giovedì 30 marzo 2017

No ai sindaci-sceriffi. Dalle “Città in Comune” la proposta di una giornata di iniziative contro il decreto Minniti

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Comunicato delle Rete delle città in Comune

Restiamo umani. Diamo un futuro diverso al nostro paese e all’Europa. Con questi auspici e obiettivi promuoviamo per il prossimo 8 aprile una giornata di mobilitazione nazionale contro i decreti Minniti – Orlando su immigrazione/ respingimenti e – cosiddetta – sicurezza urbana.
Noi che facciamo parte della “rete delle città in comune” – siamo consiglieri comunali e sindaci di realtà piccole e grandi del nostro paese, esponenti di associazioni, movimenti, singoli cittadini – vediamo in questi atti una preoccupante deriva autoritaria che – per inseguire le posizioni più barbare e retrive di natura securitaria – vuole “espellere” dalla società i cosiddetti diversi, siano essi migranti o soggetti già socialmente deboli. Insomma militarizzare e arrestare ed espellere la marginalità sociale, acuendone e ampliandone i drammi. Cd Daspo urbano, carcerazione dei migranti e espulsioni facili, ecc. insomma un film già visto che punta dritto a fomentare nient’altro che la discarica sociale e la guerra fra poveri.
Occorre fermali, perché questo conduce non solo alla disperazione. Il decreto sui migranti determinerà diritto speciale, detenzione prolungata, rimpatrio forzato per i migranti, costringerà le persone a vivere nell’ombra e a non potersi costruire un futuro. Oltre a mettere a rischio la vita di chi sarà deportato, queste norme non faranno altro che aumentare proprio quelle paure che dicono di voler vincere. Quindi non si creerà solo ingiustizia, ma moltiplicazione dei problemi e dei fenomeniche si dichiara di voler combattere. E si darà ancor più fiato a chi vuol costruire muri, divisioni e odi, che mettono in discussione il futuro stesso delle comunità sociali, del paese, e della stessa Europa. Quello sulla “sicurezza urbana” è un decreto che investirà risorse in retate fra chi lavora in nero, sgomberi di case occupate, allontanamenti per le persone il cui stile di vita è considerato deviante. Si vuole combattere i poveri e non le cause della povertà.
Già troppi sindaci, incapaci di affrontare i problemi delle città che amministrano o strangolati da debiti e patti di stabilità da rispettare, stanno cercando di ottenere consenso spostando l’attenzione dei/delle propri/e concittadini/e sull’importanza della sicurezza, sgomberando, allontanando chi è considerato fonte di degrado. Ed è grottesco che questo accada in un paese in cui i reati predatori e contro la persona sono in calo mentre ad aumentare è la percezione della paura, spesso amplificata dai media. Una ricetta tante volte provata e questa volta fatta propria anche dall’ANCI, ma che si rivela inutile e spesso dannosa.
Gli amministratori locali che aderiscono alla rete hanno già presentato o stanno presentando nei propri consigli comunali un ordine del giorno contro i decreti Minniti – Orlando dove si chiede che le città avanzino con forza la richiesta del ritiro degli stessi, dichiarandosi pronte a ricorrere in tutte le sedi e a “disobbedire” alla loro applicazione. A impegno istituzionale però deve corrispondere una mobilitazione dal basso di tutti coloro vogliono opporsi alla logica della “tolleranza zero”, imposta dall’alto, e invece promuovere convivenza e inclusione sociale – minata da questo governo anche con la riduzione dei fondi fondi dedicati ai bisogni sociali e delle risorse allocate ai Comuni.
Per questo ci rivolgiamo a quel forte e variegato mondo associativo che – nella pluralità dell’impegno su questi temi – già ha fatto sentire la propria voce, nonché alle tante e tanti che vogliano dare un segnale preciso di una strada diversa, affinché condividano e con noi promuovano il percorso che ci porti alla giornata di mobilitazione nazionale del prossimo 8 aprile, dando vita nelle proprie realtà a appuntamenti diffusi che facciano della pluralità e della risposta sui territori e dal basso un tratto distintivo di impegno umanitario, civile, civico e politico. Contro l’imposizione di provvedimenti dall’alto che istituzionalizzino la barbarie.
Il momento è ora, è il momento di dimostrare che c’è chi non ci sta, chi vuol “restare umano”.

Spezzare le reni ai poveri di Domenico Gallo

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E’ passato quasi inosservato uno dei più assurdi provvedimenti varati da questo governo. Si tratta di un decreto legge (20 febbraio 2017 n. 14) che porta l’ambizioso titolo di “disposizioni urgenti in materia di sicurezza nelle città”.
Il compito principale di tutti i governi è quello di tutelare la sicurezza dei cittadini, anzi, secondo Hobbes, la ragion d’essere dello Stato è proprio quella di assicurare la conservazione della vita e del benessere dei consociati, facendo sì che la convivenza esca da quello stato di natura in cui ogni uomo è homini lupus.
Quindi la sicurezza è una cosa seria. Il principale fattore della sicurezza è il diritto. Se noi non abbiamo la sicurezza di avere diritto alle cure mediche, di avere diritto a percepire la retribuzione per il lavoro che svolgiamo, di avere diritto alla pensione quando non potremo più lavorare, la nostra vita diviene precaria ed esposta ad incertezze micidiali. La sicurezza dei diritti è il principale interesse dei consociati. Sono molti anni che l’albero dei diritti viene investito da un uragano che un po’ alla volta lo spoglia dei suoi frutti più preziosi.
Da quando il fenomeno economico-sociale ha messo in crisi la sicurezza dei diritti, la politica ha scoperto il miraggio del “diritto alla sicurezza”. Da qui hanno preso l’avvio una serie di politiche securitarie che hanno raggiunto l’apice nel 2009 con i vari decreti sicurezza del Ministro Maroni, che voleva incrementare la nostra sicurezza – per esempio – vietando i matrimoni misti fra i cittadini italiani e gli extracomunitari privi di permesso di soggiorno, oppure infliggendo delle multe impossibili (da pagare) ai disperati che sbarcavano dai barconi. Adesso quella politica sta tornando in auge, anche se è cambiato il colore politico del Ministro che dovrebbe tutelare la nostra sicurezza. Si chiama Minniti, anziché Maroni, però, a parte il nome, non ci sono altre differenze.
Il decreto Minniti addirittura ci dà la definizione della sicurezza urbana: “Si intende per sicurezza urbana il bene pubblico che afferisce alla vivibilità ed al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione e recupero delle aree e siti più degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità…”
Ma come si fa a rendere più vivibile una città: riducendo l’inquinamento, rafforzando il trasporto su rotaia, curando il verde pubblico, dando lavoro ai disoccupati, creando strutture per combattere il disagio sociale e la marginalità? Nient’affatto!
Il decreto non stanzia neanche il becco di un quattrino per la riqualificazione ed il recupero delle aree più degradate o per l’eliminazione dei fattori di marginalità ed esclusione sociale. Poiché non si può eliminare l’emarginazione, allora per tutelare la sicurezza, che nella mente del legislatore coincide con il decoro, si eliminano gli emarginati, dando ai sindaci-sceriffi il potere di allontanarli per 48 ore dalle aree urbane di particolare pregio o “interessate da consistenti flussi turistici”. Insomma al turista non far vedere quelle brutte facce dei poveri, dei drogati, dei mendicanti, delle prostitute di strada.
I sindaci avranno sempre meno potere di fornire servizi pubblici ai cittadini però, in compenso, potranno rivalersi ripulendo le parti pregiate delle città dall’indecoroso stazionamento degli emarginati, che verranno nascosti sotto il tappetino, inventando una nuova forma di apartheid. A noi rimane un dubbio: la nostra sicurezza si accresce combattendo la povertà o spezzando le reni ai poveri? 

fonte: Quotidiano del Sud

mercoledì 29 marzo 2017

Populismo, Europa e Terza Repubblica, di Aldo Giannuli

Tutto lascia pensare che si aprirà una stagione di forti conflitti sociali e politici sia fra i ceti dominanti e quelli popolari, sia all’interno delle classi dominanti per la redistribuzione delle quote di potere.
 
La prima linea di frattura, in ordine di importanza, è certamente quella fra classi dominanti e classi subalterne. Per quanto un regime possa essere elitario, per quanto una democrazia possa celare un contenuto oligarchico dietro una maschera, tuttavia le classi popolari hanno pur sempre una quota di potere che le consocia e ne giustifica il consenso. Se questo non ci fosse, il sistema crollerebbe (che è poi quello che sta accadendo un po’ dappertutto in occidente) perché non esiste sistema politico (fosse anche dittatoriale) che può reggersi a lungo senza il consenso popolare.
Magari può trattarsi di un consenso meramente passivo di un popolo che si comporta secondo le norme del sistema, influenzato da inganni ideologico-propagandistici, ma pur sempre deve esserci una forma di consenso, senza della quale la disapplicazione delle regole diverrebbe automatica e con essa la fine del regime. E, da questo punto di vista, la democrazia è più fragile degli altri sistemi, perché basata ideologicamente sul fondamento del consenso popolare.
Costruendo lo spettro magnetico che tiene unita una compagine sociale, occorre concedere alle classi dominate una quota di ricchezza attraverso forme di redistribuzione di essa ed una quota di potere attraverso i meccanismi rappresentativi. Nelle democrazie europee questo è stato il compromesso socialdemocratico (e negli Usa il compromesso newdealista) che ha concesso il welfarestate e la contrattazione collettiva e una quota di potere sociale attraverso il suffragio universale integrato da specifici strumenti di trasmissione della domanda politica, quali i partiti di massa ed i sindacati.
Questa formula è stata distrutta dall’ondata neoliberista che ha demolito in tutto o in parte il welfare e la contrattazione collettiva ed ha emarginato o distrutto i partiti di massa ed i sindacati. La nuova formula di compromesso sociale –che ha sostituito quella del compromesso socialdemocratico- prevedeva concessioni come l’offerta low cost di beni e servizi (basata sui bassi salari e la precarizzazione, sia all’interno interno sia, molto di più, nei paesi dove la produzione era delocalizzata), quote residue di assistenza sociale e, soprattutto, la creazione di denaro bancario generosamente dispensato.
Il “denaro bancario” ha creato per un certo periodo una liquidità aggiuntiva attraverso la concessione di carte di credito (che, di fatto, hanno procurato un mese in più di retribuzione), di più facili mutui (negli Usa soprattutto per l’acquisto della casa, e dappertutto per l’acquisto auto). In Italia, peraltro, ha sopperito, alla falcidia dei posti di lavoro ed al crollo dei salari, il welfare familiare basato sulle retribuzioni dei quaranta-cinquantenni che ancora godevano dei frutti dell’avanzata salariale degli anni settanta, sulla “pensione del nonno” e sui risparmi consentiti dall’epoca d’oro della contrattazione salariale.
Sul piano politico si è accentuata la nota videocratica a tutto danno della partecipazione politica reale e si è data l’ingannevole sensazione di un maggiore potere decisionale attraverso la scelta dell’uomo al comando, che, in realtà blindava il ceto politico attraverso il meccanismo del “voto utile” e mascherava la marginalizzazione del Parlamento a vantaggio dell’esecutivo e del suo capo. L’Italia è stata un importante laboratorio in questo senso.
Con la crisi finanziaria il meccanismo si è rotto: il denaro bancario si è rivelato un meccanismo ingannevole, che “mangiava” le risorse delle generazioni future. In concreto ha rimandato il problema dei bassi redditi di una dozzina di anni, ma solo a costo di una crisi finanziaria devastante e non ancora risolta; i margini assicurati dai resti del welfare e della contrattazione collettiva si vanno consumando e le nuove generazioni sono del tutto scoperte.
Di conseguenza anche la truffa della “democrazia plebiscitaria” dove il popolo sceglie solo il semi-dittatore temporaneo, si è dissolta ed i ceti popolari hanno rivolto la loro rabbia contro i rispettivi ceti politici, avidi, incapaci, corrotti.
Sin qui la rivolta popolare ha avuto tre aspetti centrali: una rivolta fiscale contro una pressione ormai poco sostenibile, che sta condannando molti paesi ad una recessione permanente, una rivolta contro l’Europa identificata con la cupola tecnocratico bancaria che sta dissanguando le economie nazionali, la richiesta di nuove forme di democrazia (come dappertutto accade con la richiesta di referendum).
Su tutto questo si è sovrapposta la reazione anti immigrazione, determinata da un insieme di cause: la sensazione che questa gente sottragga risorse ed occasioni di lavoro ai nativi, il timore per la sicurezza che indica negli immigrati una massa di criminali, ma soprattutto una reazione identitaria che teme di vedere sopraffatta la propria cultura, una reazione perfettamente simmetrica a quella dei popoli “altri” (mediorientali, indiani, russi, africani ecc.) che vedono –magari con maggiore fondamento- nell’Occidente il sopraffattore.
La globalizzazione, al contrario delle aspettative che immaginavano una crescente convergenza delle diverse identità culturali verso un modello unico ha avuto, per ora, l’effetto opposto di una generale rivolta identitaria di ciascuno dei soggetti coinvolti. Il fatto che gran parte dei motivi di questa reazione, soprattutto in Occidente, siano infondati non toglie che essa sia reale e, di fatto agisca come diversivo rispetto ad una rivolta sociale contro il l’ iper capitalismo finanziario che è alla base dell’attuale disastro sociale e contribuisce ad orientare a destra la rivolta in atto.
E’ difficile dire che evoluzioni avrà il fenomeno, ma è evidente che è uno dei principali terreni di scontro nel prossimo futuro. La proposta dei poteri finanziari per spegnere la protesta è quella del “reddito di cittadinanza” o, se si preferisce ”di sussistenza”, in cambio dell’accettazione dell’attuale ordinamento da parte delle classi subalterne. Si concede qualche briciola dei profitti della delocalizzazione, della speculazione finanziaria, del sotto salario generalizzato in cambio della rinuncia a mettere in discussione gli aspetti di potere esistenti, ma si sbaglia chi pensa che si tratti del classico “piatto di lenticchie”, questo è meno di un piatto di lenticchie.
E’ interessante notare come questa proposta sia tanto popolare anche a sinistra (e parlo della sinistra radicale): trenta anni di diseducazione politica e di svalutazione culturale del lavoro hanno generosamente posto le premesse di questo naufragio politico ed ideale della sinistra.
Realisticamente, il cuore dello scontro sarà un altro e riguarderà la qualità del sistema democratico. Sbaglia chi pensa che gli equilibri istituzionali attuali di democrazia più o meno basata sullo Stato di diritto, sulla rappresentanza e sulle libertà di espressione, sciopero ecc. possa restare come è. Dopo i brividi procurati dalla Brexit, dall’elezione di Trump, eccetera non è realistico pensare che le classi dominanti accettino di mantenere questi margini di partecipazione popolare: la prima misura da mettere in conto è la limitazione crescente dell’istituto referendario. Dopo verranno, in un modo o nell’altro, misure di ridimensionamento del suffragio universale: c’è chi propone una ulteriore riduzione di potere dei parlamenti a tutto vantaggio delle èlite tecnocratiche (la “democrazia a trazione èlitaria” cara a Mario Monti e fatta proprio dal “Foglio”, tanto per dirne una), chi vorrebbe una seconda camera tutta di nomina dall’alto, chi progetta riforme del sistema elettorale pensate per blindare il blocco tecnocratico di centro, per certi versi il “pacchetto Renzi” anticipava alcune di queste tendenze.
Ma c’è anche chi pensa di agire non attraverso i meccanismi istituzionali, quanto attraverso la repressione selettiva e la limitazione del diritto di espressione (la polemica sulle fake news e la “post verità” serve solo ad aprire la strada in questo senso). Ma verranno anche altre misure tese a garantire le èlite politiche dal rischio di inopportune inchieste sulla corruzione o sui rapporti con la borghesia mafiosa.
Dall’altro lato, la protesta popolare ormai chiede maggiore potere decisionale e, soprattutto, di controllo. Non si tratta solo della rabbia contro la cupola tecno-finanziaria della Ue, ma dell’esigenza di garantire la domanda politica dei ceti subalterni attraverso meccanismi che vadano oltre la democrazia rappresentativa. Si tratta di innestare sul tronco delle nostre democrazie forti elementi di democrazia diretta che lo rivitalizzino, si tratta di estendere la democrazia oltre la sfera politica, facendola penetrare anche nella produzione, nella cultura, nella ricerca, nell’informazione. E si tratta anche di “mettere al guinzaglio” i poteri extrapolitici, a cominciare dai poteri finanziari che godono oggi di una libertà inconciliabile con il bene comune, di una impunità penale e di una franchigia fiscale ormai intollerabili. Ed insieme ai poteri finanziari occorre mettere “sotto controllo” anche la classe politica troppo spesso incline ad entrare il rotta di collusione con i poteri finanziari e con la borghesia mafiosa, e troppo facile a corrompersi.
Dunque, delle due l’una: o i nostri regimi prenderanno la strada di una trasformazione in senso partecipativo e democratico, oppure l’involuzione elitaria, finanziaria e para criminale del sistema finirà per compiersi.

venerdì 24 marzo 2017

L'Europa fra Trump e Merkel di Raffaele Sciortino, Infoaut



Le dinamiche dei rapporti transatlantici sono fondamentali per tracciare il futuro della Ue. Partiamo dai nuovi scenari: dopo la Brexit, cosa comporta l'avvento di Trump nel rapporto con l'Ue ‐ ed in particolare con la Germania?

Partiamo da quest'ultima. È ancora presto per individuare la direzione precisa che la dinamica Usa-Germania prenderà, se si aprirà cioè un vero e proprio corso di collisione e dove porterà, ma per intanto è importante che il rapporto si stia mostrando apertamente per quello che è: sempre meno un rapporto, per quanto asimmetrico, tra alleati e sempre più una relazione a rischio di esplosione tra portatori di interessi divergenti, immediati e strategici. Trump sta facendo saltare il tavolo dell'ipocrita "unità dell'Occidente" che nella sua lettura nazional-populista è diventata troppo costosa se non insostenibile per gli Usa, sul piano militare ed economico, e troppo conveniente per i partner, in primo luogo per la Germania. Il perché di questa svolta "imprevista" (per i più) abbiamo cercato di sondarlo nei mesi scorsi analizzando le ragioni profonde del fenomeno Trump: gli States sono decisamente in difficoltà sia sul piano geopolitico che su quello economico e sociale interno nonostante la decantata "ripresa" obamiana (ma l'hanno vista solo i circuiti finanziari e poco altro). La risposta del neopresidente, che trova riscontri in una parte dell'establishment e fa leva sui leftbehind della globalizzazione, non può che comportare un profondo rimescolamento di carte nelle relazioni economiche e geopolitiche internazionali.

Ricordando i trascorsi più recenti la politica aggressiva di Washington verso Berlino e la Ue rappresenta tutt'altro che una novità...
Non è una novità, è verissimo. Già con Obama si sono avute non solo continue, puntuali frizioni tra Washington e Berlino (e la Ue tutta) - che richiamavi nella domanda - ma la stessa eurocrisi di qualche anno fa, con l'attacco combinato ai debiti sovrani europei e alla moneta comune, non è stato altro a ben vedere che un tentativo, solo parzialmente riuscito, di scaricare proprio sugli "alleati" il grosso della crisi globale scoppiata nel 2007-8. È però vero che oggi ci troviamo di fronte se non a un salto, a un secco passaggio in avanti su questa linea di scontro (oltreché con Cina, Brics e America Latina, ovviamente) per i motivi cui accennavo. Ora, Trump viene continuamente messo in seria difficoltà dal fronte liberal, che non solo è supportato dal cosiddetto Stato profondo e dai media mainstream ma è anche in grado di mobilitare e/o utilizzare le piazze del blocco sociale clintoniano-obamiano che percepisce nell'eventuale rinculo della globalizzazione il rischio del proprio declino (di queste contraddizioni e strumentalizzazioni mi pare, per quel che si può capire da qui, che gli attivisti radical non siano affatto avvertiti, ma speriamo che parta prima o poi lì qualche riflessione critica su una situazione peraltro obiettivamente contorta), non è detto dunque che la sua presidenza regga. In effetti, mi pare che al momento in politica estera la sua prospettiva ristagna sotto spinte contrapposte (particolarmente evidenti nei confronti di Mosca). Ma, comunque sia, sul fronte interno Trump deve assolutamente procedere nel tentativo di riportare in Usa un parte di produzione manifatturiera - e dunque attaccare i surplus commerciali tedesco e cinese- non solo per consolidare il rapporto con la middle class, ma -e questo è in prospettiva altrettanto se non più importante - anche per prepararsi a nuovi, possibili crack finanziari innescati dalla nuova bolla speculativa gonfiatasi in questi anni a seguito della politica monetaria della Federal Reserve. E questo, ripeto, non può che acuire tutti i rapporti internazionali attraverso un nazionalismo economico (altro che "isolazionismo") anche verso l'Europa, contro quello che è additato oramai apertamente come un blocco regionale concorrente o, più precisamente, un potenziale blocco regionale che si tratta di destrutturare, dall'esterno e dall'interno (ché Stati europei che già fanno o potrebbero fare sponda a questo gioco non è che manchino) anche mandando a picco l'euro.

Come sta rispondendo la Germania (anche in vista delle difficoltà di Merkel, montante populismo Afd, elezioni ecc.)?
La vittoria elettorale di Trump è stata uno choc, come dappertutto. È vero che è da un po' che, pur in maniera non eclatante, nell'establishment tedesco si ragiona di un corso politico internazionale più autonomo ma ciò non toglie che finora -pur sottraendosi spesso alle pressioni statunitensi, come su Libia e Siria, Ucraina, gasdotti con la Russia, rapporti economici con la Cina- un vero shift strategico era l'impensabile per la classe dirigente tedesca e lontano anche dal sentire del grosso della popolazione. Da oggi, in prospettiva, le cose potrebbero cambiare. Per l'èlite si tratterebbe di indirizzare il crescente disagio della società tedesca - la fine dell'illusione di essere immuni dalla crisi globale - verso una presa di distanza dal padrino americano e però in nome della difesa dei "valori liberali occidentali" e della globalizzazione come si è data finora. Una neonata politica imperialista tedesca, anche militare, combinata con la conservazione degli assetti politici esistenti che allontani il rischio di un'ascesa dei "populisti" (v. Afd) e, soprattutto, soffochi sul nascere gli embrionali umori trasversali, insieme, anti-americani e anti-globalizzazione. Il "piccolo" problema per la borghesia tedesca però è che per non essere ricacciata in un angolo in un quadro internazionale che va rapidamente cambiando sarà difficile attenersi al corso fin qui seguito, un corso di stop and go sia rispetto alle questioni geopolitiche (in primis i rapporti con Mosca) sia rispetto al futuro dell'Europa nel mentre si è potuto conservare un relativo compromesso sociale all'interno grazie alla performance economica. Ma il commercio mondiale va restringendosi e gli Usa minacciano seriamente protezionismo mentre il caos geopolitico si fa sentire fin dentro i confini europei con la questione immigrazione e profughi. Le scelte incombono e, tanto più dopo la Brexit, non saranno indolori né all'interno né all'esterno andando anche a riconfigurare la costruzione europea.

Appunto la Ue. Germania e Ue: chi usa chi nella crisi globale? Tu hai, non da ora, un punto di vista peculiare...

Facciamo un passo indietro per chiarire alcuni presupposti importanti. Senza andare fino alla nascita del mercato comune nel quadro della Guerra Fredda e alla prima embrionale autonomizzazione del sistema monetario europeo dopo il crollo del regime di Bretton Woods a inizio anni Settanta, partiamo dal varo dell'euro. La moneta unica europea non è frutto di un errore o di una macchinazione tedesca, piuttosto si è trattato di uno strumento per rispondere alla competizione su di un mercato in via di globalizzazione, dal quale hanno tratto vantaggio tutti i settori delle borghesie e dei ceti proprietari europei, in diverso grado e con risultati differenti. Non è dunque esclusivo strumento dell'egemonia economica di Berlino sull'Europa, certo, è anche questo ma non solo: il rapporto Germania/Ue ha funzionato nei due sensi, che è quanto i no-euro proprio non vedono. Al tempo stesso, sia il gioco spesso paralizzante degli equilibri reciproci (in particolare il potere di veto britannico, in questo vero cane da guardia degli Usa) sia un allargamento eccessivo voluto per ragioni di controllo politico e geopolitico da Washington sia il nanismo politico tedesco hanno nei fatti allontanato più che avvicinato la costituzione di un vero polo imperialista europeo.
Ora, con lo scoppio della crisi globale, a tutt'oggi irrisolta, i nodi sono venuti al pettine. La crisi non nasce in Europa né dall'euro e però ne mette a nudo tutte le fragilità. Il primo assalto della finanza internazionale (sarebbe meglio dire: a stelle e strisce) ai debiti sovrani europei e all'euro è stato rintuzzato ma con costi pesanti per il futuro dell'Europa: sia sul piano economico con i programmi di austerity e la quasi frammentazione dei circuiti finanziari e bancari continentali surrogati dall'azione della Bce, sia su quello politico con la divaricazione crescente, un po' su tutte le questioni, tra "nucleo duro" nordico, paesi mediterranei e fianco orientale. C'è da dire che anche il grosso delle rispettive popolazioni si sono, più o meno passivamente, adagiate sulle sponde nazionali - nessun segno minimo di solidarietà c'è stato verso la popolazione greca trattata come tutti sanno - combinando verso l'Europa la preferenza strumentale per la moneta unica (financo in Grecia) rispetto al ritorno a monete nazionali prevedibilmente più deboli con una crescente disillusione e diffidenza. Insomma, nessun potere costituente in giro, né in alto né in basso, ciò di cui gli "europeisti movimentisti" non tengono sufficiente conto.

Che ruolo hanno giocato, in questo contesto, le politiche monetarie della BCE?
 
A tutto ciò si aggiunge la peculiare azione della Bce, come accennavo. Questo è un punto, anche politico, delicato visto il favore con cui questa azione viene considerata anche a sinistra (che è arrivata a sposare la proposta del QE for the people che si pone, è bene dirlo, sulla medesima direttrice della Bce solo volendo allargarlo al "popolo"). In particolare con Draghi la Bce si è completamente allineata sulla politica monetaria espansiva della Federal Reserve statunitense. Si può discutere quanto ciò sia fin qui servito a non far precipitare la crisi delle banche europee e dei debiti sovrani degli stati più indebitati, comunque è certo che non c'è stata alcuna ricaduta positiva né può essercene sui ceti medio-bassi. Ma, notare, anche dal punto di vista del rafforzamento di un capitalismo europeo, il rapporto costi/benefici è tutt'altro che positivo: se l'austerity negli ultimi tre anni è stata messa in standby, l'immissione di liquidità in euro ha nei fatti non solo congelato ogni ristrutturazione dei debiti sovrani senza per questo rilanciare l'economia, ma ha creato una potenziale bolla speculativa sulla quale potrà scorrazzare la speculazione anglo-sassone al prossimo assalto (che è quanto l'austerity di marca teutonica, in un'ottica neomercantilista, puntava ad evitare). La situazione critica di una parte delle banche europee così come gli enormi deficit (in particolare italiani e spagnoli) verso la Germania accumulatisi nel sistema inter-europeo Target 2 dicono di squilibri sempre più ampi all'interno della Ue. Insomma, mentre ci si approssima alla fine delle politiche monetarie espansive in Occidente con la Federal Reserve che ha iniziato ad alzare i tassi e il QE europeo che non potrà continuare... l'Europa si ritrova con i medesimi problemi di prima, addirittura ampliati, e sicuramente meno coesa.
In tutto questo c'è poi un nodo fondamentale che sia gli "europeisti a prescindere" della sinistra sia i "no-euro" saltano bellamente. Guardando al solo perimetro ristretto europeo e al ruolo-guida in esso della Germania -ovvero senza provincializzare l'eurocrisi - si perde di vista l'elemento fondamentale che è, appunto, il ruolo degli Stati Uniti (e del dollaro). Gioca qui una speculare miopia, del resto convergente. Da un lato, il viva Draghi abbasso Merkel in nome del keynesismo (finanziario) di Obama non solo mistifica i "successi" della politica economica d'oltreoceano (non si capisce da dove sarebbe spuntata fuori la vittoria di Trump) ma porta acqua al mulino della ricetta americana fin qui incentrata sulla "crescita" da indebitamento, ovvero pagare debito con altro debito (degli altri): si sproloquia di Keynes e ci si ritrova... Soros.
Dall'altro, la prospettiva di fuoriuscita dall'euro da "sinistra anti-tedesca" neanche si avvede che nelle attuali condizioni è proprio l'amministrazione Trump a voler far fuori l'euro spaccando l'Europa: si sogna, anche qui, di un rinnovato deficit spending sponsorizzato da una rediviva "nostra" banca centrale e si rischia di avere... lirette ipersvalutate e dollarizzate e salari ultradecurtati. Il punto, qui, non è affatto l'influenza attuale di queste posizioni quanto piuttosto la ricaduta politica negativa nel dibattito e in quel poco di iniziativa politica che è oggi possibile mettere in campo: ci si muove sempre su false alternative imposte dal campo capitalistico che impediscono anche solo di impostare un "nostro" discorso autonomo, per quanto difficile questo oggi possa essere. Sia chiaro, questa non vuole essere una critica ideologica o purista: ben altra cosa è investigare le ragioni materiali profonde, e a rapida mutazione, che spingono pezzi della società a posizionarsi in un senso o nell'altro sul campo dato (dal nemico di classe), individuare quale trend prevalga a date condizioni e, insieme, lavorare su contraddizioni e ambivalenze di queste dinamiche che ne rovescino o almeno interdicano il loro segno di classe. Su questo, del resto, mi pare evidente che il trend prevalente oggi sia quello che in prospettiva spinge, pur tra mille oscillazioni, per una divaricazione e frantumazione del quadro europeo, dall'interno e dall'esterno. Ma, oltre al piccolo "particolare" che nelle condizioni date questo non sarà certo deciso "dal basso", la domanda è allora: che fare se e quando si darà per non correre al rimorchio delle soluzioni borghesi?

Veniamo all'oggi e al domani immediato. Stanti così le cose, quali prospettive per l'Europa...?

Per dirla con una battuta, la UE ha forse iniziato la lotta contro la implosione puntando a una ... disgregazione lenta e controllata. Per Berlino, che ovviamente cerca di tirare le fila, per quel che può, del gioco, la situazione è altamente contraddittoria. Perché da un lato ha bisogno di una certa tenuta del quadro europeo, non solo nel circolo più ristretto, ma sull'intero continente, pena un indebolimento e una completa estromissione anche dal resto del mondo. Dall'altro, deve per questo chiaramente "stringere" sugli altri paesi, nei due sensi: sulle politiche da portare avanti, e con chi farlo. La proposta - che Merkel ha chiesto di formalizzare al prossimo vertice europeo, dunque un passaggio non da poco - dell'Europa a due velocità è, per quanto ancora assai vaga, immediatamente rivolta contro i paesi est-europei, rei di "approfittare" delle politiche europee e della libera circolazione interna senza "ricambiare" (v. profughi), avendo inoltre fatto da sponda alla politica anti-russa di Washington. Ma chiaramente è molto più di un monito anche contro i paesi del fronte meridionale, in particolare l'Italia, incapace fin qui di qualunque seria ristrutturazione (cosa verissima, la parabola di quel pallone gonfiato di Renzi lo esemplifica più di ogni trascorso berlusconismo). Vale a dire, il "piano B" di uno sganciamento del nucleo forte europeo dal resto e dunque della fine della moneta unica non è affatto archiviato per Berlino. Comunque sia, il problema per la Germania e la sua residua prospettiva europeista è che a breve dovrà rintuzzare l'aggressività americana e le sponde che questa troverà qui in Europa (Italia di un redivivo tandem Renzi-Berlusca?) mentre solo sul medio-lungo periodo potrebbe farsi forte di una più profonda integrazione con la Cina, a sua volta necessitata ad autonomizzarsi dal vincolo che l'ha fin qui tenuta stretta e subordinata agli Usa. All'immediato, molto probabilmente, il governo Merkel cercherà di evitare lo scontro diretto magari accettando una rivalutazione dell'euro e facendo concessioni di facciata sulla questione del surplus commerciale.
Attenzione, e qui finisco, a non scambiare queste eventuali misure per un cambio di passo sostanziale nelle politiche economiche della Ue, eventualmente consolidato da una vittoria elettorale socialdemocratica alle prossime elezioni tedesche che aprirebbe, vuoi con una Grosse Koalition più curvata a sinistra vuoi addirittura con un governo rosso-rosso-verde, a un rilancio europeista in chiave "post-austerity". A parte le facili considerazioni che chiunque può trarre dall'operato anche solo di questi ultimi anni della socialdemocrazia tedesca su tutti i piani - del resto lo stesso candidato socialdemocratico Schulz parla di Europa non a due ma a più velocità - non sono solo le ragioni che dicevo a far escludere quella prospettiva ma, più nel profondo, è il fatto che la Germania non può, né a breve né a medio termine, sostituire gli States nella funzione di riciclo dei surplus commerciali e della rendita globali attraverso la moneta mondiale, l'indebitamento e l'apertura del proprio mercato interno. E questo per ragioni, ripeto, profonde che rimandano alla divisione internazionale del lavoro, al comando globale via moneta, alla geopolitica, alla stessa storia (l'apparato produttivo tedesco è sempre stato esorbitante rispetto al mercato interno). Non solo: neppure gli Usa sono in grado, questo è quanto segnala il passaggio Trump, dovesse anche venir buttato giù la cosa non cambia, non sono più in grado di svolgere pienamente quella funzione a beneficio di se stessi, innanzitutto, e insieme dell'intero sistema. Il gioco globale si fa sempre più a somma zero, tutto un lungo ciclo capitalistico e forse una civiltà stanno approssimando la fine, e i giochi si fanno duri. Forse faremmo bene a provare a posizionarci a questi livelli - per quanto difficili da agire politicamente all'immediato - piuttosto che perderci fuori tempo massimo dietro improbabili riedizioni di un capitalismo europeo ben regolato di marca socialdemocratica.

lunedì 20 marzo 2017

Gli anni Settanta sono ancora un nostro problema di Militant


Dei tanti modi di ricordare l’anniversario del Settantasette, uno dei più “obliqui” è quello di procedere partendo da un libro decisamente minore, giornalistico, e che affronta le vicende di un gruppo della sinistra extraparlamentare di fatto dismesso l’anno prima. Eppure, questa storia di Lotta continua regge allo scorrere del tempo proprio perché fatta senza l’ambizione della rivalsa o della condanna. Cazzullo non ha certo gli strumenti culturali per interpretare gli anni Settanta, ma nella sua vera o apparente ingenuità ricostruisce un mondo, senza decisive pregiudiziali ideologiche, e proprio per questo capace di riflettere l’ansia di quegli anni, di quella generazione di rivoluzionari. Gli anni Settanta, col loro culmine nel ’77, segnano l’ultimo ciclo di lotte di classe rivoluzionarie nel nostro paese. Intendiamo, con questo, che nel tornante tra il ’77 e il ’78 si conclude, per la sinistra rivoluzionaria italiana, la questione del potere. Qualsiasi opinione si abbia delle scelte politiche della sinistra rivoluzionaria di quegli anni, rimangono l’esperienza a noi più vicina dalla quale provare a ripartire. Ecco perché, nonostante la distanza temporale e politica, il problema suscitato in quel decennio è ancora un nostro problema, e l’enigma che li avvolge ancora tutto da decifrare.
Lotta continua è un gruppo altamente simbolico di quegli anni. E’ l’organizzazione rivoluzionaria più ramificata e radicata, quella maggiormente attraversata da scontri tra posizioni politiche. E’, inoltre, quella che godrà del maggior apporto operaio, presente in fabbriche come la Fiat a Torino, la Om e la Pirelli a Milano, il Petrolchimico di Marghera, e decine di altre. Lc racchiude la confusione, l’impazienza, la generosità e la capacità conflittuale di quel decennio. Nell’affermare questo non vogliamo dire che le posizioni di Lc siano state condivisibili, che la sua organizzazione fosse “la migliore” tra le varie presenti in quegli anni, che oggi “servirebbe” una nuova Lotta continua, e cose del genere. Non è un revival nostalgico quello che proponiamo. Diciamo, più semplicemente e forse più onestamente, che Lc rispecchia un mondo, e raccontarne la sua storia contribuisce alla comprensione di quel decennio, nella sua forza e nelle sue contraddizioni.
L’elemento cardine da cui partire per capire gli anni Settanta è la rottura col Pci. Un’intera generazione si scopre rivoluzionaria ma impossibilitata ad utilizzare quegli strumenti culturali che il movimento operaio fino a quel punto aveva sedimentato nel proprio seno, avendoli in qualche modo “istituzionalizzati”. Si trattava in altri termini di inventarsi un nuovo mondo, al tempo stesso rivoluzionario e alternativo a quello comunista ufficiale, prendendo dove capitava quei riferimenti teorici necessari ad elaborare una linea politica (dai Tupamaros a Fanon, dalle Pantere nere a Adorno, da Foucault a Mao). Bisogna dire che l’alchimia venne raramente raggiunta. Ma nella foga della rivoluzione, probabilmente mai in questione vista con gli occhi di oggi, ma apparentemente possibile per quella generazione di militanti, il movimento trovò tutto sommato un punto di equilibrio dato da una mobilitazione costante e disponibile alla radicalizzazione.
Nel libro emerge questa necessità di rottura, anche in forme francamente atroci. Ricorda ad esempio Peppino Ortoleva: «Non eravamo antiamericani. Avevamo nei confronti degli Usa un atteggiamento quanto meno di curiosità. Non erano il nemico, il vero nemico era L’Urss». Adriano Sofri: «Commosso dal suicidio di Ian Palach, feci quasi da solo un volantino in omaggio al suo gesto». Paolo Brogi: «Andammo ai cancelli con i volantini per Palach». E via continuando, prende forma l’urgenza di riappropriarsi dell’idea di rivoluzione sottraendola alle organizzazioni comuniste ufficiali, e questa innovazione passava dallo scontro frontale col mondo comunista. Questa necessaria rottura trascinò con sé una quota minoritaria ma non marginale di classe operaia. Gli anni Settanta non furono caratterizzati dalla centralità studentesca e dai suoi desideri indotti (narrazioni queste divenute vulgata ex post), ma dal consenso operaio che le opzioni politiche della sinistra rivoluzionaria (tutte, compresa la lotta armata) ebbero fino alla fine del decennio. Questo tentativo di rinnovare un universo politico fatto di teoria, di cultura e di pratiche, si scontrò rapidamente con una tradizione che andava molto al di là delle briglie comuniste ufficiali. La maggioranza della classe operaia, del proletariato, rimase nonostante tutto distante dal magma rivoluzionario. E’ bene dircelo quarant’anni dopo. Nel congresso nazionale di Lc del 1975 si procede alla conta degli iscritti: nonostante la presenza diffusa in 84 province, i militanti sono ottomila. Il gruppo più numeroso e radicato della sinistra rivoluzionaria italiana conta nel cuore degli anni Settanta ottomila persone. Questo fatto è decisivo nell’evoluzione di Lotta continua e della sua crisi, perché costituisce esattamente il nodo, peraltro già allora evidente ai suoi dirigenti, della necessità di trovare un collegamento tra innovazione e tradizione, tra soggettività operaia disponibile alla radicalizzazione (una minoranza, per quanto forte) e una massa operaia comunista ma non rivoluzionaria, esattamente come il proprio referente politico, il Pci.
E’ anche questo dilemma che spingerà Lc all’appoggio tattico del Pci, al “fronte unico dal basso” in grado di ricomporre le divisioni nella classe operaia, che Lc viveva giustamente come *un problema*, premendo sul partito per spostarne l’asse a sinistra, sottraendolo all’abbraccio mortale della Dc. Una scelta liquidata troppo presto come equivoca o velleitaria, eppure che in quel frangente assolveva a un bisogno politico: intercettare quella maggioranza del proletariato che, nonostante tutto, rimase organicamente legata al Pci e alla Cgil, ma contro di cui non era possibile pensare alcuna rivoluzione. In altre parole, uno dei nodi insoluti della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta sembra essere proprio questo: aver immaginato una rivoluzione non solo contro il sistema di potere espresso dalla Dc, ma anche contro la maggioranza della classe operaia di allora, contro il comunismo nella sua veste imbolsita dal riformismo ma ancora, agli occhi della classe, comunismo.
La tattica della pressione dal basso sul Pci va in crisi col compromesso storico. Pensato nel ’73, concretizzato nel ’76 con l’ingresso del partito nell’”area di governo”, il Partito comunista salda i suoi interessi con quelli della borghesia e chiude lo spazio politico a qualsiasi ipotesi di instabilità o di alternativa di sistema. Sono gli anni in cui la rottura con l’Urss viene addirittura esplicitata (del ’76 è la famosa intervista in cui Berlinguer si diceva più sicuro sotto l’ombrello Nato piuttosto che nel Patto di Varsavia). Questa chiusura manda in crisi le organizzazioni disponibili alla convergenza col Pci (o almeno con la sua base), ma non solo questo. Il compromesso storico frantuma ogni possibilità di evoluzione del sistema politico italiano. Fino agli ’72-’73, le lotte operaie fuori dal Pci spostano in avanti il quadro dei rapporti di forza per l’intero proletariato. La cinghia di trasmissione, tutto sommato e al netto delle innumerevoli contraddizioni, funziona. Tra la conflittualità operaia e la generalità dei rapporti sociali si mantiene un collegamento, e si mantiene per il carattere ancora aperto del confronto-scontro col comunismo ufficiale. Successivamente, la chiusura del Pci annulla quello spazio, simbolicamente chiuso dalla Legge Reale del 1975 a cui collabora tacitamente anche il Partito comunista. E getta le fondamenta del Settantasette, inteso come prodotto di questa chiusura.
Il Settantasette è il canto del cigno degli anni Settanta e, allo stesso tempo, fa storia a sé. Di fronte alla chiusura del Pci, Lotta continua va in crisi definitiva (e con lei altre organizzazioni, dal Manifesto a Avanguardia Operaia, confluite poi in Democrazia proletaria che non riuscirà mai a superare l’1% alle elezioni, dato indicativo). Altre organizzazioni sapranno dare fiato a questo rifiuto: dall’Autonomia alle Brigate rosse, lo scontro si sposta direttamente su di un piano insurrezionale (o lottarmatista) in grado di rispondere al bisogno di rivoluzione di quella generazione, ma incapaci di una strategia politica disgiunta dal suo aspetto militare. Al Settantasette manca una tradizione (manca cioè Machiavelli, Gramsci, Hegel, il Marx filosofo, autori dal copyright piccista e proprio per questo ignorati). La catastrofe degli anni Ottanta è ancora lì a ricordarci di questo mancato collegamento tra innovazione e tradizione comunista. Con gli anni Settanta scompare in Italia il comunismo, cioè la possibilità di organizzare lotte di classe per il potere che contengano, certamente nelle forme e nei contenuti nuovi che l’attualità impone, un’alternativa politica al capitalismo, e che sappiano attraverso questa instaurare rapporti con la maggioranza del proletariato italiano. Chi l’ha saputo fare (come il movimento che portò a Genova), l’ha fatto a scapito del comunismo stesso, riducendosi ad un riformismo radicale a-comunista e vertenziale. Chi invece è rimasto comunista, non ha saputo più intrecciare la propria esperienza politica con quella della maggioranza (e quindi del consenso) del proletariato nazionale, riducendosi allo stato di minorità esistenziale dal quale non sa come uscirne (sia nelle sue versioni conflittualiste che in quelle micro-partitiche). E’ un problema che affonda le sue radici negli anni Settanta, ancora oggi un enigma avvolto nel mistero per la sinistra di classe.

domenica 19 marzo 2017

Il conflitto sociale che viene, tra guerra e populismo di Sandro Moiso, Carmillaonline.com

Emilio Quadrelli, SULLA GUERRA. Crisi Conflitti Insurrezione, Red Star Press 2017, pp. 276, € 18,00

guerra e terrorismo 4991Oggi la guerra non è più una tendenza bensì un dato di fatto” (E. Quadrelli)

Seguo con estremo interesse e, ormai, da più di dieci anni il lavoro di pubblicista di Emilio Quadrelli. A partire, almeno, da quegli straordinari reportage pubblicati dieci anni fa su “Alias”, supplemento settimanale del “Manifesto”,1 in cui l’autore dava voce alle donne protagoniste delle rivolte delle banlieues oppure delle violenze collegate alla presenza militare della Nato nei Balcani, soltanto per citarne due dei più interessanti.
Ne ho sempre apprezzato la ricerca militante unita ad una passione che è raro trovare persino nel pensiero antagonista e di sinistra. Non sempre ho completamente condiviso i presupposti teorici ed ideologici2 su cui basa le sue analisi, ma ho comunque sempre ritenuto le sue narrazioni e proposte un buon punto di partenza per discutere delle contraddizioni del presente e delle prospettive della società e delle lotte di classe in questa fase di senescenza dell’imperialismo occidentale.
Tale impressione mi è stata confermata dal testo edito di recente dalla Red Star Press che affronta, senza mezzi termini, il problema della guerra in cui siamo già immersi. Anche se, troppo spesso, molti sembrano non essersene ancora accorti.
Su tale problema Quadrelli spende parole sintetiche e prive di dubbi fin dalle prime righe:
Il mondo è nuovamente in guerra. La crisi sistemica cui è giunto il modo di produzione capitalista non sembra avere altra via di uscita se non quella di un’immane distruzione di capitale variabile e capitale costante. Come le due guerre mondiali novecentesche sono lì a testimoniare, solo distruggendo il capitalismo può dare vita ad un nuovo ciclo di accumulazione. Il ricorso alla guerra, pertanto, diventa la soluzione non solo possibile ma necessaria”.3
Mentre i media e i governi continuano a coltivare l’illusione che il modo di produzione capitalistico abbia superato le sua contraddizioni più violente e che la guerra generalizzata sia soltanto un brutto ricordo, di cui i conflitti attuali non costituiscono che un riflesso, in una società destinata a durare in eterno, l’autore ci ricorda che la guerra costituisce l’anima dell’imperialismo, sia nella sua forma finanziaria e commerciale che in quella guerreggiata. Non un errore da correggere, ma l’essenza del suo divenire e della sua sopravvivenza.
Quanto la triade crisi-guerra-ricostruzione sia, oggi, un semplice dato di fatto è sotto gli occhi di tutti. Il mondo è già in guerra e la generalizzazione di questa una possibilità che sembra darsi dietro ad ogni angolo. In ciò vi è ben poco di soggettivo. La guerra non è il frutto di qualche folle «volontà di potenza» bensì il sobrio approdo di un processo oggettivo che nessuno è in grado di controllare. La borghesia imperialista la quale, aspetto che non deve mai essere ignorato, è l’agente «fenomenico» di forze storiche materiali e oggettive di cui incarna le funzioni senza, però, governarle coscientemente, precipita dentro la guerra non diversamente da come piomba nella crisi.4
I nove saggi che costituiscono il volume, di cui quattro scritti con Giulia Bausano, intorno al discorso della guerra che viene, ne costruiscono però un altro, più articolato, che non esamina soltanto i moventi oggettivi del conflitto, ma, e soprattutto, le forme politico-sociali e militari che gli attori devono darsi per affrontarlo e le loro possibili ricadute sulla lotta di classe e la sua organizzazione, autonoma ed insorgente, che potrebbe derivarne.
Da qui la particolare attenzione che Quadrelli riserva sia alla diffusione della militanza islamica radicale, tanto nel Medio Oriente che nelle metropoli imperialistiche, e allo scontro militare che ne deriva, sia alla rinascita dei movimenti populisti negli stati occidentali e alle ragioni della loro affermazione. In tutti e due i fenomeni, che l’autore non esita a ricollegare al neo-imperialismo arabo (il primo) e ad una più moderna riproposizione del fascismo degli anni Venti e Trenta (il secondo), è però già possibile ravvisare una manifestazione di contraddizioni di classe insolute che, in riferimento ad alcune opere di Karl Marx ed Friedrich Engels, possono essere definite come “gemito degli oppressi”.5
Per quanto riguarda il primo, l’autore afferma:
Nel campo dell’imperialismo arabo-fondamentalista sono presenti masse proletarie e subalterne attratte dalle retoriche «anticoloniali» che questo imperialismo sfrutta in maniera intelligente e che, questo il punto, poggiano su contraddizioni reali e materiali […] Bisogna comprendere, cioè, che nella relazione crociato-colono a essere determinante per i combattenti islamici è l’aspetto coloniale che il crociato riveste e che lo «scontro di civiltà», nel mondo contemporaneo, non è altro che una forma alienata di un conflitto politico che affonda le sue radici nelle contraddizioni materiali prodotte dal sistema imperialista6
Quindi, facendo riferimento alle personali conoscenze dovute alle sue precedenti indagini e ricerche condotte sulle banlieues parigine, può ricollegare la militanza islamica radicale alle trasformazioni della condizione della classe avvenute nelle metropoli occidentali, in cui illegalismo e attività precarie costituiscono il cuore di una condizione materiale di sopravvivenza, e di rabbia, in cui sono state fatte sprofondare milioni di persone. Di entrambi i sessi.
Proprio parlando degli attentatori di Charlie Hebdo e del susseguente attacco ad un piccolo supermercato nel quartiere ebraico di Parigi, l’autore può rilevare che:
I tre provengono da quei mondi sociali dove attività legali ed illegali si intrecciano in permanenza in quella complessa e variegata articolazione a cui è approdata “la giornata lavorativa” di quote non secondarie di forza lavoro globalizzata in basso, i cui numeri cominciano a essere particolarmente consistenti anche dentro le metropoli imperialiste europee […] Lì, in aperta contrapposizione al nulla nichilista dei territori metropolitani, l’Islam politico ha buon gioco nell’offrire un’identità forte, una prospettiva di vita, un obiettivo storico/politico a quote di popolazione alle quali, il capitalismo globale, non riserva altro che un’esistenza prossima al servaggio”.7
Citando un autore cui fa più volte riferimento Quadrelli nel corso dei suoi scritti, si potrebbe affermare che cogliere appieno le contraddizioni di classe e della Storia
non è possibile se non nello spazio vuoto e popolato, al tempo stesso, di tutte quelle parole senza linguaggio che fanno udire a chi tende l’orecchio un rumore sordo che proviene da sotto la storia, il mormorio ostinato di un linguaggio che dovrebbe parlare da solo: senza soggetto parlante e senza interlocutore”.8
E’ nel silenzio delle periferie e del malessere privato della parola e della possibilità di esprimersi, anche e soprattutto dalla sinistra istituzionale, che occorre infatti individuare le radici profonde della rabbia e delle rivolte che verranno. Con modalità e manifestazioni inaspettate e talora, come nel caso del radicalismo islamico o dei populismi, stravolte nella loro intima essenza.
Deviate dall’
affermarsi di un modello dove non esiste più alcun collante collettivo. Anzi, a essere rimossa, come nella nota asserzione di Margaret Tatcher – «La società non esiste» – è l’esistenza stessa dei mondi sociali. Palesemente ciò che emerge è il venir meno di qualunque retorica incentrata sulle masse. Queste spariscono dalla scena storica. Per il potere imperialistico non esistono più.9
Accade così, paradossalmente, che le masse giovanili espropriate di qualsiasi diritto delle banlieues e gli operai timorosi di perdere il lavoro, oppure che già l’hanno perso,10 finiscano col proiettare il loro scontento, nella totale assenza di una sinistra capace di rappresentarli, su forme di organizzazione politica e all’interno di proposizioni ideologiche tra di loro soltanto specularmente rovesciate: il radicalismo islamico e il populismo. Entrambi nazionalisti ed identitari su basi non classiste. Entrambi prodotti da borghesie già avviate ad una deflagrazione bellica mondiale in cui il ruolo partecipativo delle masse tornerà ad essere decisivo. Sia durante che dopo. Con buona pace di coloro che dell’esclusione delle stesse dalla partecipazione attiva avevano fatto uno degli obiettivi prioritari del liberismo sovranazionale di cui la Tatcher sintetizzava così chiaramente il pensiero e l’attitudine.
Gabbie autentiche in cui il moderno proletariato delle suddette metropoli è paradossalmente tornato alle condizioni di partenza del XVIII secolo11 grazie alla globalizzazione produttiva, ma anche alla progressiva perdita della propria identità di classe dovuta a decenni di illusorio “benessere” e di campagne di ricomposizione ideologica condotte dalle forze sindacali e delle sinistre istituzionali.
Una trasformazione passata anche attraverso una riformulazione in chiave individualistica dei rapporti di lavoro di cui i giuslavoristi, come ben individua Quadrelli,12 portano una significativa responsabilità. Anche se
Centrale, in tutto ciò, è la liquidazione di tutta una procedura formale, fondata sui resti di un modello di rappresentanza politica, sostituita attraverso la «messa in scena» della comunicazione diretta del leader con il popolo”.13
Forma di comunicazione che, se è servita in tempi di liberismo trionfante ad annullare la “società” in quanto insieme di organi rappresentativi, oggi fonda il populismo trionfante che, in tempi di crisi e di tendenza esplicita alla guerra, deve illudere masse de/classate di essere nuovamente protagoniste del proprio destino.
Il Movimento 5 Stelle sotto tale aspetto è esemplificativo, acquista consensi e organizza quote di popolazione, per lo più subalterne, a partire da un programma sociale all’interno del quale vi è tutto e il contrario di tutto” così, prosaicamente “i movimenti populisti di destra si occupano di negozi che chiudono, di mercati rionali che spariscono, di officine che abbassano le serrande, di fabbriche che cessano la produzione, di case che mancano, di pensioni insufficienti, di degrado e insicurezza urbana e di lavoro che non c’è. I politici, i potenti in generale, le banche, le multinazionali sono individuati come i soli e veri responsabili della crisi e, in virtù di ciò, identificati come gli elementi antinazionali e antipopolari di cui occorre sbarazzarsi.14
Insomma, non diversamente dai riformisti di un tempo, il populismo “coltiva e propaganda l’illusione di un capitalismo buono contro un capitalismo cattivo.15
Immagine tutta interna, però, alle differenti forze imprenditoriali ed imperialistiche che nella loro lotta a livello nazionale ed internazionale si preparano a ripartirsi, ancora una volta sui campi di battaglia, la ricchezza socialmente prodotta.
Un grande gioco in cui la “nazionalizzazione” delle masse torna ad essere un elemento portante, ma che, per altri versi, potrebbe condurre ad effetti destabilizzanti e indesiderati per la classe al potere ed insperati, in prospettiva, per la lotta di classe.
Ancora inconsapevole, almeno in parte qui in Europa,16 di questo suo indubbio fine storico, il populismo
volta per volta fornisce, senza alcun problema di coerenza, risposte apparentemente forti e risolutive alle domande che i vari segmenti di subalterni o di borghesia in piena decadenza gli pongono. La sua vera forza e capacità, tuttavia, non consiste in questa sorta di equilibrismo permanente bensì nel saper convogliare tutte le istanze provenienti dal basso verso un nemico”.17
Esattamente come il radicalismo islamico sa fare.
La negazione della dialettica amico/nemico o, perlomeno, lo spostamento del suo significato su altri piani (per esempio quello dei diritti umani generici e privati di qualsiasi caratteristica di classe oppure l’”educazione alla legalità”), è stato lo strumento essenziale per disarmare i lavoratori e le classi subalterne del loro pieno diritto all’odio nei confronti del modo di produzione capitalistico che continua a devastare le loro vite e l’ambiente in cui vivono.18 Mentre questa è tornata oggi ad essere maneggiata da segmenti di borghesia in chiave bellicista, razzista e giustizialista.
Pertanto, e qua la cosa si fa interessante, l’emergere del populismo indica il passaggio da una forma politica ad un’altra […] Ovviamente le rotture storiche che permettono l’affermarsi del populismo da un lato, insieme al decisionismo che immancabilmente si porta appresso, intervengono dentro contesti determinati e ogni volta assumono forme e aspetti diversi19
Occorre che le contraddizioni economiche e politiche tra le borghesie imperialiste stesse siano giunte al punto da far sì che
le stesse classi dominanti mostrino segni di insofferenza verso il proprio ceto politico.20 Deve cioè prodursi un corto circuito tra tutte le classi sociali e gli istituti e i partiti politici chiamati a rappresentarle […] Perché il populismo sortisca un qualche effetto occorre che i subalterni non si riconoscano più dentro determinati vincoli e forme di rappresentanza e che, al contempo, quegli stessi vincoli si mostrino superati e inadeguati per le medesime classi dominanti.21
Cosa che l’attuale crisi delle istituzioni e dei vincoli europei comincia a dimostrare piuttosto bene.
La sinistra, non solo istituzionale, sembra non saper cogliere pienamente i segnali che giungono in tal senso e neppure quelli provenienti dalle rivolte, anche se ancora sporadiche, delle periferie.
Nel momento in cui la banlieu è insorta, la sinistra bianca, la quale detto per inciso a quei territori è del tutto estranea, ha catalogato quell’insorgenza come insorgenza degli esclusi e degli emarginati nell’accezione classica che questa comporta. Non si è resa conto, cioè, che quella marginalizzazione non era il frutto di residui sociali del passato, non era eccedenza (tanto per usare un termine caro alla sinistra intellettuale) ma la prosaica materializzazione di un proletariato moderno, filiazione diretta delle punte più avanzate del modello capitalistico, Quel soggetto sociale rappresentava la storia del nostro futuro non la storicizzazione del nostro passato. Quella condizione marginale era l’esatta configurazione di gran parte della forza lavoro del presente. Con questa forza lavoro, palesemente, la sinistra bianca non vuole avere a che fare o, meglio, non vuole avere a che fare su un piano di parità. Ciò è diventato palese quando, nel 2006, nelle lotte degli studenti universitari e liceali contro le riforme del lavoro prospettate dal governo, universitari e liceali hanno volutamente cercato di tener fuori i coetanei dei tecnici e i banlieusards in generale”.22
Lo stesso atteggiamento discriminante caratterizza oggi la sinistra istituzionale nei confronti di un movimento come quello NoTav, accusato di essere localistico, primitivo, arretrato e antiquato quando, invece, può rappresentare un valido modello per l’organizzazione futura delle lotte.
Su tutto questo invita e induce a ragionare il testo di Quadrelli, ma non certo per il gusto della conoscenza e dell’astrazione. Al termine l’obiettivo non può infatti essere altro che quello della definizione, teorica e pratica, di quella che dovrà essere l’organizzazione destinata ad aiutare la storia a partorire una nuova comunità umana, libera dal capitale e dallo sfruttamento dell’uomo e della natura.

Note
1 Emilio Quadrelli su Alias del 13 gennaio 2007 e 3 febbraio 2007
2 Ad esempio Togliatti, Dimitrov e il concetto di “Grande guerra patriottica” solo per citare alcuni di quelli presenti nel testo
3 pag. 7
4 pag. 38
5 Il riferimento di Quadrelli è a K.Marx, Critica della filosofia del diritto di Hegel e F. Engels, La guerra dei contadini in Germania
6 pp. 58-59
7 pp. 35-36
8 Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Prefazione alla prima edizione del 1960
9 pag. 49
10 Si veda ad esempio, sul rapporto tra paure operaie e successo lepenista in Francia, Anais Ginori, Gli operai di Marine: nella Lorena tradita da Parigi ora le fabbriche votano Le Pen, La Repubblica 4 marzo 2017
11 Si vedano: E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore, Milano 1969; Dario Melossi e Massimo Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo), Quaderni della rivista “La questione criminale” – n° 1, Società editrice il Mulino, Bologna 1977 e Michael Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750-1850), Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1982
12 nota a pag. 18
13 pp. 18 – 19
14 pp. 21-23
15pag. 23
16 Trump e le forze economiche che lo sostengono sono molto più consapevoli del proprio progetto politico
17 pag. 26
18 Un ulteriore esempio di ciò può essere costituito del discorso alla Camera con cui Fausto Bertinotti rifiutò apertamente la logica amico/nemico in nome di un superiore interesse nazionale
19 pag.17
20 Sicuramente oggi tra imprenditoria legata alla piccola e media industria e partiti rappresentativi del capitale finanziario qualche screzio c’è, considerati anche i pessimi risultati della produzione industriale italiana; come si può vedere nel più recente studio dell’ISTAT http://www.repubblica.it/economia/2017/03/13/news/istat_produzione_industriale-160428547/?ref=RHPPBT-VE-I0-C6-P7-S1.6-T1 oppure come mostra ancor meglio la crisi di Confindustria e del suo “autorevole” quotidiano: http://www.huffingtonpost.it/2017/03/13/sole_0_n_15341040.html?utm_hp_ref=italy
21 pag.16
22 pp.71-72 Senza poter escludere che proprio al Bataclan alcuni dei differenti attori di quelle manifestazioni non si siano poi ancora ritrovati sui lati opposti dell’attentato

martedì 14 marzo 2017

Torgiano, Ferroni: "L’amministrazione Nasini non si smentisce."


Lo scorso Lunedi 20 febbraio si e’ svolto il consiglio comunale che ha “discusso” e approvato il bilancio di previsione triennale per il comune di Torgiano. Stiamo parlando di un bilancio che apparentemente riduce la spesa corrente di 133.469,00€ ( - 2,7%) e ciò potrebbe sembrare quasi buono, anzi, se ci si basasse sulle posizioni della maggioranza é di gran lunga il miglior risultato che si poteva ottenere. In realtà, nascosta dietro quella che sembra un’operazione virtuosa, si annida il seme di una vera e propria " mattanza sociale ". Per l’ennesima volta si è scelto di far pagare i costi della crisi e economia la canna ai più deboli e  indifesi, ad esempio i nostri bambini, contro i soggetti che già ne stanno, direttamente o indirettamente, subendo le conseguenze più devastanti,  le famiglie, scaricando sui servizi a domanda individuale le incapacità politiche che sono anche talvolta tecniche di chi amministra la nostra Torgiano
 Ora proviamo ad entrare più nello specifico dei numeri di questo bilancio: la riduzione di spesa sulla parte corrente, andrà ad incidere pesantemente sui servizi a domanda individuale, come ad esempio la mensa (- 131.000 €) e trasporti scolastici (-33.000 €).
 Tuttavia, non solo il servizio  stesso è stato vittima di esternalizzazione, ma anche il sistema di riscossione delle rette! A questo punto risulta doveroso porsi alcune domande; con questo nuovo sistema chi garantisce il diritto al servizio mensa, visto che il comune sembra lavarsene le mani?In casi di morosità incolpevole di una famiglia versante in gravi difficoltà economiche, come si comporta l’azienda? Lascia il bambino senza mangiare? Queste scelte, purtroppo ci dimostrano, ancora una volta, la totale assenza di una visione politica e sociale da parte dell'attuale maggioranza: banalmente, pensiamo sia intollerabile rischiare di non garantire servizi primari come il trasporto scolastico o il pasto in orario scolastico ad ogni bambino, ancora più intollerabile che a correre questo rischio sia chi già riversa in gravi difficoltà economiche.
Ma entriamo più nello specifico e andiamo ora a vedere le entrate correnti previste dal bilancio:
   2016 5.018.000€
   2017 5.043.000€
   2018 4.653.000€
   2019 4.586.000€
 
  Mentre per le spese correnti si fa questa previsione:
   2016 4.854.878€
   2017 4.721.409€
   2018 4.352.582€
   2019 4.334.961€
Mentre la spesa per il personale resta sostanzialmente stabile (almeno quella), la voce per  l’acquisto di beni e servizi si riduce perche si abbassa il costo della mensa e dei trasporti scolastici, nonché la gestione e la manutenzione degli impianti sportivi (Sì, anche questo è un servizio che è stato esternalizzato).
A fronte di questa riduzione di spesa (che, a nostro avviso, è comunque sbagliata è inaccettabile nei modi e nelle intenzioni) il comune avrebbe dunque a disposizione maggiori risorse rispetto allo scorso anno, si sarebbe perciò potuto permettere, come minimo, di abbassare qualche aliquota di TARI e IRPEF, ridurre cioè la pressione fiscale sui cittadini, cosa che ovviamente non si è verificata. Una tutela alla cittadinanza che non tange l’attuale amministrazione, così come dimostra la non attuazione di una politica efficace di recupero della TARI, un’azione che, quando ben implementata, vede per legge la possibilità di essere utilizzata come fondo per la riduzione delle tariffe, magari proprio delle utenze domestiche di quelle famiglie schiacciate dalla crisi e dalla marginalità sociale.
Tirando le somme, il bilancio che ci ha sottoposto l’amministrazione Nasini è per l’ennesima volta un bilancio che tecnicamente sta in piedi, in cui banalmente “i conti tornano”, ma che politicamente imbarca acqua da tutte le parti e rischia di portare la nostra comunità alla deriva. Non basti la scarsa attenzione (ormai già tristemente nota) ai temi della giustizia sociale, questo bilancio sottende una completa assenza di lungimiranza e programmazione politica come si evince dalla “programmazione impossibile” per il 2018 e il 2019.
Un bilancio che evidenzia ancora di più (se ancora fosse necessario) l’identità e la mentalità politica della giunta Nasini: deresponsabilizzazione in un settore delicato e di grandissimo impatto sociale come quello dei servizi mensa e trasporto scolastici,  attenzione e impegno blandi nel recupero dell’evasione, una gestione tutta sulla pelle delle classi deboli ed in sofferenza della nostra comunità, grande dedizione nel far quadrare i conti. Una mentalità e un’identità politica a nostro avviso non congeniale all’affrontare le sfide della nostra epoca.
Per questi e alti motivi come gruppo di opposizione “Torgiano bene comune” abbiamo scelto di votare contro, perché sappiamo che si poteva e si doveva fare meglio, e non era nemmeno troppo difficile.
E perché crediamo che Torgiano e i suoi abitanti abbiano bisogno e meritino di meglio di calcolatrici come amministratori.
Andrea Ferroni, Capogruppo "Torgiano Bene Comune"