domenica 30 novembre 2014

Movimenti e rappresentanza politica: il caso Podemosdi Militant


Mas podemos-spainDa diverso tempo il caso Podemos – il partito politico nato dall’esperienza del movimento degli “indignados” in Spagna – sta tenendo banco nelle discussioni di movimento. A ragione, vorremmo sottolineare, perché il caso si presta ad una molteplicità di letture affatto attuali e dirimenti per la situazione italiana. Interpretare il caso spagnolo è allora opportuno, perché può insegnarci qualcosa, per cogliere i limiti e le potenzialità di tale esperimento, insomma per generare una discussione capace di smuovere le secche politiche dei movimenti italiani. Movimenti costantemente stretti tra rifiuto della rappresentanza e crisi del politico, una vuoto di volta in volta riempito dalle peggiori imitazioni del concetto di sinistra.

Podemos nasce nel gennaio di quest’anno, a più di tre anni dall’esplosione (e dalla relativamente rapida dissoluzione) del movimento degli indignados (un movimento particolare che già aveva attirato la nostra attenzione: uno, due e tre link utili a capire cosa ne pensavamo). Una dissoluzione determinata da vari fattori anche contrastanti, il primo dei quali è la non strutturazione dell’esperienza politica, che ha portato questa al veloce dissolvimento una volta raggiunto l’apice della protesta. Un movimento politico basato esclusivamente sulla mobilitazione costante infatti non riesce a reggere alla distanza, quando fisiologicamente la mobilitazione viene meno per le ragioni più varie.
E in genere, senza strutturazione e visione politica definita, la capacità delle proteste di movimento di “cogliere l’attimo”, cioè portare a casa dei risultati stabili nel momento di massima partecipazione, è molto scarso. Una certa agilità movimentista è allora necessaria alla capacità di mobilitazione, ma senza strutturazione questa disperde troppo velocemente il capitale umano e politico attivato. Podemos conferma direttamente questa tendenza. Nonostante il “movimiento 15M” abbia continuato la propria attività assembleare, dialettica, partecipativa, radicale, anche nella fase calante della protesta, nei fatti era scomparso dal panorama politico effettivo spagnolo. La nascita di Podemos ha riportato immediatamente in auge le vertenze e la visione politica di quel movimento, e stavolta senza la necessità di una mobilitazione costante che lo ponesse al centro delle cronache. Attraverso un processo di ampio respiro democratico, il partito non solo si è dato un programma definito e chiaro, ma si è anche organizzato sul terreno della rappresentanza politica ufficiale, divenendo il quarto partito di Spagna e soprattutto un’alternativa identificabile nel calderone dell’offerta politica. Rappresentanza e “conoscibilità”, identificazione chiara di un progetto e strutturazione, non fanno rima con elezioni. Il fatto che Podemos si sia posto anche su un piano elettorale è paradossalmente la caratteristica meno interessante. E’ stata una scelta, potremmo dire anche azzeccata, ma è il risultato di un percorso politico, non l’origine di un esperimento elettorale.
Podemos struttura dunque le aspirazioni politiche di un movimento altrimenti relegato all’invisibilità, capace di generare interesse solamente nel momento di massima mobilitazione ma destinato all’irrilevanza nella quotidianità. Ovviamente parliamo di un’irrilevanza riferita alla massa di lavoratori/elettori del contesto spagnolo, che dovrebbero costituire il naturale bacino sociale di quel movimento, non di quei militanti che anche nella fase di bassa marea hanno continuato a portare avanti le ragioni della protesta. Ma se la politica riguarda la costruzione di quel feedback decisivo tra avanguardie militanti e composizione sociale, quel legame per cui un’avanguardia rappresenta le ragioni politiche di una determinata classe, allora l’invisibilità di un movimento ne descrive la sua incapacità di farsi alternativa politica. L’esperimento politico di Podemos ha colmato questa irrilevanza, e lo ha fatto tramite la strutturazione politica di un’esperienza altrimenti defunta (ripetiamo: defunta per l’opinione media ecc).
Nel merito, Podemos ha avuto la capacità di riportare il discorso egemone (e liberista) sulla casta, la corruzione politica, lo scontro generazionale, ad un quadro di valori e di proposte chiaramente di sinistra. Il programma politico uscito fuori dalla discussione interna (ed esterna) al partito è un programma chiaramente di sinistra radicale. Seppur concedendo molto alla visione socialdemocratica-keynesiana dei rapporti di produzione, nonché della retorica moltitudinaria dei beni comuni, l’orizzonte politico definito è quello della socializzazione effettiva dell’economia, della nazionalizzazione totale dei mezzi di produzione economici e finanziari principali, dell’allargamento della democrazia reale sia nella sostanza che nella forma. Purtroppo, questo programma mirabilmente chiaro è al servizio di una retorica politica promossa dal partito di un apparente equidistanza tra la destra e la sinistra, categorie giudicate sorpassate nell’attuale contesto politico. Podemos non si definisce organizzazione politica di sinistra, quanto piuttosto un contenitore dal basso per la rappresentanza di tutto ciò che si oppone “all’alto”. Una visione manichea e “spoliticizzante” che non favorisce le istanze stesse dell’esperimento politico. Dando sponda alla retorica delle soluzioni per il “bene comune” che non sarebbero politicamente orientate, il progetto spagnolo sembra avvalorare l’ideologia mercatista per cui le soluzioni ai problemi “della popolazione” non sarebbero nella politica, inevitabilmente viziata dal contrasto ideologico destra/sinistra,  ma nell’accettazione di determinate soluzioni tecniche, di volta in volta boicottate dal ceto politico per i motivi di cui sopra: corruzione, privilegi di casta, complotti di vario genere, eccetera. Purtroppo questa retorica forte copre il merito del programma, che invece, ribadiamo, è un programma nettamente di sinistra, una sinistra che potremmo anche definire comunista, sebbene non legata a vecchi modelli d’impostazione politica, sia (evidentemente) nella forma che nella sostanza. Il fatto è che le proposte avanzate da Podemos, e a cui Podemos rimanda idealmente, non sono né tecniche né impolitiche. Sono il frutto di un’esperienza plurisecolare delle sinistre di classe, di una storia del movimento operaio che le ha definite attraverso le proprie esperienze. La volontà, politica, di rompere i ponti con il passato, di non storicizzare il proprio retroterra politico, è un errore capitale per le ragioni di Podemos. Prima di tutto, perché contribuisce ad alimentare le ragioni dell’irrilevanza delle sinistre nel contesto europeo, visto l’appoggio ad un certo tipo di retorica che punta in primo luogo proprio alla scomparsa di una visione politica autonoma delle classi subalterne. In secondo luogo, perché rende tale progetto politico “scalabile” da altre posizioni. Se la dirimente non è più destra/sinistra, una qualsiasi opzione politica *di destra* potrebbe appropriarsi dello spirito e delle ragioni rappresentante dal Podemos di turno. In Italia abbiamo un esempio chiaro di questa tendenza: a forze di ripetere che non esistono più soluzioni politiche identificabili, un gruppo dirigente di destra, Grillo e la Casaleggio associati, si è appropriato di un impianto politico di sinistra rimodulandolo in chiave pacificante e liberista, razzista e anarco-capitalista. La facilità con cui Grillo si è apparentemente presentato come leader di sinistra, salvo poi demolire le ragioni della sinistra a vantaggio di un progetto politico liberista, è sotto gli occhi di tutti e risponde proprio alla stessa logica purtroppo promossa da Podemos: senza storicizzazione della propria esperienza politica, questa perde il valore di esperienza diventando permeabile a qualsiasi retorica apparentemente (post)moderna.
Il partito politico di Pablo Iglesias allora ci dice due cose: la prima, che una sintesi politica organizzata capace di rappresentare le ragioni dei movimenti di classe è necessaria allo sviluppo e alle possibilità di vittoria dei movimenti stessi. La seconda, che un cedimento all’ideologia liberista (né destra né sinistra; soluzioni tecniche; beni comuni per la popolazione indifferenziata al suo interno; lotta a presunta “caste” di privilegiati; ecc) impedisce a questi movimenti/partiti di essere vera alternativa al sistema politico-economico attuale. Podemos è nel mezzo di queste due tendenze, e il suo futuro sviluppo ne determinerà la reale consistenza.

Guido Viale: “Human Factor: un passo avanti?”

Ho letto dall’a alla zeta i materiali presentati nel sito del progetto Human Factor aperto da Sel. Da persona coinvolta nella promozione e nel sostegno dell’aggregazione di tutto l’antagonismo sociale e democratico nei confronti del governo Renzi e dell’establishment europeo di cui Renzi è interprete, considero positivo il fatto che uno dei partiti che a volte sembrano trovare la ragione delle loro scelte politiche nella propria sopravvivenza – spesso con giravolte acrobatiche nell’arco di 24 ore – si affianchi o si aggiunga al processo unitario che L’Altra Europa con Tsipras ha promosso con la presentazione di una lista unitaria alle elezioni europee. È un segno dei tempi, ma anche, sicuramente, un effetto delle recenti mobilitazioni nelle fabbriche e nelle piazze, delle spinte che hanno costretto anche la dirigenza della CGIL a voltar pagina e a imboccare la strada di una forte opposizione al governo. In spirito unitario sento però il bisogno di esplicitare alcune perplessità suscitate da quei materiali.
Innanzitutto Human Factor è un nome ridicolo (tanto valeva chiamarlo Humor Factor) e, come ha notato Massimo Gramellini su La Stampa, segnala, con l’adozione di un linguaggio e uno stile da marketing, la subalternità a una cultura imperante da cui dovremmo tutti cercare di liberarci (perché nomina sunt consequentia rerum: i nomi riflettono le cose). 
Se i compagni di Sel avessero messo per tempo a disposizione dei loro compagni di cammino quei materiali, come L’altra Europa ha fatto con loro sottoponendo fin dall’inizio a una loro valutazione un analogo documento programmatico scritto da Marco Revelli, li avremmo sicuramente consigliati di cambiare almeno quel nome. Ma qui sta il secondo punto di perplessità. Sel partecipa da tempo al processo unitario promosso dall’Altra Europa (ci sono addirittura due membri della segreteria di quel partito nel comitato operativo della lista), ma quei materiali, che pure recano traccia di una lunga preparazione, si è venuti a conoscerli solo dopo il lancio di Human Factor. Un lancio fatto anch’esso un po’ in stile marketing; per di più, nel giorno in cui L’Altra Europa teneva una conferenza stampa per presentare una la manifestazione unitaria contro Renzi e la Trojka che si è svolta il 29 novembre, e che era stata promossa da tempo. Una coincidenza che lascia il retrogusto di uno sgambetto. Si può capire, anche se non condividere, che Sel, in quanto partito, aspiri a farsi perno del processo a cui partecipa; ma un po’ più di lealtà e di collaborazione con i compagni di un comune cammino avrebbe forse giovato a tutti.
Venendo ora ai materiali presentati, si tratta di due lunghi documenti: uno di carattere generale, l’altro di carattere organizzativo. Il primo, scritto in uno stile un po’ aulico, che reca le tracce della vena poetica del presidente del partito (niente da ridire; anche Marco Revelli, nel documento messo in discussione da L’Altra Europa, ha una scrittura accurata e ricorre a metafore sorprendenti), mira a radicare l’impegno politico nella condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo. Una condizione definita dalla prevalenza della cultura liberista, dall’ideologia della crescita (le risorse del pianeta, ci ricorda Human Factor, sono limitate), dalla competizione universale di tutti contro tutti, dal consumismo, dalla sclerotizzazione della politica e delle istituzioni democratiche, dalla svalutazione della dignità dei lavoratori, dei poveri, degli emarginati. Non c’è molto di nuovo in tutto ciò, ma niente che non possa venir sottoscritto, tranne, forse, la prospettiva di “un’economia sociale di mercato”, che, espressa in questi termini, è un’idea vuota e consunta.
Il secondo  documento propone la riorganizzazione del partito in modo da renderlo più aperto e permeabile alle istanze che provengono dalla società e dai movimenti. Anche qui niente da ridire. Chi potrebbe mai proporre oggi un’organizzazione ideologicamente o burocraticamente chiusa? Ma quella riorganizzazione riguarda il partito Sel e le sue strutture; non il processo unitario in cui Sel si dichiara impegnata.
Ma il problema centrale è un altro, e non riguarda solo Sel. Tra il discorso generale del primo documento e le indicazioni organizzative del secondo non c’è per ora altro; manca la politica come mediazione tra una ispirazione o un orientamento ideale e la pratica quotidiana dell’organizzazione. È un vuoto che caratterizza in parte anche il documento di Revelli, nonostante che in esso si trovi una maggiore concretezza nella descrizione della fase politica che attraversiamo, ma altrettanta indeterminazione nell’analisi dei movimenti e delle istanze sociali che ne evidenziano le contraddizioni. È un vuoto che tutti dovremo cercare, ciascuno a suo modo, di colmare. Possibilmente insieme, anche se qui, probabilmente, le strade imboccate potrebbero divergere.
È nozione comune, sia a chi lo sostiene che a chi lo combatte, che il governo Renzi sta facendo piazza pulita dei “corpi intermedi”: tra ciò che del mondo politico sopravvive come soggetto attivo – il governo e poco più – e l’oceano “indifferenziato” della società, o quello, solo un po’ più articolato, dei movimenti che hanno invaso le piazze negli ultimi mesi si è fatta terra bruciata. Anche l’opposizione al governo, un’opposizione che miri a farsi a sua volta governo, risente di quello stesso vuoto: della mancanza, cioè, di corpi intermedi tra il progetto di un cambiamento radicale dell’assetto politico, economico e sociale e le forme assunte dalle mobilitazioni in corso. Quell’opposizione è troppo gracile sia per pesare oggi sulle scelte del governo, sia, a maggior ragione, per puntare domani a un cambiamento radicale delle politiche in atto. Ma come colmare quel vuoto? Si ha l’impressione che Sel guardi soprattutto ai processi irreversibili di frantumazione e di dissoluzione del PD e del movimento cinque stelle, per raccogliere – intorno a sé? – le frange che possono staccarsi da quei due organismi, riservando al processo di aggregazione promosso da L’Altra Europa – anche e soprattutto per lo stallo in cui è incorso, o è stato fatto incorrere – un ruolo di mero comprimario.  Anche qui, niente di strano: sarebbe sbagliato non prestar la dovuta attenzione a quei processi; o non attrezzarsi per offrire anche ad essi una casa comune. Ma è un progetto che riguarda  soprattutto la sfera politica costituita; un progetto molto rinchiuso nella dialettica degli schieramenti politici nazionali, che non sfiora che parzialmente le esigenze impellenti di larga parte di quella società che “si è messa in moto”. Sono invece gli embrioni di organizzazione di quei movimenti, in un rapporto sempre più stretto con le formazioni analoghe presenti in altri paesi europei che hanno però già percorso, come in Grecia o in Spagna, un pezzo importante di quel cammino, lo scheletro di quelle strutture che possono costituire i “corpi intermedi” di una alternativa radicale all’attuale assetto politico, economico e istituzionale dell’Europa. Un’alternativa senza cui nessun progetto puramente locale o nazionale ha qualche possibilità di spuntarla. È su questa cammino che L’altra Europa si è messa fin dal momento della sua costituzione. Un cammino che richiede di liberarsi, strada facendo, di molte delle bardature identitarie e di molta di quella zavorra costituita dai piccoli benefici che si possono ricavare da una subalternità politica al PD che hanno finora fatto sprecare le tante occasioni di una vera unità di intenti nel campo dell’antagonismo sociale e democratico. Ed è questo il terreno su cui va promosso con impegno il confronto con Human Factor.
Ho letto dall’a alla zeta i materiali presentati nel sito del progetto Human Factor aperto da Sel. Da persona coinvolta nella promozione e nel sostegno dell’aggregazione di tutto l’antagonismo sociale e democratico nei confronti del governo Renzi e dell’establishment europeo di cui Renzi è interprete, considero positivo il fatto che uno dei partiti che a volte sembrano trovare la ragione delle loro scelte politiche nella propria sopravvivenza – spesso con giravolte acrobatiche nell’arco di 24 ore – si affianchi o si aggiunga al processo unitario che L’Altra Europa con Tsipras ha promosso con la presentazione di una lista unitaria alle elezioni europee. È un segno dei tempi, ma anche, sicuramente, un effetto delle recenti mobilitazioni nelle fabbriche e nelle piazze, delle spinte che hanno costretto anche la dirigenza della CGIL a voltar pagina e a imboccare la strada di una forte opposizione al governo. In spirito unitario sento però il bisogno di esplicitare alcune perplessità suscitate da quei materiali.
Innanzitutto Human Factor è un nome ridicolo (tanto valeva chiamarlo Humor Factor) e, come ha notato Massimo Gramellini su La Stampa, segnala, con l’adozione di un linguaggio e uno stile da marketing, la subalternità a una cultura imperante da cui dovremmo tutti cercare di liberarci (perché nomina sunt consequentia rerum: i nomi riflettono le cose). Se i compagni di Sel avessero messo per tempo a disposizione dei loro compagni di cammino quei materiali, come L’altra Europa ha fatto con loro sottoponendo fin dall’inizio a una loro valutazione un analogo documento programmatico scritto da Marco Revelli, li avremmo sicuramente consigliati di cambiare almeno quel nome. Ma qui sta il secondo punto di perplessità. Sel partecipa da tempo al processo unitario promosso dall’Altra Europa (ci sono addirittura due membri della segreteria di quel partito nel comitato operativo della lista), ma quei materiali, che pure recano traccia di una lunga preparazione, si è venuti a conoscerli solo dopo il lancio di Human Factor. Un lancio fatto anch’esso un po’ in stile marketing; per di più, nel giorno in cui L’Altra Europa teneva una conferenza stampa per presentare una la manifestazione unitaria contro Renzi e la Trojka che si è svolta il 29 novembre, e che era stata promossa da tempo. Una coincidenza che lascia il retrogusto di uno sgambetto. Si può capire, anche se non condividere, che Sel, in quanto partito, aspiri a farsi perno del processo a cui partecipa; ma un po’ più di lealtà e di collaborazione con i compagni di un comune cammino avrebbe forse giovato a tutti.
Venendo ora ai materiali presentati, si tratta di due lunghi documenti: uno di carattere generale, l’altro di carattere organizzativo. Il primo, scritto in uno stile un po’ aulico, che reca le tracce della vena poetica del presidente del partito (niente da ridire; anche Marco Revelli, nel documento messo in discussione da L’Altra Europa, ha una scrittura accurata e ricorre a metafore sorprendenti), mira a radicare l’impegno politico nella condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo. Una condizione definita dalla prevalenza della cultura liberista, dall’ideologia della crescita (le risorse del pianeta, ci ricorda Human Factor, sono limitate), dalla competizione universale di tutti contro tutti, dal consumismo, dalla sclerotizzazione della politica e delle istituzioni democratiche, dalla svalutazione della dignità dei lavoratori, dei poveri, degli emarginati. Non c’è molto di nuovo in tutto ciò, ma niente che non possa venir sottoscritto, tranne, forse, la prospettiva di “un’economia sociale di mercato”, che, espressa in questi termini, è un’idea vuota e consunta.
Il secondo  documento propone la riorganizzazione del partito in modo da renderlo più aperto e permeabile alle istanze che provengono dalla società e dai movimenti. Anche qui niente da ridire. Chi potrebbe mai proporre oggi un’organizzazione ideologicamente o burocraticamente chiusa? Ma quella riorganizzazione riguarda il partito Sel e le sue strutture; non il processo unitario in cui Sel si dichiara impegnata.
Ma il problema centrale è un altro, e non riguarda solo Sel. Tra il discorso generale del primo documento e le indicazioni organizzative del secondo non c’è per ora altro; manca la politica come mediazione tra una ispirazione o un orientamento ideale e la pratica quotidiana dell’organizzazione. È un vuoto che caratterizza in parte anche il documento di Revelli, nonostante che in esso si trovi una maggiore concretezza nella descrizione della fase politica che attraversiamo, ma altrettanta indeterminazione nell’analisi dei movimenti e delle istanze sociali che ne evidenziano le contraddizioni. È un vuoto che tutti dovremo cercare, ciascuno a suo modo, di colmare. Possibilmente insieme, anche se qui, probabilmente, le strade imboccate potrebbero divergere.
È nozione comune, sia a chi lo sostiene che a chi lo combatte, che il governo Renzi sta facendo piazza pulita dei “corpi intermedi”: tra ciò che del mondo politico sopravvive come soggetto attivo – il governo e poco più – e l’oceano “indifferenziato” della società, o quello, solo un po’ più articolato, dei movimenti che hanno invaso le piazze negli ultimi mesi si è fatta terra bruciata. Anche l’opposizione al governo, un’opposizione che miri a farsi a sua volta governo, risente di quello stesso vuoto: della mancanza, cioè, di corpi intermedi tra il progetto di un cambiamento radicale dell’assetto politico, economico e sociale e le forme assunte dalle mobilitazioni in corso. Quell’opposizione è troppo gracile sia per pesare oggi sulle scelte del governo, sia, a maggior ragione, per puntare domani a un cambiamento radicale delle politiche in atto. Ma come colmare quel vuoto? Si ha l’impressione che Sel guardi soprattutto ai processi irreversibili di frantumazione e di dissoluzione del PD e del movimento cinque stelle, per raccogliere – intorno a sé? – le frange che possono staccarsi da quei due organismi, riservando al processo di aggregazione promosso da L’Altra Europa – anche e soprattutto per lo stallo in cui è incorso, o è stato fatto incorrere – un ruolo di mero comprimario.  Anche qui, niente di strano: sarebbe sbagliato non prestar la dovuta attenzione a quei processi; o non attrezzarsi per offrire anche ad essi una casa comune. Ma è un progetto che riguarda  soprattutto la sfera politica costituita; un progetto molto rinchiuso nella dialettica degli schieramenti politici nazionali, che non sfiora che parzialmente le esigenze impellenti di larga parte di quella società che “si è messa in moto”. Sono invece gli embrioni di organizzazione di quei movimenti, in un rapporto sempre più stretto con le formazioni analoghe presenti in altri paesi europei che hanno però già percorso, come in Grecia o in Spagna, un pezzo importante di quel cammino, lo scheletro di quelle strutture che possono costituire i “corpi intermedi” di una alternativa radicale all’attuale assetto politico, economico e istituzionale dell’Europa. Un’alternativa senza cui nessun progetto puramente locale o nazionale ha qualche possibilità di spuntarla. È su questa cammino che L’altra Europa si è messa fin dal momento della sua costituzione. Un cammino che richiede di liberarsi, strada facendo, di molte delle bardature identitarie e di molta di quella zavorra costituita dai piccoli benefici che si possono ricavare da una subalternità politica al PD che hanno finora fatto sprecare le tante occasioni di una vera unità di intenti nel campo dell’antagonismo sociale e democratico. Ed è questo il terreno su cui va promosso con impegno il confronto con Human Factor.
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Puglia: primarie e poi Udc col centrosinistra

di Gracco Babeuf – 

Le primarie nella rossa Puglia di Vendola si faranno. Nonostante gli strappi annunciati da Sel e le successive retromarcie. Retromarcie di natura politica, si intende. Nel senso che a Emiliano è stato sufficiente dichiarare che “i problemi sono stati superati  grazie ai valori politici e umani che sono la forza del centrosinistra”.  I problemi, come noto, sono nati dall’annuncio congiunto dei  segretari Pd e Udc del sostegno del partito di Casini al centrosinistra alle prossime regionali. Ma per proseguire la sfida tra Emiliano e il sen.Dario Stefano di Sel l’accordo è stato raggiunto sul fatto che solo dopo le primarie “la coalizione valuterà programmi e alleanze”. Cioè, le primarie di coalizione non prevedono ancora una coalizione, una coalizione che si può comporre solo su programmi e alleanze. Narrazioni. C’è da credere invece che quel che resta del partito di Casini una mano ad Emiliano alle primarie la potrebbe anche dare. Ma tant’è. Del resto su alcuni provvedimenti della giunta Vendola, come ha ricordato lo stesso Emiliano, il “soccorso bianco” è stato chiesto eccome. Non si capirebbe perchè oggi non potrebbe arrivare per Emiliano. E per dirla con lo stesso Emiliano “Tutto bene quel che finisce bene”.

Divisioni

bandiera
UNA BANDIERA COMUNE: MARXISTI E ANARCHICI NELLA I INTERNAZIONALE di Michael Löwy

Marxisti e anarchici (termini all’epoca inusuali) fecero parte dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT) – la I Internazionale – fin dalla sua origine, nel 1864. I disaccordi tra seguaci di Marx e Bakunin portarono ad un’amara scissione nel 1872. Poco dopo, l’AIT “marxista” si dissolse, mentre i seguaci di Bakunin, nella Conferenza tenuta a Saint-Imier, in Svizzera (1872), diedero vita ad una propria AIT, che ancora continua ad esistere. Per Marx, le ragioni della scissione stavano nelle tendenze panslaviste e nel frazionismo antidemocratico e cospirativo di Bakunin. Da parte sua, Bakunin riteneva che la scissione si dovesse all’orientamento pangermanistico di Marx, nonché al suo autoritarismo e al suo inaccettabile modo di comportarsi. Al di là delle scontate esagerazioni, tuttavia, entrambe le accuse contengono una parte di verità, ed è difficile attribuire la responsabilità ad uno solo dei due. Storici marxisti ed anarchici continuano a riproporre quegli argomenti, accusandosi reciprocamente della crisi dell’AIT. Pur senza schierarsi per gli uni o per gli altri, anche i ricercatori accademici enfatizzano il reciproco scontro di idee.[1] Da questo punto di vista, largamente predominante nella letteratura sulla I Internazionale, quel che si dimentica è il dato semplice ed importante che quell’organizzazione fu aperta e pluralista. Era un’associazione in cui i seguaci di Proudhon, Marx, Bakunin, Blanqui ed altri, ben oltre i disaccordi e gli scontri, seppero lavorare insieme per molti anni, adottando a volte risoluzioni comuni e battendosi gomito a gomito nell’evento più importante del XIX secolo: la Comune di Parigi. Ci sia consentito di delineare un breve abbozzo di alcuni dei momenti fondamentali di questa storia dimenticata del “tragitto comune” tra marxisti e anarchici nell’AIT.
 Poco dopo la fondazione della I Internazionale, il suo Consiglio Generale incaricò Marx della redazione degli Statuti Provvisori dell’Associazione. Il documento enunciava nel preambolo: “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi”, frase che continua a costituire la base comune di marxisti e anarchici.
Fin dall’inizio, alla I Internazionale parteciparono anarchici e libertari (utilizzo questo termine nell’accezione francese, riferito alla vasta tendenza socialista-rivoluzionaria, antiautoritaria, mentre in inglese [liberal] è stato espropriato dall’ideologia capitalista ultrareazionaria) insieme ad altri socialisti. Tra questi, in primo luogo, i seguaci di Proudhon (1809-1865), i cui rapporti con i socialisti marxisti non erano necessariamente conflittuali. Tra gli amici di Marx e gli esponenti dell’ala sinistra proudhoniana - come, ad esempio, il belga Cèsar de Paepe e il francese Eugène Varlin - c’era larga intesa. Entrambe le tendenze si opponevano all’ala destra (piccolo-borghese) proudhoniana, sostenitrice del "sedicente" mutualismo e di un progetto economico basato sul “reciproco scambio ugualitario” tra piccoli proprietari. Uno dei principali promotori del mutualismo e della proprietà privata fu il delegato francese Henri Tolain, che poco dopo, avendo sostenuto il governo borghese di Versailles contro la Comune di Parigi, venne espulso dall’Internazionale per tradimento.
Nel Congresso di Bruxelles dell’AIT, nel 1868, l’alleanza tra le due ali di sinistra – in opposizione ai “mutualisti” – diede luogo all’adozione di un programma “collettivista” presentato dal libertario socialista belga César de Paepe. La risoluzione proponeva la proprietà collettiva dei mezzi di produzione: terre, miniere, boschi, macchinari e mezzi di trasporto (Manfredonia,  L’anarchisme en Europe, PUF, Parigi.2001, p. 36).
Retrospettivamente, la risoluzione sui boschi sembra essere una delle più interessanti per quanto riguarda le sue implicazioni socialiste e ambientaliste:
 
Considerando che abbandonare i boschi all’iniziativa privata porta alla loro distruzione.
Che questa distruzione in determinate parti del territorio pregiudicherebbe la conservazione delle fonti d’acqua e la stessa buona qualità della terra, come pure la salute pubblica e la vita dei cittadini; Il Congresso decide che i boschi debbano tornare ad essere proprietà collettiva della società
(Amaro del Rosal, Los congresos obreros internacionales en el siglo XIX, Grijalbo, Messico 1958, p. 159).
Entrambe le tendenze, inoltre, sostennero la risoluzione che stabiliva che i lavoratori devono respingere la guerra con lo sciopero generale.
A Marx, che non era presente al Congresso di Bruxelles, quella risoluzione non piacque, perché gli sembrava irrealistica, pur essendo stata proposta da Charles Longuet, uno dei suoi seguaci che poco dopo sarebbe diventato suo genero, essendosi sposato con la figlia di Marx, Jenny.
Fu in quel momento che Bakunin aderì alla I Internazionale. Su molte questioni dichiarava di condividere le idee di Marx. Si incontrò con quest’ultimo durante un suo viaggio a Londra nel 1864 e poi nel 1867. Marx gli inviò una copia del Capitale. La reazione di Bakunin fu entusiasta: si congratulò con “il Sr. K. Marx, l’illustre capo del comunismo tedesco” e con il ”suo magnifico lavoro, Il Capitale”. Pensava che il libro andasse tradotto in francese, perché:
per quel che ne so, nessun altro libro contiene un’analisi così scientifica, profonda e chiara e, posso anche dire, così spietata nello smascherare la formazione del capitale borghese e il suo sistematico e crudele sfruttamento cui sottopone il proletariato. L’unico difetto del libro è che […] è scritto, solo in parte, in uno stile troppo metafisico e astratto […] che ne rende la lettura difficile e addirittura impraticabile per la maggioranza dei lavoratori. Naturalmente, i lavoratori dovrebbero leggerlo. La borghesia non lo leggerà mai e, se lo fa, non lo capirà e, se lo capisce, non vi farà mai riferimento: il libro altro non è se non la sua condanna a morte, non come individui ma come classe, scientificamente fondata e irrevocabilmente pronunciata. (Maximoff, 1953, p. 187; Bakounine, 1974, p. 357).
Non a caso, in una data tardiva come il 1879, a vari anni di distanza dalla scissione, un anarchico italiano, Carlo Cafiero, elaborò una versione divulgativa del Capitale, considerata da Marx molto utile. Certamente, le forti divergenze fra Marx e Bakunin esistettero fin dall’inizio. Il 28 ottobre 1869, in una lettera a Herzen, Bakunin manifestò il suo dissenso di principio con quello che considerava il “comunismo statale” di Marx. Nella stessa lettera, tuttavia, segnalava al riguardo di Marx:
non dobbiamo sminuire, e io non lo faccio, l’immenso servigio che ha reso alla causa del socialismo, che ha servito con intelligenza, energia e sincerità nel corso degli ultimi venticinque anni, un impegno nel quale ha superato tutti noi” (Wikipedia).
Nel 1869, nella Conferenza di Basilea dell’AIT, entrambe le tendenze approvarono una risoluzione comune che proponeva la socializzazione della terra. Mentre gli anarchici ottennero una vittoria simbolica ottenendo il sostegno significativo – ma non la maggioranza necessaria – alla loro risoluzione in favore della soppressione dell’eredità: 32 voti, su 68 delegati (23 votarono contro e 13 si astennero). Marx e i suoi amici nel Consiglio Generale intervennero argomentando che l’eredità era solo la conseguenza del sistema economico basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, e non la causa dello sfruttamento. La sua proposta – imposta sulla successione piuttosto che la soppressione – ottenne solo 19 voti (37 contrari e 6 astenuti). Bakunin considerò quella votazione la “completa vittoria” delle sue idee.
 Nella Comune di Parigi del 1871 anarchici e marxisti collaborarono nella prima grande prova di potere proletario nella storia moderna. Già nel 1870, Leo Frankel, un attivista operaio ungherese che lavorava in Francia, molto amico di Marx, ed Eugène Varlin, dissidente proudhoniano, lavorarono insieme alla riorganizzazione della sezione francese dell’AIT. Dopo il 18 marzo del 1871, collaborarono strettamente nella direzione della Comune di Parigi: Frankel come commissario al lavoro e Varlin come commissario alla guerra. Nel maggio del 1871 presero entrambi parte agli scontri con le truppe di Versailles. Varlin fu giustiziato dopo la sconfitta della Comune, mentre Frankel riuscì ad emigrare a Londra.
Malgrado la sua breve durata – solo pochi mesi – la Comune costituì la prima esperienza storica di potere rivoluzionario dei lavoratori organizzato democraticamente (con delegati eletti a suffragio generale) e di distruzione dell’apparato burocratico dello Stato borghese. Costituì inoltre un concreto esperimento di pluralismo, cui lavorarono insieme “marxisti” (anche se il termine ancora non esisteva), proudhoniani di sinistra, giacobini, blanquisti e socialisti repubblicani.
Le analisi di Marx e di Bakunin su questo evento rivoluzionario furono certamente contrastanti. Sommariamente, la posizione di Marx si può riassumere nel brano seguente:
La situazione del ristretto numero di socialisti convinti nella Comune era molto difficile. Dovettero contrapporre un governo e un esercito, rivoluzionari, al governo e all’esercito di Versailles.
Di contro a questa interpretazione della guerra civile in Francia come scontro tra due governi e i rispettivi eserciti, Bakunin sviluppò un punto di vista fortemente antistatalista:
La Comune di Parigi fu una rivoluzione contro lo Stato in quanto tale, contro quel mostro sovrannaturale prodotto dalla società.
I lettori e le lettrici bene informati/e avranno già corretto questa presentazione: in realtà, il primo brano è stato scritto da Bakunin nel suo saggio La Comune di Parigi e il concetto dello Stato (Bakunin, 1972, p. 412), e il secondo da Marx nella sua prima versione de La Guerra civile in Francia (Marx, Engels, Lenin, 1971, p. 45). Abbiamo volutamente invertito le citazioni, per dimostrare come le – innegabili –differenze tra Marx e Bakunin, tra marxisti e anarchici, non sono così semplici come a volte si suppone.
Marx, in modo interessato, si rallegrò che durante il periodo della Comune, nella pratica, i proudhoniani dimenticassero l’ostilità verso l’intervento politico del loro promotore, e che nel contempo alcuni anarchici si compiacevano che gli scritti di Marx sulla Comune accantonassero il centralismo e abbracciassero il federalismo. È certo che La guerra civile in Francia, come la dichiarazione della I Internazionale sulla Comune scritta da Marx e molti altri materiali e bozze per la loro elaborazione diedero prova dell’accanito antistatalismo di Marx. Definendo la Comune come la forma politica, finalmente trovata, per l’emancipazione dei lavoratori, insistette sulla distruzione dello Stato, questo corpo artificiale, questo boa constrictor, come lo chiamò, questa angosciante oppressione, questa escrescenza parassitaria (Marx, Engels, 2008). In realtà, non era la prima volta che Marx manifestava energicamente il suo punto di vista antistatalista. Lo aveva già fatto nel manoscritto della sua Critica della filosofia del diritto di Hegel (1843), dove scrisse:
lo Stato costringe, opprime, regola, vigila e tutela la società civile, dalle sue manifestazioni più vaste fino alle sue più insignificanti vibrazioni, dai modi di vita più generali fino alla vita privata degli individui. Nella società borghese moderna, questo corpo parassitario acquista, grazie a una straordinaria centralizzazione, una ubiquità, un’onniscienza, una capacità di muoversi accelerata e un’elasticità che trovano corrispondenza soltanto nella dipendenza senza protezione, nel carattere caoticamente informe dell’autentico corpo sociale (Gesellshaftkörper) (Abensour, La Démocratie contre l’Etat. Marx et le moment machiavélien, Le Felin, Parigi 2004, pp. 137-142; Marx, 1937, p. 236).
Il saggio sulla Comune è la più limpida manifestazione del rifiuto rivoluzionario dello Stato.
Sicuramente, dopo la Comune, lo scontro tra le due tendenze rivoluzionarie si intensificò, giungendo all’espulsione di Bakunin e di Guillaume (un suo seguace svizzero), durante il Congresso dell’Aia (1872), e il trasferimento della direzione dell’AIT a New York: di fatto, la sua distruzione.
Dopo la scissione, gli anarchici, come accennato, fondarono la propria AIT.
Al di là della scissione, Marx ed Engels non ignorarono gli scritti di Bakunin e, in determinati casi, concordavano con i suoi argomenti antistatalisti. Ne è un esempio eloquente la Critica del Programma di Gotha (1875). Nel libro Stato e anarchia (1873) Bakunin condusse una critica acuta del concetto di “Stato nazionale” utilizzato dai socialdemocratici tedeschi, attribuito (a ragione) a Ferdinand Lassalle ed (erroneamente) a Marx. Quando i seguaci di Marx si riunirono a Gotha nel 1875 per fondare il Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD), il Programma raccolse la formulazione di “Stato Popolare” per la Germania. Nella sua Critica al Programma di Gotha – scritto come contributo interno e pubblicato soltanto dopo la sua morte – Marx rigettava esplicitamente quella nozione. Di più: nella lettera all’amico Wilhelm Bracke – uno dei leader del partito – che accompagnava la copia della Critica inviatagli, Marx esplicitava che uno dei motivi per cui aveva scritto quel documento era:
Bakunin mi fa responsabile non solo dell’intero Programma del partito, ma anche di tutta la traiettoria di [Wilhelm] Liebknecht fin dal primo giorno della sua collaborazione con il Partito popolare (Volkspartei)” (Marx-Engels, 1937, p. 6).[2]
Nel marzo 1875, in una lettera ad August Bebel, Engels era ancor più esplicito: “Gli anarchici hanno in testa solo questa storia dello ‘Stato Popolare’, nonostante già l’opera di Marx contro Proudhon e poi il Manifesto dicano con chiarezza che, con l’instaurazione del sistema socialista, lo Stato si dissolverà di per sé e sparirà” (Ivi, p. 31).
IV
Anziché cercare di segnalare gli errori e le gaffe delle due parti in conflitto – non mancano le accuse scambievoli – ho cercato di sottolineare gli aspetti positivi della I Internazionale: un movimento socialista plurale, diversificato e democratico, in cui quelli che vi prendevano parte con posizioni diverse furono non solo capaci di coesistere, ma di collaborare nel pensiero e nell’azione per diversi anni, svolgendo un ruolo di avanguardia nella prima grande moderna rivoluzione proletaria. Fu un’Internazionale in cui marxisti e libertari, sia individualmente sia a livello di organizzazioni (ad esempio il Partito Socialdemocratico Tedesco), riuscirono – malgrado gli scontri – a lavorare insieme e a intraprendere azioni comuni.
Le successive internazionali – la II, la III e la IV - non lasciarono molto spazio agli anarchici. In ogni caso, in vari momenti importanti della storia del XX secolo anarchici e socialisti o comunisti sono stati capaci di riunire le forze:
1. Nei primi anni della rivoluzione d’Ottobre (1917-1921), molti anarchici, ad esempio Emma Goldmann e Alexander Berkman, diedero un appoggio critico ai dirigenti bolscevichi.
2. Durante la rivoluzione spagnola, gli anarchici della CNT-FAI e i simpatizzanti trotskisti del POUM lottarono gomito a gomito contro il fascismo, contrapponendosi alla linea non rivoluzionaria degli stalinisti e dell’ala destra della socialdemocrazia.
3. Nel Maggio ’68, una delle prime iniziative rivoluzionarie fu la fondazione del Movimento del 22 Marzo, sotto la guida dell’anarchico Daniel Cohn Bendit e del trotskista Daniel Bensaid.
Si sono anche registrati vari tentativi, da parte di intellettuali, di coniugare queste due tradizioni rivoluzionarie, come nel caso di scrittori quali William Morris o Victor Serge, di poeti come André Breton (fondatore del movimento surrealista), di filosofi come Walter Benjamin o di storici come Daniel Guérin.
Ovviamente, l’esperienza della I Internazionale è irripetibile in senso stretto, ma è molto significativo per noi che, agli inizi del XXI secolo, marxisti, anarchici, o autonomi o libertari, ecc. uniscano le loro forze e intervengano insieme, come singoli o come organizzazioni politiche (la cui esistenza non ostacola la collaborazione), nella solidarietà con gli zapatisti del Chiapas, nel movimento per la Giustizia Globale, nelle battaglie ambientaliste radicali, nelle mobilitazioni di massa degli/delle indignados/as (in Spagna, in Grecia), o in Occupy Wall Street.

[1]Ne è un esempio recente Robert Graham, “Marxism and Anarchism on Communism: The Debate between the Two Bastions of the Left, in Shannon Brincat (a cura di), Communism in the 21st Century, vol.: Whither Communism?, Praeger, Oxford, 2014.
[2]Il Partito citato era il Partito Socialdemocratico dei Lavoratori (precursore del SDAP) fondato da W. Liebknecht insieme a Bebel nel 1869 ad Eisenach. Il Volkspartei era il partito liberale borghese cui partecipò Liebknecht prima della fondazione del SDAP).
fonte: Viento Sur

La missione di Alberto Garzón di Jacopo Rosatelli, Il Manifesto


La missione di Alberto Garzón


Spagna. Intervista al candidato di Izquierda unida alle primarie di febbraio per la premiership: «Mi batto per una sinistra forte e presente nelle città e nei luoghi di lavoro». Podemos? «Ha una calcolata ambiguità ideologica e le manca presenza strutturata sul territorio»
Ha scelto l’Italia per la sua prima «mis­sione inter­na­zio­nale» da quando è il can­di­dato «forte» alle pri­ma­rie di Izquierda unida (Iu) pre­vi­ste a feb­braio. Lo spa­gnolo Alberto Gar­zón (appena 29 anni, ma già lea­der vero) è a Roma, capi­tale per un giorno della sini­stra euro­pea che com­batte la «grande coa­li­zione» al governo a Bru­xel­les. Il mes­sag­gio di piazza Far­nese è chiaro: quella con­tro le poli­ti­che di auste­rità è una bat­ta­glia comune, che nes­sun Paese può vin­cere da solo. E per cam­biare i rap­porti di forza ser­vono nuovi equi­li­bri nel Con­si­glio euro­peo, dove sie­dono i primi mini­stri: ser­vono, cioè, nuove mag­gio­ranze di sini­stra negli stati attual­mente ammi­ni­strati dalle destre. Come la Spa­gna, «allievo modello» molto apprez­zato dalla can­cel­liera tede­sca Angela Mer­kel e da molti com­men­ta­tori main­stream: «Si dice che noi spa­gnoli siamo usciti dalla crisi, ma non è vero. I fon­da­men­tali dell’economia con­ti­nuano a essere deboli: la pre­sunta ripresa si basa su lavoro pre­ca­rio, abbas­sa­mento dei salari ed emi­gra­zione, che non sono con­di­zioni per uscire dalla crisi. Non basta un lieve aumento del pil in un tri­me­stre: il pil aumen­tava anche nel 2009 e sap­piamo com’è andata», sostiene Garzón.
Qual è il signi­fi­cato poli­tico fon­da­men­tale della sua par­te­ci­pa­zione alle pri­ma­rie per desi­gnare il can­di­dato pre­mier di Iu?
In un momento di emer­genza sociale come quello che viviamo serve uno stru­mento per cam­biare la società: può essere solo una sini­stra orga­niz­zata e solida, anche ideo­lo­gi­ca­mente, come Iu. Serve, però, un rin­no­va­mento che signi­fi­chi più movi­mento e meno par­tito tra­di­zio­nale, meno buro­cra­zia: per que­sto mi can­dido. Tengo a dire che le pri­ma­rie sono impor­tanti, per­ché ali­men­tano la par­te­ci­pa­zione di per­sone nuove, ma non sono suf­fi­cienti: ser­vono soprat­tutto a sta­bi­lire un rap­porto fra base e lea­der­ship in modo tale che quest’ultima si senta sem­pre vin­co­lata a rap­pre­sen­tare la volontà dei mili­tanti. Per que­sto è molto impor­tante che le pri­ma­rie si svol­gano in con­di­zioni di garan­zia. Per inten­derci: non vogliamo che un grande impren­di­tore possa inve­stire soldi per fare eleg­gere un can­di­dato amico…
Lei parla di una sini­stra «orga­niz­zata e solida, anche ideo­lo­gi­ca­mente»: è un’allusione al fatto che Pode­mos non lo è?
In un momento di crisi come l’attuale, il ter­reno sotto i nostri piedi si sta muo­vendo a gran velo­cità: la scom­po­si­zione sociale che viviamo fa sì che le per­sone cer­chino pro­te­zione sociale. La rispo­sta può arri­vare da una sini­stra orga­niz­zata oppure fluida. A mio giu­di­zio Pode­mos è una for­mi­da­bile mac­china elet­to­rale, ma ha una cal­co­lata ambi­guità ideo­lo­gica e le manca pre­senza strut­tu­rata sul ter­ri­to­rio. Si può avere la forza per un buon risul­tato elet­to­rale, ma se manca orga­niz­za­zione nella società e chia­rezza nei pro­grammi non si rie­sce a cam­biare dav­vero le cose. Per que­sto io mi batto per una sini­stra forte e pre­sente nelle città e nei luo­ghi di lavoro, che fac­cia vera lotta per l’egemonia.
Eppure i diri­genti di Pode­mos dicono di ispi­rarsi a Gramsci…
La loro classe diri­gente è fatta di per­sone molto pre­pa­rate, con le quali ho un ottimo rap­porto, anche di ami­ci­zia per­so­nale. Il punto è che loro inter­pre­tano Gram­sci attra­verso Erne­sto Laclau, teo­rico del popu­li­smo di sini­stra, e quindi sosten­gono che non c’è più la lotta di classe. Io la penso diver­sa­mente: non ci sono sem­pli­ce­mente ric­chi e poveri, ma diverse classi sociali. Da que­sta diversa let­tura deriva una con­se­guenza impor­tante: io non credo che basti vin­cere le ele­zioni per pren­dere il potere. Il governo e il potere non sono la stessa cosa. In ogni caso, non voglio negare che siano molto bravi a rac­co­gliere l’indignazione popo­lare: è un loro grande merito che va riconosciuto.
Da più parti si è inter­pre­tata la sua can­di­da­tura come pre­lu­dio a una con­ver­genza con Pode­mos, ma le dif­fe­renze fra voi non mancano…
Voglio essere chiaro. Den­tro Iu c’è chi è a pro­prio agio con le pic­cole per­cen­tuali o con l’isolamento modello comu­ni­sti greci del Kke: io no. A me inte­ressa cam­biare la società, e per que­sto non con­di­vido le posi­zioni con­ser­va­trici, di ripie­ga­mento, che esi­stono anche nel mio movi­mento. Io voglio lot­tare per vin­cere, gio­care all’offensiva, e quindi dia­lo­gare e col­la­bo­rare con altre forze poli­ti­che: l’obiettivo è costruire una con­ver­genza attorno a un pro­gramma. E i pro­grammi di Iu e Pode­mos sono molto simili. Al momento, però, regi­stro che Pode­mos intende pre­sen­tarsi da solo al voto del pros­simo anno per­ché non intende «con­ta­mi­narsi» con gli ele­menti clas­sici della sini­stra: stanno costruendo una mac­china elet­to­rale che dice di non essere né di destra né di sini­stra. E per noi è un errore: se vinci le ele­zioni sulla base di una piat­ta­forma volu­ta­mente ambi­gua, poi cosa fai? Un altro errore è pren­der­sela indi­stin­ta­mente con ’la casta’: la cor­ru­zione è prima di tutto un feno­meno eco­no­mico, non solo politico.
Met­tiamo da parte le sin­gole forze poli­ti­che, e imma­gi­niamo che tra un anno in Spa­gna ci sia un governo di sini­stra: cosa potrà cam­biare, tenendo conto dei con­di­zio­na­menti di Ber­lino e Bruxelles?
L’Unione euro­pea è il para­diso delle ban­che, non delle per­sone: il denaro è più libero della gente. Per que­sto è ovvio che vin­cere in uno stato non è suf­fi­ciente per tra­sfor­mare la realtà: non c’è dub­bio. Ciò non toglie che è fon­da­men­tale farlo, e aggiungo: anche a livello locale, muni­ci­pale. In primo luogo per ragioni sim­bo­li­che: le rivo­lu­zioni si nutrono anche di ele­menti emo­tivi, come dimo­stra la acam­pada di Puerta del Sol del movi­mento 15-M. La forza sim­bo­lica di quell’evento la si è vista dopo: si è mani­fe­stata nelle mobi­li­ta­zioni grandi e con­ti­nua­tive degli anni suc­ces­sivi, che sareb­bero state impos­si­bili senza quel sim­bolo. Oltre a ciò, con­tano natu­ral­mente i rap­porti di forza: e noi spa­gnoli, come tutti i Paesi debi­tori, dob­biamo capire che nei con­fronti della Ue abbiamo il col­tello dalla parte del manico. Il motivo è sem­plice: il nostro debito è un pro­blema delle ban­che tede­sche e fran­cesi. Diceva Bre­cht: ’Se hai un debito di 10mila dol­lari è affar tuo, ma se è di un milione è un pro­blema delle ban­che’. La can­cel­liera Mer­kel smet­terà di imporre all’Europa la poli­tica di auste­rità quando saranno le ban­che del suo Paese a chie­der­glielo: e que­sto acca­drà quando i governi dei Paesi della «peri­fe­ria» Ue cam­bie­ranno atteg­gia­mento e rove­sce­ranno sulle ban­che il pro­blema del debito.

Le ragioni di una strategia di lungo periodo di Marco Sferini

Brevi e lunghi periodi nella ricerca di una rinascita della sinistra, del movimento comunista
vite-schedate1-420x297Se c’è una speranza per la sinistra comunista, di alternativa, radicale, di riconquistare una connessione non meramente emotiva ma fattivamente politica e sociale, ebbene questa speranza a mio avviso non può che passare nella ricostruzione di un confine, di una linea non di spearazione ma di distinzione tra i comunisti e tutte le altre forze politiche che, invece, a differenza nostra, accettano il punto di vista del mercato come elemento regolatore della vita quotidiana.
Per ridare prima un significato e poi un senso all’aspirazione grande del cambiamento a cento ottanta gradi della società in cui viviamo, volendo rovesciare i rapporti di produzione e di proprietà dei mezzi di produzione, noi comunisti non possiamo prescindere da tutto questo.
Mi rendo conto che significa fare a pugni con le tentazioni anche giustamente rivendicate di patteggiamento con le forze meno reazionarie davanti a quelle più reazionarie.
Ma l’illogicità della scelta di alleanze con il “meno peggio” è una scelta che può adrenalizzare sul momento, ma che non paga nel lungo termine e che rimanda sine die proprio il percorso, che necessariamente va rimesso in essere, della costruzione di una nuova egemonia culturale e sociale dai contenuti antichi.
Antichi perché non sono mutate le relazioni di classe: la lotta di classe esiste, ma esiste in gran parte per il capitale e in piccolissima parte per mondo del lavoro, per il moderno proletariato.
Ho maturato questa convinzione dopo aver riflettuto tanto, letto, discusso.
O si fa camminare insieme il demone della cultura sociale e delle cultura critica con quello della riorganizzazione politica, oppure non c’è alleanza, patto o sigla elettorale che possa rilanciare veramente l’alternativa di società tanto in Italia quanto nel resto del mondo.
E’ una riflessione amara, perché parte dal presupposto di essere minoritaria. Ed è minoritaria. Più ancora minoritaria di altri entusiasmi che si profondono in appelli e lettere aperte per la nascita di una sinistra al passo coi tempi e che, invece, non risulta altro se non pericolosamente al seguito di idee che seguono comunque l’orizzonte della riforma del capitalismo come fronte rivoluzionario massimo.
Una prospettiva fallimentare che non può arrivare lontano. Mentre quella che dovremmo proporre noi comunisti è ancora tutta da reinventare, da ricominciare.
Ma anche nel 1921 i comunisti si ritrovarono a riunirsi in un teatro dove al suo interno pioveva per il diroccamento del tetto e delle pareti, mentre il Partito Socialista Italiano teneva l’epilogo congressuale del suo distacco dalla Terza Internazionale in un ambiente decoroso e pulito.
Ecco, noi ci troviamo in un nuovo teatro diroccato, senza tetto, senza molte pareti ancora rimaste in piedi. Ci riuniamo, come i comunisti di allora, con gli ombrelli aperti ed in piedi, invece che comodamente seduti sulle poltrone di velluto di un teatro riscaldato.
Dobbiamo essere consapevoli che la nostra giusta lotta è tutta volta al miglioramento della vita di ciascuno per il miglioramento della vita di tutte e tutti.
La rifondazione della sinistra italiana passa anche per la “rifondazione comunista” che è un processo aperto, dinamico e che in troppi si sono affrettati a dichiarare morto e sepolto.
Qualcuno diceva ciò dei primi cristiani, mentre tutto intorno prosperava il paganesimo. Eppure il cristianesimo è vivo e si è manifestato, in mezzo a mille contraddizioni, per oltre duemila anni in diverse correnti.
Alcune di queste sono più rivoluzionarie del nostro comunismo. Per questo esiste una speranza. Per questo va alimentata con la consapevolezza che una vita non basta a realizzarla, ma serve per continuare il viaggio di un cammino umano, abbandonando la triste attuale sopravvivenza dei popoli.

"Sciopero generale, si apre una fase nuova per sindacato e nuova sinistra". Intervista a Gianni Rinaldini




Tra i vari interventi, ieri, dal palco dell'iniziativa dell'Altra Europa in piazza Farnese, c'è stato anche quello di Gianni Rinaldini, ex segretario generale della Fiom. Rinaldini ha parlato della "costruzione di una nuova sinistra" che non sia di pura testimonianza ma come "forza alternativa di governo". 

Nel tuo discorso dal palco di piazza Farnese hai detto che non si fermeranno con l’abolizione dell’articolo 18. Cosa altro ci aspetta?
Utilizzano la crisi per scagliarsi ad alzo zero contro diritti del lavoro, welfare e Costituzione. E vogliono ridefinire nettamente il ruolo delle organizzazioni sindacali. Dopo l’articolo 18 vogliono abolire il contratto nazionale. E tenteranno di farlo utilizzando l’articolo 8 dell’accordo del 2011. La Confindustria lo ha detto, e scritto, chiaramente. Rimarrà il solo contratto aziendale e quindi un sindacato corporativo e aziendalista. E lavoratori che, come dice Marchionne, saranno messi uno contro l’altro, in una guerra continua.

Questo ha delle precise conseguente per la costruzione del soggetto politico?
Naturale. La sinistra è una costruzione politica. E non nasce dalla spontaneità, proprio perché i lavoratori si trovano nella trappola che ho appena delineato. Le dinamiche possono essere imprevedibili. Per questo dobbiamo costruire una nuova sinistra senza guardare alle riedizioni del passato. Il punto di partenza è che le nuove generazioni fanno i conti con il capitalismo allo stato puro. Nel dopoguerra, invece, c’era un blocco socialista che conteneva, e quindi una socialdemocrazia che si era scavata un solco tra i due.

Molti guardano a una non meglio identificata scissione o divisione del Pd, ma più di tanto che può dare?
E’ finita l’epoca in cui si poteva guardare alle dinamiche del Pd. Nel 2007, vorrei ricordare, da lavoro il loro riferimento diventò il cittadino. E tra le cose che sono finite c’è anche quella del rapporto tra sindacato e partito. Come ha dimostrato Renzi la discussione sulla materia sociale e sul lavoro è tutta interna al Pd. A quel punto cosa serve parlare con la Cgil? Ripartire, però, non significa rifare la stessa storia. Quello che serve oggi è un sindacato democratico e indipendente. E questo è anche un modo per fare spazio al nuovo soggetto politico.

Oggi lo sciopero generale c’è. Il problema è capire dopo il 12 dicembre…
Nel sindacato occorre un profondo rinnovamento. Democrazia interna e apertura verso un’ampia coalizione di soggetti sociali. Di questo serve discutere il giorno dopo lo sciopero generale.

La Cgil ha faticato molto per trovare la strada dello sciopero generale.
Finalmente siamo allo sciopero generale. E' evidente che si sono sbloccati i rapporti tra sindacato e Pd. Da questo punto di vista non si può mettere in seconda linea il fatto che si apre una fase nuova. E di questo dobbiamo approfittare.

Grillo, il revisionismo storico e la barca che affonda di Senza Soste

Grillo, il revisionismo storico e la barca che affonda

Il blog di Beppe Grillo si aggiudica senza dubbio il premio per lo scoop più clamoroso della settimana con il post “Mussolini non ha ucciso Matteotti”.
Lo scoop
Sentite infatti cosa dice - in un italiano da codice penale - Arrigo Petacco, intervistato dal blog di Beppe Grillo: "Mussolini nel 24 ha ottenuto il 68,8% dei voti vi rendete conto? Altro che violenza e che minaccia! E i socialisti, il povero Matteotti era al 18-20%. A questo punto la domanda che faccio io è: voi pensate che, 10 giorni prima che aveva stravinto le elezioni politiche, il capo del governo, non ancora dittatore, per fare uccidere il capo dell’opposizione manda 4 manigoldi con una lima arrugginita? Ecco, io proprio per questo non ho mai creduto che Mussolini avesse fatto il delitto”.
Matteotti fu accoltellato a morte il 10 giugno 1924 da cinque membri della polizia politica fascista (che sicuramente avranno rapito un deputato dell’opposizione di loro iniziativa e senza avvertire nessuno...) e di motivi per ucciderlo ce n’erano eccome: il primo era quello di intimidire e mettere definitivamente a tacere l’opposizione dopo l’appassionato discorso in cui il deputato socialista aveva denunciato i brogli elettorali da parte dei fascisti. Matteotti, infatti, denunciò, oltre ai brogli, una vera e propria occupazione militare dei seggi (in molti casi presidiati dalla milizia fascista) assieme a intimidazioni e devastazioni delle sedi di partiti di sinistra, cooperative e sindacati.
Ma secondo fonti credibili ci sarebbe stato un altro movente, ben più concreto: Matteotti stava per presentare un dossier sulle tangenti che l’americana Sinclair Oil aveva versato al Re e a personaggi vicini al “duce”.
In ogni caso gli assassini furono condannati nonostante le pressioni sui magistrati e Mussolini si assunse la piena responsabilità morale, politica e storica del delitto. Il 3 gennaio 1925 oltre ad assumersi la responsabilità morale, politica e storica (link: il discorso di Mussolini) di quanto accaduto, avviò quel combinato di leggi che tra il 1925 e l'inizio del 1926 sciolse partiti e sindacati.  Fu colpo di stato. Il capo degli squadristi, tale Dumini, confessò autografo in carcere la committenza mussoliniana.
Ma chi è Arrigo Petacco?
Per capire chi è Petacco basta leggere il suo blog: “Se non ci fosse il revisionismo perché si scriverebbero nuovi libri di storia? Non ce ne sarebbe bisogno, basterebbero i vecchi. Il revisionismo è importante!
Petacco fa parte di quella schiera di mediocri divulgatori che hanno fiutato l’aria e hanno capito che in Italia basta sputare sull’antifascismo e sulla Resistenza, rivalutare la figura di Mussolini o di qualche altro gerarca per garantirsi visibilità illimitata nelle librerie e in Tv.
Nel suo libro “I ragazzi del ‘44” sosteneva che “il contributo dei partigiani alla guerra di liberazione fu modesto” e polemizzava con giudizi «datati, troppo convenzionali, con i partigiani tutti buoni, i fascisti tutti cattivi, la resistenza con la "R" maiuscola e il duce con la "D" minuscola».
Nel 2003 ha pubblicato “Faccetta nera” dove giustificava l’uso dei gas tossici in Africa orientale da parte delle truppe italiane in base alla “morale del tempo”. A proposito di questo libro scrive lo storico Del Boca: “è difficile, in meno di 230 pagine, accumulare tanti errori, tante lacune, tanti giudizi e valutazioni non corrette. Una spietata aggressione a uno Stato sovrano, che causa la morte di oltre 300.000 etiopici, viene contrabbandata come un’impresa necessaria e urgente, tanto più che l’aggredito, l’imperatore Hailé Selassié, era, come precisa Petacco, soltanto un ‘ras affarista, sanguinario, crudele e schiavista’”.
E ci fermiamo qui.
Grillo, “né di destra né di sinistra”
Ma perché pubblicare una simile spazzatura? E perché Beppe Grillo si occupa di storiografia, visto che tutto quanto è successo prima della nascita del M5S secondo lui è ciarpame preistorico di quando esistevano sempre la destra e la sinistra?
Tutto si può dire di Grillo e Casaleggio tranne che non siano abili comunicatori. È quindi improbabile che si tratti di un autogol o di un post buttato lì a casaccio.
I due guru del Movimento 5 Stelle, valutando i deludenti risultati elettorali, probabilmente hanno pensato che il progetto della Lega di riproporre in Italia un soggetto politico “lepenista” sta facendo breccia in un elettorato di destra che costituisce un bacino di voti anche per loro.
Gli esempi di esternazioni di Grillo chiaramente dirette ad accattivarsi questo tipo di elettorato abbondano: dalla “peste rossa” agli immigrati che portano le malattie, dai sindacati che sono un ferrovecchio da mandare in soffitta, alle battute benevole su Casa Pound, fino alla convergenza "tecnico-strategica" e già fallita con l’UKIP di Farage al parlamento europeo.    
Ma sarebbe riduttivo spiegare queste uscite solo in termini di opportunismo: il Movimento 5 Stelle è profondamente imbevuto di una cultura qualunquista che vede come il fumo negli occhi il “culturame” di sinistra. Tutto ciò che viene percepito come ideologico, astratto, contrapposto al concreto del quotidiano piccolo borghese sarebbe ipocrisia e vecchiume inutile, e quindi lo sarebbero anche i valori della resistenza e dell’antifascismo.
Quello che fa pena è proprio quest’assoluta e rivendicata mancanza di riferimenti ideali, che peraltro non dovrebbe stupirci in quanto da sempre teorizzata da chi si definisce “né di destra né di sinistra”.
Grillo e le amministrazioni locali
In fondo potremmo fregarcene, tanto il Movimento 5 Stelle a gestione Grillo-Casaleggio sta implodendo e probabilmente si trasformerà in qualcosa di nuovo anche se ridimensionato. Grazie a una serie irripetibile di circostanze favorevoli nelle ultime elezioni politiche era riuscito a catalizzare il voto ambientalista e quello dei leghisti delusi dal Trota, quello della destra e dei piddini impegnati nelle solite faide interne, il voto di protesta antisistema e quello dei maniaci della legalità, ma la “bolla speculativa” ora sta scoppiando e i nodi vengono al pettine.
In un movimento così variegato l’esistenza di meccanismi di democrazia interna sarebbe quanto mai necessaria. Invece Grillo continua a gestire il M5S come se fosse una ditta privata e non rinuncia ad imporre la sua linea a colpi di espulsioni e anatemi.
Anche la sua immagine ne ha risentito: da simpatico e arguto uomo di spettacolo, che ha avuto il merito di anticipare temi importanti come la decrescita, la sostenibilità, la democrazia della rete, si è ormai trasformato in un caudillo rabbioso e incapace di confrontarsi con i suoi stessi sostenitori. E se questa è la nuova politica molto meglio la vecchia.
Questa forme di delirio autoritario si fa sentire soprattutto nei rapporti con gli eletti nei consigli comunali e regionali e con gli amministratori.
Nelle elezioni amministrative, dove più che il carisma del capo conta la presenza sul territorio, il M5S ha raggiunto risultati significativi soltanto in poche realtà, ma nella maggior parte di queste, come a Parma, gli amministratori locali sono arrivati ai ferri corti con il padrone del marchio.
È senz’altro vero che in questa prima fase del mandato Pizzarotti è stato estremamente deludente e ha tradito molte delle promesse fatte in campagna elettorale (come quelle sull’inceneritore), ma il problema principale è che una volta vinte le elezioni i grillini si sono scontrati frontalmente con la realtà e hanno verificato quanto fossero assurde le regole del loro movimento.
Grillo invece continua a vedere questi screzi attraverso la lente del “tradimento“ e dell’arrivismo: qualcuno avrebbe trovato una poltrona e perso la purezza iniziale.
Per questo Grillo rischia di trasformarsi da imprescindibile testimonial a zavorra del movimento.
Potremmo anche fregarcene tranquillamente, dicevamo, ma si dà il caso che in questo momento il M5S amministra la nostra città. E la amministra in base alle regole astruse del padrone della ditta.