domenica 30 settembre 2012

Brecht: "Cinque difficoltà per chi scrive la verità" di Pierluigi Vuillermin, www.kainos.it


Chi ai nostri giorni voglia combattere la menzogna e l'ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il
coraggio di scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l'accortezza di riconoscerla, benché venga ovunque travisata, l'arte di renderla maneggevole come

 In questo saggio mi propongo di rileggere, e in un certo senso riattualizzare, un famoso testo brechtiano degli anni Trenta. Si tratta di uno scritto politico-letterario che Brecht pubblica nel 1935, dopo l'avvento di Hitler al potere, in cui il drammaturgo tedesco, ormai in esilio, rivolgendosi agli artisti e agli intellettuali, enuncia le regole programmatiche (quasi un manuale di strategia militare) per dire la verità ai deboli e combattere la menzogna dei potenti. Il 1935 è un anno importante nella storia d'Europa e anche nella vita di Brecht. Il Komintern inaugura la stagione dei fronti popolari, l'alleanza tra le forze democratiche e il comunismo, per contrastare l'avanzata del nazi-fascismo, in marcia verso la guerra. Nello stesso anno, lo scrittore viene ufficialmente privato della cittadinanza tedesca e costretto a peregrinare per diversi paesi europei, prima del definitivo approdo negli Stati Uniti. In questo contesto drammatico, mentre si dedica allo studio sistematico delle opere di Marx, Brecht si pone il problema dell'impegno e della responsabilità dell'intellettuale nella lotta contro il terrore del nazismo. Dopo aver criticato la cultura borghese per la sua assenza di valore pratico, egli si interroga su come l'intellettuale debba rivolgersi al popolo, alla luce soprattutto delle nuove forme dell'industria culturale e dei mass media, per smascherare l'inganno del potere e spingere le masse ad agire efficacemente per cambiare la realtà sociale. Questo argomento troverà poi formulazione completa, alcuni anni dopo, nel dramma Vita di Galileo, il capolavoro della maturità. Sempre nel 1935, Brecht partecipa a Parigi al Primo Congresso degli scrittori per la Difesa della Cultura. In una perorazione lucida e polemica, egli denuncia le carenze di ogni critica moralistica del potere (oggi parleremmo di indignazione), che non investiga i rapporti materiali che sono alla base della realtà storica e sociale. Il messaggio è esplicito: solo una verità concreta può diventare un'arma efficace, nelle mani del popolo, per contrastare la barbarie del nazismo (e del capitalismo). Come si vedrà, il testo brechtiano presenta, ancora oggi, grandi elementi di attualità. Molte sono le somiglianze tra la crisi economica e sociale degli anni Trenta e quella in corso in questi anni, come hanno messo in luce diversi studiosi. Siamo in guerra, è stato autorevolmente detto. Verissimo. Ma forse non siamo tutti sulla stessa barca. Ne sa qualcosa il popolo greco, a cui sono rivolte le seguenti riflessioni.

Per quel che concerne il metodo, nella stesura del presente scritto, faccio chiaro riferimento al noto saggio in cui Benjamin, commentando alcune liriche brechtiane, afferma che il commento si occupa esclusivamente della bellezza e del contenuto positivo del testo a cui si applica. Da questo punto di vista, ritengo che le Cinque difficoltà sia un testo fondamentale in cui Brecht, ben al di là dell'occasione, enuncia la dottrina marxista nella forma epica di un classico. D'ora in avanti i brani in corsivo sono estratti dal saggio di Brecht (in Scritti sulla letteratura e sull'arte, a cura di Cesare Cases, Einaudi, Torino 1973), facilmente reperibile anche su Internet e tradotto in diverse lingue.

Introduzione
 
 
Premessa

Chi ai nostri giorni voglia combattere la menzogna e l'ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l'accortezza di riconoscerla, benché venga ovunque travisata, l'arte di renderla maneggevole come un'arma; l'avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l'astuzia di divulgarla fra questi ultimi. Tali difficoltà sono grandi per coloro che scrivono sotto il fascismo, ma esistono anche per coloro che sono stati cacciati o sono fuggiti, anzi addirittura per coloro che scrivono nei paesi della libertà borghese.

Con questa introduzione, Brecht presenta la sua tesi in cinque punti, che verranno di seguito sviluppati. Chi vuole scrivere la verità (cioè l'intellettuale impegnato e organico al proletariato) deve superare la menzogna (dei potenti) e l'ignoranza (dei deboli). I requisiti necessari sono: coraggio, accortezza, arte, avvedutezza e astuzia. Le cinque difficoltà per scrivere la verità sono operanti non soltanto nei regimi totalitari (e per gli oppositori e dissidenti in esilio), ma anche nelle democrazie, dove regna la libertà borghese. Per questa ragione, l'intellettuale deve saper camuffare bene la verità (perciò occorrono pragmatismo e buona tattica, attenzione per i nuovi media messi a disposizione dall'industria, interesse per le forme inferiori dell'arte e della cultura, persino il nemico può essere un buon insegnante), in modo da sottrarre la verità alla censura e alla manipolazione del potere, e consegnarla al popolo, affinché possa utilizzarla come un'arma maneggevole, per abbattere i (pochi) potenti che dominano sui (molti) deboli.


1. Il coraggio di scrivere la verità
Sembra cosa ovvia che colui che scrive scriva la verità, vale a dire che non la soffochi o la taccia e non dica cose non vere. Che non si pieghi dinanzi ai potenti e non inganni i deboli. Certo, è assai difficile non piegarsi dinanzi ai potenti ed è assai vantaggioso ingannare i deboli. Dispiacere ai possidenti significa rinunciare al possesso. Rinunciare ad essere pagati per il lavoro prestato può voler dire rinunciare al lavoro e rifiutare la fama presso i potenti significa spesso rinunciare ad ogni fama. Per farlo, ci vuole coraggio.

Per prima cosa bisogna avere coraggio. Ma non è sempre facile. Da un punto di vista storico, gli intellettuali non sono che servi dei potenti, nelle figure del cortigiano e del consigliere, ovvero del consulente. Sono avidi e vanitosi, vogliono essere acclamati e riconosciuti, pertanto non devono dispiacere ai loro padroni, generosi committenti e finanziatori; altrimenti rischierebbero di perdere la fama e il lavoro. La maggioranza degli intellettuali (quell'intellettualità diffusa che oggi in troppi, superficialmente, celebrano come lavoratori autonomi, riflessivi e creativi di terza generazione) non ha coraggio. Sono degli intellettuali vili, docili servitori e disciplinati impiegati. Perennemente sotto ricatto, eppure compiacenti camerieri. Tali o per mancanza di carattere e senso della dignità (i più), o per bieco calcolo opportunistico, nell'avanguardia più cinica e culturalmente attrezzata.
Le epoche di massima oppressione sono quasi sempre epoche in cui si discorre molto di cose grandi ed elevate. In epoche simili ci vuole coraggio per parlare di cose basse e meschine come il vitto e l'alloggio dei lavoratori, mentre tutt'intorno si va strepitando che ciò che conta è lo spirito di sacrificio.

Nelle epoche di crisi e cambiamento, l'intellettuale vile, che non ha coraggio, spesso veste i panni dell'umanista che si interessa alle sorti (generalissime) del genere umano. Soprattutto quando l'oppressione è grandissima, egli ha il compito, ben remunerato dai potenti, di distrarre e intrattenere il popolo, attraverso la conduzione di infuocati dibattiti sui massimi sistemi (diritti, cultura, genere). L'importante è evitare di parlare di ciò che viene a mancare (lavoro, casa, scuola, salute); e indicare ai deboli i nomi dei responsabili del furto perpetrato ai loro danni. Quando il malumore delle masse non s'acquieta e diventa pericoloso, l'intellettuale vile, umanista e generalista, fa a appello a concetti nobili ed elevati (nazione, patria, civiltà), ostentando una commovente abilità retorica e mitologica, al fine di impedire che il popolo chieda il conto dell'ingiustizia subita. In un coro unanime di inviti e proclami, tutti quanti (i deboli) devono remare nella stessa direzione, decisa dai potenti e illustrata e spiegata al popolo dagli intellettuali vili, stipendiati e vezzeggiati dai potenti.
Così pure ci vuole coraggio per dire la verità sul conto di se stesso, di se stesso, il vinto. Molti di coloro che vengono perseguitati perdono la capacità di riconoscere i propri difetti. La persecuzione appare loro come la più grave delle ingiustizie. I persecutori, dato che perseguitano, sono i malvagi, mentre loro, i perseguitati, vengono perseguitati per la loro bontà. Ma questa bontà è stata battuta, vinta, inceppata e doveva quindi trattarsi di una bontà debole; di una bontà difettosa, inconsistente, su cui non si poteva fare affidamento; giacché non è lecito ammettere che alla bontà sia congenita la debolezza così come si ammette che la pioggia debba per definizione essere bagnata. Per dire che i buoni sono stati vinti non perché buoni, ma perché erano deboli, ci vuole coraggio.

Bisogna avere il coraggio di dire la verità non solo riguardo ai potenti, ma anche riguardo ai deboli. I perseguitati spesso perdono la facoltà del giudizio. Peccano poi di superbia, pensando che la bontà sia premio a se stessa. Si accontentano di essere i buoni, contro i malvagi persecutori, ma in realtà sono colpevolmente incapaci di vincere. La bontà sconfitta non serve a niente, non testimonia niente. Bisogna avere il coraggio di dire la verità ai vinti, perché non continuino a essere vinti. La bontà debole (dell'indignazione, per esempio) è innocua e inoffensiva, non minaccia i potenti, non fa male. Tenersi per mano in un girotondo è un gesto inutile, buono da raccontare alla sera, durante la cena in famiglia. La lotta per sconfiggere i persecutori è sempre lunga e dura, richiede disciplina e rinuncia (non è una passeggiata in centro), quindi non è adatta per gli uomini buoni ma deboli.
Naturalmente la verità bisogna scriverla in lotta contro la menzogna e non si può trattare di una verità generica, elevata, ambigua. Di tale specie, cioè generica, elevata, ambigua, è proprio la menzogna. Se a proposito di qualcuno si dice che ha detto la verità, vuol dire che prima di lui alcuni o parecchi o uno solo hanno detto qualcos'altro, una menzogna o cose generiche; lui invece ha detto la verità, cioè qualcosa di pratico, di concreto, di irrefutabile, proprio quella cosa di cui si trattava.

C'è chi dice la verità e chi dice la menzogna. Non esiste il conflitto delle interpretazioni. Il dibattito è soltanto un vacuo spettacolo, orchestrato dai potenti e diretto dagli intellettuali, al soldo dei potenti. La verità è semplice e concreta, la menzogna è complessa e generica. Chi ha il coraggio di scrivere la verità è in lotta dichiarata contro quelli che diffondono la menzogna. Non parla mai in generale, senza entrare nello specifico; facendo sempre nomi e cognomi, indicando i responsabili dell'ingiustizia e della violenza, senza ambiguità e reticenze. La verità dell'intellettuale non è mai un discorso teorico (l'esegesi e la ricerca bibliografica le lasciamo nelle aule polverose dell'accademia), bensì qualcosa di pratico, che deve servire per abbattere i potenti e cambiare la sorte dei deboli.
Poco coraggio invece ci vuole per lamentarsi della malvagità del mondo e del trionfo della brutalità in genere e per agitare la minaccia che lo spirito finirà col trionfare, quando chi scrive si trovi in una parte del mondo in cui ciò è ancora permesso. Molti assumono l'atteggiamento di uno che stia sotto il tiro dei cannoni, mentre sono semplicemente sotto il tiro dei binocoli da teatro.

Bisogna poi diffidare di quegli intellettuali che, con toni melodrammatici, si lamentano della malvagità del mondo, gridando generiche rivendicazioni. Non sanno fare altro che scrivere lettere ai giornali, firmare petizioni, redigere manifesti, organizzare raduni, aderire a manifestazioni, lanciare appelli alla popolazione, partecipare a convegni e dibattiti televisivi. Chiedono a gran voce giustizia e libertà, genericamente, con l'indice puntato e la voce imperiosa; però loro non muovono un dito. Sono sempre in prima fila, ma a teatro, comodamente seduti, tra buoni amici, quasi tutti provenienti dalle fila dei potenti. Considerano verità solo ciò che ha un bel suono. Sono ferocemente indignati e assai istruiti, sempre educati, di modi gentili e garbati. Quanta nobiltà e professorale fascino nei loro discorsi. Tuttavia non bisogna farsi ingannare dalle loro facili prediche. Questi intellettuali, di bell'aspetto e belle parole, così vuoti e inconcludenti, solo esteriormente hanno l'atteggiamento di chi dice la verità. Con loro il guaio è che non conoscono la verità.

 
2. L'accortezza di riconoscere la verità
Poiché è difficile scrivere la verità, dato che ovunque essa viene soffocata, i più pensano che scrivere o non scrivere la verità sia una questione di carattere. Credono che basti il coraggio. E dimenticano la seconda difficoltà, cioè quella di trovare la verità. Nessuno potrà mai dire che trovare la verità sia cosa facile.

Avere il coraggio di scrivere la verità non basta. Ci sono tante verità (grandi e piccole, belle e brutte, superficiali e profonde, accessorie e necessarie, deboli e forti) che si contrappongono alla menzogna. Soprattutto nelle epoche di crisi il mercato delle verità è variegato. A volte la menzogna si traveste da mezza verità; oppure, più subdolamente, prende la forma di una verità tautologica (per esempio: la pioggia cade dall'alto verso il basso) che non serve a niente. Dunque non è affatto facile rendersi conto di quale verità valga la pena di essere detta. Certi intellettuali scrivono verità di questo tipo (per esempio: le sedie servono per sedersi). Sostengono di osservare la realtà in modo oggettivo e imparziale. Sono i cosiddetti realisti: i depositari delle verità sulle sedie e sulla pioggia.
Molti poeti scrivono verità di questo tipo. Sono simili a pittori che ricoprono di nature morte le pareti di una nave che sta affondando. Per loro la nostra prima difficoltà non esiste, eppure si sentono la coscienza tranquilla. Senza lasciarsi turbare dai potenti, ma altrettanto imperturbabili alle grida delle vittime della violenza, essi continuano a ripassare il pennello sulle loro immagini. L'assurdità del loro modo di comportarsi genera in loro stessi un pessimismo che essi smerciano a buon prezzo e che, a dire il vero, sarebbe più giustificato negli altri di fronte a tali maestri e a tale smercio.

Nei periodi di incertezza e grande mutamento (quando la nave va alla deriva), molti artisti e scrittori si fanno prendere da profondo sconforto. Con coraggio denunciano i mali del presente, ma sempre in maniera generica. Provano un piacere perverso nel raffigurare e descrivere il dolore del mondo. Però essi se ne stanno al sicuro, a contemplare languidamente il naufragio della nave e del suo equipaggio. La loro verità sembra vera, senza sconti per nessuno. Che colori vivaci, quale forza incantatrice e paralizzante nella rappresentazione della malvagità. Proferiscono discorsi importanti, tali appaiono sul mercato della malinconia. Sono i pessimisti, abbonati alla rivista dell'apocalisse a teatro. Codesta gente non è capace di trovare una verità che valga la pena di scrivere.
Altri invece si occupano realmente dei compiti più urgenti, non temono i potenti né la povertà e nondimeno non sono in grado di trovare la verità. Mancano loro le nozioni necessarie... Per loro, il mondo è troppo complicato, non conoscono i dati di fatto e non vedono le connessioni. Oltre ai principi occorrono delle nozioni che si possono acquisire e dei metodi che si possono imparare. Tutti coloro che scrivono nella nostra epoca di rapporti complicati e di grandi mutamenti debbono conoscere il materialismo dialettico, l'economia e la storia...

Alcuni intellettuali, coraggiosi e in buona fede, non sono all'altezza di scrivere la verità. Non sanno nemmeno dove cercarla. Si agitano in modo scomposto, sopraffatti dall'emozione, senza una visione corretta della realtà. Accumulano disordinatamente molti dati e piccoli fatti, tuttavia sono incapaci di cogliere la trama sottostante. Non difettano di volontà, si impegnano con generosità, ma non usano gli strumenti teorici giusti (il materialismo storico e dialettico) per descrivere la società.
Quando si ha intenzione di cercare, è bene avere un metodo, ma si può trovare anche senza metodo e persino senza cercare. In questa maniera casuale è certo però assai difficile che si riesca a rappresentare la verità in modo tale che gli uomini, grazie a questa rappresentazione, sappiano come devono agire. La gente che annota solo i piccoli dati di fatto non è in grado di rendere maneggevoli le cose di questo mondo. Questo però e nessun altro è lo scopo della verità.

Gli intellettuali buoni e coraggiosi (ma senza metodo) a volte trovano la verità casualmente. In questo modo, però, la verità perde la sua capacità di operare con efficacia. Come una bella statua da contemplare, rimane ferma e immobile. Tante piccole verità, come tante statue in un museo. Una verità, che non agisce concretamente sulla realtà, in pratica non serve a niente.


3. L'arte di rendere la verità maneggevole come un'arma
La verità deve essere detta per trarne determinate conclusioni circa il proprio comportamento. Quale esempio di una verità da cui non si possono trarre conclusioni, o soltanto conclusioni sbagliate, ci può servire l'opinione largamente diffusa secondo la quale le condizioni deplorevoli in cui versano certi paesi derivano dalla barbarie. Tale opinione vede nel fascismo un'ondata di barbarie che si è abbattuta su certi paesi come una catastrofe naturale.

La maggioranza degli intellettuali si preoccupano di interpretare il mondo in modi diversi, ma quel che conta è cambiarlo. La verità, conquistata col metodo giusto, deve portare a determinate conclusioni pratiche, che modificano i comportamenti. Le masse popolari agiscono quando pensano che la realtà sociale sia qualcosa di transitorio e mutevole. Le classi dominanti, invece, dipingono il mondo dell'uomo come una seconda natura. Hanno interesse che tutto appaia immutabile agli occhi della gente. A questo punto, per i deboli, la barbarie si presenta come un destino (ineluttabile) e non più come la conseguenza della violenza (non irresistibile) dei potenti.
Un simile modo di raffigurare le cose mette in luce solo pochi anelli della catena causale e presenta certe forze motrici come forze incontrollabili. Un simile modo di raffigurare le cose contiene in sé molti lati oscuri i quali nascondono le forze che stanno preparando le catastrofi. Basta un po' di luce perché si veda che all'origine delle catastrofi ci sono degli uomini! Infatti noi viviamo in un'epoca in cui il destino dell'uomo è l'uomo.

L'intellettuale dotato di metodo sa mettere in fila i fatti e connetterli insieme, individua con precisione le forze che operano nella società, è in grado di indicare al popolo le cause della barbarie e i veri artefici della barbarie. Quando si vuole scrivere efficacemente la verità su certe condizioni deplorevoli, bisogna scriverla in modo che se ne possano riconoscere le case evitabili. Quando le cause evitabili vengono riconosciute, le condizioni deplorevoli si possono combattere.

 
4. L'avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani la verità diventa efficace
La verità su certe condizioni deplorevoli dobbiamo dirla a coloro che di queste condizioni più soffrono e da loro dobbiamo apprenderla. Non basta parlare a coloro che hanno una data opinione; bisogna parlare a coloro ai quali, data la loro situazione, tale opinione può convenire. E il vostro uditorio muta di continuo! Persino ai carnefici è possibile parlare, quando per impiccare non ricevono più il salario o quando la loro professione si fa troppo pericolosa.

Chi scrive la verità non si occupa del commercio degli scritti. Si limita a parlare, qualcuno ascolterà. Così pensa uno scrittore ingenuo. Eppure dovrebbe riflettere sul mercato delle opinioni e delle descrizioni. La conoscenza della verità è un processo comune a chi scrive e a chi legge. Gli scrittori non riflettono abbastanza sulle condizioni che rendono possibile la circolazione delle idee. La verità non si può semplicemente scriverla e basta, è indispensabile scriverla per qualcuno che possa servirsene. Non si deve parlare tanto per esprimere un'opinione. Prendere parte al dibattito pubblico, organizzato da intellettuali al servizio dei potenti, spesso è una perdita di tempo. A meno che non si riesca a camuffare bene la verità. Ma oggi gli spazi di manovra si sono ridotti e il mezzo tecnico (il formato stesso) ha svuotato di verità il messaggio. Non bisogna però disperare. Conviene continuare a studiare: trovare nuove modalità, più astute e aggiornate, per dire la verità al popolo.
Importante per quelli che scrivono è trovare il tono giusto per dire la verità. Quello che comunemente si ode è un tono molto mite e lamentoso, il tono di chi non sarebbe capace di far male a una mosca. Chi lo ode e si trova in miseria non può che diventare ancora più miserabile. Così parlano, uomini che forse non sono nemici ma certo non sono dei compagni di lotta. La verità è combattiva, non solo combatte la menzogna, ma anche quelle determinate persone che la divulgano.

Certi scrittori sbagliano il tono per dire la verità. Sono troppo buoni e deboli. Magari hanno paura. Gli intellettuali, si sa, quasi sempre sono dei vigliacchi. I loro discorsi sovente sono docili e accomodanti. Declamano lunghe prediche, piene di accorati moniti e piagnistei. Non prendono mai posizione, per non insospettire i potenti. Possono essere anche delle brave persone, ma non servono a niente. Preferiscono non sporcarsi le mani: la loro verità è rigorosamente equanime ed equilibrata. Sono degli equilibristi nati, non cadono mai. Abitano il vuoto pneumatico della bella conversazione. Chi dice la verità deve combattere, non sulle riviste accademiche o negli spettacoli televisivi, ma a fianco dei deboli e contro i potenti. Altrimenti è solo un utile idiota, quasi peggio del nemico.

 
5. L'astuzia di divulgare la verità fra molti
Vi sono molti che, fieri di avere il coraggio di dire la verità, felici di averla trovata, stanchi forse della fatica che costa il ridurla a una forma maneggevole, impazienti di vederne entrare in possesso coloro i cui interessi essi vanno difendendo, non ritengono più necessario usare una particolare astuzia per divulgarla. In tal modo tutto il frutto della loro fatica va spesso in fumo. In tutti i tempi, quando la verità veniva soffocata e travisata, si è fatto ricorso all'astuzia per divulgarla.

Nelle epoche di crisi e grande violenza, la verità viene costantemente censurata e manipolata dal potere dominante. Ci sono varie astuzie per eludere la sospettosa vigilanza dello stato. La storia ci ha fornito diversi esempi: Confucio, Tommaso Moro, Voltaire, Shakespeare, Jonathan Swift, un poeta egiziano, il romanzo poliziesco. L'intellettuale che vuole scrivere la verità deve essere attento all'uso delle parole. Occorre spogliarle del loro marcio (e anestetico) misticismo; e indirizzarle a chi può maneggiarle, come un'arma, per cambiare il corso della storia. Anche in uno stato democratico, nonostante l'apparente libertà di parola, è difficile scrivere la verità. Bisogna raddoppiare l'astuzia.
La propaganda perché la gente ragioni, in qualsiasi campo la si faccia, è sempre utile alla causa degli oppressi. Questa propaganda è altamente necessaria. Sotto i governi degli sfruttatori, il ragionare è considerato cosa bassa e volgare. Si giudica basso e volgare ciò che è utile a quelli che sono tenuti in basso.

Tutti i governi (non importa se democratici o dittatoriali) considerano il ragionare una cosa bassa e volgare. Gli sfruttatori prediligono i grandi ed elevati discorsi, che non mettono in pericolo il loro sistema. Chi scrive la verità, contro gli sfruttatori, deve insegnare agli sfruttati a ragionare. Ci sono infatti molti modi astuti per insegnare a pensare e divulgare la verità.

Perché in un'epoca come la nostra continui ad essere possibile l'oppressione che permette a una parte della popolazione (la meno numerosa) di sfruttare l'altra (la più numerosa), è indispensabile da parte della popolazione un ben preciso atteggiamento di fondo che investa tutti i campi... L'unica cosa che conta è che si insegni un modo giusto di ragionare, un modo di ragionare che in ogni cosa e in ogni avvenimento ricerchi il lato transitorio e mutevole.

La popolazione oppressa (sotto il tallone di ferro degli oppressori e per gli effetti negativi della propaganda degli intellettuali al servizio degli oppressori) tende a considerare la realtà come qualcosa di naturale e immutabile (come la pioggia: che cade sempre dall'alto verso il basso). Nella testa della gente si consolida così la predisposizione alla passività e alla rassegnazione. Chi scrive la verità, non importa in che campo lo faccia (dall'ingegneria meccanica alla filosofia), deve insegnare a ragionare correttamente: ovvero che, su questa terra, ogni cosa è transitoria e mutevole.
I potenti nutrono una forte ostilità nei riguardi dei grandi mutamenti. Vorrebbero che tutto restasse com'è, possibilmente per mille anni... Dopo che hanno sparato loro, il nemico non dovrebbe più avere il diritto di sparare, vorrebbero che il loro colpo fosse l'ultimo. Considerare le cose mettendo in particolare rilievo il loro lato transitorio è un buon sistema per rianimare gli oppressi.
Chi scrive la verità deve mostrare agli oppressi che in ogni cosa, in ogni condizione, sorge e si sviluppa una contraddizione. Deve insegnare loro la dialettica, la dottrina del flusso delle cose. I potenti cercano di occultare le contraddizioni, affermano che esiste solo una realtà, quella che a loro conviene. Tutto è già stato stabilito. Non esiste un'altra possibilità. Così la gente si addormenta. Chi scrive la verità ha il compito di risvegliare gli oppressi, insegnando loro che nulla è già stabilito.

I governi che conducono le masse umane alla miseria devono evitare che nella miseria si pensi ai governi. Parlano molto del destino. Il destino – non già i governi – è responsabile dell'indigenza. Chi tenta di scoprire le cause dell'indigenza viene arrestato prima che si imbatta nel governo. Tuttavia è possibile opporsi in termini generali ai discorsi sul destino; si può dimostrare che chi fa il destino dell'uomo sono gli uomini.

Per diffondere la verità ci vuole astuzia. I governi (che esprimono e difendono gli interessi degli sfruttatori) cercano, in tutti i modi, non sempre legittimi, di impedire che il popolo (oppresso e sfruttato) ragioni. Per i potenti, la miseria dei deboli è piovuta dal cielo, come la pioggia. Nessuno è responsabile. Bisogna maledire il cielo. Chi alza la testa e protesta viene arrestato e imprigionato. Chi scrive la verità, mettendo in conto i rischi e i pericoli della violenza dello stato, deve mostrare al popolo che sono uomini in carne e ossa (una minoranza) che fanno il destino di tutti gli altri uomini (la maggioranza). Più o meno l'uno per cento contro il novantanove per cento, come si dice oggi.


Riepilogo
La grande verità della nostra epoca è questa: il nostro continente sta sprofondando nella barbarie perché i rapporti di proprietà dei mezzi di produzione vengono mantenuti con la violenza. A che cosa servirebbe uno scritto coraggioso dal quale risulti la barbarie delle condizioni nelle quali stiamo per cadere (il che in sé è verissimo), se poi non risultasse chiara la ragione per cui veniamo a trovarci in queste condizioni? Dobbiamo dire che degli uomini vengono torturati perché i rapporti di proprietà rimangano immutati. Certo, se lo diciamo, perderemo molti amici che sono contrari alla tortura perché credono che i rapporti di proprietà si possano mantenere anche senza di essa (il che non è vero).

Il problema è il capitalismo. Allora c'era il nazismo, oggi c'è il neoliberalismo o il cosiddetto capital-parlamentarismo. Modi diversi di difendere gli interessi della classe dominante. Oggi come allora, l'Europa rischia di sprofondare nella barbarie. Ma questa barbarie non è piovuta dal cielo. La brutalità viene dagli affari, che senza di essa non si possono più fare. Chi scrive la verità, non può limitarsi a generiche accuse, a sermoni moraleggianti. A continue lamentazioni che portano a nulla. Bisogna indicare le ragioni (storiche e non naturali) e i veri responsabili della barbarie. Per tornare all'attualità, il popolo greco oggi viene torturato, perché i rapporti di proprietà rimangano immutati.

Dobbiamo dire la verità in merito alle barbare condizioni del nostro paese, dobbiamo dire che è possibile fare ciò che è sufficiente a farle sparire, e cioè qualcosa che modifichi i rapporti di proprietà.

Scrivere la verità significa parlare di capitalismo, ovvero dei rapporti di proprietà.

Dobbiamo dirla inoltre a coloro che di questi rapporti di proprietà soffrono più di tutti, che hanno il maggiore interesse a cambiarli, ai lavoratori e a coloro che possiamo trasformare in loro alleati...

Questa verità (dei modificabili rapporti di proprietà) deve essere detta ai lavoratori.

Tutto ciò viene richiesto allo scrittore, quando gli si chiede di scrivere la verità. Con queste parole termina il saggio di Brecht del 1935, pochi anni prima della catastrofe della guerra.

Il popolo del Monti bis di Alessandro Robecchi, Il Manifesto

Riassumiamo. Sono favorevoli a un governo Monti-bis Angela Merkel, Barack Obama, i vescovi italiani, Veltroni, Casini, un po' di Pd, un po' di PdL, la federcaccia di Ostuni, l'associazione di micologia di Trento, il dopolavoro ferrovieri di Orte, Beppe Fioroni, la federcircensi, Raffaele Bonanni e la sua famiglia, il sindacato frontalieri dell'Istria, il patronato degli elettrauto, l'Assococomeri che riunisce i produttori di angurie dell'alto Lazio, e Sergio Marchionne.
Si tratta di un pezzo importante di società civile che punta coerentemente a un'applicazione innovativa e rivoluzionaria dell'istituto democratico delle elezioni. Cioè: votare in modo che si verifichi un pareggio, pur dopo sei mesi di risse televisive, e quindi implorare Mario Monti di concedere il bis a un paese stremato. Già si preparano le convocazioni per interessanti convegni come: «Una speranza per un nuovo centro-destra nella figura di Mario Monti». E anche: «Nuove prospettive del centro-sinistra nella continuità dell'agenda Monti».
Constatando che alcuni minuscoli pezzettini di welfare ancora resistono a dispetto di tutto, Confindustria sta pensando a una grande iniziativa nazionale che riunirà i piccoli e medi imprenditori in una grande fiaccolata a favore di un governo Monti-bis. Per risparmiare e dare un segnale di austerità le fiaccole saranno composte dalle bozze di rinnovo dei contratti nazionali di lavoro.
La spinta per un Monti-bis viene anche dalle fasce più disagiate della popolazione come banchieri, finanzieri e supermanager di aziende pubbliche che hanno lanciato un manifesto per la continuità dell'azione di governo che deplora «lo stanco rito delle elezioni» e auspica una democrazia diretta espressa dai consigli di amministrazione. Il sindacato primari ospedalieri ha fatto sapere di desiderare ardentemente che non si perda la proficua esperienza del governo Monti, e ha comunicato che in ogni caso si opporrà all'assistenza gratuita d'emergenza per i casi senza speranza, anche se nel comunicato consegnato alle agenzie non si fa il nome di Pier Luigi Bersani.

Profumo contro l’ora di religione, per il Pd è la resa dei conti di Pietro Raboni, Il Fatto Quotidiano

Da quando lavoro nella scuola, e sono ormai più di vent’anni, raramente, che io ricordi, mi è capitato di sentirmi così in sintonia con il ministro di riferimento come mi è successo qualche giorno fa ascoltando le ultime dichiarazioni del ministro di Profumo. Il ministro ha parlato dell’ora di religione nella scuola pubblica definendola ormai insensata e si è detto favorevole all’opportunità di modificarne i contenuti in un corso di storia delle religioni o di etica. Del tutto sensate mi sono parse anche le motivazioni, e cioè l’ aumento esponenziale nelle classi italiane degli alunni stranieri, che per l’80% non sono di fede cristiana, e la necessità di adeguare l’offerta formativa alla nuova realtà.
Devo confessarlo, ho sentito come un brivido, del tipo di quelli che mi attraversano quando l’Inter solleva una coppa o un atleta italiano vince l’oro olimpico. Un brivido di orgoglio, di appartenenza…In quell’istante mi sono sentito vicino alle istituzioni e avrei quasi abbracciato il ministro; improvvisamente il suo pallore lunare mi è parso segno di assidua applicazione ai problemi della scuola, la sua pacatezza mi è sembrata la naturale modestia che spesso accompagna gli uomini geniali.
Personalmente, ho sempre considerato la cosiddetta ora di religione una prova muscolare del Vaticano nei confronti dello Stato italiano, uno dei capitoli, quello contemporaneo, della millenaria lotta per le investiture che sembra ancora oggi la traccia privilegiata della politica “estera” vaticana.
Mi è sempre sembrato ingiusto, per principio, che la scuola pubblica di uno stato laico dovesse garantire una, ed una sola, confessione religiosa, ancorché maggioritaria.
Ma se fino a qualche anno fa la cosa si poteva classificare come un’innocua ingiustizia, un lacerto medievale quasi pittoresco, ora, da quando, negli ultimi anni, la scuola ha cominciato ad accogliere sempre più alunni stranieri (nella mia sono circa il 50%) questa ingiustizia appare ancora più grave: proprio mentre la scuola è chiamata con urgenza ad attivare percorsi di integrazione per costruire i futuri cittadini italiani multietnici il mantenimento dell’insegnamento del cattolicesimo risulta in controtendenza, un ostacolo, un fattore disaggregante.
Tra le reazioni, allora, all’inaspettata proposta del ministro, dal becero “ci toccherà insegnare la religione islamica” della Lega al massimalismo della sinistra (“ d’accordo, ma c’è tutto il resto”) alla melina interessata del centro cattolico (il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la cultura: “sì” alla proposta del ministro del ministro Francesco Profumo sull’ora di religione, ma con la certezza che essa deve restare cristiana come stabilito dagli accordi concordatari”), la risposta più deludente e pilatesca è stata quella venuta dal Pd che, per bocca del rappresentante scuola, ha liquidato la questione definendola una boutade.
Non so se la proposta di Profumo sia frutto di una bevuta di troppo, o di un calcolo politico, o di una mossa concordata col Vaticano per assicurare il futuro agli insegnanti di religione ormai assunti dallo stato; so che il problema è estremamente serio e non più eludibile, e gradirei che il partito che si candida a rappresentare il futuro governo del paese non si nascondesse dietro le parole ma esprimesse una posizione chiara e, se possibile, di respiro moderno. Altrimenti si rischia, come sta di fatto succedendo, che della cosa non si parli più, che venga come ogni battuta, come ogni boutade, presto relegata nel dimenticatoio. E tra qualche anno saranno più gli alunni che si aggireranno per i corridoi e coveranno una sensazione di esclusione (la cosiddetta “ora alternativa”, legata alla disponibilità di fondi, non è per nulla garantita) dei fortunati ospitati in classe. Un bell’esempio di integrazione, di modernità, di lungimiranza.

sabato 29 settembre 2012

La "Sinistra Europea" si scaglia contro il "Fiscal Compact"



Il fiscal compact è incompatibile con il diritto comunitario. E’ quanto sostiene la presidentessa del gruppo parlamentare europeo GUE/NGL (Sinistra Unitaria Europea) Gabi Zimmer che, in seguito ad un incontro con Andreas Fischer-Lescano (professore ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Brema), ha ritenuto necessario rinviare la questione dei patti fiscali alla Corte di Giustizia dell’Ue: «Il fiscal compact viola il diritto comunitario sia dal punto di vista materiale che formale», ha affermato la Zimmer, che tuttavia non è intenzionata ad agire indipendentemente dal volere del Parlamento Europeo.
Questo nonostante i partiti d’ispirazione socialista, popolare e liberale abbiano votato nei rispettivi Paesi e anche all’interno dello stesso Parlamento Europeo, il suddetto patto di bilancio europeo (firmato lo scorso 2 marzo da 25 dei 27 Paesi membri dell’Ue). Oltre a prevedere il pareggio di bilancio, il fiscal compact impone la riduzione del debito pubblico al 60% in rapporto al Pil, con il ritmo di un ventesimo all’anno (essendo in Italia il rapporto debito/Pil al 120%, sono praticamente certe manovre da 40-50 miliardi annui), e l’obbligo di mantenere il deficit pubblico sempre al di sotto del 3% del Pil.
Al momento sono 11 i Paesi (quando verrà raggiunta la soglia di 12 il patto fiscale diventerà operativo a tutti gli effetti) ad aver ratificato il trattato con voti trasversali e solo la Gran Bretagna sembra intenzionata ad opporsi (il conservatore David Cameron ha affermato che con il fiscal compact si vuole «proibire Keynes per legge»). Nemmeno la Francia del socialista Hollande sembra più intenzionata a rigettare i vincoli europei ed è proprio qui che un pezzo importante della GUE, vale a dire il Front De Gauche di Jean-Luc Mélenchon, sta dando battaglia: verranno raccolte delle firme per indire un referendum contro il “Pacte budgétaire européen“ e domani, a Parigi, ci sarà una manifestazione indetta proprio dal Front De Gauche, che d’adesso in poi potrà contare sul sostegno dei Verdi europei e francesi.
E’ proprio sulle divisioni interne presenti tra socialisti e popolari, quindi, che la Sinistra Europea ha deciso di giocare la propria partita: «Il Fiscal Compact ha creato un malcontento trasversale in Aula perché ancora una volta il Parlamento europeo è stato messo da parte e privato delle sue competenze. E sono tanti ad essere stanchi di tutto questo», ha affermato la Zimmer.

Pasquale Vietta - Pubblico

Lo scherzo di Dino Greco

Ci eravamo fatti l'idea che Monti potesse sopravvivere a Monti anche qualora non toccasse a lui a ricoprire la carica di presidente del consiglio del prossimo governo, considerato che l'ipotesi di un reincarico era stata più volte e seccamente esclusa proprio dal premier in carica.
D'altra parte, la convinzione che la politica interpretata dai tecnocrati liberisti al potere non sia una parentesi congiunturale ed eccezionale, ma fondi una ben più robusta stagione costituente, ha solidissimi presupposti nel sostegno bipartisan al monetarismo della Banca centrale europea, alle norme capestro del fiscal compact e della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, ad una politica economica imperniata sulle privatizzazioni, all'assalto scatenato contro il welfare e contro tutte le più rilevanti conquiste del lavoro, dal contratto nazionale allo Statuto dei lavoratori.

Eppure non è così. I “mal di pancia” del partito democratico, sfibrato dagli inestinguibili conflitti interni, e le improvvisazioni antieuropeiste del redivivo cialtrone di Arcore, hanno spinto i mentori di Monti ad uscire allo scoperto, a chiedere all'uomo della Goldman Sachs, della Trilateral, del Gruppo Bilderberg, di restare al suo posto, di continuare a recitare il copione imposto dal finanzcapitalismo internazionale.
E Monti ha obbedito. “Voglio che i mercati sappiano che io sono lì”, ha detto e ripetuto, con toni morbidi, ma dal significato inequivocabile.
La commedia messa in scena giovedì a New York davanti al gotha finanziario di Wall Street, alle agenzie di rating, ai colossi industriali, all'establishment politico e al circo mediatico d'élite lì convenuti per l'occasione, è servita a rassicurare i mercati, i manovratori per nulla occulti della speculazione.
Il messaggio è dunque questo: non è più tempo di intermediari, di controfigure; e non basta la conclamata conversione di fede liberista di un Pd dato per vincente alle prossime elezioni. I poteri forti chiedono che sia il proprio personale a custodire direttamente lo scrigno, a mantenere saldamente il bastone del comando. C'è, invero, il fastidioso incomodo delle elezioni, che Monti non vuole affrontare come parte in causa, difendendo il suo abusato carisma di uomo super partes, pronto semmai a ricevere una nuova investitura dall'alto, mallevadore Giorgio Napolitano, che vorrebbe prolungare sine die questa totale abdicazione della sovranità popolare.
L'esternazione di Monti ha gettato nello sconforto Bersani e l'intera, potenziale coalizione di centrosinistra, che sentiva ormai di avere offerto – col sostegno al premier e a tutte le sue scelte politiche – ampie e precise garanzie circa la propria fedeltà alla stada tracciata dal commissario.
Resta Berlusconi che, da guitto consumato, respira l'aria, si smarca e ora, dopo avere messo in ginocchio il paese e sottoscritto ogni cambiale pretesa dalla Bce, grida ai quattro venti che l'euro è un imbroglio, che la Germania malata di sciovinismo dovrebbe uscirne, che bisogna denunciare il fiscal compact, che l'introduzione dell'Imu è un cappio al collo delle famiglie e via millantando una rivoluzione politica e sociale che è quanto di più estraneo al suo imprinting reazionario.
Così, resta il solo Pd a far da guardia al bidone delle ricette mercatiste, senza poter neppure riscuotere il plauso per una così generosa genuflessione da parte dei proprietari universali che, malgrado tutto, neppure ora si fidano.
Lo diciamo spesso, ma vale ripetersi: la sinistra può (deve) avere oggi uno scopo, una linea alternativa, se non ancora una teoria compiutamente organizzata, da fare valere, con cui parlare a masse di popolo impoverite e confuse. Alle quali non serve che qualche burocrate si faccia cooptare nel palazzo del potere per svolgere la più insignificante ed autoreferenziale testimonianza.
Al mondo del lavoro, degli sfruttati, dei diseredati serve un riferimento politico capace di rendere coeso ciò che oggi è disperso, frantumato, diviso. Per farlo contare, nel paese e nelle istituzioni.
Chi verrà dopo di noi non potrà perdonare chi declina questa responsabilità, chi manca di questa intelligenza e di questo coraggio.

Mobilità totale. Aiuto ai privati sulla pelle degli statali di Domenico Moro, Pubblico

120928pubblicoIl decreto legge 95 del 2012 prevede la riduzione della spesa pubblica di 26 miliardi in tre anni, di cui 4,5 nel 2012, 10,5 nel 2013 e 11 nel 2014. Per raggiungere questo obiettivo il governo Monti ha predisposto una spending review, che nell’intenzione dovrebbe favorire tagli non lineari ma selettivi, in modo da mantenere inalterato il servizio erogato dalla Pa. La spending review prevede l’intervento su varie direttrici: la soppressione di enti, il tetto allo stipendio dei manager pubblici, le procedure d’acquisto per ridurre i costi di beni e servizi, il riordino degli enti territoriali, la dismissione di immobili dello Stato e la riduzione del personale. L’aspetto sicuramente più grave della spending review è la riduzione del personale statale.
Il 25 settembre è stata adottata la circolare firmata da Patroni Griffi, il ministro della Pa. La riduzione prevista è del 20% sul costo delle dotazioni organiche del personale dirigente e del 10% del personale non dirigente, in pratica decine di migliaia di persone. La gestione verrà centralizzata presso il Dipartimento della Funzione pubblica. Le singole amministrazioni dovevano inviare le proposte di tagli entro il 28 settembre (enti pubblici e agenzie) e il 4 ottobre (amministrazione dello Stato). Entro il 31 dicembre 2012 verranno quantificati i tagli e comunicata agli interessati la data di cessazione del rapporto di lavoro. Il Dpcm che metterà in mobilità i dipendenti è previsto entro il 31 marzo 2013, mentre entro il 31 maggio 2013 è prevista l’individuazione del personale da collocare in part time. Il provvedimento interesserà tutto il personale pubblico con l’eccezione del comparto sicurezza, il personale operativo operante nei presso gli uffici giudiziari e il personale della magistratura. I tagli si scaricheranno quindi sul personale delle Forze Armate, che passerà dai 190mila ai 170mila, come previsto da tempo dal Ministero della Difesa, allo scopo di drenare maggiori risorse verso l’acquisto di sistemi d’arma tecnologicamente avanzati e costosi. Il maggiore impatto in termini di tagli, però, si avrà soprattutto su enti di ricerca, scuola, università, e sanità, che rappresentano la quota maggiore dei dipendenti pubblici e dei servizi principali erogati dallo Stato alla collettività. Alla scuola verranno sottratti 360 milioni e verranno tagliati 15mila posti di lavoro. Il taglio ai trasferimenti statali a enti e Università sarà, rispetto al 2010, del 5% nel 2012 e del 10% nel 2013. All ’Università i tagli ai trasferimenti statali produrranno un aumento delle tasse universitarie per i fuoricorso, che ammontano al 40% degli iscritti. Per quanto riguarda la sanità si prevede uno riduzione dello standard di posti letto, che produrrà un taglio di 7mila posti letto entro novembre, e per i prossimi tre anni tagli per 17 miliardi con un aumento dei ticket per 3 miliardi e l’innalzamento della fiscalità locale. Il grosso dei tagli non si realizzerà sugli stipendi degli alti manager pubblici, per i quali il tetto è previsto a ben 300mila euro, né con misure come la riduzione delle auto blu, molto di moda nell ’ultimo periodo, ma che rispetto al totale delle spese rappresenta noccioline. Il vero risparmio si realizzerà con i tagli al welfare state, che non permetteranno di mantenere il servizio inalterato. A perderci con la spending review sarà da una parte l’occupazione, che, sia con la messa in mobilità che con il blocco del turn over nel pubblico, aggraverà una situazione che nel privato è già disastrosa. Dall’altra, sarà ridotta l’universalità del servizio pubblico, in settori come la scuola e l’Università e la sanità, lo Stato. A guadagnare dalla spending review sarà soprattutto l’impresa privata. Questo avverrà in diversi modi.
In primo luogo, l’introduzione per la prima volta delle procedure di mobilità nel pubblico impiego italiano daranno un ulteriore colpo al mercato del lavoro. Infatti, il pubblico impiego era rimasto l’unico settore in cui le misure di liberalizzazione del mercato del lavoro avevano avuto un impatto ancora debole, malgrado i contratti precari vi siano molto diffusi.
Il concetto che anche il posto pubblico a tempo indeterminato è a rischio rappresenta non certo un incentivo alla maggiore efficienza della Pa ma un ulteriore indebolimento della forza negoziale del lavoro. Del resto, l’introduzione di nuovi sistemi di valutazione della produttività dei dipendenti pubblici, uno degli obiettivi dichiarati della spending review, è stata rapidamente messa da parte per la mancanza di disponibilità di risorse da parte del governo. In secondo luogo, l’indebolimento ulteriore della sanità e della scuola pubblica favoriscono la crescita della presenza del privato in questi settori mentre la riallocazione della spesa militare dal personale agli strumenti favorirà l’industria militare. In terzo luogo, i tagli nella Pa renderanno disponibili risorse per quello che Confindustria chiede da tempo, cioè la riduzione delle tasse alle imprese. Recentemente Squinzi, presidente della Confindustria, ha reiterato la richiesta dell’aumento della detassazione e della decontribuzione dei premi aziendali allo scopo di favorire il collegamento dei salari alla produttività. A questo tipo di misure si aggiungono, come richiesto recentemente dalla Fiat, anche gli incentivi all’export. Ma l’obiettivo principale è la riduzione, meglio ancora l’abolizione, dell’Irap, un obiettivo storico di Confindustria. Visto che l’Irap non è propriamente una tassa, ma contiene la parte del salario indiretta che va a pagare l’assistenza sanitaria e altre spese previdenziali, i tagli alla sanità rappresentano la base per tagliarla o ridurla, cosa che del resto è in parte già avvenuta. Lo stesso Giavazzi, cui il governo aveva affidato parte della ricerca sulla spending review, parla nel suo rapporto della possibilità di riduzione della pressione fiscale sulle imprese solo con una drastica riduzione della spesa pubblica. In realtà, i tagli previsti da Giavazzi sono, a giudizio dei tecnici del Tesoro, al di sotto di quello che sarebbe necessario, cioè 6-6,5 miliardi, per evitare un ulteriore aumento del 2% dell ’Iva. La "fase due" della spending review prevista dal governo indica un ulteriore aumento dei risparmi attesi da 3-3,5 miliardi a più di 4 miliardi.
Dunque, mentre le imposte indirette, quelle che gravano di più su chi è più povero come l’Iva e le accise sui carburanti, sono aumentate e rischiano di aumentare ancora, le imposte sulle imprese vengono tagliate e gli incentivi aumentati. Infine, la dismissione degli immobili pubblici rappresenta un ulteriore aspetto negativo della spending review per due ragioni. In primo luogo, perché storicamente gli incassi da simili alienazioni sono risultati ben al di sotto delle aspettative. Vendere per fare cassa nell’immediato è sbagliato: in un momento di difficoltà non si possono spuntare prezzi adeguati e lo Stato si priva definitivamente di un valore. In secondo luogo, perché generalmente l’alienazione di immobili statali favorisce le attività speculative dei grandi gruppi immobiliari, mentre lo Stato potrebbe cambiare la destinazione d’uso di molti di essi, ad esempio le ex caserme, per farne un uso pubblico.

Guerra globale in forma tecnica e «silenziosa» di Tommaso De Berlanga, Il Manifesto

La guerra delle monete. Un anticipo di futuro? Grande è il disordine sotto i cieli della finanza.

Se esistessero soggetti e strategie per il cambiamento, forse la situazione potrebbe essere «eccellente». Ma non se ne vede traccia all'orizzonte...
Così le difficoltà delle diverse aree continentali in competizione si trasformano, per il momento, in «guerra delle monete». Al centro del sommovimento - come sempre - il dollaro Usa. L'economia reale statunitense segna il passo e il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha deciso quindici giorni fa di «iniettare» (ricorrendo a ben tre diversi strumenti) quasi 85 miliardi di dollari al mese sui mercati. Senza peraltro indicare alcuna scadenza temporale.
Il risultato ovvio, e voluto, consiste in un deciso indebolimento del dollaro - meno 4%, tra la fine luglio e oggi - che dovrebbe aiutare la competitività delle merci Usa. In realtà la svalutazione è probabilmente inferiore a quella desiderata, perché la divisa Usa è «strutturalmente» forte; è infatti l'unità di misura e di scambio di tutte le materie prime, nonché delle transazioni finanziarie.
La Bce ha scelto una strategia un po' diversa (annunciando l'acquisto di titoli di stato a breve termine dei paesi in difficoltà), ma dai risultati simili. Solo che non ha ancora effettuato alcun acquisto sul mercato. Nessun paese ha chiesto un simile «aiuto» per raffreddare lo spread sui propri titoli. E quindi i mercati hanno ripreso ad esercitare pressione sui più deboli (Spagna e Italia, soprattutto), riportando per esempio lo spread sui Btp decennali a 370 punti.
Nonostante tutti i suoi problemi interni, l'euro si è perciò rivalutato. Peggiorando le condizioni dell'export per l'intera area. Stranamente, i più forti esportatori dell'eurozona - i tedeschi - non si mostrano particolarmente preoccupati. Una ragione è stata individuata da alcuni osservatori. È noto che si sta formando il fondo Esm, il nuovo «salva-stati», che però potrebbe essere usato anche per salvare le banche. L'incertezza è tale che questo fondo, per ora, non farà prestiti a nessuno. Ma, per non svalutarsi - l'inflazione galoppa a un ritmo superiore al 3% annuo - deve essere investito in titoli sicuri. Quali? Beh, in Europa c'è poco da scegliere. Olanda, Germania e Finlandia, i tre paesi a «tripla A». I quali, però, sono anche quelli che hanno rimesso in discussione le funzioni del fondo. Risultato ai limiti dell'assurdo: la messa in sicurezza del fondo Esm (acquistando titoli a «tripla A») farà aumentare lo spread dei paesi che avrebbe dovuto «salvare». Geniale, no?
Nemmeno le mosse cinesi - la Banca centrale ha «pompato» a sua volta 53 miliardi di dollari nell'ultima settimana - hanno ottenuto il risultato sperato: lo yuan si è rivalutato dell'1% in solo giorno, segnado un nuovo record nei confronti del dollaro.
Dove correranno, allora, i capitali finanziari in cerca di un certo margine di guadagno senza fatica? Qui gli analisti si sbizzarriscono. C'è chie vede bene le valute di paesi «emergenti», ma Brasile, Cina, India e Russi tutto possono sopportare tranne che un'eccessiva rivalutazione mentre anche le loro economie stanno frenando seccamente. Ecco dunque apparire all'orizzonte paesi al limite della solvibilità come il Messico. Mentre anche Singapore e Russia sembra pronti a sparare quantitative easing pur di mantenere l'oscillazione con il dollaro entro determinati limiti.
Chi si indigna soltanto per i quattro soldi rubati da un sottobosco politico al di sotto di qualsiasi soglia dovrebbe un attimo riflettere sulle dimensioni della ricchezza spesa nella «guerra delle monete» e che finisce nelle banche. Non c'è proprio partita.

No Monti Day di Giorgio Cremaschi

"Il 27 ottobre a Roma ci sarà la prima manifestazione esplilicitamente rivolta contro il governo, il NO Monti Day. Per rivendicare una vera alternativa al montismo e per stare con gli europei che lottano"
Dopo l'annuncio della ricandidatura di fatto di Mario Monti il palazzo della politica ha accusato il colpo. In fondo molti nel centro destra e nel centro sinistra speravano di passare le elezioni facendo finta di niente, presentando il governo dei tecnici come una breve parentesi all'interno delle solite alternanze della seconda repubblica.
Ma la realtà è come sempre più forte. Le controriforme sociali sono tutte passate con voto bipartizan e in più lo stesso schieramento ha già impegnato le prossime legislatura per almeno vent'anni. Il pareggio di bilancio vincolato come norma costituzionale, il Fiscal Compact, cioè l'impegno in Europa a continuare per decenni le politiche di austerità e tagli per dimezzare il debito, sono i punti qualificanti della cosiddetta agenda Monti.
I principali partiti questa agenda e questi impegni li hanno già votati e non è minimamente credibile che li rimettano in discussione, anche se Bersani e Berlusconi fanno confuse promesse su pensioni e Imu che sanno già di non poter mantenere.
Che poi Monti, Merkel, Wall Street non si fidino di un classe politica completamente screditata è ovvio. Il governo tecnico ha realizzato le misure più aspre del programma di Berlusconi, quelle che il padrone di Mediaset non sarebbe mai riuscito a far passare.
Se il partito di Fiorito avesse imposto agli operai dell'Ilva di andare in pensione a 68 anni, ci sarebbe stata una rivolta travolgente. Monti invece c'è riuscito prendendosi solo tre ore di sciopero da cgil cisl uil. Non a caso all'estero il presidente del consiglio vanta sempre la disponibilità ai sacrifici degli italiani, contrapposta alla mobilitazione permanente della Grecia e della Spagna.
La verità è che elezioni oneste sarebbero quelle ove i partiti che oggi sostengono Monti ai presentassero assieme, guidati o benedetti dal loro attuale capo di governo. Allora le elezioni sarebbero un scelta vera,si creerebbe uno schieramento alternativo alla continiuazione delle politiche di austerità e i cittadini potrebbero provare a decidere.
Così sono nei fatti andate le ultime elezioni in Grecia. Ma da noi questo è fantapolitica.Si fanno primarie e schieramenti di centro sinistra contro il finto ritorno in campo di Berlusconi, per fingere di litigare, prendere i voti e poi tornare a governare secondo quell'agenda già scritta e votata.
Il quotidiano La Repubblica giustamente sottolinea che in Italia ci sono tante lotte, ma non una opposizione di massa unificata contro il governo, come invece avviene in Europa negli altri paesi massacrati.
Questo è il vero problema e per cominciare ad affrontarlo il 27 ottobre a Roma ci sarà la prima manifestazione esplilicitamente rivolta contro il governo, il NO Monti Day. Per rivendicare una vera alternativa al montismo e per stare con gli europei che lottano, lasciando al suo destino lo stanco e impresentabile teatrino della politica italiana.

La congiura dei tecnici di Luigi Cavallaro, Il Manifesto

All'origine della crescita del debito pubblico nel nostro paese c'è il divorzio consumato negli anni Ottanta tra Banca d'Italia e governo politico dell'economia per ripristinare il comando del capitale sulla società. Un percorso di lettura
 
Nell'autunno 1980, gli indicatori dell'economia italiana mostravano un andamento contrastato. Nonostante una rilevante crescita del reddito nazionale, in decisa controtendenza rispetto agli altri Paesi industrializzati, la bilancia dei pagamenti era passata dal consistente avanzo realizzato nel biennio 1977-78 ad un ancor più largo disavanzo. L'inflazione viaggiava al ritmo del 2% al mese, con aspettative di peggioramento rese evidenti dal sostenuto aumento dei prezzi dei beni-rifugio. La Banca d'Italia, benché avesse riconquistato quell'autorevolezza che aveva visto vacillare durante l'affaire Baffi-Sarcinelli, faticava non poco nella gestione della liquidità: cinque anni prima, in occasione della riforma dell'emissione dei Buoni ordinari del Tesoro (Bot), si era infatti impegnata ad acquistare tutti i titoli pubblici che fossero rimasti invenduti in asta, accettando di fatto di finanziare i disavanzi del Tesoro con l'emissione di moneta. Non solo, ma il Tesoro poteva attingere ad un'apertura di credito in conto corrente pari al 14% delle spese iscritte in bilancio e deteneva il potere di modificare il tasso di sconto, vale a dire il tasso a cui la Banca presta denaro alle altre banche del sistema e che di fatto decide dell'intera struttura dei tassi d'interesse. I quali, nonostante il brusco rialzo subito sui mercati internazionali a seguito della svolta monetarista voluta l'anno precedente dal Governatore della Federal Reserve, Paul Volcker, si mantenevano perciò ancora negativi, ossia al di sotto dell'inflazione.

Un problema di potere
Al Ministero del Tesoro si era appena insediato il democristiano Nino Andreatta. Già consigliere economico di Aldo Moro, negli anni Sessanta era entrato in contatto con diversi giuristi ed economisti che, pur avendo gravitato a lungo intorno ad Antonio Giolitti (ministro socialista al tempo dei primi governi di centrosinistra e deciso sostenitore della programmazione economica), si stavano gradatamente spostando su posizioni più conservatrici, timorosi che l'assetto istituzionale, già spinto su posizioni assai progressive dall'azione combinata dei governi del decennio precedente e della ribellione operaia e studentesca, potesse subire ulteriori slittamenti in senso «statalista». Ne facevano parte, tra gli altri, Giuliano Amato e Francesco Forte, e Andreatta condivideva le medesime loro preoccupazioni: «Quando la spesa pubblica raggiunge il 55% del Pil - avrebbe detto ad esempio nel 1981, in occasione di un intervento all'assemblea nazionale della Dc - si sono raggiunti livelli oltre i quali l'equilibrio tra area amministrata e area libera dell'economia appare impossibile da salvaguardare».
Appena dissimulato dietro il linguaggio felpato dell'economista fedele al mainstream, emerge qui con chiarezza un punto politico: il comando pubblico sulla moneta si traduceva di fatto in un comando pubblico sul capitale monetario, perché la Banca centrale, obbligata ad emettere tutta la base monetaria di cui lo stato necessitava per perseguire le proprie finalità produttive, redistributive e di stabilizzazione, non poteva più assecondare la tendenza del capitale monetario a «rarefarsi» allorché mancassero adeguate prospettive di profitto. Keynes aveva colto in questa attitudine della moneta a ritrarsi dalla circolazione «il potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale», e aveva avvertito che in una società che fosse finalmente riuscita a venire a capo dei propri problemi di arretratezza non vi sarebbe stato logicamente posto se non per un saggio medio del profitto progressivamente decrescente; ciò che deliberatamente aveva omesso di dire era che ne sarebbe venuta la tendenza dell'economia pubblica a «socializzare» sempre più la produzione e riproduzione sociale - questo e non altro era l'«eutanasia del rentier»!
Di questo rischio era invece consapevole Carlo Azeglio Ciampi, da poco asceso al soglio di Governatore della Banca d'Italia. Proprio per ciò, a suo avviso bisognava sopprimere il legame in quel momento esistente tra il potere di creazione della moneta e quello di decidere l'ammontare della spesa pubblica, il che imponeva che si rimettesse mano ai modi in cui la Banca centrale finanziava il Tesoro: «In particolare, è urgente che cessi l'assunzione da parte della Banca d'Italia dei Bot non aggiudicati alle aste», si legge nelle Considerazioni finali del 1981. E Andreatta, pur essendo d'accordo, si trovava ostaggio di una compagine governativa che - per dirla con le sue stesse parole - era «ossessionata dall'ideologia della crescita ad ogni costo» e non intendeva affatto abbandonare quella combinazione di alta spesa pubblica, tassi d'interesse negativi e cambio debole che fino ad allora l'aveva resa possibile, nonostante gli sconquassi internazionali generati dal secondo shock petrolifero.
Si arrivò così all'idea di una «congiura aperta» (la definizione fu dello stesso Andreatta) tra il ministro del Tesoro e il Governatore della Banca d'Italia, che potesse restituire all'istituto di emissione l'agognata autonomia. Il 12 febbraio 1981, Andreatta scrisse a Ciampi una lettera in cui esprimeva i propri dubbi sull'opportunità che la Banca d'Italia si facesse garante della collocazione dei titoli di stato al tasso voluto del Governo e dovesse per giunta finanziare il Tesoro con lo scoperto di conto corrente, auspicando che la Banca recuperasse la propria libertà di autodeterminazione su entrambi i fronti. Il 6 marzo, Ciampi rispose manifestando il suo assenso sulle «linee di ragionamento» dell'interlocutore e ricordando come «a conclusioni similari» fosse pervenuto in occasione della relazione tenuta il 18 febbraio precedente all'Associazione Nazionale di Banche e Banchieri.
Fu il «divorzio». Il quale non venne neanche portato all'approvazione del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr): le proteste e le critiche levatesi da parte socialista, repubblicana e anche democristiana all'indomani della pubblicazione dello scambio epistolare con Ciampi indussero infatti Andreatta a trincerarsi dietro un paravento giuridico escogitato dai tecnici del Tesoro (secondo i quali la revisione delle disposizioni impartite alla Banca d'Italia rientrava nella competenza esclusiva del Ministro) allo scopo di scansare il rischio che la sua decisione venisse affossata.

Socializzare gli investimenti
Nell'opinione dei due «congiurati» il controllo amministrativo del credito - ossia il comando pubblico sul capitale monetario - non consentiva più di tenere l'economia italiana al riparo dall'inflazione e dagli squilibri della bilancia dei pagamenti: per restare al riparo dal rialzo dei tassi d'interesse internazionali sarebbe stato necessario procedere ulteriormente sulla strada keynesiana della «socializzazione dell'investimento». Una strada «agghiacciante», come avrebbe scritto Guido Carli nelle sue memorie, perché implicava che la Banca centrale e il sistema bancario diventassero semplici organi esecutivi delle decisioni allocative del Governo e che gli eventuali vincoli all'espansione monetaria derivanti dallo squilibrio della bilancia dei pagamenti potessero influire solo sul volume di credito disponibile per il settore privato: giusto come in Urss.
Le conseguenze del «divorzio» furono immediate: le aste dei Bot tenutesi a partire dal secondo semestre 1981 segnarono il ritorno dei tassi d'interesse su livelli positivi, scongiurando il pericolo incipiente dell'eutanasia dei redditieri. C'era però un problema, perché in un contesto internazionale dominato da alti tassi d'interesse il ricorso dello stato ai mercati finanziari era destinato inevitabilmente ad aumentare la quota di spesa pubblica destinata alla semplice remunerazione del denaro preso a prestito. Nell'ottica dei «congiurati», in effetti, il venir meno dell'obbligo della Banca centrale di finanziare il Tesoro avrebbe dovuto indurre la classe politica a ridurre la spesa pubblica e, con essa, lo spazio dell'intervento pubblico nella produzione e riproduzione sociale: prendendo a prestito le parole di Andreatta, «l'equilibrio tra area amministrata e area libera dell'economia» avrebbe dovuto ricostituirsi ad un livello che vedesse quest'ultima tornata in una posizione di supremazia. Complice una Costituzione repubblicana decisamente «interventista», non la penserà propriamente allo stesso modo la classe politica al governo, nemmeno quando a Palazzo Chigi salirà Bettino Craxi. E accadrà così che, sebbene nel decennio successivo il saldo tra entrate e uscite pubbliche al netto degli interessi si mantenesse quasi costantemente positivo, il debito pubblico giungerà praticamente a raddoppiare, passando dal 58% del 1981 al 124% del 1992.
Leonardo Sciascia l'avrebbe probabilmente definita «una storia semplice». Mostra che all'origine del nostro debito pubblico non c'è affatto un eccesso di spese sociali rispetto alle entrate, e nemmeno la famigerata evasione fiscale: c'è solo un'aumentata spesa per interessi, a sua volta conseguenza del «divorzio» fra Tesoro e istituto di emissione.
Più che una «tangente», come titolò questo giornale vent'anni fa per definire la pesantissima manovra finanziaria con cui il governo Amato dava l'avvio ad una stagione non più consentanea rispetto all'espansione della spesa pubblica, si trattava di una tassa: una tassa che il capitale nuovamente egemone tornava a imporre alla società per riprodursi come modo di produzione dominante.

La riduzione del danno
Si comincia solo adesso a far strada l'idea che la lotta di classe si dispiega oggigiorno intorno al debito pubblico. Sfortunatamente, a prevalere (anche a sinistra) sono ancora visioni del problema ispirate da concezioni essenzialmente libertarie, che nel debito - pubblico o privato che sia - vedono semplicemente quel rapporto di potere e di asservimento che indusse Nietzsche a collocarlo a monte della genealogia della nozione di «colpa»: in lingua tedesca, infatti, Schuld vuol dire sia l'una che l'altra cosa.
Sfortunatamente, da Nietzsche non s'impara mai nulla dal punto di vista propriamente storico: egli parla sempre del presente, il presente del suo tempo dominato dal capitale finanziario, e tutte le sue ricostruzioni sono puramente mitiche. Pensate e scritte ad uso e consumo della piccola borghesia austro-tedesca di fine Ottocento, oppressa da banche e cartelli la cui storia reale fu invece magistralmente narrata da Rudolf Hilferding, giammai possono offrire una base scientifica per comprendere il nostro presente e tentare di trasformarlo. La riprova è che tutte le suggestive fenomenologie dell'«uomo indebitato» apparse in questi quattro anni ormai trascorsi dall'esplosione della crisi finanziaria precipitano inevitabilmente nell'idea alquanto naif del «ripudio» del debito, magari dietro preventivo audit. Sovviene al riguardo un celebre articolo del giovane Gramsci sui tardivi piagnistei degli «indifferenti»: «eterni innocenti» di una storia che si è fatta anche e soprattutto grazie al loro «lasciar fare» e che, quando gli eventi che hanno lasciato che accadessero gli si voltano contro, bestemmiano o piagnucolano di «fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze». La generazione del baby boom ne offre purtroppo un vasto campionario.

I vincoli esterni
D'altra parte, la pur giusta rivendicazione della necessità del debito pubblico (o meglio, di una spesa pubblica non condizionata da obiettivi di remunerazione del capitale) non può non misurarsi con il problema rappresentato dall'assenza di un meccanismo internazionale del tipo di quello che Keynes aveva prospettato nella sua celebre proposta della Clearing Union (1941), ossia capace di evitare che l'onere dell'aggiustamento degli squilibri nelle bilance dei pagamenti ricada per intero sui Paesi debitori: il problema del «vincolo esterno», dietro il quale si nasconde la propagazione all'estero degli effetti moltiplicativi della spesa pubblica interna, non è infatti allo stato in alcun modo eludibile, se non (e non indefinitamente) dagli Stati Uniti, che battono la moneta di riserva mondiale.
In questo senso, hanno ragione quanti individuano una linea di continuità tra la proposta di «austerità» che fu di Enrico Berlinguer e la politica dei «sacrifici» che ci viene imposta dal Governo in carica. Salvo che, nell'un caso, si trattava di farsi portatori di «un modo diverso del vivere sociale», attento alla qualità dello sviluppo e proprio per ciò orientato dall'esigenza di spostare gli obiettivi della produzione dallo stimolo ai consumi privati al soddisfacimento in forma pianificata di bisogni collettivi, mentre nell'altro si tratta banalmente di deflazionare la domanda interna allo scopo di pareggiare lo squilibrio della bilancia dei pagamenti e di spezzare le reni al lavoro dipendente in modo da garantire il mantenimento dei margini di profitto a produzioni private non più competitive sul piano internazionale. Non è una differenza da poco.

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SCAFFALE
Il nodo dell'autonomia monetaria
(lu.c.)

Le vicende che portarono al «divorzio» tra Tesoro e Banca d'Italia sono accuratamente ricostruite - in chiave apologetica, beninteso - in un imperdibile volumetto dell'Arel, «L'autonomia della politica monetaria. Il divorzio Tesoro-Banca d'Italia trent'anni dopo», con scritti di Andreatta, Ciampi, Draghi, Monti e altri (il Mulino, pp. 130, euro 11). Per le visioni attualmente prevalenti nella sinistra d'alternativa circa il debito, si vedano in specie François Chesnais, «Debiti illegittimi e diritto all'insolvenza» (DeriveApprodi, pp. 165, euro 10) e Maurizio Lazzarato, «La fabbrica dell'uomo indebitato» (DeriveApprodi, pp. 179, euro 12), che nei mesi scorsi hanno dato vita ad un ampio dibattito su queste colonne e su Alias. Sulla necessità del debito pubblico è tornato recentemente a insistere Giovanni Mazzetti («Ancora Keynes?!», Asterios, pp. 93, euro 8). La questione del «vincolo esterno» è invece ben presente nell'ottimo pamphlet di Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, «L'austerità è di destra. E sta distruggendo l'Europa» (il Saggiatore, pp. 153, euro 13), già recensito criticamente su queste colonne da Andrea Fumagalli lo scorso 7 giugno.

venerdì 28 settembre 2012

ALLE ORIGINI DEL DECLINO DELL'OCCIDENTE


Il Pil mondiale previsto nel 2025
o la decadenza dell'Occidente 
Scheda su crisi di sovrapproduzione e finanziarizzazione
a cura di SollevAzione

A forza di analizzare il decorso della malattia senile che affligge il capitalismo occidentale si rischia di dimenticarne la causa primaria, la crisi di sovrapproduzione. Essa non consiste, come a volte si sente dire, nel fatto che le capacità di consumo delle masse sono insufficienti.
Se fosse così dovremmo infatti parlare di crisi da sottoconsumo e allora il capitale potrebbe keynesianamente uscirne, ad esempio aumentando il potere d’acquisto dei salariati, e facendo leva sulle banche centrali spingendole a sfornare carta moneta a gogò —che è appunto la stravagante terapia proposta dalla Modern Monetary Theory e, più prosaicamente, adottata da Ben Bernanke.

La crisi di sovrapproduzione è un’altra cosa. E’ l’inevitabile, ed empiricamente sempre verificata, conseguenza di un periodo di espansione prolungata dell’economia capitalistica. Durante tale boom le aziende e i diversi settori produttivi, spinti dalla brama di cogliere le opportunità di guadagno, di occupare prima dei concorrenti ogni spazio di mercato, compiono investimenti ingenti per accrescere le loro capacità produttive. In tali periodi di slancio espansivo, la forza lavoro è spremuta al massimo, i tassi di plusvalore salgono verso l’alto e il capitale industriale registra elevati profitti. In questo contesto di vacche grasse affluiscono verso il capitale industriale un profluvio di quattrini—il danaro fluisce sempre dove ottiene la migliore remunerazione.

Animata dal desiderio di accrescere il profitto ogni azienda, temendo di essere fatta fuori dalla concorrenza, manifesta la tendenza a produrre senza limiti, a gettare merci sul mercato quantità crescenti, mentre quest’ultimo non si allarga alla medesima velocità e può anzi opporre barriere insormontabili.

Ad un certo punto il meccanismo s’inceppa. Con l’accresciuta capacità produttiva le merci hanno perduto valore —a causa dell’aumento della composizione organica che riduce la quantità di lavoro vivo incorporato nelle merci— e, per essere spacciate, devono essere vendute a prezzi decrescenti con la conseguenza di abbassare i profitti, mentre, per tenere almeno stabile il saggio, ci sarebbe bisogno di un loro aumento visti i costi crescenti affrontati per le spese di ammodernamento degli impianti. 

Non conta solo la massa del profitto, conta il suo saggio, ovvero il rapporto tra tutto il capitale anticipato e il plusvalore prodotto. La tabella n.1 mostra il contributo al Pil mondiale delle varie aree macro-economiche. Risalta la decadenza delle tradizionali potenze imperialiste.
Tab.n1. La curva della decadenza imperialista

Alle prese con la sovrapproduzione il capitale industriale non si limita a ridurre gli investimenti, deve limitare la produzione, fermare in tutto o in parte gli impianti, espellere forza lavoro. Un caso da manuale è l’industria automobilistica mondiale, che ha una sovraccapacità produttiva di circa il 40%. Non è che non si potrebbero vendere automobili, è che il capitale preferisce tagliare la produzione piuttosto che vendere a prezzi che non gli consegnano il profitto atteso.  La recente denuncia di Marchionne secondo cui i tedeschi stanno vendendo le loro autovetture sottocosto è una evidente conferma che in fasi di crisi di sovrapproduzione, pur di non perdere quote di mercato e/o di chiudere impianti, chi può, ovvero chi ha solidità finanziaria, vende a prezzi che a malapena coprono i costi di produzione.

Quando i profitti crollano i capitali si svalorizzano, le loro azioni perdono quota, e per trovare denaro fresco debbono pagare interessi negativi più alti. Nota è la legge per cui, quando il saggio di profitto scende sale il tasso d'interesse del capitale monetario.

Questa è la crisi di sovrapproduzione, che definiamo generale, cronica e sistemica dal momento che afferra non questo o quel settore ma l’insieme della produzione capitalistica. Aggiungiamo quindi l’aggettivo strutturale per indicare che essa riguarda i modus essendi e operandi stessi del sistema capitalistico.
Tab. 2. La curva dei tassi di profitto negli Usa e in Europa

L’attuale crisi non è sorta ieri, con l'esplosione della bolla finanziaria dei sub prime. Ha le sue radici più lontane nella fine degli anni ’60 del secolo scorso, con il tramonto del lungo ciclo espansivo postbellico. Di lì prese le mosse il neoliberismo, ovvero l'offensiva generale del grande capitale, concertata coi governi, per dare l'assalto alle conquiste operaie e sociali per rilanciare i tassi di profitto. Si guardi alla Tabella n.2. la curva dei tassi di profitto dopo la crisi degli anni '70 risale fino alla metà degli anni '90, quando la spinta si esaurisce. e i profitti ricominciano a scendere. E' a questo punto che prende il sopravvento, in Occidente, la tendenza alla iper-finanziarizzazione.

Del resto questa iper-finanziarizzazione prese avvio nello stesso quindicennio di crescita dei tassi di profitto iniziatosi a partire dagli inizi degli anni '80. Esso non si accompagnò ad una crescita del benessere sociale complessivo. I profitti non vennero reinvestiti su larga scala nelle sfere produttive, bensì in quelle improduttive della finanza speculativa. Lo attesta il decrescente tasso di accumulazione (vedi Tabella. n.3).
Tab. 3. La forbice tra tassi di profitto e di accumulazione: 1961-2007


 Non c’è nessun arcano in questa metamorfosi. Abbiamo detto che la legge suprema del capitalismo è che il danaro, capitale solo in potenza, fluisce sempre dove ottiene la migliore remunerazione. Il capitale monetario dei paesi imperialisti e delle petromonarchie, che nel frattempo si era accumulato copioso, non trovando lucrosi gli investimenti nell’industria occidentale,  doveva cercare altri approdi. Con l’ausilio indispensabile delle politiche liberistiche avviate negli anni ’80 dagli Usa e dal Regno Unito prima, e poi dal resto dell’Occidente, l'enorme massa di capitale monetario imboccò due strade complementari: (1) quella del capitalismo-casinò, dove il danaro poteva fruttare profitti senza passare per  il ciclo faticoso della produzione di plusvalore, semplicemente captandolo, attraverso l’uso massiccio del credito ad usura, da ogni poro dell’economia e della società.; (2) quella di finanziare l'esportazione di capitali  in paesi semicoloniali dove esistevano le condizioni affinché gli investimenti nel ciclo industriale consegnassero un alto plusvalore.

La restaurazione del capitalismo in Cina e il crollo dell’URSS da una parte (che hanno aperto nuovi enormi spazi di razzia e investimento ai capitali monetari occidentali) e dall’altra l’applicazione a scala globale delle nuove tecnologie informatiche diedero ossigeno al processo combinato di finanziarizzazione e delocalizzazione in Asia. Il capitalismo occidentale, non senza scoppi di bolle e numerose crisi di default, riuscì così a cavarsela per un altro ventennio, fino a quando, anche per l’insorgenza di nuove potenze capitalistiche, il capitalismo-casinò farà fiasco, esplodendo proprio negli Stati Uniti con la crisi dei mutui sub-prime del 2007-8, presto estesasi a tutto l’Occidente.

Alla domanda se possono le classi dominanti possono venire a capo di questa crisi, la risposta è quindi un rotondo no. O meglio, non ne possono venire a capo con le mezze misure. Dalle crisi generali di sovrapproduzione se ne esce soltanto con distruzione su larga scala di capitale. Solo in questo modo può ripartire un ciclo virtuoso di accumulazione e di creazione massiva di plusvalore, che è la linfa vitale senza la quale il capitalismo semplicemente muore. Questa distruzione, lenta, inesorabile, pilotata, è in effetti già in atto in Occidente da almeno un ventennio. Quando anche in Asia il motore si pianterà, avremo il grande cataclisma, con l’insorgenza di enormi conflitti inter-capitalistici. 
Tab. n.4. Neoliberismo: mentre i profitti salivano,
decrescevano salari e consumi. % del Pil in Usa, Ue e Giappone

L’Occidente imperialista, pur di sfuggire al suo destino di decadenza, sarà posto davanti alla necessità di organizzarsi per una guerra su due fronti: quella per piegare i nuovi nemici esterni e quella di rapina entro i suoi propri confini. Una guerra di classe non solo contro il proletariato, ma la grande maggioranza del popolo, che dovrà essere gettato in condizioni di semi-schiavitù affinché sia obbligato dissanguarsi per tenere in vita il vampiro capitale. Questa guerra interna, a ben vedere è già in corso, è alle sue prime battute. I tempi affinché si affacci, nella coscienza di grandi masse, la necessità di fuoriuscire dal capitalismo (e senza questa coscienza non ci sarà alcun rivolgimento sociale) non sono ancora maturi. Lo saranno prima o poi, ed è a questa svolta storica che ci si deve preparare.