martedì 31 ottobre 2017

Grasso, Bersani, Pisapia: ma perchè la sinistra non impara mai? di Aldo Giannuli

Devo dire che si può parlare del Mdp solo a prezzo di un enorme imbarazzo: è un gruppo di distinti signori, tutti parlamentari, che non ne hanno azzeccata una in tutta la vita e che non imparano mai.

Hanno sfasciato il Pci, poi hanno portato il Pds-Ds ad una fallimentare unificazione con i democristiani della Margherita, poi hanno perso le elezioni del 2001, 2008 e 2013 (quelle le hanno “non vinte”, quanto a quelle del 2006, le vinsero di strettissima misura per poi dare vita ad un governo che era un circo equestre, poi si sono fatti scalzare dal più democristiano dei margheritini, mugugnando hanno votato le peggiori riforme di Renzi (job act, buona scuola, riforma istituzionale…), poi, dopo aver coscienziosamente perso tutta la loro base, ridottisi a tre gatti e mezzo, hanno deciso di fare una scissione con i rimanenti parlamentari che non hanno saltato il fosso per arruolarsi fra i renziani.
L’unica cosa buona che hanno fatto è stata schierarsi per il No nel referendum del 4 dicembre, ma solo perché D’Alema (unico che capisca la politica in quell’infelice gruppo) li ha costretti a calci negli stinchi.
Dopo la scissione, non hanno fatto assolutamente nulla, né per elaborare una linea politica degna di questo nome, né per organizzare la loro base, né per promuovere una qualsivoglia campagna politica (visto che fra poco si vota): zero, più zero, più zero. Hanno cincischiato per sette mesi appresso a Pisapia (del quale si parlava come di in possibile segretario e, incredibilmente, nessuno rideva), poi Pisapia ha scelto il Pd (che forse lo compenserà con uno scranno alla Corte Costituzionale) e, dall’alto del suo seguito di massa, ha fatto il suoi auguri a Speranza ed “al suo partitino del tre per cento” (sic!).
C’era da sperare che, tramontata l’infatuazione per Pisapia, iniziassero finalmente a fare politica e, invece no, adesso è il turno di Grasso del quale si parla come di un possibile segretario. Si, perché da quelle parti, prima si decide chi è il segretario, poi chi è il gruppo dirigente, poi chi deve rientrare in Parlamento e, alla fine e se avanza il tempo, si organizza la base che, ovviamente, trova il piatto pronto (che democrazia!).
Io non dico che si debba realmente far votare alla base i dirigenti ed i parlamentari (troppa democrazia fa male!) ma almeno far finta che sia così. Insomma, almeno non facciamola così spudorata. Ed allora, una volta per tutte, convinciamoci che le case non si costruiscono dal tetto, ma dalle fondamenta.
Quanto poi alla scelta di merito, Grasso, se possibile, è anche peggio di Pisapia. Diventato Presidente del Senato per caso e con i voti dei 5 stelle che, nel loro immaginario, lo credevano un campione della lotta antimafia, è stato poi un ligio esecutore delle indicazioni del Pd, dando il meglio di sé nel dibattito sulla riforma istituzionale, quando combinò cose di pazzi (se è il caso posso ricordare un po’ di episodi) per battere l’ostruzionismo dei 5 stelle e di Sel (oggi, con SI, possibile alleata di Mdp). Poi, all’improvviso, realizzato che non c’è speranza di essere rieletto Presidente del Senato, scopre che il Pd ha fatto violenza al Parlamento con la fiducia e si dimette… dal Pd, non dalla Presidenza del senato (le dimissioni da un posto importante? Non sia mai! Potrebbe venire la sinusite).
E con gran faccia di corno, dice che si è dimesso ora dal Pd e non prima, per rispetto delle istituzioni! Lui come Presidente del Senato aveva l’obbligo morale e politico di difendere il Parlamento (ed il ramo che lui presiede) cercando di non ammettere la richiesta di fiducia del governo. Ad esempio sostenendo che essa è inopponibile in caso di leggi elettorali o che non è ammissibile una richiesta che obbliga un ramo del parlamento ad accettare una legge senza possibilità di nessun emendamento. E , magari avrebbe potuto utilizzare l’argomento della contraddizione contenuta nella legge, già segnalata da D’Attorre, sostenendo la necessità di emendare almeno quello sconcio. Magari avrebbe potuto invocare un intervento arbitrale del Capo dello Stato.
Forse non sarebbe servito a nulla, ed al quel punto, se davvero riteneva che si stesse facendo una violenza al Parlamento, gli restava il gesto estremo delle dimissioni dalla Presidenza. La cosa avrebbe avuto ben altro rilievo politico, creando non poco imbarazzo a Mattarella per la firma. In fondo, il Presidente del Senato è il suo vice e se se ne va sbattendo la porta perché la legge è incostituzionale, non è che si possa far finta di niente. Invece, l’eroico Presidente ha lasciato che la violenza si compisse e, diciamolo, con la sua complicità e dopo, solo dopo, si è dimesso dal partito (non dalla Presidenza di Palazzo Madama, insisto) per prepararsi a sedere sulla sedia di segretario del Mdp. E voi ci proponete un segretario del genere?
Infine: Mdp non scioglie una ambiguità che si porta appresso dalla fondazione, la domanda è questa: cosa vuol fare da grande Mdp? Le scelte possibili sono due: o il gruppo di pressione esterno, che punta a rovesciare la segreteria Renzi per poi rientrare, o l’alternativa di sinistra al Pd. Entrambe scelte lecitissime, per cui, se si tratta della prima, è possibile una alleanza elettorale con il Pd, ma se si tratta della seconda, l’alleanza è esclusa in via di principio, perché non puoi allearti con uno a cui vuoi fare le scarpe. E’ così difficile da capire?

giovedì 26 ottobre 2017

Questa legislatura finisce così di Alessandro Gilioli

 
Questa legislatura finisce così: con l’ex coordinatore di Forza Italia condannato in primo grado a 9 anni e interdetto dai pubblici uffici che, insieme al partito delle ruspe e del “basta immigrati”, fa approvare una legge elettorale pensata da centrodestra e centrosinistra per sovradimensionarsi un po’ nel prossimo Parlamento, mentre fuori i capi dell’opposizione si bendano gli occhi per farsi notare e fotografare dagli odiati giornalisti.

Questa legislatura finisce così: nel grottesco, nelle alleanze torbide in cui ciascuno pensa pro domo sua, nella rinuncia al senso della vergogna, nella sceneggiata mediatica di piazza, nei gesti dell’ombrello, nel ridicolo di 529 (avete letto bene: 529) cambi di casacca dal 2013 a oggi, insomma gente che ha cambiato partito, a volte pure due o tre volte, per un totale di 24 gruppi e sottogruppi registrati dalla Camera e 29 al Senato, alcuni nati e poi scomparsi nel grande valzer del volgabbanismo, altri che ancora esistono pur nell’inconsapevolezza degli elettori che non li hanno mai scelti – tipo Liguria Civica e Movimento X – e lo sapete che al Senato ci sono tre rappresentanti dell’Italia dei Valori, che nel 2013 non aveva raggiunto il quorum annegando in Rivoluzione Civile, e invece oplà, l’Idv bocciata dagli elettori è rinata silenziosamente nel Palazzo.

Questa legislatura finisce così: lasciando in eredità il Decreto Poletti, il Jobs Act, la ‘Buona Scuola’, lo Sblocca Italia, una riforma elettorale bocciata dalla Consulta, una riforma costituzionale bocciata dagli elettori, un’altra legge elettorale pensata e studiata in extremis per salvare le coalizioni che l’hanno approvata, un ex premier egotico e stizzoso che non ha capito nulla di quello che è accaduto nell’ultimo anno – e ancora manca il voto in Sicilia per timbrarne il tramonto – più un odio reciproco e insanabile tra l’ex maggiore partito di sinistra e almeno metà del popolo di sinistra, diasporizzato, orfano, spaesato, astenuto e incazzato non solo con gli altri ma pure con se stesso, con i suoi leader rissosi, con la loro incapacità di uscire dall’irrilevanza e dall’autoreferenzialità.

Questa legislatura finisce così, con i 5 Stelle entrati alle Camere come espressione caotica ma genuina di un movimentismo nato su battaglie per l’acqua pubblica, l’ambientalismo, la democrazia diretta, la dirittura morale nella gestione della cosa pubblica, i diritti dei dimenticati e la fine dei privilegi: forse ingenui ma vitali e un po’ pirati. E poi, giorno dopo giorno, eccoli trasformarsi in una falange irregimentata di espulsioni e processi, diktat e contratti obbligatori, mentre politicamente scivolavano in una variante della vecchia Democrazia Cristiana, così ben rappresentata dal suo nuovo e grigio capo Luigi Di Maio, autoproclamato erede al contempo di Berlinguer e Almirante, front man di un partito che contiene tutto e il suo contrario, pauroso della contaminazione etnica fino all’elogio del peggior ministro in carica – Minniti – e al rifiuto dello ius soli ai bambini degli immigrati, mentre la democrazia diretta diventava una beffa in cui chi ha vinto viene sostituito da chi ha perso perché lo ha deciso il figlio del cofondatore, potente nel movimento per esclusiva legge aziendal-dinastica.

Questa legislatura finisce così, con l’assurdo risorgere di Berlusconi le cui infinite nefandezze ad personam sono state cancellate dalla smemorina – l’unico prodotto che gli italiani assumono massicciamente ogni giorno – ed eccolo qui di nuovo, dimagrito da Chenot e mummificato dai chirurghi, con un nuovo doppiopetto da statista responsabile che però fa alleanze con ogni pulsione di destra estrema – è quella che sale nel Paese, sale sempre quando le classi mediobasse scivolano nella povertà e la sinistra si dà alla latitanza.

Questa legislatura finisce così, con più rabbia diffusa e meno coesione sociale di cinque anni fa, con partiti che rappresentano solo ambizioni e caos, senza progetti di affrancamento e riscatto. E senza visioni per la prossima che non siano calcoli di collegio, candidature sicure, addizioni di deputati e senatori che cambieranno di nuovo casacca ma appiccicheranno una qualche maggioranza, peggiorando se stessi e il Paese che sarebbero chiamati – incredibile – a migliorare.

lunedì 23 ottobre 2017

Sinistra – Quella scissione che non c'è


(Di Ciuenlai) - L'apertura di Speranza a Renzi (per la serie aveva regione Pisapia) ripropone in tutta la sua crudezza l'inadeguatezza dell'attuale classe dirigente della sinistra italiana, tutta immersa in un “tatticismo politicista”, che non riesce a venir fuori dagli errori del passato e, soprattutto, non coglie le priorità e le necessità del momento.
E' una mossa, probabilmente suggerita da qualcuno dentro il Partito Democratico, tesa a preparare il dopo elezioni siciliane, per fare in modo che sia Renzi ad escludere la possibilità di un'alleanza. Ma è questo quello che serve?
Nelle altre parti d'Europa e del mondo la sinistra, dalla Gran Bretagna al Giappone, sta ricostruendo, con soggetti nuovi o con mutamenti di linea di quelli vecchi, una presenza alternativa all'attuale società liberistica. Come dicono anche illustri moderati della sinistra , oggi è il tempo della resistenza e del ritorno alla lotta e al conflitto, di riorganizzare la povera gente, di tornare a rappresentare le classi sociali colpite dalla ristrutturazione capitalistica .
Parole come sinistra di governo (cioè quella che attua i programmi della destra) o centrosinistra innovativo (quello che di fatto è centro conservativo) sono l'espressione della riproposizione di una sconfitta strategica culminata con la distruzione o il forte ridimensionamento di tutti i Partiti Socialisti europei. E' per questo che il nuovo soggetto politico non nasce. Non nasce perchè si vuole continuare nella strada intrapresa con il vecchio (Il Pd).
Perchè il gruppo dirigente del dopo Pci (Con l'esclusione di D'Alema?) è incapace di concepire altra linea che quella del compromesso al ribasso e del tirare a campare. Insomma il potere come fine e non come mezzo. La scissione non c'è stata. Si è trattato di un semplice spostamento, da dentro a fuori, di una parte della corrente di Bersani. E il tutto ha portato alla solita conclusione : Grande apprezzamento nei salotti buoni , sui media e tra gli addetti ai lavori, grande sconcerto e assoluta contrarietà tra i militanti e i simpatizzanti. Succede da 30 anni . Il suicidio assistito continua!

sabato 21 ottobre 2017

Hannibal Padoan a caccia di pensionati Di ilsimplicissimus

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Se su questo blog scrivessi che bisognerebbe linciare Padoan, tutto il governo e i suoi  occulti suggeritori dell’oligarchia europea di cui sono i burattini, potrei giustamente essere condannato per istigazione all’odio e alla rivolta, ma se questi signori, ahimè indenni dalle bastonate che meriterebbero, fanno la stressa cosa, anzi assai peggio, suggeriscono in qualche modo la strage di massa, allora tutto va bene, sono nel loro buon diritto di boia sociali. E’ nel suo buon diritto Padoan a dire che “Gli Italiani muoiono troppo tardi e ciò incide negativamente sui conti dell’Inps” il che in parole povere significa due cose: o che le pensioni vanno abolite o che bisogna far morire prima gli italiani, magari negando loro le cure sanitarie.
In realtà sono anni che il tema viene agitato in maniere ambigue e demenziali dal Fondo monetario internazionale e precisamente da quando Strauss Kahn è stato fatto fuori nel modo che sappiamo perché in effetti proprio il sistema pensionistico è uno degli ostacoli che si oppongono alla precarizzazione e schiavizzazione finale. Inutile fare discorsi troppo ampi  e restiamo in Italia per vedere cosa significa in realtà il discorso di Padoan, partendo però da alcuni dati di fatto che da trent’anni vengono volontariamente occultati dall’informazione e dai governi, ma che sono necessari per la comprensione. Il primo dato ci dice l’Inps non perde per nulla:  fin dal 1998 il saldo netto fra le entrate dei contributi e le uscite delle prestazioni  è sempre stato attivo tanto che  l’ultimo dato certo e non frutto di stime  risale al 2011  e parla di 24 miliardi attivo, mentre i conti vengono fatti colare a picco dai compiti assistenziali attribuiti all’istituto, ma del tutto estranei alla sua natura: pensioni sociali, di invalidità e quant’altro che in tutti gli altri Paesi sono in carico a enti specifici. Anche così tuttavia la spesa pensionistica italiana non è affatto tra le più alte d’Europa, perché questa è un’altra delle balle colossali che ci vengono raccontate visto che è solo grazie a una vera e propria truffa contabile che essa arriva intorno 18,8 % del Pil contro il 16,5 della Francia e il 13,5 della Germania o il 15,1 della media Ue.  Il trucco sta nel fatto che nel calcolo figura anche la liquidazione che non è affatto una prestazione pensionistica, ma un prestito forzoso dei lavoratori e questo incide per l’ 1,7% sul  pil. C’è poi il fatto che la spesa pensionistica italiana viene considerata al lordo delle ritenute fiscali che in altri Paesi come la Germania nemmeno esistono o sono molto basse, mentre da noi le aliquote fiscali sono le stesse di quelle applicate ai redditi da lavoro. Questo “aggiunge” un altro 2,5% sul pil. Allora vediamo un po’: 18,8 meno 4,2 (ossia la somma delle due sovrastime principali) fa 14,6 ovvero un incidenza della spesa pensionistica  inferiore alla media europea.
Mi scuso per tutte queste cifre, ma senza fare giustizia delle cazzate che ci vengono raccontate è difficile arrivare al nocciolo della questione e al significato delle parole di Padoan:  le narrazioni truffaldine sono servite ad accresce i profitti delle aziende (con il massiccio calo dei contributi che subito è finito in finanza e non in produzione o in assunzioni) accreditando la necessità delle riforme pensionistiche, il passaggio al metodo contributivo e l’aumento dell’età pensionabile. Ma tutto questo non è servito affatto a causa di due fattori che i credenti del neoliberismo non avevano preso in considerazione: la sempre maggiore disoccupazione, la caduta dei salari e lo stato di precarietà in cui è stato ridotto il lavoro  rendono arduo il raggiungimento di trattamenti pensionistici anche solo al livello di sopravvivenza. Non lo dico io, ma lo stesso Boeri: “è forte il rischio che i lavoratori più esposti al rischio di una carriera instabile, a una bassa remunerazione in lavori precari non riescano a maturare i requisiti minimi per la pensione contributiva anche dopo anni di contributi elevati. Più semplicemente i trentenni potrebbero essere costretti ad andare in pensione a 75 anni per ricevere, se matureranno i requisiti, una pensione inferiore del 25 per cento rispetto a quanto ricevono i pensionati di oggi.” 
Dunque le future pensioni dovranno necessariamente essere supportate da forme di assistenza che finiranno per costare molto più delle pensioni di oggi con buona pace dei cretini che si bevono la storiella dell’equità generazionale, tanto più che è impossibile pensare sul serio che le persone, al di fuori dei mestieri intellettuali, lavorino fino a età così tarde. Per di più il raffreddamento dell’economia ormai endemico e a malapena nascosto da statiche mezzane, lo stessa sistema di continua rapina salariale ha per sua conseguenza un raffreddamento dell’inflazione e questo è un altro colpo al sistema pensionistico che era in attivo, in tempi di crescita reale e di battaglie sociali anche perché ognuno di noi consegnava mese dopo mesi agli istituti pensionistici cifre di un certo valore monetario per ricevere pensioni che poi scontavano trenta o quarant’anni di inflazione e dunque erano molto meno onerose per essi.
Ecco perché il sistema rischia di non reggere più: grazie proprio alle riforme che sono state attuate e alle illusioni o più spesso malintenzioni che sono state imposte con pervicacia e cinismo. Dunque cosa si può fare se non invocare una diminuzione drastica dell’età media (che in realtà sta già cominciando a calare)? E come si può ottenerla se non “assassinando” quelli che sono usciti dal lavoro attraverso una negazione delle cure, attuato con l’ipocrisia di cui certi killer di socialità sono maetri visto che il colpo alla nuca sarebbe eccessivo per l’immagine e una guerra mondiale vaporizzerebbe in un istante Padoan e tutto l’inqualificabile governo di cui fa parte?

venerdì 20 ottobre 2017

Migrare non è reato (e altre cose che non passano in tv) di Francesca Fornario

Migrare non è reato (e altre cose che non passano in tv)
 
Domani saremo in piazza a Roma per dire che migrare non è reato. Se lo fosse, un italiano su dieci sarebbe condannato.
Manifestiamo contro chi criminalizza i migranti perché i migranti siamo noi. Je suis migrant: non è retorica, è statistica. Quasi un italiano su dieci è un immigrato all’estero. L’8,2 per cento.
Siamo noi gli immigrati ai quali neghiamo l’accesso. Noi che incarichiamo i trafficanti libici di trattenere i profughi nei campi di prigionia, noi che perseguitiamo le ong che salvano chi annega, noi che “i migranti economici”, quelli che fuggono dalla miseria e non dalla guerra, li rimandiamo a casa.
Quei migranti economici siamo noi, con la differenza che il nostro passaporto ci consente di viaggiare in aereo e non su un barcone. Perché non ce ne restiamo al paese nostro? Si chiederanno le nazioni che abbiamo invaso. Perché non ce ne restiamo a casa nostra come fanno gli africani, eh? Sapete che appena l’1,5 per cento degli africani emigra in un altro continente? Che solo una piccola parte di loro arriva in Italia? No, perché i Tg – e i politici del tipo che vengono intervistati dai tg – non lo dicono mai. Non spiegano, per disinnescare l’allarme-invasione-con-i-barconi, che gli africani sono la minoranza degli stranieri presenti in italia (il 20 per cento, contro il 30 per cento di migranti provenienti dalla sola Romania).
Preferiscono dichiarare l’inesistente “emergenza-immigrazione” – i numeri sono così contenuti che c’è semmai, un’emergenza-politici incapaci di gestire il fenomeno migratorio – e rilanciano le affermazioni allarmistiche che non trovano riscontro nei dati reali. «L’Italia è piena, stop, full!», dice Salvini, e invece l’Italia si svuota: gli stranieri che arrivano sono meno degli italiani che se ne vanno. «Stop agli immigrati, a Roma sono troppi, la pressione è ingestibile», gli fa eco Virginia Raggi, e invece sono il 13 per cento della popolazione, meno che a Parigi, Berlino o Londra, dove gli stranieri sono il 41 per cento e 250mila sono italiani: Londra è la quinta “città italiana” dopo Roma, Milano, Napoli e Torino. «Non possiamo accoglierli tutti, aiutiamoli a casa loro!», si unisce al coro Matteo Renzi, e invece ne dovremmo accogliere di più, ribatte il presidente dell’Inps sciorinando i dati: «Servono più migranti regolari: versano 8 miliardi di contributi e ne ricevono soltanto 3 in pensioni». A conti fatti, gli immigrati pagano la pensione a 620mila italiani.
 
Se questi sono i dati, perché politici e talk-show denunciano l’invasione di massa quando è in corso un’evasione di massa? Perché parlano di “emergenza-immigrazione” e non di “emergenza-emigrazione”? Perché dipingono gli italiani che se ne vanno come “Cervelli in fuga” anche quando vanno a fare i lavapiatti e gli stranieri che arrivano come “disperati” e come una piaga sociale anche quando – dice la Bce – fanno crescere il Pil?
La domanda da porsi quando la gran parte dell’informazione e della politica travisa i dati e occulta i fatti è sempre una: chi ci guadagna? “Follow the money”, disse Gola Profonda, l’informatore che fece esplodere lo scandalo-Watergate, costato le dimissioni del presidente repubblicano Richard Nixon. Seguiamo i soldi, passati in questi anni di crisi nelle mani di pochi, sottratti ai salari e consegnati alle rendite, tolti ai lavoratori e regalati alle imprese e alle banche. Che c’entra questo con gli immigrati? Follow the money.
 
“Gli immigrati fanno i lavori che noi ci rifiutiamo di fare”. Le badanti, i lavapiatti, perfino i preti. Lo abbiamo spiegato per anni a quelli che si accanivano a descriverli come parassiti. Non è più vero. Gli immigrati fanno i lavori che noi ci rifiutiamo di fare qui. I camerieri e i facchini li andiamo a fare a Londra, in Germania, perfino in Africa. Non è che ci rifiutiamo di fare lavori faticosi e poco qualificanti, non siamo “choosy” e bamboccioni come ci hanno definito i politici che ci hanno costretto a emigrare: ci rifiutiamo di fare quei lavori quando ce li pagano a voucher, quando ce li pagano poco e in ritardo attraverso le false cooperative alle quali le imprese si affidano per trarre vantaggio dal regime agevolato riservato alla cooperazione; ci rifiutiamo di farli quando non ce li pagano affatto perché ci obbligano a lavare i piatti gratis per 400 ore in alternanza scuola-lavoro.
Ci rifiutiamo di fare i lavapiatti e gli autisti senza i contributi per l’affitto che ci sono in Francia, i sussidi che ci sono in Danimarca, le integrazioni al reddito che ci sono in tutti i paesi europei tranne il nostro (ha provveduto anche la Grecia, pur nel pieno della crisi). Senza il salario minimo che c’è in Inghilterra per tutti i lavoratori: «Otto euro l’ora!», dice incredula la barista di Brixton, ex  impiegata di call center a Taranto, che in Italia di euro all’ora ne guadagnava due e mezzo: «Non a nero, eh, col contratto!». Con tanto di busta paga, certo: in Italia lo sfruttamento è stato legalizzato e retribuire un lavoratore 2,50 l’ora è lecito.
 
Gli stipendi italiani sono i più bassi in Europa. Per questo, noi che abbiamo un passaporto che ci consente di farlo, ce ne andiamo. Per lo stesso motivo se ne vanno anche i migranti che sbarcano in Italia. Secondo l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), la maggioranza di loro varca il confine nord appena può. Sono i cosiddetti “transitanti”, che come noi puntano a stabilirsi in Germania, Francia, Svezia, Inghilterra. Vorrebbero andarsene perfino quelli che in Italia hanno ottenuto asilo politico – ossia il diritto all’accoglienza sancito dalla Costituzione – ma non possono, perché la legge li obbliga a restare qui.
Siamo partiti in 124mila solo lo scorso anno, dice il rapporto Caritas Migrantes. Siamo andati dove c’è lavoro, dove è meglio retribuito e più tutelato. Africa compresa: se negli Emirati Arabi reagissero come reagiamo noi, griderebbero all’invasione dei bianchi, degli Italiani che si sono riversati a decine di migliaia nelle loro città e che in un anno sono aumentati del 20 per cento. Meccanici, cuoche, ingegneri, baby-sitter italiani volati in Africa a cercare la fortuna che non hanno avuto qui. L’ultimo che ho incontrato è stato in Abruzzo, un anziano commerciante costretto a chiudere bottega per la crisi: «Vado a Dubai a fare il maestro di Sci». «A Dubai?!» «Hanno la neve finta. Costruiscono piste sintetiche. Sono pieni di soldi lì. Così mando un po’ di soldi a casa per aiutare i nipoti».
Se ne vanno soprattutto i giovani: nel 2016 sono emigrati in 48.600 nella fascia di età tra i 18 e i 34 anni, con un aumento del 23,3 per cento rispetto al 2015.
Perché? Seguono i soldi. Follow the money: in Italia la disoccupazione giovanile è tra le più alte d’Europa. Negli ultimi trent’anni, l’occupazione è crollata dell’11 per cento tra i giovani ed è cresciuta del 23 per cento tra i 55-60enni poiché i più anziani sono garantiti da contratti stabili che assicurano scatti d’anzianità e sono obbligati a restare al lavoro più a lungo dalla riforma Fornero che ha posticipato l’età pensionabile. I pochi giovani che lavorano guadagnano troppo poco per potersi mantenere: il 36 per cento in meno di quanto guadagnavano da giovani i loro genitori e il 16 per cento in meno dei loro coetanei tedeschi. Peggio di tutti stanno i precari e gli atipici: un libero professionista con meno di 30 anni, in Italia, non arriva a 12mila euro lordi. I salari sono crollati anche nelle imprese che hanno aumentato i profitti, perché i maggiori guadagni sono andati a ingrossare le vendite degli azionisti.
 
La cura proposta dai governi degli ultimi 10 anni – da Berlusconi a Gentiloni passando per Monti e Renzi – la cura per bloccare questa epidemia di espatri, è la causa stessa della malattia. Come curare il cancro al polmone somministrando una dose massiccia di sigarette. Ulteriore aumento dell’età pensionabile, ulteriore precarizzazione del lavoro attraverso l’abolizione dell’articolo 18, i voucher, il lavoro a cottimo e altri fantasiosi strumenti di flessibilità che hanno consentito alle imprese di fare profitti comprimendo i salari (i tanto sbandierati nuovi posti di lavoro creati dal 2011 a oggi sono quasi tutti tra i peggio retribuiti); nessun aumento della tassazione delle rendite finanziarie necessario a scoraggiare le speculazioni e investire nella creazione di posti di lavoro; massima diffusione del lavoro gratuito attraverso gli stage, l’obbligatorietà dell’alternanza scuola-lavoro e i protocolli d’intesa per farla da Zara e McDonald.
 
Possibile un simile abbaglio? Possibile che anche di fronte all’evidenza, al cospetto di tutta la letteratura economica che dimostra – da anni – che l’austerity che ha ispirato queste riforme produce un aumento delle disugaglianze, alla scoperta che non è stato un errore scientifico ma una truffa ben orchestrata da una banda del buco, si insista a propinare gli stessi provvedimenti? Sarà mica invece che così facendo ci si guadagna parecchio, anche se ci si guadagna in pochi e a scapito di tutti gli altri, quei pochi che possiedono i giornali e pagano le campagne elettorali? Per farla franca, bisogna trovare un capro espiatorio. Dare la colpa della disoccupazione ai disoccupati, della povertà ai poveri, dell’emigrazione agli immigrati. Dire – lasciar dire ai politici che vengono invitati più spesso degli altri nei talk show – che sono gli immigrati che ci rubano il lavoro, quando invece ci rubano lo sfruttamento.
 
Ecco a chi conviene fomentare il razzismo. Scatenare la guerra tra poveri. Dare ai migranti la colpa della povertà che è causa, invece, delle leggi che hanno legalizzato il lavoro povero. Quelle leggi non le hanno scritte i migranti e sono quelli che più le subiscono – essendo il loro permesso di soggiorno condizionato alla loro capacità di produrre reddito – e meglio le combattono. Sono in prima linea nella lotta contro lo sfruttamento negli hub della logistica all’interporto di Bologna, nelle celle frigorifere dove si conservano le carni a Vicenza, nei magazzini di Amazon, tra i camionisti e i magazzinieri che lavorano a ciclo continuo, 24 ore al giorno che poi significa alla notte, di notte, mentre gli altri riposano.
Domani, nel corteo che parte da Piazza della Repubblica alle 14.30, non ci saranno solo le ong, i richiedenti asilo che la Costituzione ci imponeva di accogliere e che invece abbiamo scacciato con gli idranti, gli operatori umanitari, gli italiani senza cittadinanza in attesa dello Ius Soli. Ci saranno i sindacati, gli studenti che si sono mobilitati contro l’alternanza, i lavoratori, i centro sociali. Decine di pullman in partenza da tutta Italia per protestare contro il razzismo e contro la narrazione tossica che lo alimenta. E per rimettere le parole al loro posto. “Sicurezza”, dal latino “sine cure” significa non avere preoccupazioni. E che cosa preoccupa gli italiani? Gli immigrati? I ladri? L’Isis? No: la paura di non trovare lavoro o di perderlo. La paura di non avere i soldi per pagare le tasse. La sicurezza non si garantisce con la repressione ma con la protezione, non si assicura negando i diritti ai richiedenti asilo ma garantendoli a tutti.

sabato 14 ottobre 2017

"Rosatellum" è il colore del "Porcellum".

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La legge elettorale in discussione in Parlamento concordata tra PD e Forza Italia con la benedizione degli alfaniani e della Lega Nord è un peggioramento delle leggi attuali uscite dalle sentenze che hanno dichiarato parzialmente incostituzionali il Porcellum e l’Italicum. L’armonizzazione delle due leggi poteva essere realizzata uniformando la soglia di sbarramento tra le due Camere al 3% e cancellando per la Camera dei deputati l’abnorme premio di maggioranza alla prima lista (diventato anche inutile perché nessuna otterrà il 40% dei voti) e l’obbrobrio dei capilista bloccati.
Al contrario la nuova legge colpisce come quelle precedenti il diritto degli elettori di scegliere i parlamentari e il principio di rappresentanza. Infatti impone liste bloccate per quasi i due terzi dei deputati e dei senatori, cancellando del tutto le preferenze e attribuendone la scelta interamente ai capipartito. Inoltre per circa un terzo dei parlamentari da eleggere nei collegi uninominali prevede delle coalizioni di cartone senza indicazione     di un simbolo, di un programma, quindi buone come specchio per le allodole e pronte ad essere disfatte il giorno dopo le elezioni per dare vita ad un’ammucchiata trasversale. Infine agli elettori è imposto un voto unico per il candidato nel collegio uninominale e una o più liste a questo collegate: se votano per una lista lo fanno anche per il candidato. Il voto per il candidato si trasferisce automaticamente a tutte le liste collegate, in rapporto percentuale ai loro voti.
Anche il principio di rappresentatività viene stravolto. Non vi è un premio di maggioranza esplicito, ma sono privilegiate le coalizioni o i partiti maggiori che conquisteranno gran parte dei seggi nei collegi uninominali e, grazie al voto unico, potrebbero utilizzare la propaganda del “voto utile” anche per i seggi attribuiti alle liste. Inoltre la soglia di sbarramento del 3% non impedisce alle liste civetta coalizzate che ottengano l’1% dei voti di far conteggiare i propri voti a vantaggio della coalizione, ottenendo in cambio qualche seggio parlamentare.
In realtà il nuovo sistema è stato escogitato per soddisfare le convenienze politiche dei partiti proponenti e dei loro leader e per danneggiare una lista unitaria di sinistra e il Movimento 5 Stelle, in vista di un nuovo patto governativo tra Pd e Forza Italia da realizzare dopo le elezioni.
Diciamo NO a questa nuova porcheria e rimettiamo al centro del sistema elettorale i cittadini senza imposizioni dall’alto e senza distorsioni della loro volontà.

Scheda
Collegi maggioritari.
Saranno 231 collegi, pari al 36% dei Seggi della Camera. I partiti si potranno coalizzare per sostenere un comune candidato.
Proporzionale.
Dei restanti 399 deputati, 12 continueranno a essere eletti nelle Circoscrizioni Estere, con metodo proporzionale. In Italia un deputato è eletto in Valle d’Aosta in un collegio uninominale; i restanti 386 deputati saranno eletti con metodo proporzionale in listini bloccati di 2-4 nomi. Le liste proporzionali sono bloccate, vale a dire che l’elettore non ha nessuna possibilità di scelta cosicché i candidati saranno eletti secondo l’ordine deciso dai capi dei partiti. Poiché sono possibili le pluricandidature, fino a cinque, i capi dei partiti e delle correnti sono praticamente certi della loro rielezione.
Il testo delega il governo a definire questi collegi plurinominali.
Le Circoscrizioni, importanti per il recupero dei resti, saranno 28. In Senato saranno 20.
Soglia.
Nella parte proporzionale la soglia a cui dovranno fare riferimento i partiti sarà il 3% sia alla Camera che al Senato. Per essere eletti a Palazzo Madama lo sbarramento si calcola su base nazionale e non più solo regionale.
Le (finte) coalizioni, vere protagoniste della legge, devono superare il 10%. I partiti che superano l’1% ma non il 3% regalano i loro voti all’intera coalizione.
Una scheda, voto unico.
Diversamente dal Mattarellum, in cui c’erano due schede (una per il collegio ed una per il listino proporzionale, con la possibilità di un voto disgiunto), con il “Rosatellum 2.0” ci sarà una scheda unica. In essa il nome del candidato nel collegio sarà affiancato dai simboli dei partiti che lo sostengono, così l’elettore non è più pienamente libero di esprimere la sua volontà .
Voto disperso.
I voti degli elettori che avranno barrato il nome del solo candidato del collegio uninominale saranno distribuiti proporzionalmente ai partiti che sostengono il candidato del collegio.
Barrando sul simbolo del partito il voto andrà al candidato del collegio e al partito per la parte proporzionale. Dunque gli elettori non avranno due voti, ma uno solo. Quindi, non potranno scegliere il candidato che preferiscono nel collegio uninominale e una lista di un altro partito nella parte proporzionale com’è non solo possibile e desiderabile, ma ampiamente praticato con la legge proporzionale vigente in Germania.
Sotto la soglia dell’1% i voti andranno dispersi.
Scorporo.
Non è previsto lo scorporo come accadeva invece nel Mattarellum.
In caso di pareggio il candidato più giovane vince.
Nel caso in cui due candidati in un collegio uninominale ottengano lo stesso numero dei voti «è eletto il più giovane d’età».
Le firme.
Viene dimezzato rispetto al testo originario il numero delle firme da raccogliere per tutti quei partiti o nuove formazioni che non sono in Parlamento o non hanno un proprio gruppo. Il numero di firme da raccogliere passa, dunque, da 1.500-2.000 a circa 750. Pure in questo caso solo per le prossime elezioni, anche gli avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione potranno autenticare le firme per la presentazione delle liste elettorali.
Incontestabile il commento del professor Gianfranco Pasquino:
“Questa legge elettorale, che non esiste da nessuna parte al mondo, dicono che garantirebbe la governabilità. Non è affatto chiaro perché lo farebbe né che cosa sia la governabilità per i suoi sostenitori, a meno che si riferiscano alla fabbricazione di una maggioranza parlamentare ampia a sostegno di un governo. Tutto questo, però, sarà affidato alla formazione di coalizioni, difficilmente prima del voto, inevitabilmente dopo, in Parlamento che è quello che avviene normalmente in tutte le democrazie parlamentari, ma è stato a lungo demonizzato come “inciucio”, consociazione, Grande Coalizione, addirittura paventando, del tutto a sproposito, l’esito tragico di Weimar (1919-1933).
Nelle democrazie parlamentari la governabilità dipende e discende da una buona rappresentanza parlamentare delle preferenze e degli interessi, delle aspettative e degli ideali degli elettori. Stabile e efficace sarà quel governo prodotto da partiti e da parlamentari che rappresentano effettivamente i loro elettorati. Con la legge Rosato, gli elettori non avranno nessuna possibilità di scegliere i parlamentari, i quali, a loro volta, non avranno nessun interesse a rapportarsi ad elettori che non li hanno votati e dai quali non dipende la loro rielezione, tutta nelle mani dei dirigenti di partito che li hanno messi in testa nelle liste oppure in collegi uninominali “sicuri”. Credo che una legge elettorale che dà ai partiti e ai loro dirigenti più potere che ai cittadini-elettori sia sbagliata e, poiché democrazia significa “potere del popolo”, molto poco democratica. Darà cattiva e inadeguata rappresentanza politica e non contribuirà affatto alla governabilità.”.
RED.
da rifondazione.it

Asino chi legge elettorale

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Prima avevano promesso di fare una legge elettorale costituzionale e anzi il cerchio magico dell’asino d’oro Matteo Renzi si era riempito avidamente la bocca con il sistema tedesco per poi produrre un sistema che superficialmente gli rassomiglia, ma che nella sostanza ne è l’esatto opposto. In qualche modo avevano fatto intendere che il nuovo sistema sarebbe stato più proporzionale e invece le maggiori deformazioni sono rimaste intatte è sinergiche, comprendendo sia lo sbarramento, sia il premio di maggioranza che messi insieme permettono di fare del voto un pongo da manipolare come si vuole. Qualcuno si era illuso che i cittadini avrebbero contato di più, quanto meno nella scelta dei candidati e invece si sono trovati di fronte a un marchingegno senza alcuna possibilità di voto disgiunto (ovvero il cuore del complicato sistema elettorale tedesco) che ancora più di prima fa del Parlamento un’aula sorda e grigia di nominati e di pedine a progetto. Infine avevano promesso di non mettere la fiducia sul fascistellum o rosatellum che dir si voglia e invece l’hanno regolarmente fatto chiarendo molto bene quale sia il valore della loro parola: meno di quella di un bandito di strada. Di fatto si tratta di un altro referendum tradito, anzi del tutto ignorato da un Parlamento legale, ma illegittimo.
Che questa legge sia forse ancora più incostituzionale di quella precedente cassata per incostituzionalità non ci piove e lo hanno chiarito nei giorni scorsi alcuni tra i più eminenti costituzionalisti della repubblica a cominciare da Zagrebelsky per continuare con Pace, Carlassare, Calvano e Villone: quest’ultimo ha detto, ” il Rosatellum è della serie: piccole limature dell’Italicum e del Porcellum. Non è accettabile. Tutti i parlamentari o quasi tutti sarebbero nominati”. Ma chi se ne frega, intanto si va a votare con questa porcheria pasticciata, si occupano le poltrone, si salvano i culi flaccidi della casta e le loro rendite, si tengono in piedi i clan di potere, si rassicurano Parigi e Berlino che l’Italia rimarrà fedele nella sua strada al suicidio e che hanno già fatto conoscere il loro apprezzamento, soprattutto in vista dell’imminente trattato fiscale. Poi si vedrà come acconciarsi con i cittadini.  Tutto un coacervo di cose  che va sotto il nome di governabilità e che è sempre più distante dalla sostanza della democrazia. Del resto con questo giochino si potrebbe andare avanti all’infinito fino a che una rivolta non li fermerà.
Lo dico senza voler a tutti i costi esagerare perché ormai la strada verso una soluzione parlamentare di questa crisi terminale del Paese si fa molto stretta e impervia: è vero che c’è un’opposizione forte, quella dei cinque stelle, che cerca di fare le barricate contro l’approvazione militare della legge, ma lo fa perché si sente in qualche modo fregata nella sua  ascesa alla stanza dei bottoni, da Renzi, Berlusconi e altri ladri sparsi del centrismo: per il resto pare essere stata completamente risucchiata nel seno della governabilità padronale. Va bene l’Europa con i suoi trattati capestro che non consentono margini di manovra per le cose ventilate a singhiozzo in questi anni , va bene l’euro, va bene di conseguenza lo scippo di sovranità, va bene tutto tranne quel po’ di sindacati esangui rimasti a difendere blandamente se non episodicamente i diritti del lavoro come ha decretato Di Maio riprendendo una frase fatta del più ottuso bottegaismo di 40 anni fa del resto travasatosi nel berlusconismo.  Il signor Nessuno che vuol essere Qualcuno: davvero patetico se non fosse drammatico e badate che l’inconsistenza è la qualità meno compromettente che si possa trovare.  Ormai la vera opposizione al sistema oligarchico è assolutamente marginale, ridotta a nicchie sparse: tra le forze politiche che si spartiscono il condominio parlamentare  non si vedono più sostanziali differenze di progetto e di futuro, nonostante le liti strumentali. E’ la notte in cui tutte le vacche sono nere.
Non c’è dubbio che oggi, con la fiducia che terrorizza i deputati mercenari, il rosatellum verrà approvato, anzi c’è chi sospetta che la leggenda secondo la quale sarebbe stato arduo farlo passare, sia stata costruita proprio per poter ottenere il massimo silenzio possibile sulla vicenda. E del resto è anche abbastanza visibile che quel po’ di fogli e di siti che di solito fanno la conta dei peli puberali e si appassionano al complesso risiko parlamentare, tacciono o si occupano dell’argomento quasi di straforo e sempre con imbarazzo. Da domani si comincerà ad organizzare un nuovo referendum: ma intanto i colpevoli festeggiano.
 

Il 14 tutti in piazza ad "alta voce" contro la povertà di Tomaso Montanari

.La politica non è più nella politica.

Se la politica è vedere, giudicare, agire per cambiare il mondo, allora la cosa più "politica" di questi giorni non è la battaglia parlamentare per la legge elettorale, ma la grande mobilitazione contro la povertà che domani, 14 ottobre, avverrà in tutta Italia.


A lanciarla è stata la Rete dei Numeri Pari "che prende idealmente il testimone dalla campagna Miseria Ladra ed è stata inizialmente promossa da Gruppo Abele, Libera e Rete della Conoscenza, e che unisce centinaia di realtà sociali diffuse in tutta Italia che condividono l'obiettivo di garantire diritti sociali e dignità a quei milioni di cittadini a cui sono stati negati (associazioni, cooperative, parrocchie, reti studentesche, comitati di quartiere, campagne, progetti di mutualismo sociale, spazi liberati, reti, fattorie sociali e semplici cittadini)".


Non sarà dunque, una giornata sulla povertà: ma con la povertà, dentro la povertà, contro la povertà. Esattamente quello che manca alla politica professionistica: la conoscenza reale delle cose che vuole cambiare.


E i promotori della manifestazione hanno ben chiara la direzione politica che hanno scelto di intraprendere: "Cinque anni fa, attraverso la modifica costituzionale dell'art.81 – imposta dalla governance europea e accettata supinamente da quasi tutto il parlamento – sono state "legalizzate" nel nostro paese le politiche di austerità. Le diverse culture che hanno dato vita alla Costituzione sono state schiacciate da una solo punto di vista, quello liberista. A cinque anni di distanza, sempre più cittadini e realtà sociali si rendono conto che le politiche di austerità introdotte con il pareggio di bilancio non ci mettono nella condizione di rispettare l'impegno di garantire i diritti fondamentali. Prima l'economia e la finanza poi i diritti. L'intangibilità umana che rappresenta il fine ultimo della nostra Carta, subordinato alle priorità di banche e finanza. Un attacco al cuore della democrazia di cui oggi intuiamo gli esiti. Siamo entrati in regime di "universalismo selettivo" come ci ha detto il governo, comunicandoci che, a parità di diritti, lo Stato non può soddisfarli tutti. In base a questi "principi" è stato tagliato il 90% del Fondo Nazionale Politiche Sociali e siamo gli unici a non aver introdotto una misura di sostegno al reddito come chiediamo da tempo attraverso la campagna per il "reddito di dignità". Le politiche sociali, gli investimenti per il lavoro, la scuola pubblica, la sanità, la casa, la difesa del territorio, non sono prioritari e soprattutto ci viene raccontato che non ce li possiamo più permettere".


I risultati di questa terribile stagione politica – di cui sono egualmente responsabili centrodestra e centrosinistra – sono impressionanti, rileva ancora la Rete dei Numeri Pari: "Raddoppiano i numeri della povertà relativa (9 milioni di persone) e triplicano quelli della povertà assoluta (5 milioni). Triplica anche il numero dei miliardari – 342 nel nostro paese – a riprova del fatto che il problema non è l'assenza di ricchezza o di crescita bensì di redistribuzione della ricchezza, modelli industriali scelti, regimi fiscali e politiche sociali. A causa dell'austerità e dei tagli alla scuola pubblica, oggi l'Italia è il peggiore paese per dispersione scolastica (17,6%), il peggiore per impoverimento della popolazione giovanile, quello che ha investito meno di tutti in istruzione e cultura, quello che ha il maggior numero di precari e con la peggiore distribuzione della ricchezza insieme alla Gran Bretagna. Tutto questo in appena otto anni".

Come presidente di Libertà e Giustizia, un'associazione di cultura politica che ha aderito alla rete dei Numeri Pari, credo che se vogliamo davvero difendere il progetto della Costituzione è da qui che bisogna partire. La Costituzione fu scritta da politici che, comunque la pensassero, erano profondamente inseriti nella vita reale, e in una vita sociale ancora largamente interclassista. Oggi viviamo in una somma di gated communities in cui i salvati non incontrano più i sommersi: una società separata strutturata in quartieri diversi, sanità diversa, scuole diverse, mezzi di trasporto diversi. Chi prende le decisioni semplicemente non conosce il mondo su cui quelle decisioni ricadranno.

È per questo che uno come me, una associazione di "salvati" come Libertà e Giustizia, ha bisogno di andare a scuola di realtà: non si può parlare di povertà, bisogna parlare con la povertà. Bisogna provare a "sentire", per poter capire: e per poi poter giudicare, e agire.

Con grande fatica sta forse nascendo un quarto polo politico ed elettorale, finalmente una Sinistra. È una cosa importante, perché senza una sinistra in Parlamento le cose, fuori dal Parlamento, andranno anche peggio.

Ma chi spera di rovesciare il tavolo delle diseguaglianze e cambiare radicalmente il volto sfigurato di questo paese sa che questo è solo un timido inizio. Citando san Paolo (lettera agli Ebrei, 1) possiamo dire che "non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura".

Ecco la città futura inizia domani, 14 ottobre, nelle piazze di tutta Italia.

FMI: Più tasse ai ricchi". - GENTILONI: il nuovo condono nel condono

L'Fmi sconfessa Trump e Macron: "Più tasse ai ricchi per ridurre disuguaglianze"

L'autorevole Fiscal Monitor del Fondo Monetario internazionale sostiene che l'aumento della pressione fiscale sui redditi più alti non frena la crescita. "C'è spazio per aliquote più alte di quelle applicate ora"
MILANO - Il Fondo Monetario internazionale si riscopre Robin Hood e lancia la sua ricetta "fiscale" per ridurre le disuguaglianze sociali: tassare i ricchi per aiutare i poveri. L'opposto rispetto alle riforme targate Donald Trump ed Emmanuele Macron.

L'outing dell'Fmi arriva nel tradizionale (e autorevolissimo) Fiscal Monitor di Washington. I toni, nello stile della casa, sono felpati e accademici. Ma la sostanza è chiara: le migliori prassi economiche consigliano di applicare ai contribuenti ad alto reddito aliquote decisamente superiori rispetto a quello attuali, che sono in costante calo". Molti studi - ammettono gli uomini di Christine Lagarde - sostengono che un giro di vite fiscale sui ricchi può danneggiare la crescita. Tesi che il Fondo rigetta senza se e senza ma: "I risultati empirici non supportano alcuna ipotesi di questi tipo, almeno per aumenti di progressività della pressione tributaria non eccessivi".

L'Fmi, come ovvio, non fa nomi di singoli paesi e non punta il dito contro nessuno. La diagnosi del Fiscal monitor è però senza appello: le economie più avanzate - è la sintesi - hanno vissuto negli ultimi tre decenni un deciso aumento delle disuguaglianze. E la colpa è del netto aumento della ricchezza in mano all'1% più ricco della popolazione. Una montagna d'oro che in qualche modo gode di un trattamento erariale privilegiato e non solo per l'accessibilità dei Paperoni alle più svariate (e non sempre legali) forme di ottimizzazione fiscale: l'aliquota massima media dei Paesi più industrializzati dell'Ocse - calcola un blog di Vito Gaspar, responsabile degli studi tributari dell'Fmi - è crollata dal 62% del 1981 al 35% del 2015.

Lo studio del Fondo, come ovvio, ha rapidamente trovato una sua lettura politica. Il Partito laborista di Jeremy Corbin ne ha già fatto un manifesta per le sue proposte fiscali: un'aliquota del 45% per chi ha un reddito superiore alle 80mila sterline (poco meno di 100mila euro) che sale al 50% oltre alle 123mila. In direzione opposta si sono mossi invece Parigi e la Casa Bianca, individuate da molti come il bersaglio dello studio del Fondo: Donald Trump ha appena annunciato una serie di tagli alle tasse i cui maggiori beneficiari sarebbero proprio i più benestanti. Il piano Macron prevede invece un taglio della cosiddetta "tassa sulle fortune", una sorta di colpo di spugna sulla "patrimoniale" che gravava sui beni dei francesi più ricchi.
 

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Rottamazione cartelle esattoriali, così a metà corsa si scopre che si poteva anche non pagare in tempo

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Anche questa volta arriva puntuale un decreto del governo che cambia le carte in tavola e permette di tornare in gioco anche a chi non ha versato la prima o la seconda rata della rottamazione. Un ripescaggio - o meglio, un vero e proprio condono nel condono -  teso a salvare qualcuno buttando a mare ciò che resta della credibilità dello Stato e che fa infuriare tutti coloro che hanno pagato puntualmente e con sacrificio.

L’Italia non è un Paese per “fessi”. Lo dimostra una volta in più il governo Gentiloni che in fretta e furia, con un bel decreto, ha deciso di riaprire le danze per la rottamazione delle cartelle esattoriali. Sulle prime si potrebbe pensare a un provvedimento positivo, volto a estendere i vantaggi della rottamazione (cancellazione di sanzioni e interessi di mora) anche all’anno in corso, mantenendo le stesse regole e gli stessi criteri stabiliti per il primo provvedimento. Un punto fermo era l’impegno che, una volta effettuata la definizione agevolata, il debitore dovesse puntualmente onorare le cinque rate massime previste e che l’eventuale omissione o ritardato pagamento anche solo di una rata avrebbe determinato l’immediata perdita dei benefici garantiti dalla rottamazione. Un patto, insomma, per onorare il quale molti contribuenti hanno fatto salti mortali o si sono addirittura indebitati.

Cittadini onesti ma “fessi”, perché è ormai risaputo che pagare entro le scadenze in Italia non “paga”. Infatti anche questa volta arriva puntuale un decreto del governo che cambia le carte in tavola e permette di tornare in gioco anche a chi non ha versato la prima o la seconda rata della rottamazione. Un ripescaggio – o meglio, un vero e proprio condono –  teso a salvare qualcuno buttando a mare ciò che resta della credibilità dello Stato e che fa infuriare tutti coloro che hanno pagato puntualmente e con sacrificio le due rate. “Si poteva non pagare”: è questo il messaggio che il governo manda ai cittadini. Un messaggio che, di condono in condono, è uguale a se stesso da decenni, ma poco importa: le elezioni premono e bisogna fare in fretta, salvando soprattutto i grandi bacini di voti.
Roma e le case popolari dell’Ater sono uno di questi. L’Ater è controllata dalla Regione Lazio (guida Pd) e ha un debito con il Comune di Roma (amministrato dai 5 Stelle) di circa 500 milioni di euro per imposte non pagate. Ater ha aderito alla prima rottamazione, ma non è poi riuscita a pagare se non parzialmente (32 milioni su 64) la seconda rata scaduta il 2 ottobre. Stando alle regole, l’agenzia regionale avrebbe perso ogni beneficio e si sarebbe trovata debitrice dell’intero importo comprensivo di sanzioni e interessi di mora. Un guaio “politico” forse ancor prima che finanziario, cui il decreto del governo pone immediato rimedio: l’inadempiente Ater può riprendere la rottamazione da dove l’aveva interrotta come se nulla fosse accaduto, il Comune ci rimette qualcosa ma con la rottamazione – cioè con un debito ridotto – è più probabile che Ater riesca a pagare qualcosa piuttosto che con un debito “pieno”, posto che la Regione non pare disposta a farsi carico del problema. Quello di Roma è solo un caso che viene in mente perché è storia di questi giorni, ma quante Ater esistono in Italia? E quanti furbacchioni pubblici e privati riceveranno un ingiusto beneficio dal decreto del governo Gentiloni?