sono una realtà con cui i cittadini stanno già facendo i conti da tempo. Dal primo gennaio la situazione peggiorerà ulteriormente. Entro fine anno è previsto un taglio complessivo pari a 7mila posti letto in meno in tutta Italia. «Ma quel dato è confrontato sul 2011 – spiega Massimo Cozza, segretario nazionale Fp-Cgil medici – Dal 2000 ad oggi sono 70mila i posti letto tagliati. Arriveremo a poco meno della metà di quelli che ci sono in Francia». Il governo mercoledì scorso ha convocato i sindacati per fare il punto sul Regolamento sui tagli che saranno attuati per i posti letto. «Una razionalizzazione dei reparti serve –puntualizza Cozza - Se si taglia da una parte, però, bisogna costruire dall’altra. Si dovrebbero istituire centri territoriali aperti h 24, con i medici di famiglia che lavorano sette giorni su sette. Questo è quello che è stato annunciato. Ma se non si trovano le risorse quegli annunci rischiano di rimanere solo slogan vuoti di ogni contenuto». Slogan vuoti e sanità al collasso. Questo il presente, il futuro potrebbe essere ancora più nero. «La sostenibilità futura del Servizio sanitario nazionale potrebbe non essere garantita», ha dichiarato nei giorni scorsi il premier Mario Monti, provocando polemiche e reazioni. La Cgil, in maniera netta, aveva replicato: è ormai chiaro che vogliono privatizzare la salute. Ieri il presidente del consiglio ha parzialmente rettificato quella frase: «Sostenere che si deve rendere il servizio pubblico pienamente sostenibile non ha nulla a che vedere con una logica di privatizzazione. Il diritto alla salute e l’organizzazione pubblica dei servizi sono requisiti irrinunciabili». Ma, ha aggiunto Monti, per mantenere il servizio sanitario nazionale è necessario introdurre le «innovazioni e gli adattamenti che la situazione richiede». Se sulle risorse da trovare e sul come trovarle restano molti dubbi, sui tagli c’è piena certezza. Per il 2013 ammontano complessivamente a un miliardo. Tagli «inaccettabili», per le Regioni che ieri, in un documento approvato sulla legge di stabilità, durante la Conferenza delle Regioni, hanno chiesto al governo di «ritornare ad un livello di finanziamento per il 2013 del Fondo sanitario nazionale pari almeno a quello dell ’anno precedente».
da Pubblico

Legge elettorale. Una "porcata" maggioritaria che piace anche a Grillo di Franco Ragusa*

Di votare con il Porcellum non va più ad una buona parte del Paese. Non sono però più di questo avviso il PD  e, con sempre più forza, Beppe Grillo.

Se fosse possibile cambiare domani stesso il Porcellum, togliendo l'assurdo premio di maggioranza, ci sarebbe solo da festeggiare per la conquista di un esercizio del diritto di voto pieno, senza condizionamenti e trucchi contabili, dove, cioè, nessun voto potrebbe valere più di altri: una testa, un voto, e fine della porcata!
Ed è per questo che, peraltro, alle scorse elezioni molti elettori protestarono nei seggi, in quanto non era possibile votare con questa legge elettorale.
Le stesse cose le chiedeva la raccolta di firme per il quesito referendario del comitato Passigli-Sartori-Ferrara, poi boicottato dai soliti noti che, con molti più mezzi, oscurarono un referendum sicuramente ammissibile per dirottare oltre un milione di persone su di un quesito referendario palesemente inammissibile.
Ma al di là delle polemiche, il dato certo è che di votare con il Porcellum non va più ad una buona parte del Paese, per cui, sinché c'è speranza, chissà che non sia la volta buona.
Certo, potrebbe pure esservi la possibilità che un'eventuale modifica della legge elettorale da parte di questo Parlamento potrebbe farci cadere dalla padella alla brace.
Ma al di là di questi più che fondati timori, domandiamoci cosa avremmo da obiettare nel caso l'attuale legge elettorale venisse modificata in meglio. Magari fosse! per l'appunto.
Non sono però più di questo avviso il PD  e, con sempre più forza, Beppe Grillo.
Per il garante dell'M5S l'attuale legge elettorale, cioè il Porcellum, non si deve toccare, e non perché l'obiettivo reale di buona parte del Parlamento potrebbe non essere quello di eliminare una "legge elettorale incostituzionale" (così definita anche sul suo Blog ancora lo scorso anno, si veda il post: "Le elezioni del Titanic"). No, ciò che Beppe Grillo va sostanzialmente denunciando è l'esatto contrario: se tolgono il furto di seggi determinato dal premio di maggioranza, il Movimento 5 Stelle non può vincere le elezioni.
Siamo cioè di fronte ad una congiura che ha il solo scopo di impedire la vittoria dell'M5S.
Sulla stessa lunghezza d'onda, come sopra ricordato, anche il PD.
La sintonia tra le due forze politiche, convinte entrambe di poter vincere le prossime elezioni e di poter così conseguire un largo premio di maggioranza, arriva addirittura sino al punto di paventare gli stessi timori.
Se cambia il Porcellum ci ritroveremo con il Monti bis.
Ora, con tutta l'antipatia politica, molta, che si può provare per l'attuale Presidente del Consiglio, peraltro in "pista" anche grazie al forte sostegno parlamentare del PD, di fronte ad un simile "spettro" non vi è che una risposta: è la democrazia, bellezza! con tutte le difficoltà da dover superare che essa comporta, perché chi non ha la maggioranza dei voti non può avere la pretesa di rappresentare la maggioranza degli elettori.
Piccolo dettaglio da non trascurare, infatti, ma che con molta facilità viene dimenticato, è che i seggi che in questi ultimi anni di maggioritario sono stati indebitamente spostati da una parte all'altra non erano delle forze politiche, ma di quegli elettori che si sono visti derubare del diritto alla rappresentanza, cioè del diritto riconosciuto all'art. 49 della Costituzione "di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale".
Ben venga, quindi, il "Colpo di Stato italico" denunciato da Beppe Grillo sul suo Blog, se questo potrebbe restituire agli elettori ciò che a loro spetta per intero.
Tanto più che all'evocazione dello spettro Monti Bis, venisse meno l'attuale premio di maggioranza, si potrebbe rispondere evocando uno spettro non meno insidioso: e se invece dell'M5S o del PD, a prendere il 20-30% di premio di maggioranza fosse proprio una coalizione pro-Monti?
Non bastano i danni che il bocconiano si è rivelato in grado di fare pur non essendo sostenuto da una maggioranza omogenea? Vogliamo addirittura correre il rischio di vederlo a capo di una maggioranza super blindata?
E sì che il dominio del Berlusconi padre-padrone del Paese, grazie ai regali delle leggi elettorali maggioritarie che si sono susseguite dal '94 ad oggi, è di ieri l'altro.

Coordinatore di www.riformeistituzionali.info

Mercati finanziari: un esperimento dal vivo di Claudio Conti, www.contropiano.org

Il crollo del prezzo dell'oro - 25 dollari in un minuto - consente di guardare da vicino il funzionamento della "speculazione finanziaria". Che costituisce "i mercati".

Ci sono notizie che spiegano meglio di un trattato come funziona la speculazione dei e sui mercati finanziari. Là dove le variabili in gioco sono il volume dei movimenti su un certo titolo, le disponibilità liquide e non di chi muove i pezzi sulla scacchiera, la rapidità e imprevedibilità di alcune decisioni, la conoscenza di informazioni “utili” concetrata in pochissime persone. Questa relativa a una speculazione singola – una delle decine di migliaia che avvengono ogni giorno – è apparsa stamattina sull'organo di stampa che più di tutti tiene d'occhio questi movimenti: IlSole24Ore, proprietà di Confindustria.

Improvviso scivolone dell'oro. Il lingotto perde 25 dollari in un solo minuto

Sissi Bellomo

Tre milioni e mezzo di once, tanto oro quanto se ne può estrarre in un anno dalle miniere del Canada. Agli hedge funds ieri è bastata una manciata di minuti per venderne altrettanto al Comex. Si trattava di lingotti di carta – almeno 35mila future, raccontano i trader – ma l'effetto sulle quotazioni del metallo è stato reale e dirompente: un calo verticale, di 25 dollari in un solo minuto, quello di apertura della seduta. L'oro ha poi continuato a deprezzarsi per circa un'ora, toccando un minimo di 1.705,50 $/oncia e recuperando in seguito solo parzialmente le perdite (in serata quotava intorno a 1.715 $).
Lo scivolone è arrivato come un fulmine a ciel sereno. Per ore gli analisti hanno cercato di ricostruirne le cause, giungendo ad un'unica conclusione certa: non si è trattato di un errore. Ad escluderlo è intervenuto il Cme Group: «È stata una liquidazione guidata dal mercato – ha dichiarato un portavoce – Non ci sono stati "fat fingers" (errori nella digitazione dell'ordine, Ndr) né errori tecnici».


L'ipotesi del "ditone" era una delle più gettonate fra i trader, che all'avvio degli scambi al Comex avevano visto apparire sugli schermi un singolo ordine di vendita da 7.800 lotti. Di qui è partita la reazione a catena: l'oro ha sfondato al ribasso il supporto dei 1.730 $ e, man mano che altri si accodavano all'improvvisa tendenza ribassista, sono partiti i "sell stops", ordini di vendita automatici, che scattano al di sotto di una soglia di prezzo predefinita, che molti operatori usano per limitare le perdite.
All'origine del crollo è possibile che vi sia stato un fondo impegnato in vendite allo scoperto: far cadere l'oro sotto 1.730 $, in modo da accelerarne la discesa, era un obiettivo deliberato, suggeriscono alcuni osservatori. Altri sono convinti che il responsabile sia un hedge fund guidato da algoritmi, che ha iniziato a liquidare in risposta all'indebolimento dell'euro: in coincidenza con la caduta dell'oro, che è di solito inversamente correlato al dollaro, il cambio della divisa europea è in effetti sceso sotto la soglia di 1,30.


Un'altra "coincidenza" evidenziata da alcuni analisti riguarda l'intensa attività rilevata ventiquattr'ore prima sul mercato delle opzioni: martedì c'erano stati forti acquisti sulle opzioni put (che danno diritto a vendere) per gennaio a 1.700-1.790 $/oz.
Qualcuno, infine, cita anche il ritardo con cui parecchi investitori – forse a causa della recente festività del Thanksgiving – stanno riportando le loro posizioni in vista della scadenza del future per dicembre. Domani è il "first notice day", in cui bisogna dichiarare se si intende prendere consegna fisica dell'oro, e le posizioni aperte su questo contratto sono ancora insolitamente alte: molti avrebbero già dovuto spostare le loro scommesse sul mese successivo.
La cosa secondo noi più significativa è che neppure chi dentro il mercato ci vive ha capito davvero perché sia accaduto quel che è accaduto. Troppe variabili, troppa tecnologia in tempo reale, troppe interconnessioni tra “punti fermi” differenti (valore del dollaro, dell'euro, dell'oro, scadenze e prenotazioni, necessità di realizzo in soggetti giganteschi ma sconociuti), troppe volontà che non fanno un disegno coerente.

L'impressione è che in realtà non ci sia alcun disegno. Ogni squalo si muove per conto suo, alla ricerca di un boccone, pronto ad azzannare altri squali se vanno in difficoltà, altrettanto pronto ad allearsi contro schieramenti più grandi. Tutto temporaneo, veloce, non ricostruibile ex post. Una decisione avviene in tempo reale in base a x informazioni e mette in moto processi dagli effetti tendenzialmente globali, se ne hanno la massa critica. L'analisi ex post prenderebbe un tempo infinatamente più lungo. Soprattutto, non servirebbe a nulla e a nessuno, perché non c'è nulla da imparare che già non sia noto.

Chi vive dentro queste dinamiche ha una sola possibilità di sopravvivenza: adottare la regola del colpisci per primo, rinunciare a spiegazioni troppo complesse o sistemiche, fuggire quando c'è aria di incertezza.

Questo sono “i mercati” che ci “chiedono” di rinunciare a un modello sociale inclusivo, a un'occupazione stabile, a una pensione dignitosa e a un'età che permetta di vivere ancora un po', a una sanità e un'istruzione pubblica, alla difesa di beni e comparti industriali di interesse strategico, ecc.

Una dinamica antropofaga che vede nell'umanità e nelle sue realizzazioni soltanto “cibo” da accumulare. Si chiama modo di produzione capitalistico e, ora che è in crisi feroce, diventa più cattivo. Da cui non è possibile uscire o "esodare" da single, coppia o gruppi.

Torna a casa in tutta fretta, c’è l’Udc che ti aspetta di Matteo Pucciarelli, Micromega

Un tempo alla sinistra si chiedevano idee, programmi, progettualità, visioni e infine azioni di governo di sinistra. Tradotto: salvaguardia e ampliamento del welfare state, politiche per il lavoro, per l’ambiente, diritti civili, moralità, spesa pubblica indirizzata al bene pubblico e così via. Adesso ci si accontenta degli odori. «Voglio sentire profumo di sinistra dalle parole di Pier Luigi Bersani», annuncia Nichi Vendola.
Nel mentre il reality delle primarie va avanti appassionando le folle, tutti felici di spendere due euro per scegliere il più carino e fotogenico (sì perché tutti e tre condividono la stessa Carta d’Intenti, firmata peraltro pure da chi ha votato domenica scorsa: l’avete letta?), all’orizzonte si stava l’ineluttabile destino. E nel mentre ovunque si formano capannelli spontanei di cittadini che si sferzano a vicenda a colpi di regole, regolette, codicilli, certificati medici da presentare e comma dei comma para-bis, c’è un uomo con il suo partito che si gode lo spettacolo adagiato sul divano. Si chiama Pier Ferdinando Casini. L’uomo che incarna la conservazione più totale, sul piano dei diritti sociali e civili.
Distratti dal fantastico concorso, gli elettori di sinistra si sono scordati che ad aspettarli c’è lui, fedele alleato di Berlusconi prima, fedele oppositore di Prodi poi, oppositore a corrente alternata dell’ultimo Berlusconi, sostenitore estasiato del governo Monti adesso. Se ne sono ampiamente scordati i militanti ed elettori di Sinistra e Libertà, i quali in estate erano pronti a fare le barricate («Udc? Giammai!») e adesso, scossi dal sogno infranto, si apprestano ad ottemperare a tutti i desiderata di Bersani – il quale com’è noto senza l’Udc non esce nemmeno a comprare il pane. Matrimoni gay? No, Casini dirà di no. Ritiro delle truppe dall’Afghanistan? No, Casini dirà di no. Stop alle commesse militari? No, Casini dirà di no. Piano di edilizia popolare? No, Casini (Caltagirone) dirà di no. Rispettare l’esito dei quesiti referendari? No, Casini (Caltagirone) dirà di no. Ripristino dell’articolo 18 e leggi contro la precarietà? No, Casini dirà di no. Patrimoniale? No, Casini (Caltagirone) dirà di no. Imporre il rispetto della legge a Marchionne e a Riva) No, Casini dirà di no. Leggi contro la corruzione? No, Casini dirà di no.
Come si farà a “spostare a sinistra” l’asse di un futuro governo di centro-centrosinistra con forti dosi di destra (Renzi) resta un mistero al quale nessuno sa rispondere. O forse l’idea di Vendola è un’altra: far eleggere in parlamento un plotone di cani da tartufo. Al posto dei tartufi, annuseranno (se la trovano) la sinistra.
PS. Altra cosa andrebbe ricordata all’elettorato del Pd, che per anni ha accusato Rifondazione Comunista e company di aver fatto cadere Prodi (sicuramente la seconda volta a torto). Si scordano che ai tempi di Prodi, Casini e i suoi stavano direttamente all’opposizione.


Renzi contro BersaniCasiniVendola 
di P.F., www.controlacrisi.org

Ma quale profumo di sinistra, le primarie puzzano di centro, e come un uovo marcio puzzano sempre di più ogni giorno che passa. Prendiamo per esempio le dichiarazioni di Renzi delle ultime 24 ore. IrRenzi, inutile negarlo, vince comunicative su Bersani 5 a zero, e riesce a spiazzare con una semplice frase l'intero apparato del Pd(s) con i satelliti aggiunti. Pensate alla faccia che hanno fatto Vendola e Diliberto nel sentire ieri sera Renzi annunciare che se vince lui non ci sarebbe nessuna alleanza con Casini. Oppure pensate al magone con il quale gli elettori di SEL si apprestano a votare per un candidato, quello che profuma di sinistra, che proprio ieri sera ha rilanciato invece a reti unificate l'alleanza PdSel con l'UDC. Roba da far andar fuori di testa vero? Certo, ha ragione Niki quando afferma che Renzi non ha bisogno di Casini perchè lui è Casini, ma ha torto quando non dice che Bersani ha bisogno di Casini per governare sullo stesso impianto di Renzi. In questa maionese impazzita delle primarie, finisce che dal punto di vista comunicativo, l'uomo anti inciucio diventa il sindaco di Firenze, mentre tutto il resto, viene confinato nelle vecchia politica, nell'apparato che difende la sua sopravvivenza contro il nuovo che avanza. Così, paradosso per paradosso, uno come Niki che aveva fatto la sua fortuna nella richiesta del rinnovamento contro i D'alema finisce anch'egli per essere rottamato da Renzi che nel forum di Repubblica di oggi annuncia che sul lavoro non solo lui la pensa come Ichino (PD) ma anche il 36% di quelli che hanno votato alle primarie domenica scorsa. Ma non è finita qui, perchè nel simpatico battibecco che ne è nato, il Sindaco di Firenze si permette pure di ironizzare con il Presidente Pugliese su temi altissimi come il concetto di liberismo. Renzi dice che lui è libero ma non liberista, e rivolgendosi malignamente a Niki dice che non è stato lui a fare l'accordo con Don Verzè. Con Casini - dice Renzi - SEL ci governa in molte parti. Vendola incassa e reagisce menando duro, dando al sindaco di Firenze del "giovanotto sull'orlo di una crisi di nervi", che incarna "l'inciucio sublime fra sinistra e liberismo". Con la sua spavalderia dice il Governatore pugliese "sta devastando il significato" della competizione democratica. "Il rispetto delle regole -sottolinea Vendola - è fondamento di ogni cultura della legalità, mentre il cambio delle regole in corsa è stato un ingrediente continuo degli anni del berlusconismo".
Ps: State tranquilli, e non agitatevi troppo, il 2 dicembre, a primarie concluse tutti troveranno il giusto equilibrio per governare insieme.

Il welfare degli egoisti di Manuele Bonaccorsi, www.left.it

«Il nostro Sistema sanitario nazionale potrebbe non essere garantito se non si individuano nuove modalità di finanziamento», ha dichiarato il premier Monti martedì scorso. Tradotto: niente certezza della cura, la sanità dobbiamo pagarcela da soli. Poco male: per noi “casta” dei giornalisti è già così. Abbiamo una cassa sanitaria professionale, si chiama Casagit, che ci garantisce senza spendere un euro un’assistenza sanitaria completa, comprese le lenti da vista, le costosissime cure dentistiche, riabilitazioni ortopediche. In pulitissime cliniche, senza lista d’attesa. Splendido, no? Per la precisione, cotanto lusso non è proprio gratis. Lo paghiamo nella nostra busta paga, un contributo mensile, tanto più alto quanto più elevato è il salario. Quindi, se lo Stato abbandona il diritto alla cura, per chi scrive e per i suoi colleghi non è un problema. Oddio, non proprio per tutti i colleghi. I giornalisti contrattualizzati, che sono sempre meno, stanno in una botte di ferro. Ma i nostri collaboratori, quelli che sono pagati a pezzo, i portavoce degli uffici stampa, la pletora di partite Iva delle televisioni, loro la Casagit non ce l’hanno. Peggio per loro, no?
Ecco, la questione posta da Mario Monti funziona proprio così. Siccome non possiamo permetterci più il diritto “universale” alla salute, non esiste altra soluzione che “privatizzare” la sicurezza sociale. La conseguenze è che solo chi lavora, è già forte contrattualmente e ha paghe più alte, può godere di quel diritto. Come in America: se lavori hai la sanità, se no fatti tuoi. Si chiama “welfare contrattuale”, è una battaglia della Cisl che sul tema aveva avviato un profondo dialogo con l’ex ministro Maurizio Sacconi. Il tema è precipitato anche nel recente accordo sulla produttività, non firmato dalla Cgil, dove si prevede di detassare i contributi per il welfare contrattuale a livello nazionale e aziendale. Secondo quell’accordo, addirittura, potrebbero esserci sistemi di welfare diversi tra diverse aziende di uno stesso settore produttivo. Se lavori in Maserati hai il welfare, se stai in Fiat no. E tutti gli altri? Non resta che chiedere la carità. Non è una boutade. Lo scriveva proprio Sacconi, nel suo libro bianco sul welfare. Servirebbe l’opposto: poiché il mondo del lavoro è cambiato, e la certezza dell’impiego è purtroppo un ricordo del passato, ci vuole un welfare universalistico, che sostenga tutti: lavoratori e disoccupati, precari e dipendenti stabili, anziani e giovani. Susanna Camsussosostiene che l’accordo sulla produttività «sancisce il principio che prestazioni pubbliche quali la sanità e il welfare possono trovare forme complementari solo per una parte della popolazione, sottraendo risorse pubbliche a beneficio di tutti». Tradotto: se i protetti “fanno da sé” pagano meno tasse. E se pagano meno tasse si riducono le protezioni per tutti i non protetti. Il welfare al contrario, l’egoismo fatto principio. Possiamo dirlo chiaramente? Il premier, con questa dichiarazione, dimostra la sua rispettabilissima natura politica. Il professore si troverebbe del tutto d’accordo con le proposte portate avanti da Romney che si opponeva al Medical care di Obama. è ideologicamente e politicamente l’ultimo epigono di una stagione dell’economia e della politica globale che si chiama neoliberismo. Che ha portato alla più grande “redistribuzione” di risorse dal lavoro ai ricchi che la storia recente ricordi. Ci risponderanno che il welfare è un lusso che non possiamo permetterci, ce lo dice l’Europa, che ci impone di tagliare la spesa pubblica. Ma se l’Europa davvero ha l’obiettivo politico di distruggere i sistemi di welfare nazionali, allora questa non è la nostra Europa. Non perché siamo “antieuropei”. Ma perché Bruxelles (e Berlino) ha dimenticato di essere europea. Ormai è americana, peggio di Romney.

L’ultimo canto di Guccini: «Sì, questo mio disco è un addio»

121129guccinidi Michele Primi
«Buongiorno signore e signori. Cosa facciamo? Parliamo del mio disco? È nuovo, e sarà anche l’ultimo». Francesco Guccini è umanità e qualità d’altri tempi: «Sono nato nella prima metà del secolo scorso, che suona come un’epoca lontanissima. Ad una certa età si comincia ad essere spaventati dal mondo intorno». Il Circolo dei Combattenti e Reduci di via Cadomosto, a Milano, è una finestra sul passato. Una balera, luci sgargianti e specchi d’annata, pane, salame e vino, prezzi popolari e un altro ritmo, musicale e di vita. Lo ha scoperto sua figlia Teresa, giovane e bella.
Si chiude un cerchio: Guccini torna da dove era partito, la balera: «In cui mi sono esibito sopra e sotto al palco, prima come ballerino di liscio in cerca di ragazze, poi come musicista. Tanti anni fa». Era il 1961, Guccini è giornalista alla Gazzetta di Modena ed entra a far parte di un gruppo di musica da ballo che si chiama prima I Marinos e poi I Gatti. Le osterie bolognesi, il Moretto e Vito, gli anni di quello che lui definisce «il rumore nottetempo» e l’esordio come cantautore nel 1967 con Folk Beat n.1 devono ancora arrivare. Guccini è voluto venire qui, nella balera, per presentare il suo sedicesimo album, L’Ultima Thule, il primo da Ritratti del 2004. Sarà anche l’ultimo: «Le cose dette sono state già dette. Fare canzoni mi è sempre più difficile. La voglia di suonare la chitarra è sparita».
Si chiude una pagina di storia della canzone italiana, quella scritta da un maestro della parola che ha raccontato quarant’anni di vita, società ed ideali. L’Ultima Thule è un disco breve ed efficace, semplice e vero come il folk. Otto canzoni registrate con gli amici di sempre (Flaco Biondini, Vince Tempera, Ellade Bandini, Antonio Marangolo) che si muovono intorno ai suoi temi fondamentali. Francesco Guccini si definisce un artigiano, lo dice in Gli Artisti: «Fabbrico grappoli di illusioni che svaniscono nella memoria», ed è con la cura di un artigiano che costruisce canzoni che parlano ancora di noi e della nostra storia. Due pezzi riportano indietro ai valori fondanti della repubblica: Su in collina è la traduzione di una poesia dialettale di Gastone Vandelli che racconta l’o m i cidio del partigiano Brutto sull’A ppennino modenese, Quel giorno d’aprile parla della liberazione e descrive l’Italia come «una donna che balla sui tetti di Roma». « C’è un terzo episodio di questa storia, ed è quello che racconto ne Il testamento dei pagliacci» dice Guccini. «I pagliacci siamo noi cittadini, vessati oggi come allora da episodi sconcertanti. La speranza è la stessa, che le cose possano un giorno cambiare».
L’addio di Guccini alla canzone italiana è intenso e commovente, ma non malinconico. È il mondo che cambia insieme alla lingua italiana tanto amata («Un tempo i fiumi straripavano, ora invece esondano. Qualcuno di voi sa dirmi perché?»), le canzoni che non vengono più, i negozi di dischi che spariscono come i cinema. Rimangono gli autogrill, protagonisti di una delle sue canzoni più belle. E la poesia della natura, la memoria e l’immaginazione, la fantasia rimasta intatta, che spiana la strada al Guccini scrittore che ha ancora molto da dire. «Mi ricordo quando da bambino andavo giù al fiume con il mio amico Franco Casari. Scorreva il Limenta che si getta nel Reno, è già Emilia. Portavamo sempre con noi coltello e fiammiferi, rubavamo le patate e le cucinavano sul fiume. Era la gioia del furto e del gioco. Lui mi diceva: vivi in città, chissà quanti film hai visto. Io non avevo il coraggio di dirgli che non avevo soldi per andare al cinema, e allora i film me li inventavo». Tutto comincia e finisce nel paese di Pavana, trenta chilometri di tornanti nei boschi in provincia di Pistoia, luogo dell’ispirazione che oggi è la casa di Guccini: «In Canzone di notte n.4 ho inserito un dialogo con i miei zii, per tornare indietro ai tempi in cui vivevo nel mulino dei miei nonni. Mi dicevano di spegnere la luce, perché la notte è fatta per dormire e non per leggere»: da quelle notti «vissute in lungo e in largo», protagoniste di molte canzoni (e di Notti , forse il pezzo più bello di L’Ultima Thule) è nato un cantante scrittore che ha amato Borges (dalla sua lettura è nata l’idea dell’ultimo disco), l’avventura e la politica. E che saluta senza rimpianti, con un disco che ha in copertina la foto di un veliero che viaggia in un mare di ghiaccio all’ottantesimo parallelo scattata da un amico esploratore, è stato registrato tutto nelle antiche stanze del mulino di Pavana e porta il titolo che ha sempre desiderato: «Ho sempre pensato che il mio ultimo disco si sarebbe intitolato così, fin dai tempi di Radici del 1972. Le canzoni sono state tante. Ho ancora la scrittura, che mi piace e mi diverte».
Pubblico - 29.11.12

Adele sfida i potenti "Ipocriti, questo è il nostro funerale", www.sinistrainrete.info

«Caro ministro Clini, caro magnifico rettore: oggi state celebrando un funerale, non l’inaugurazione della nostra università». Scena surreale, a Parma, alla cerimonia di apertura dell’anno accademico: a scuotere l’aula è una ragazza, Adele Marri, portavoce del collettivo studentesco “Anomalia Parma”. Una requisitoria memorabile. La ragazza parla per cinque, interminabili minuti: parole durissime, scolpite nell’aria. Una denuncia drammatica, che ha la fermezza composta e terribile di un testamento. E’ la vigilia di una morte annunciata: fine della scuola, della libertà, della democrazia. Fine dello Stato di diritto. E fine del futuro, per decreto dell’infame Europa del rigore. Lo scenario: crimini contro l’umanità di domani, quella dei giovani. Sentenza senza appello. E senza neppure la dignità di un commento: ammantati di ermellini, gli emeriti membri del senato accademico restano ammutoliti, dietro al clamoroso imbarazzo del “magnifico rettore”. 
«Prima, il rettore ha detto che l’università è un luogo libero», esordisce Adele, che protesta: lezioni sospese per permettere a tutti di partecipare alla cerimonia inaugurale, «e invece quello che abbiamo trovato è stata un’università blindata da cordoni di polizia e carabinieri con scudi e manganelli».
Il rettore? «Si è barricato nel suo palazzo». Per questo, aggiunge la giovane, studentessa di psicologia, «non gli possiamo credere quando dice che l’università è un luogo democratico e che gli studenti sono la sua parte più importante». Mobilitati, i ragazzi, contro la politica di austerity del governo Monti: dopo la riforma Gelmini, la “cura” dei tecnocrati è il colpo di grazia. «Stiamo assistendo all’ininterrotto smantellamento dell’università e della scuola pubblica». Il risultato sarà «la nascita di scuole autonome, asservite alle logiche di mercato, grazie all’ingresso di sponsor privati nei consigli d’istituto». Aumenta il potere dei dirigenti scolastici, svanisce il ruolo dei docenti e scompare la rappresentanza studentesca, ridotta ormai a una «chiara farsa». L’università «si sta trasformando in un’azienda, con un cda composto da rappresentanti dell’industria», che a Parma si chiamano Barilla.
Tagli alla ricerca e finanziamenti alle scuole private, mentre le tasse universitarie costano sempre di più. C’è anche la tassa regionale per il diritto allo studio: «Chiedono a noi studenti di pagarci il nostro diritto allo studio». Burocrazia blindata, con la proroga dei rettori in carica, mentre si tagliano anche le borse di studio. «Noi siamo giovani senza prospettive di studio e di lavoro. Siamo studenti e studentesse sempre più precari. E i più fortunati – se così li possiamo definire – riescono a malapena a trovare dei lavoretti che permettono ogni tanto di tirare un po’ il fiato: quasi sempre lavori in nero, sfruttati, sottopagati, senza nessun diritto, senza nessuna garanzia». Condizioni critiche, per chi deve mantenersi: «Viviamo in case o stanze a prezzi inaccessibili. Cerchiamo ogni giorno di districarci tra bollette e affitti, tasse universitarie, libri: spesso non riusciamo a permetterceli, figuriamoci se riusciamo ad andare una sera al cinema, a teatro».
C’era una volta la libertà di studiare: «Vogliamo sceglierlo noi il nostro percorso formativo, vogliamo informarci e approfondire – oltre i confini, sempre troppo stretti, imposti dai corsi di studio. E vogliamo studiare secondo i nostri tempi, ma poi ci dicono che siamo dei “fuori corso” sfigati». E’ un sistema sleale, coi giovani: «Ci impongono dei ritmi di produttività che sono assolutamente estranei alle nostre vite». Manca lo spazio per esercitarsi: «Vogliamo fare esperienze, all’interno dell’università e non solo, ma ci tagliano i corsi e i laboratori. Siamo costretti ad accontentarci di stages e tirocini gratuiti perché non ci possiamo quasi mai permettere i costi esorbitanti di un master». Sempre peggio: «Prima ci hanno detto che bastava la laurea triennale per essere pronti a entrare nel mercato del lavoro. Poi ci hanno detto che non basta, che serve la laurea specialistica – quindi altri soldi e altre tasse. Poi ci hanno detto che dobbiamo farci anche un dottorato, e magari un master e un anno di studi all’estero, che chiaramente non ci possiamo permettere. Questo è quello che l’Europa dell’austerity e dei poteri forti sta offrendo a un’intera generazione».
Al termine della cerimonia ufficiale di Parma, il ministro dell’ambiente Corrado Clini ha conferito la “medaglia d’oro al merito ambientale” a un docente dell’ateneo parmigiano, il professor Antonio Moroni. «Peccato che il nostro ministro Clini non sembra essere molto ferrato, in tema di ambiente e di salute», lo attacca la portavoce degli studenti. Piuttosto, Clini sembra «interessato, insieme al suo governo, a difendere i profitti di chi sta avvelenando e devastando il territorio, da nord a sud». L’Ilva di Taranto, l’inutile minaccia della linea Tav in valle di Susa, le grandi navi che insidiano la laguna di Venezia. E poi il nucleare, per cui Clini si era detto “favorevole ad una riflessione”, contro il palese “no” dei cittadini italiani. E ancora: gli Ogm nell’alimentazione, «di cui il governo ha non solo legittimato, ma – seguendo le direttive dell’Europa (ancora una volta, “ce lo chiede l’Europa”) – ha imposto la coltivazione: parliamo del mais geneticamente modificato». Non ultimo, il caso dell’inceneritore di Parma: «Anche qui i cittadini si sono espressi contro, però Clini auspica che si trovi una soluzione giusta – non tanto per la tutela dei cittadini e della loro volontà, quanto piuttosto perché non vadano dispersi i finanziamenti già stanziati». E quindi: «Alla luce di tutto questo, ci sembra quantomeno una provocazione che oggi ci sia qualcosa da celebrare e qualcuno da premiare».
Parole che risuonano nell’aula sorda e grigia, sigillata all’esterno dai reparti antisommossa. «A noi – studenti, giovani – ci hanno definiti “bamboccioni”, “choosy”, sfigati, fannulloni». Scegliere il nostro percorso formativo, il nostro futuro, e decidere quale potrà essere il nostro lavoro vuol dire essere “choosy”? «Allora siamo tutti schizzinosi». E per favore, basta ipocrisie: «Vogliono toglierci il diritto a manifestare: perché, in questo paese, chiunque prova ad alzare la voce ed esprimere dissenso viene caricato e pestato», come gli studenti feriti nelle piazze in tutta Italia. «Noi siamo al loro fianco», sottolinea la ragazza di Parma: «Siamo al fianco di chi è stato barbaramente, violentemente – in modo assolutamente gratuito e inaudito – pestato, picchiato, fermato, arrestato». E’ arrivato il momento della verità: «La democrazia sta sparendo davanti ai nostri occhi». Esci di casa sperando di riuscire a parlare, all’interno dell’università, e ti trovi davanti «la polizia schierata». La stessa polizia che, il 14 novembre, ha «caricato in quel modo pazzesco» studenti anche giovanissimi, ragazzini di 15-16 anni: «Abbiamo visto facce spaccate, nasi rotti, ragazzi ingiustamente detenuti in carcere». Altro che inaugurazione, caro “magnifico rettore”: questo è il funerale della gioventù.

Ecco il link del discorso su youtube:  https://www.youtube.com/watch?v=yTzCMN6J0MI

giovedì 29 novembre 2012

Sinistra ornamentale o quarto polo di Giovanni Russo Spena e Dino Greco, Il Manifesto


Lo stupefacente battage mediatico che ha preceduto, accompagnato e seguito le primarie del centrosinistra, indicate con molta generosità come aria pura, anzi purissima, nel cielo torbido della politica, ha persuaso molti commentatori, taluni di pensiero fine, che proprio lì, in quell’area politica dall’incerto profilo sociale, risiedano le chance residue della democrazia minacciata di dissolvimento; e che in quei 3 milioni accorsi alle urne per scegliere (o credendo di scegliere) il conducator del futuro governo “progressista” si trovi la massa critica a supporto di un progetto riformatore.

Asor Rosa, ad esempio, ne è totalmente convinto, al punto di assegnare alla coalizione a trazione Democrat il compito (e l’intenzione) di battere il «nemico alle porte», cioè quel Monti che in un anno di esercizio del potere ha distrutto le pensioni, raso al suolo il diritto del lavoro e messo fuori legge la Costituzione, inserendo nella Carta medesima il pareggio di bilancio e, per sovrappiù, il fiscal compact.

Tutto il ragionamento di Asor Rosa si regge sull’equivoco, invero clamoroso, che il Pd abbia subito – e non condiviso – la svolta mercatista e monetarista pretesa dalla Bce. Questa credenza, non si sa bene da cosa suffragata, resiste persino alle chiarissime parole scritte nella Lettera di intenti dei democratici e dei progressisti, la cornice programmatica che vincola i partner del centrosinistra: osservanza dei patti internazionali sottoscritti dall’Italia, liberalizzazioni e alleanza di legislatura con il centro liberale. Insomma: la sostanziale continuità con la svolta liberista che ha reso l’Italia succube del capitalismo finanziario e che sta precipitando il paese in una recessione senza via di scampo non è in alcun modo in discussione.

Bene, l’esito delle primarie non fa che rafforzare questa evidenza. Matteo Renzi incassa il 36 per cento dei consensi, ipotecando una deriva centrista che già scorre forte nelle stesse file del suo segretario. Mentre Vendola coglie un risultato che, a meno di una fuga dal principio di realtà, lo consegna ad un ruolo, diciamo così, ornamentale. La presunta alleanza Bersani-Vendola ha dunque la consistenza di una bolla di sapone destinata a scoppiare al primo impatto con la politica reale, con le concrete opzioni economiche e sociali manifestamente collocate sulla scia del governo in carica.

Se ne è accorto, alla buon’ora, anche Claudio Tito (la Repubblica di martedì) che ha scoperto come il Pd «abbia cambiato pelle e non sia più lo stesso partito che eravamo abituati a conoscere e a descrivere». In verità, di metamorfosi in metamorfosi, la «fuga nell’opposto» di una parte degli epigoni del Pci, ben oltre ogni revisione socialdemocratica, è datata nel tempo ed ora raggiunge il suo epilogo estremo.

Se oggi – come suggerisce Asor Rosa – anche quanto di vitale rimane della sinistra e del conflitto sociale dei nostri giorni si rassegnasse a portare acqua a quel mulino, la crisi della democrazia e la definitiva abdicazione ad un progetto di trasformazione dei rapporti sociali sarebbero cosa fatta.

Lavoriamo invece, sin da queste ore, perché possa decollare quel quarto polo (e quella lista che lo incarni elettoralmente) senza il quale l’omologazione al pensiero e alla politica dominanti non avrebbero più alcun argine.

L’alternativa delle liste arancioni di Livio Pepino e Andrea Morniroli, Il Manifesto


Passati i giorni del trionfalismo occorre tornare a ragionare. Le indicazioni provenienti dal primo turno delle primarie del Partito democratico sono, a dir poco, articolate e non c’è da stare allegri.
Primo. Cominciamo dai dati generali: hanno votato al primo turno 3.110.709 cittadini, mentre nelle primarie dell’Unione del 2005 avevano votato in 4.311.149 e, in quelle per la segreteria del Pd, 3.517.000 nel 2007 e 3.102.709 nel 2009. C’è stata, dunque, una lieve ripresa dal 2009 ma un netto calo rispetto alle consultazioni precedenti (un milione e 400 mila voti in meno rispetto a sette anni fa). I titoli giornalistici sull’affluenza-record (avvalorati dall’incauta comunicazione iniziale che i votanti avevano superato i quattro milioni) vanno dunque ridimensionati. Certo, tre milioni di votanti sono un bel numero, ma il trend dell’allontanamento dalla politica, lungi dall’essere smentito, è confermato (a meno che si vogliano sostituire i numeri con i soliti argomenti sulla incomparabilità dei dati e quant’altro…).

Secondo. Nel dibattito precedente e successivo al voto si sono ulteriormente esaltate le derive leaderistiche e sono spariti i programmi, sostituiti dalla evocazione di categorie del tutto soggettive e scivolose, se non accompagnate da riferimenti concreti, come il “nuovo” e il “vecchio”, il “rinnovamento” e la “conservazione”. Lo dimostra il fatto che la rincorsa ad accaparrarsi le spoglie di Vendola sta avvenendo sulla base del maggior appeal dei candidati residui, entrambi totalmente interni – nei comportamenti concreti al di là delle sfumature verbali – all’agenda Monti.

Terzo. In ogni caso, e per quanto qui maggiormente interessa, il 15 per cento o poco più di consensi a Vendola (superiore di un punto percentuale a quello ottenuto da Bertinotti nel 2005, nel confronto con Prodi, ma inferiore in termini assoluti di quasi 150.000 voti: 485.689 a fronte di 631.592) sancisce, anche quantitativamente, la totale irrilevanza delle posizioni di Sel nel futuro del centrosinistra. Una irrilevanza non occultata dagli attuali corteggiamenti in vista del ballottaggio e già insita nell’impegno, sottoscritto all’inizio del percorso, «a sostenere (comunque) il centrosinistra e il candidato scelto dalle primarie alle prossime elezioni politiche».
Che fare in questo contesto per chi ha a cuore una reale alternativa al governo Monti e al montismo? Noi crediamo che ci sia un punto di partenza irrinunciabile. Smetterla una volta per tutte con i pasticci, i non detti, i compromessi al ribasso, i tatticismi a ogni costo, i “voti utili”, il perseguimento del meno peggio… È questa politica che ci ha portati al disastro attuale anche della sinistra. Diciamolo chiaro una volta per tutte. Il discrimine non sono le parole ma i fatti. Chi crede che il governo Monti sia stato la salvezza del paese e che non ci fosse una possibilità diversa di affrontare la crisi (nonostante le conseguenze recessive e l’ulteriore diffuso impoverimento delle fasce più povere), che i diktat dell’Europa delle banche (e con essi il cosiddetto patto fiscale, la modifica costituzionale sul pareggio di bilancio e la riduzione delle tutele del lavoro) siano un boccone amaro ma inevitabile, che il futuro del paese stia nelle grandi opere è giusto e coerente che stia con il centro sinistra rappresentato dalle primarie. Chi non ci crede, e pensa, al contrario, che la rinegoziazione delle politiche economiche europee (in un nuovo asse tra i paesi mediterranei), una diversa politica fiscale e di contrasto della corruzione, il ritiro da tutte le operazioni di guerra e l’abbattimento delle spese militari, la definitiva rinuncia alle grandi opere, la previsione di un tetto massimo per i compensi pubblici e privati e l’azzeramento delle indennità aggiuntive della retribuzione per ogni titolare di funzioni pubbliche consentano di finanziare un diversa via di uscita dalla crisi (fondata sulla riconversione di ampi settori dell’economia, su migliaia di piccole opere di immediata utilità collettiva, su un piano di riassetto del territorio nazionale e dei suoi usi e via seguitando) deve stare da un’altra parte. Una via di mezzo non esiste: non per settarismo o per intolleranza, ma per rispetto delle posizioni di ciascuno e soprattutto dei cittadini chiamati a scegliere (e il cui riavvicinamento alle istituzioni non si incentiva con le parole ma solo con un diverso modo di fare politica sui territori e nei luoghi della rappresentanza).

Certo – lo sappiamo bene – tutto questo non è una bacchetta magica e non è ancora la soluzione dei problemi. Ma è la condizione per provare, almeno, a risolverli. In una prospettiva lunga e complessa che è, peraltro, la sola possibile e utile. A questa prospettiva abbiamo voluto dare un contributo con la campagna “Cambiare si può”. Sabato, all’assemblea nazionale di Roma, cominceremo a costruire la casa comune di chi ci crede e vuole percorrerla: sul territorio e nelle istituzioni, nei tempi brevi e in quelli più lunghi.

Padroni senza legge, politici senza onore di Dante Barontini, www.contropiano.org


Sulla vicenda dell'Ilva si sta giocando una partita decisiva: gli imprenditori pretendono di essere esentati dal rispetto delle leggi e trovano un governo – e una classe politica ormai ridotta a imitazione di X-Factor – disposto ad assecondarli.

Ci vengono in mente le parole di De Andrè, “prima cambiarono il giudice, e subito dopo la legge”. È già avvenuto con la “riforma del mercato del lavoro”, con l'articolo 18 e tante altre infamie piccol e grandi nel corso degli ultimi decenni.

Lo stesso “accordo sulla produttività” accoglie il principio inconstituzionale che gli accordi tra le parti sociali possano prevalere sulle disposizioni di legge. Non è una forzatura polemica o ideologica, basta leggere al punto 7: “Le parti ritengono necessario che la contrattazione collettiva fra le organizzazioni comparativamente più rappresentative, nei singoli settori, su base nazionale, si eserciti, con piena autonomia, su materie oggi regolate in maniera prevalente o esclusiva dalla legge“.

Si comprende dunque come un ministro dell'ambiente – Orwell aveva visto giusto, solo che è il capitalismo reale a parlare la "neolingua" che rovescia tutti i termini nel loro contrario – possa accusare dei magistrati di “volere la chiusura degli impianti” proprio nel giorno in cui tutti i media riportano le intercettazioni in cui decine di politici, sindacalisti, amministratori, poliziotti, funzionari risultano in varia misura a libro paga della stessa azienda. Nel giorno in cui, insomma, sarebbe legittimo pensare che forse tanto entusiasmo aziendalista potrebbe risultare quantomeno inopportuno...

Qui si colloca la linea del conflitto politico e sociale, non certo su quale ventriloquo del padronato vincerà le primarie. E sembra quasi una fortuna che l'indicato “regista” delle operazioni pro-Riva, al secolo Nichi Vendola, sia arrivato soltanto terzo, perdendo dunque l'occasione del ballottaggio più fasullo della storia. Potremmo consigliare di rifare le primarie chiedendo:
preferite quello (Bersani) cui si scrive per far fuori un senatore sinceramente ambientalista (Della Seta),
o quello (Renzi) che non lo avrebbe mai portato nemmeno in Parlamento,
oppure quello che guidava una formazione in liquidazione chiamata “Sinistra, ecologia, libertà” mentre “rassicurava” Riva e sta contrattando l'eventuale nomina a Commissario Europeo se per caso Bersani (non accadrà, tranquilli...) dovesse diventare premier?

Ecco, vista da quest'angolatura, forse 3 milioni di votanti avrebbero trovato altro da fare...
 



La famiglia Riva è a questo punto la sintesi dell'imprenditoria italiana. Il contrasto tra interesse privato e interessi pubblici è qui esemplare. Ogni suo comportamento è “tipico”, comune a tutti i padroni di una certa dimensione.

Felice Riva ha acquisito lo stabilimento di Taranto nel 1995, in seguito alla crisi e alla liquidazione della Finsider, società del gruppo Iri, quindi di proprietà statale. Una privatizzazione in piena regola, dunque, che è costata a Riva una miseria garantendogli però quasi il monopolio della produzione d'acciaio in Italia. Impianti più piccoli, come Piombino, furono affidati invece a Lucchini. La privatizzazione non era dovuta a una presunta inefficienza del “pubblico” rispetto al privato, ma alla più generale crisi dell'acciaio in Europa, che venne gestita a livello comunitario con tanto di lista degli impianti da chiudere (memorabile il caso di Bagnoli, chiusa appena conclusa una costosissima ristrutturazione).


Riva non ha investito una lira nella modernizzazione dello stabilimento. I macchinari e l'organizzazione generale della produzione sono ancora quelli dell'inaugurazione, nel 1965. Ogni centesimo di profitto non è stato dunque reinvestito nell'attività – nel core business, come dicono i patiti dell'economia borghese - ma nascosto nei paradisi fiscali e quindi riversato nel mare magnum della speculazione finanziaria.

Gli investimenti veri sono stati tutti in corruzione. Riva si è costruito una rete di protezione molto articolata “ungendo” o stipendiando politici nazionali, mezzo ministero dell'ambiente, amministratori locali, poliziotti, giornalisti, funzionari, controllori di vario livello. E naturalmente del sindacato. Anche la Fiom, a Taranto, non si è certo coperta di gloria; l'operazione “pulizia”, scattata circa un anno fa, è stata tardiva e soprattutto incompleta.

Quando la magistratura si è finalmente attivata, questa rete di protezione si è messa in moto all'unisono. Soprattutto a livello ministeriale, mediatico e sindacale. La nuova “autorizzzione integrata ambientale” esce dagli stessi uffici e dalle stesse mani della precedente, del 2011, che nelle intercettazioni l'avvocato dell'Ilva così riassume: “la Commissione ha accettato il 90% delle nostre osservazioni e la visita allo stabilimento riguarda solo il 10%. Non avremo sorprese”.

Questo è l'imprenditoria italiana. Questo è lo Stato italiano, questo il suo governo, “tecnico” o politico che sia.

Questo stesso governo pensa ora di militarizzare l'impianto con un decreto che lo dichiari “zona di interesse strategico”. Una presa in carico dei costi da parte dello Stato per mantenere in piedi l'attività, risanare per quanto possibile lo stabilimento e poi restituirlo al “privato” delinquenziale. La militarizzazione impedirebbe alla magistratura di mettere il naso in quel che accade lì dentro d'ora in poi; silenzierebbe la stampa, privando la popolazione delle informazioni minime sui pericoli per salute; inchioderebbe i lavoratori ai macchinari, condannandoli al silenzio e impedendone la normale conflittualità sindacale.

Non si tratterebbe di una nazionalizzazione, è evidente, ma solo di una secretazione di quanto verrà fatto per garantire i profitti privati con risorse pubbliche.

Eppure la nazionalizzazione delle imprese abbandonate dai “prenditori” in fuga è una necessità che emerge dai fatti, da quel che accade in altri paesi europei, dal bisogno di mantenere una struttura industriale tale da supportare le necessità “strategiche” di un paese. Il governo francese, per esempio, sta valutando di ricorrere a questa soluzione per mantenere l'attività degli altoforni francesi a Florange, in Lorena, che ArcelorMittal vorrebbe dismettere. Ne ha dato annuncio addirittura il presidente Hollande, in conferenza stampa congiunta con il premier belga Elio Di Rupo.

L'unica cosa che non si può fare è assistere passivamente allo smantellamento di quel che è stato costruito con i nostri sacrifici – soldi pubblici, tasse uscite dalle nostre tasche – soltanto perché abbiamo un governo di banchieri che teorizza e pratica la distruzione dei beni pubblici in favore delle imprese private. Non ci interessa neppure sapere se queste “imprese” siano dirette da industriali veri (come Lakshmi Mittal, che in Italia possiede la Magona di Piombino, e vorrebbe chiudere anche quella) o capintesta “prendi i soldi e scappa” come i Riva. Vale anche per l'Alcoa e per altre cento situazioni dello stesso genere.

Quel che serve a tutti, che è interesse pubblico, va conservato. In mani pubbliche e con il controllo primario dei lavoratori. Quei lavoratori che ieri a Taranto gridavano “i padroni siamo noi” ci dicono la più semplice e sincera delle verità.

«Operai lasciati soli. La sinistra oggi non esiste». Intervista a Fausto Bertinotti

121128bertinottiIntervista a Fausto Bertinotti di Marco Berlinguer, Pubblico
 
«È da molto che preferisco non parlare, ma ho seguito le interviste che state facendo con Pubblico e lo trovo importante. Ci sarebbe bisogno di un luogo dove ricominciare a discutere».
Fausto Bertinotti mi riceve con la sua consueta gentilezza. Da tempo ha rinchiuso i suoi impegni tra sporadiche lezioni in alcune università e la sua rivista Alternative per il socialismo. Sono andato a trovarlo con curiosità. Provo a tirargli fuori qualcosa sulle primarie. Ma ci vuole quasi il forcipe.
«Ho una grande ritrosia a intervenire sulla prima linea. Comunque, se devo - al di là dell ’istanza della partecipazione, che scavalca lo stesso ragionamento politico - io credo che la carta d’intenti abbia costituito una prigione. Entro quei confini, non si è potuta aprire una dialettica veramente politica nelle primarie.
Per esempio, tra parità di bilancio o no. Ed ha prevalso inevitabilmente un conflitto fuorviante tra vecchio e nuovo». Va bene. Ci samo tolti il dente. E adesso, visto che hai letto le precedenti interviste, scegli tu da dove vuoi cominciare.
Forse potremmo iniziare da quello che rispondono sia Rossanda che Rodotà, quando gli chiedi che cosa c'è stato di interessante dopo l'89 sulla scena europea e mondiale: i movimenti. Immagino non ti sorprenderà: ma anche io credo che si debba partire da lì, da queste realtà e potenzialità.
Parliamo allora del tema dell'efficacia, che non c'è, come dice la Rossanda? Va bene, però facciamo un passo indietro. Partiamo invece dalla sconfitta. Nel 1989 c'è stata una sconfitta storica. Molti di noi l'hanno sottovalutata. Forse perché non amavamo quei regimi. Ma è vero, come dice Hobsbawm: il 1989 chiude il secolo breve. E lo chiude con una sconfitta storica. E allora, se vogliamo capire le difficoltà oggi dei movimenti, forse conviene partire da un'altra grande sconfitta, che è stata molto importante per il movimento operaio.
Quale?
La comune di Parigi del 1871.
Accipicchia. E perché?
Perché anche allora si dovette elaborare una sconfitta. E anche allora il tema che si posero tutti, da Marx in giù, fu quello di come conquistare la vittoria, o come diremmo oggi, l'efficacia. Alla fine quella ricerca generò l'invenzione geniale del partito operaio, sia nella versione tedesca che leniniana. Però, pensaci, per arrivarci, fu necessario un lungo ciclo, durato decenni, di transizione. Ci furono tanti tentativi, moti, grandi conflitti, una grande idea teorica che prende forza. Ma tutte le forme di organizzazione restarono a lungo incerte e labili.
Insomma tempi lunghi?
Capisco l'impazienza verso i movimenti. Ma siamo all'indomani di una sconfitta storica, ancora più grande, anche se meno violenta. D'accordo. Assumiamo l'analogia. Non c'è tuttavia qualcosa nei nuovi movimenti che mette in scacco le forme di organizzazione, unificazione e quindi di efficacia che abbiamo conosciuto nel '900?
Sono d'accordo. Anch'io come la Rossanda sono sicuro che qualcosa rinascerà. Ma non credo che il problema dell'efficacia si possa risolvere rifacendo il partito del '900. E neanche il sindacato. Però certe difficoltà non sono nuove. Pensa – alle origini del movimento operaio - ai conflitti a fuoco tra operai generici e specializzati, quando gli uni funzionavano come massa di manovra contro gli altri; o tra operai e contadini; tra operai e intellettuali. Anche allora, per superarli fu necessaria una grande costruzione culturale. Il problema dell'organizzazione è sempre un problema politico a tutto tondo.
Quindi niente di nuovo sotto il sole? No, naturalmente. Siamo di fronte a un grande mutamento della composizione sociale. E ogni volta che cambiano le figure sociali prevalenti, bisogna innovare i contenuti della politica e le forme di organizzazione. Pensa all'irruzione negli anni 60, dell'operaio comune di serie e dello studente di massa; e per restare solo alla prima di queste figure, all'invenzione dei consigli di fabbrica e all'egualitarismo nelle rivendicazioni sindacali. Ma oggi, la vera differenza è un'altra. Quale?
Quello che rende drammatica l'attuale mutazione è che avviene nella totale solitudine operaia. Non ha un'armatura, né ideologica, né culturale né organizzativa. La differenza è l'assenza del movimento operaio, delle sue organizzazioni e cultura. Perché non mi si dica che la sinistra che c'è oggi in Europa è erede del movimento operaio.
E cosa è?
La sinistra prevalente oggi ha culture liberali o social-liberali, come le chiama Bellofiore. Pensa alla vicenda Marchionne o la contiguità al montismo. Non si possono spiegare se non si vede che è stato abbandonata ogni lettura di classe. Chi oggi usa in questa sinistra, categorie come salario, profitto e rendita? E questo come lo spieghi?
È che la sinistra, in tutte sue componenti, non ha saputo fare l'operazione che gli avi hanno fatto dopo la comune di Parigi. Invece di elaborare le ragioni della sconfitta, ha derubricato la sconfitta. Ha evitato di elaborare il lutto. E così non ha avuto la capacità di rielaborare le ragioni della propria esistenza. Per questo oggi i partiti sono realtà estremamente insignificanti dal punto di vista delle culture politiche. E per questo mi interessano i movimenti. Perché stanno facendo questa elaborazione? Io credo di si. Direi che acchiappano le questioni, pur senza risolverle. Forse c'è un offuscamento della lettura di classe. Ma provano a rielaborare i temi dell'uguaglianza, della democrazia e si confrontano criticamente, sia pure solo prevalentemente dal punto di vista delle conseguenze, e senza saper proporre alternative, con l'attuale capitalismo finanziario. Viceversa tutti questi temi sono stati posti fuori dell'agenda della politica. E a proposito di efficacia: quanto efficaci sono oggi i pariti? Eppure, io insisto. A me sembra che c'è davvero qualcosa di nuovo nei movimenti, che rende difficile il loro strutturarsi. Per esempio c'è un'inedita forte rivendicazione di diversità e autonomia.
Sono d'accordo. Ed è un elemento promettente, ma anche un bel casino. È promettente perché ci permette un ragionamento critico sulla nostra esperienza, che ha sacrificato diversità e libertà all'idea della vittoria o dell'efficacia. Sarei più cauto a dire all'idea dell'uguaglianza: perché secondo me, la repressione delle libertà e del dissenso nella tradizione comunista, è stata fatta più in nome della preservazione del potere o dell'efficacia dell'organizzazione. Comunque questo fatto, secondo me, è utile.
Però dicevi è anche un casino? Sì. Perché – e ce lo aveva già annunciato il femminismo –pone il tema della non rappresentabilità. Allora le donne ci mostrarono che non sarebbe stato facile immettere la loro soggettività nella cultura e nelle forme di organizzazione della sinistra. E oggi il tema si pone anche in termini di soggetti collettivi. E come si affronta?
Secondo me bisogna ripartire – più che dai partiti, che mi sembrano ormai degli elementi morti - dall'idea di coalizione. Ma la coalizione non è ciò che si prova a fare da più di 10 anni nei movimenti, senza successo? Io proverei a vedere questi anni in modo meno lineare. Sono stati anche tempi di occasioni mancate. Nel 2001, all'epoca del movimento alterglobalista. non è vero che all'ordine del giorno c'era la coalizione. Almeno in Europa, il tema era quello del rapporto tra movimenti e partiti. E sindacati. E lì c'è stato il fallimento dei partiti, anche di quelli più interessati. Ti riferisci a Rifondazione comunista? È la responsabilità più grande che sento. Rifondazione, che è stato il partito più interessato e interno al movimento non ha avuto il coraggio di giocarsi per intero la partita: sciogliersi per costruire insieme a quelle forze un progetto nuovo.
Quindi questo pensi sia stato l'errore più grande: il mancato scioglimento? Sì.
Non è stata più fatale l’esperienza di governo? Sì, dal dal punto di vista di Rifondazione non c'è dubbio.
E rispetto a quell’esperienza, cosa ti rimproveri? Non so onestamente cosa avremmo potuto fare di diverso, perché eravamo sotto il macigno dell’accusa di far vincere Berlusconi. Ma certamente ho peccato di ottimismo. Ho sopravvalutato la permeabilità delle istituzioni ai movimenti. Non ho visto la crisi istituzionale, già in atto, lo svuotamento del parlamento. Ho anche sopravvalutato la forza dei movimenti. Però il tema che propongo è che a Genova c'è stata un'occasione. Per noi che avevamo una struttura si poteva tentare quella strada.
Pensi al caso di Syriza, che si ispirò molto, all'inizio, a Rifondazione?
Possiamo non chiamarlo scioglimento. Però il punto è che la trasformazione del Synaspismos in Syriza avvenne in quel momento. Assumendo in pieno quel rapporto con i movimenti. Era niente. Erano una forza quasi insignificante. E sono diventati protagonisti sulla base della loro osmosi con i movimenti; e oggi del loro rapporto interno con la rivolta, del loro matrimonio con la rivolta.
Insomma tu dici, allora ci fu un'occasione. Ma quella stagione si è chiusa. Sì, per questo metto l'accento sulla coalizione. Perché, diversamente dal passato quando il processo di autoriforma poteva essere tentato, oggi quello che rimane sul campo in termini di forze politiche, mi sembra privo di possibilità di autoriforma. Io credo che per ricostruire una sinistra si debba pensare a un processo costituente, che parta dalle potenzialità di questi soggetti emergenti. Il tema è imparare a stimolare le nuove istituzioni che i movimenti possono darsi.
A proposito di movimenti, sei andato alla manifestazione del 14?
Sì. Sono andato a vedere gli studenti medi. C'erano anche i miei nipoti. Mi ha colpito molto l'omogeneità e la compattezza. Tutti ragazzi e ragazze tra i 14 e i 19 anni. Nessuno sopra i venticinque anni.Non c'erano leader, partiti, organizzazioni, bandiere. C'erano due soli contenitori: l'essere medi e gli istituti. E tu cosa ci hai visto?
Al di là delle rivendicazioni specifiche, io ho visto una generazione che sviluppa una coscienza critica di sé. Chi siamo? Siamo gli esclusi. Siccome stiamo fuori, vogliamo entrare. A fare che? A presentarci. Vogliamo arrivare ai palazzi del potere per dire: presente. Io ci ho visto la costruzione di un elemento identitario e anche un modo riformato di praticare la politica.
E sul tema degli scontri?
Sai quanto per me sia importante il tema della non violenza. Però se ci parli, loro ti dicono: io non sono un violento. Non voglio fare lo scontro. Però voglio passare. Perché è un mio diritto. E se tu mi fermi io mi metto il casco. E prima o poi passerò. Comunque, il tema è: chi ci parla con questi ragazzi?
Tu dici, i partiti no?
No. Questo è il punto. Io credo che ormai ci sia un'irriformabilità dall'interno del sistema politico italiano e dei partiti così come sono. Lo dimostra ciò che sta ormai fuori dal sistema politico. E lo dimostra anche il dibattito sulla legge elettorale.
In che senso?
Dico: dovresti mettere a fuoco il tema della crisi della rappresentanza. Dovresti interrogarti su quale
sistema può dare spazio e voce a chi non ha più rappresentanza. L'unico quesito che ci pone è invece come vincere una campagna elettorale. L'importante è conquistare il governo, o il tema della governabilità. Magari tenendosi il Porcellum. E di Grillo cosa pensi?
Io penso che va guardato con un occhio diverso da quello con cui siamo abituati a guardare alle forze politiche.Non perché non lo sia. Lo è. Ma perché mi sembra un esercizio un po' sovrabbondante, inutile. Vuoi che, se ci mettiamo a discutere, non abbiamo tutti fastidio per le sue forme di iper-leaderismo, l'uso del gesto clamoroso, la forma autoritaria di intervento sui gruppi dirigenti? Va bene. Però una volta fatto tutto questo, parliamo d'altro. Perché?
Perché per me è un fenomeno parallelo all'astensione. Sono due fenomeni fratelli di fuoriuscita dal sistema politico e dalla democrazia rappresentativa: con più o meno collera, sdegno, rancore, ma di fuoriuscita di massa. Che vuoi dire?
Voglio dire che è poco importante il giudizio di merito sul Movimento 5 stelle o chiedergli qual è il suo programma. Quanto il fatto di capire perché prende forza. E lo fa perché è un ariete contro il sistema politico. Il suo obiettivo è abbattere questo sistema politico. E il punto è che è un obiettivo fondato. Ha una giustificazione storica: la morte della seconda repubblica e l'esigenza di seppellirla. Solo che
questa esigenza non trova riscontro dentro il sistema politico.
Cosa pensi si stia preparando? Proprio non so dirlo. Del resto in tutta Europa non si capisce. Pensa alla Grecia. Ma
anche al crollo vertiginoso del consenso a Hollande. Comunque, se il sistema non si riforma - e io non credo sia capace di farlo - il crollo può essere traumatico. Cosa vedi tu in campo?
Da un lato vedo
sostanzialmente evoluzioni del montismo. La soluzione che la classe dirigente italiana ed europea ha trovato alla crisi italiana. E qual è?
È quella prigione a cui facevo riferimento parlando delle primarie. Un nuovo ordinamento che mira alla conservazione del modello economico e sociale, fondato su parità di bilancio e introduzione di elementi di governo oligarchico: entrambi presentati come ineluttabili, anche attraverso il riferimento ai mercati e all'Europa. E che altro?
Poi vedo i conflitti in tutte le loro manifestazioni, che rimangono tutti esterni a questa ipotesi di fuoriuscita, governata dall'alto, dalla crisi della seconda repubblica. Esprimono un'opposizione incompiuta nel corpo della società: con elementi di rivolta, ma al momento, senza alternativa. Infine, distinto, c'è il partito dell'opposizione al sistema politico. Che sarebbe?
È un conflitto che invece di essere un conflitto destra contro sinistra, classi subalterne contro classi proprietarie, è tra sistema politici e abbattimento di questo sistema. Un tempo si sarebbe detto tra l'alto e il basso della società. Un fenomeno populistico?
Sì, possiamo chiamarlo così, purché non usiamo questo concetto come una categoria immobile. E dismettiamo un atteggiamento – non dico critico, che è necessario –ma sprezzante, per indagare bene il fenomeno. Quello che oggi chiamiamo populismo, sono fenomeni molto diversi e magmatici. Perché non si sono ancora costituiti con una loro fisionomia. Comunque è chiaro: c'è una pulsione anti- elitaria, che si proietta contro la casta e i suoi privilegi, ma dietro la quale c'è un senso profondo di disagio, abbandono, frustrazione e solitudine.
E in tutto ciò la sinistra?
Io credo che una sinistra che non sia in grado di riprendere la critica del capitalismo del nostro tempo non ce la fa ad esistere. La scomparsa della nozione di capitalismo è cruciale. Questo tema non c'è più nella scena politicoculturale da 25 anni. Senza questa critica, non hai autonomia; e le forze che ti richiamano alla responsabilità sono troppo forti. E senza questa critica, anche i movimenti, o la polarizzazione alto-basso, possono anche raggiungere momenti altissimi di mobilitazione della protesta, ma non vanno ai nodi di fondo: non si risale alle cause e non si risolve il tema dell'efficacia.