lunedì 30 maggio 2016

La degradazione della cultura - di Robert Kurz -

cultura

Oggi, per la maggior parte delle persone, una critica fondamentale dell'economia moderna appare altrettanto insensata del tentativo di passare attraverso la parete anziché dalla porta. Quella stessa economia che, se osservata, rivela tutte le sue tracce di follia, considerate però come normali, dal momento che i criteri della macchina capitalista sono stati interiorizzati universalmente. Quando i pazzi sono la maggioranza, la follia è un dovere del cittadino. Sottoposta ad una simile pressione, la critica sociale si ritrae dal campo dell'economia e va in cerca di evasioni. La sinistra, specialmente, non vede di buon occhio il fatto che si metta il dito nella piaga delle relazioni economiche predominanti: è penoso ricordare la propria capitolazione incondizionata. Teoricamente disarmata, la sinistra preferisce denunciare qualsiasi seria critica del mercato, del denato e del feticismo della merce, come "economicismo" antiquato e inutile, superato da tempo.
E allora di che cosa si occupa una critica sociale ormai indegna di tale nome? Prima, il grande rifugio era la politica. Si pretendeva che tutte le questioni del sistema produttore di merci ( e pertanto anche l'economia) fossero regolate per mezzo del "discorso razionale" dei membri della società, all'interno delle istituzioni politiche. Di questa speranza è rimasto ben poco. Da tempo, la politica è stata degradata a sfera secondaria dell'economia totalitaria. Oggi, il fine in sé del capitalismo ha divorato la supposta "relativa autonomia" della politica. Per questo motivo, nella postmodernità la critica sociale si rifugia nella cultura, abbandonando la politica, allo stesso modo in cui prima aveva cercato rifugio nella politica, abbandonando l'economia. La sinistra postmoderna è diventata, sotto ogni aspetto, "culturalista" e ritiene di essere capace, con la massima serietà, di agire "sovversivamente" nell'ambito dell'arte, della cultura di massa, dei media e della teoria della comunicazione, mentre trascura praticamente del tutto l'economia capitalista e la menziona soltanto di passaggio, con evidente fastidio.
Ma a prescindere da quali siano i domini sociali in cui si rifugia una sinistra che ha calato il silenzio sulla critica dell'economia, l'economia capitalista continua ad essere sempre presente e le si rivolge con un sorriso ironico. È vero che questa "economia ha divorziato dalla società" - come scrive la critica sociale francese Viviane Forrester nel suo libro a proposito del "Terrore dell'economia" - ma il capitalismo si è dimenticato della società soltanto in senso sociale, senza però lasciarsela sfuggire dalla grinfie. Al contrario, l'economia totalitaria veglia attentamente affinché sotto il sole non avvenga mai niente che non serva direttamente al fine in sé della massimizzazione dei profittti. E oggi questo vale anche per la cultura.
L'economia moderna si è affermata man mano che la sfera capitalista di produzione industriale si è dissociata dagli altri ambiti della vita. La cultura, in senso ampio, sembrava essere un'attività "extra-economica", espulsa, come semplice sottoprodotto della vita, verso il cosiddetto "tempo libero". Questa è stata la prima degradazione della cultura nella modernità: si è trasformata in un argomento poco serio, in un semplice "momento di svago". Ma nel momento in cui il capitalismo ha dominato integralmente la riproduzione materiale, il suo appetito insaziabile si è esteso anche alle configurazioni immateriali della vita e, nei limiti del possibile, ha cominciato a rilevare pezzo dopo pezzo gli ambiti dissociati e a sottometterli alla sua peculiare razionalità imprenditoriale. Questa è stata la seconda degradazione della cultura: è stata essa stessa industrializzata.
In questo modo, si è ripetuto ciò che Marx aveva detto a proposito delle mutazioni della produzione materiale, in quanto anche la cultura è passata dalla fase "formale" alla fase "reale" della sussunzione al capitale: se, in un primo momento, i beni culturali venivano considerati solo esteriormente e, a posteriori, come oggetti di compravendita secondo la logica del denaro, nel corso del 20° secolo la loro produzione stessa è passata a dipendere sempre più, aprioristicamente, da criteri capitalisti. Il capitale non ha più voluto essere solo l'agente della circolazione dei beni culturali, ma è passato a dominare tutto il processo di riproduzione. Arte e cultura di massa, scienza e sport, religione ed erotismo sono diventati prodotti sempre più simili alle automobili, frigoriferi o detersivi. In questo modo, i produttori culturali hanno anche perso la loro "relativa autonomia". La produzione di canzoni e romanzi, di scoperte scientifiche e riflessioni teoriche, di film, quadri e sinfonie, di eventi sportivi e spirituali poteva avvenire soltanto come produzione di capitale (plusvalore). Questa è stata la terza degradazione della cultura.
Tuttavia, nell'epoca di prosperità successiva alla seconda guerra mondiale, in molti paesi si è formato un paraurti sociale che ha protetto parte della cultura dall'impatto devastante dell'economia. Parlo del meccanismo keynesiano di redistribuzione. Il deficit spending ha alimentato non solo la produzione di armamenti militari e lo stato sociale, ma anche alcuni ambiti culturali. Non c'è dubbio che la sovvenzione statale abbia imposto dei limiti rigorosi all'autonomia della cultura. Ma il controllo dello Stato era aperto alla discussione pubblica, e non era tirannico: in caso di conflitto, si può negoziare con funzionari e politici, ma non con le "leggi del mercato". Attraverso il "keynesismo culturale" una parte della produzione culturale dipendeva solo indirettamente dalla logica del denaro. Dal momento che le trasmissioni radio e televisive, le università e le gallerie, i progetti artistici e teorici venivano sovvenzionati o promossi dallo Stato, non bisognava sottomettersi direttamente ai criteri imprenditoriali; esisteva un certo campo di azione per la riflessione critica, per gli esperimenti e le "arti improduttive" minoritarie, senza che venissero minacciate sanzioni materiali.
Questa situazione si è modificata essenzialmente a partire dall'inizio della nuova crisi mondiale e con la conseguente campagna neoliberista. La fine del socialismo e del keynesismo ha scosso fortemente la cultura, dal momento che essa si è vista privata dei suoi mezzi. Gli Stati non si sono disarmati militarmente, ma si sono disarmati culturalmente. In una piccola porzione dello spettro culturale, la sponsorizzazione privata ha preso il posto degli incentivi statali. Non ci sono più diritti sociali e civili, ma solamente l'arbitrio caritatevole dei vincitori del mercato. I produttori culturali si trovano esposti agli umori personali dei magnati del capitale e dei mandarini dell'amministrazione, per le cui mogli devono servire da hobby e da passatempo. Come i giullari di corte e i servitori del Medioevo, sono costretti a indossare i loghi e gli emblemi dei loro signori, al fine di essere utili al marketing. Questa è la quarta degradazione della cultura.
Per la stragrande maggioranza delle arti, delle scienze e delle attività culturali di ogni tipo, però, la questione dell'umiliante ed arbitraria sponsorizzazione privata non viene nemmeno messa in discussione. Oggi, tutti queste attività si trovano direttamente esposte, in una proporzione inaudita e senza alcun filtro, ai meccanismi del mercato. Istituti scientifici ed associazioni sportive devono fare ricorso alla Borsa, università e teatri devono fare profitti, la letteratura e la filosofia devono battersi contro i criteri della produzione di massa. Nella grande distribuzione, ottiene successo soltanto quello che si presta a diventare un'offerta per lo svago degli schiavi del mercato. Da qui, le grottesche distorsioni nelle remunerazioni dei produttori culturali: nel calcio e nel tennis, i giocatori ricevono milioni, mentre i produttori di critica, di riflessione, di rappresentazione ed interpretazione del mondo sono messi allo stesso livello dei pulitori di cessi. Con la razionalizzazione capitalista dei media, vengono trasposti nella sfera culturale i salari di fame, l'esternalizzazione e la schiavitù imprenditoriale.
Il risultato può essere soltanto la distruzione del contenuto qualitativo della cultura. Pagati una miseria, socialmente degradati e ricattati, i lavoratori della cultura e dei media producono, com'è ovvio, beni ugualmente miserabili; ciò vale tanto per questo campo quanto per tutti gli altri. E la riduzione brutale ad un orizzonte di tempo abbreviato e la distribuzione di massa del mercato, eliminano tutto quello che pretende di essere qualcosa di più di un prodotto usa e getta. Ben presto nelle librerie troveremo soltanto libri pornografici, esoterici e di ricette, per la classe media depravata. Ma anche nelle scienze, la logica di mercato si lascia dietro una scia di distruzione. Dal momento che, per loro natura, non possono assumere forma mercantile, le scienze sociali e dello spirito vengono sradicate dall'impresa accademica come se fossero erbacce. Sono soprattutto gli istituti storici a soffrire dei tagli nelle loro dotazioni, poiché il mercato non ha alcun bisogno di passato; la scienza naturale si è definitivamente sostituita alla filosofia ed alla teoria sociale. Nella scienza naturale, tuttavia, la ricerca "senza obiettivo" viene svalutata e strangolata a favore della ricerca su commissione, più redditizia per il capitale.
Queste tendenze, così come avevano già degradato la soggettività religiosa o politica, portano necessariamente al collasso della soggettività culturale nella società borghese, senza sostituirla con qualcosa di nuovo. Oggi, neppure un conservatore "è" ancora conservatore, ma è solamente qualcuno che compra il conservatorismo come se fosse salsa di pomodoro o lacci per scarpe. Anche l'attuale papa, per quanto ortodosso sia, dimostra di essere uno specialista di marketing per eventi religiosi; ben presto, le religioni e le sette saranno quotate in Borsa e saranno guidate dai principi del valore azionario. Gli artisti e gli scienziati si sottomettono alla medesima degradazione della loro personalità. Quando pensano e producono, con premurosa obbedienza, secondo le categorie a priori della venalità, hanno già perso il loro tocco e possono ratificare soltanto il loro ruolo, come il celebre pittore Baselitz che in un lampo di lucidità gira i suoi quadri verso la parete.
"L'economicismo" non è un'idea sbagliata ed unilaterale di incorreggibili marxisti, ma è la tendenza reale al totalitarismo economico dell'ordine sociale predominante, che viene colta nella crisi attuale durante il suo più grande e forse ultimo scoppio. Ma il capitalismo non può stabilizzarsi sulle sue proprie basi. Allo stesso modo in cui l'industria farmaceutica perderà la sua grande fonte di conoscenza e di materie prime se le foreste tropicali vengono devastate, così anche l'industria della cultura si esaurirà quando non potrà più trarre sangue dalle sottoculture, una volta che l'attività non-commerciale delle masse sarà definitivamente morta. Una società composta solo di insistenti venditori che non comprano, e che è oramai incapace di riflettere su sé stessa, è diventata inostenibile anche in termini sociali ed economici.

- Robert Kurz - Pubblicato su Folha de São Paulo del 15.03.1998 -
Fonte: EXIT!

domenica 22 maggio 2016

"Magari fossimo solo diseguali. L'Istat dice tra le righe che siamo alla disperazione" di Federico Giusti

A leggere il rapporto annuale Istat 2016 (qui) non c'è da stare tranquilli. Il nostro paese è alle prese con una crisi che da qui ai prossimi anni produrrà alcune conseguenze sociali devastanti
L'Italia è dopo la Gran Bretagna il paese dove le disuguaglianze economiche e sociali sono piu' accentuate, veniamo dopo il paese liberista per eccellenza, la ricchezza prodotta nel paese è finita o nella speculazione finanziaria, o nei conti esteri o è andata a incrementare la ricchezza dello 0,99 % della popolazione. Una parte risibile è invece finita ai redditi da lavoro, pensiamo che oltre la metà dei lavoratori e delle lavoratrici italiani\e è in attesa del rinnovo dei contratti da anni, ricordiamo che per 3 milioni di lavorator pubblici l'attesa dura da sette anni e dopo i dati relativi al 2015 si apprende che nel primo trimestre 2016 i contratti a tempo indeterminato hanno ripreso a calare a vantaggio degli atipici e dei voucher (piu' 46 % solo nei primi due mesi di quest'anno)
Stando ai dati Inps, lo scorso febbraio c'è stato un calo del 33% dei contratti a tempo indeterminato, come già era avvenuto in gennaio. Riducendosi gli incentivi (da 8066 euro annui per un triennio siamo passati ai 3250 per un biennio a partire dal 2016) , il loro importo e la loro durata , anche i contratti a tempo indeterminato crollano: si conferma quindi il crollo dopo il taglio degli incentivi.
Una ripresa economica gonfiata ad arte dai provvedimenti Governativi, dagli sgravi fiscali alle imprese, dalle tutele crescenti che permettono ai padroni libertà di licenziamento pagando solo un piccolo indennizzo economico
Se le statistiche Inps smontano l'ottimismo demenziale del Renzismo, nel sindacato e nelle realtà politiche poco si va riflettendo sull'ultimo rapporto Istat, forse la motivazione potrebbe essere la recentissima uscita ma a tal riguardo nutriamo seri dubbi
Sulla morte del ceto medio ci sono atteggiamenti preoccupanti, tra chi di fronte alla proletarizzazione pensa maturino le contraddizioni per una opposizione sociale piu' dura e senza la mediazione dei corpi intermedi e quanti invece non vogliono prendere atto degli scenari futuri
Da qualche anno le famiglie sono il nuovo welfare ma cosa accadrà tra 10 anni quando le pensioni saranno decisamente piu' basse perché calcolate con il sistema contributivo, quando avremo una forza lavoro produttiva fino ai 67\8 anni, costretta a prolungare l'età lavorativa per ragioni economiche? Chi potrà accudire ai bambini (la spesa degli asili nido è sempre meno sostenibile in barba ai bonus bebè) o gli anziani se saremo costretti a lavorare fino alla soglia dei 70 anni?
I dati Istat fotografano l'assenza di mobilità sociale, questo è uno degli effetti della crisi del ceto medio, sono i minori a pagare la crisi in termini di povertà, di riduzione delle opportunità, di abbandoni scolastici, di impossibilità di accesso all'università
In 25 anni la forbice sociale si è allargata, con la crisi del ceto medio non ci sono stati fenomeni di radicalismo sociale e politico ma un arretramento generale delle conquiste in materia di diritti, lavoro, sociale. Colpa dei sindacati e dei corpi intermedi appiattiti sul ceto medio, o paura e rassegnazione che hanno creato una vasta zona d'ombra passiva?
Da 20 anni a questa parte la percentuale di giovani laureati costretti a scegliersi una occupazione ben diversa da quella sperata con il corso di studi è in pauroso aumento, ormai si avvicina al 55% del totale dei laureati costretti ad opzioni lontane da quelle sperate.
Un paese sempre piu' vecchio, che legge e studia meno della media europea, chi oggi ha venti anni lavorerà fino ai 75 anni di età alternando periodi contributivi regolari ad altri, piu' o meno lunghi irregolari che molti incideranno sull'assegno previdenziale
Se il Ministro della sanità parla di Proletarizzazione dei medici, vuol dire che la sconfitta del ceto medio e la crescita della disuguaglianza sociale inizia a produrre crepe nelle certezze del Governo, consapevoli che questa polarizzazione tra ricchi e poveri rappresenti un problema anche per il buon funzionamento del modo di produzione capitalistico.
Se da una parte la crescita dei trentenni senza reddito e senza prospettiva rappresenta una minaccia per l'immediato futuro, dall'altra bisogna chiedersi se questa generazione di esclusi rappresenti in prospettiva un blocco sociale conflittuale e antagonista.
La nostra impressione è che la individualizzazione della società sia tale da scoraggiare facili ottimismi, una marea di giovani costretti a vivere in famiglia non potendosi permettere una casa autonoma e senza alcuna fonte di reddito costringerà il Governo a ripensare a forme di reddito minimo di cittadinanza ma da qui a ipotizzare che questa massa assuma connotati conflittuali corre grande differenza
Ma questa massa rinchiusa dentro le famiglie non è il brodo di cultura favorevole per la nascita di movimenti dal basso...
Di sicuro il sindacato, oggi, nel suo complesso, quello di base incluso, non è capace di leggere la realtà in trasformazione , ostaggio o della ricerca di una nuova stagione concertativa o tentato dallo sposare le tematiche dei movimenti dell'abitare per attaccarsi a soggettività proletarie in lotta, magari per esaltare la mappa delle contestazioni di Renzi nel paese (i numeri di chi lo contesta sono ridotti a un decimo e un ventesimo alle piazze che contestavano Berlusconi, eppure la manovra del Pd oggi ha una natura eversiva e anticostituzionale decisamente piu' pericolosa)
In questo scenario, nessuno ha ancora riflettuto sulla crisi del ceto medio, sul suo spostamento verso lidi xenofobi e razzisti, sulla sua inutilizzabilità anche in termini sindacali.
Provare a sviluppare qualche riflessione è oggi piu' che mai necessario...

*Rsu Comune di Pisa

Perché l’Anpi ha ragione a votare no di Carlo Smuraglia


Perché l’Anpi ha ragione a votare no


Quella che segue è la lettera che il presidente dell’Anpi, Carlo Smuraglia, ha inviato all’Unità in risposta a quella di 70 senatori del Pd pubblicata dallo stesso giornale.
 
Cari Senatori,  ho letto la vostra lettera aperta e ne capisco le ragioni. Quando si approva più volte una legge, si finisce per affezionarsi. Per di più, siamo già in campagna referendaria e dunque bisogna fare un po’ di propaganda e cercare di mettere in difficoltà chi si colloca, in questo caso, dall’altro lato della barricata. Capisco anche l’esaltazione che fate della Riforma: a voi piace, l’avete votata e non avete ripensamenti. Come sapete, io la penso in un altro modo e, fortunatamente, non sono il solo.  Ma consentitemi però qualche osservazione: vi dichiarate tutti “iscritti e sostenitori dell’ANPI”; ma io non vi ho mai incontrato nel lungo cammino che abbiamo percorso su queste tematiche. Un cammino che è cominciato dal 29 marzo 2014 (Manifestazione al Teatro Eliseo – Roma), è continuato per due anni, giungendo ad un primo approdo, in Comitato nazionale, il 28 ottobre 2015, con una posizione già piuttosto evidente sulla legge di riforma e l’eventuale referendum ed è proseguito con la decisione del 21 gennaio 2016, adottata dal Comitato nazionale, di prendere posizione per il “NO”. Ma non basta: ci sono stati i Congressi delle Sezioni e dei Comitati provinciali e in tutti si è finito per discutere anche sul referendum, con libertà e ampiezza di idee; i documenti votati durante questi Congressi, sul tema specifico del referendum, parlano chiaro: 2501 favorevoli, 25 contrari e alcuni astenuti. Dunque, si è discusso, ci si è confrontati (circa 30.000 presenze nei vari Congressi), ma la linea adottata il 21 gennaio, ha raccolto ampi consensi. Mancava il traguardo finale, cioè il Congresso nazionale. Si è svolto dal 12 al 14 maggio, a Rimini, introdotto da una Relazione, ovviamente “schierata” sulla base delle decisioni adottate il 21 gennaio e confermate nei Congressi. Anche a Rimini si è discusso e chi ha voluto ha parlato, in un senso o nell’altro. Alla fine, come si fa in democrazia, si è votato: 347 voti a favore del Documento base e della Relazione introduttiva al Congresso nazionale, contro tre astensioni. Chiarissimo, mi pare. O no?
Anche nella Relazione generale, peraltro, avevo riconosciuto che erano emersi alcuni dissensi, minoritari. Ad essi ho attribuito piena cittadinanza, riconoscendo “non solo il diritto di pensarla diversamente, ma anche quello di non impegnarsi in una battaglia in cui non si crede”, aggiungendo, peraltro che non si poteva riconoscere il diritto a compiere atti contrari alle decisioni assunte, perché ci sono delle regole da rispettare, codificate nei nostri documenti fondamentali, secondo le quali gli iscritti devono rispettare lo Statuto, il Regolamento e le decisioni degli organismi dirigenti; e ovviamente (anche se non c’è una norma specifica ), non recar danno all’ANPI .Tutto qui. Questo gran parlare che si fa del dissenso e di un preteso autoritarismo non ha davvero fondamento e ragion d’essere. In democrazia la maggioranza ha il dovere di rispettare il pensiero di chi dissente, ma quest’ultimo, a sua volta, ha il dovere di rispettare il voto e le decisioni assunte dalla maggioranza. Altrimenti, sarebbe l’anarchia. E questo sarebbe davvero inconcepibile in un’Associazione come l’ANPI che è sempre stata pluralista, ma nella quale mai si sono posti dei problemi come quelli che oggi vengono prospettati, non solo dall’interno, ma addirittura dall’esterno, impartendoci autentiche “lezioni” (mi piacerebbe sapere se tutti quelli che si dicono iscritti all’ANPI, lo sono davvero, oppure lo affermano soltanto, naturalmente non per contestare il diritto di critica, ma per capire da quale parte essa proviene, visto che noi un grande dibattito interno lo abbiamo già avuto in questi mesi).
anpi 
Voi dite che “molto potremmo discutere sull’opportunità e sulle modalità della scelta”. Discutete pure sull’opportunità, come appassionato esercizio dialettico, ma sulle modalità stento ad immaginare che cosa si sarebbe potuto e dovuto fare di più, per giungere ad una decisione, su cui si è formata una stragrande maggioranza. 
Voi vi preoccupate che l’ANPI non diventi un partito; non c’è pericolo, ve lo assicuro perché siamo sempre stati gelosi della nostra identità e della nostra indipendenza. Schierarsi in difesa della Costituzione è un obbligo che ci deriva dallo Statuto in termini che spero voi ricordiate (“concorrere alla piena attuazione, nelle leggi e nel costume, della Costituzione italiana, in assoluta fedeltà allo spirito che ne ha dettato gli articoli”); e nessuno pensò che l’ANPI si trasformasse in partito quando scese in campo contro la “legge truffa”, nel 1953, o quando fece altrettanto contro il Governo di Tambroni, appoggiato dai fascisti, nel 1960. Sulla Costituzione è un dovere impegnarsi e battersi con ogni mezzo perché se ne conservino lo spirito ed i valori.
Ignorare tutto questo, significa conoscere poco l’ANPI e il suo modo di essere e cancellare il dibattito e il confronto di questi mesi che hanno condotto – democraticamente – alla presa di posizione che oggi si vorrebbe mettere in discussione. Quanto poi al modo di affrontare la campagna referendaria, non siamo stati certo noi ( e non lo saremo mai) ad “alzare i toni”. Altri hanno provveduto a farlo, eccome.  Ho una vita alle spalle, cui nessuno dovrebbe mancare di rispetto: ma dal vostro giornale ho avuto, in pochi giorni, un attacco offensivo, una vignetta vergognosa ed ora un appello che non posso che considerare come rivolto a mettere in discussione un processo democratico che ha coinvolto tutta l’ANPI.  Mi spiace che vi siate scomodati per noi, vi ringrazio dei consigli, ma noi obbediremo alla linea consacrata in un democratico Congresso, procedendo diritti per la nostra strada e rispettando perfino chi non ci rispetta. Non accetteremo l’invito quasi perentorio a continuare, al nostro interno, la discussione, perché essa c’è già stata, nella sede competente, con il totale coinvolgimento dei nostri organismi e dei nostri iscritti. Forse sarebbe un esempio da seguire, per tutti, il metodo con cui ci siamo confrontati ed abbiamo preso le nostre decisioni.
In ogni caso, e per concludere: abbiate un po’ di fiducia in noi: abbiamo sempre fatto di tutto per mantenere l’unità dell’ANPI, e ci riusciremo anche questa volta.
Cordialmente,  Carlo Smuraglia

Neoliberismo medioevale e nuova aristocrazia di Elisabetta Teghil

file12709 c4e41Il neoliberismo medioevale

Abbiamo già parlato qui del neoliberismo fascista, cioè dei caratteri nazisti e fascisti che informano questa società. Ma questa stessa società ha anche caratteristiche medioevali.
L’agire sociale tollerato è quello che si esprime per corporazioni, associazioni categoriali spoliticizzate, a tutela di interessi specifici di gruppo. Ne sono un esempio le associazioni dei consumatori, ma anche quelle che raggruppano le minoranze sessuali, o i comitati, le organizzazioni che dovrebbero “salvaguardare” le donne come genere oppresso.
Tutto viene ricondotto ad una generica matrice culturale che dimentica la struttura della società e la divisione in classi.
Ognuno così finisce per chiedere tutele e visibilità, riconoscibilità e legalizzazione organizzandosi in un gruppo di interesse. I “centurioni” che accompagnano i turisti al Colosseo, i venditori ambulanti, le sex workers, tutti chiedono albi professionali in cui essere inseriti e riconoscibilità in un gruppo. Vengono così criminalizzate e perseguite tutte le economie marginali e tutti e tutte coloro che non possono essere inquadrate in una categoria o che non vogliono legare la propria vita ad un ambito specifico.
Tanto più questa società pretende flessibilità e capacità di adattamento sul lavoro, tanto più ha la pretesa di inquadrare, ghettizzare, definire, rinchiudere in categorie sempre più specifiche.
L’attacco portato alle classi subalterne con la precarizzazione delle esistenze e l’abbattimento dello stato sociale ha poi messo le premesse dell’impossibilità di chi appartiene alle classi sociali svantaggiate di uscire dalla propria condizione. Studiare è sempre più oneroso e difficile, i costi dell’università hanno provocato una forte diminuzione delle iscrizioni ed anche quelle/i che riescono ad iscriversi e a studiare non sono premiati con quel salto sociale che era possibile anni fa.
Ormai la platea dei laureati/e che finiscono a fare mestieri di minima, dal cameriere al fattorino, dal centralinista all’addetto alle pulizie è sempre più vasta. Pochissimi riescono a fare un salto sociale e saranno sempre di meno perché sono le stesse famiglie a non far studiare più i figli/e. A conferma dell’errore grave di chi negli anni passati si è laureato/a in prima generazione e ha attribuito alle proprie capacità e alla propria bravura l’essere passato ad una condizione di vita migliore dei nonni e dei bisnonni, come se questi non fossero stati adatti allo studio per colpa loro, dimenticandosi o facendo finta di dimenticarsi che sono state le lotte di quegli anni ad aprire a questa possibilità. I figli sono sempre più, come si diceva una volta, legati alla professione del padre.
Ma l’isolamento delle classi subalterne è fisicamente visibile anche nella struttura e nell’organizzazione della città. Le strisce blu dei parcheggi a pagamento che permettono la sosta solo a chi appartiene al quartiere, la chiusura di intere parti di città alla gente comune che ogni mattina arriva nei centri storici solo per lavoro, ricorda la gente del feudo che viene al castello solo per servire. Ma almeno, durante il medioevo, il castello era anche rifugio in caso di pericolo e tra il signore e i servi c’era un accordo di servizio ma anche, in teoria, di tutela. Qui, nessuno/a si illuda, non c’è nessuna tutela. Le porte del castello verranno chiuse. E i servi resteranno fuori. Ma non si illudano anche i “signori”, nessuno sarà al riparo dalla guerra e dalla devastazione che stanno preparando. Ora il ponte levatoio è stato sostituito da una miriade di telecamere e di sistemi di controllo che permettono o meno l’accesso, che scelgono chi ha diritto di entrare e chi no e che cosa può portare indosso o non può portare. Pagando delle gabelle si può anche ovviare parzialmente alla difficoltà di accesso e comunque si deve chiedere il permesso sempre che venga concesso. Vi ricordate Benigni e Troisi in un famoso film? “chi siete, da dove venite? Dove andate? Un fiorino! ”
E, proprio a proposito di fiorini, c’è la spinta ad abolire il contante, incentivata in ogni modo, con la propaganda alle carte di credito e ai bancomat, con l’obbligo di avere il conto corrente per il versamento dello stipendio o della pensione che non si può più prendere in contanti, con gli acquisti on line fortemente scontati, con la riduzione delle banche a sale di slot machine insieme alla riduzione drastica del personale e del contatto con il pubblico, con la persecuzione ed il controllo di tutto quello che avviene in denaro reale e non virtuale. Chi non ha un minimo di possibilità economiche ed è escluso dal circuito dei “cittadini legittimi” già ha cominciato a ricorrere al baratto per il vestiario, per il cibo, in mercatini improvvisati soggetti alla persecuzione delle forze di polizia e dei vigili urbani. Chiaramente la scusa è sempre la stessa: problemi igienici, degrado ambientale, riciclaggio di oggetti rubati.
E, soprattutto, ricordatevi di buttarvi celermente da parte quando passa un corteo di auto istituzionali e affini, blindate e oscurate con i poliziotti o la stradale di scorta e a sirene spiegate, c’è sempre il rischio di una scudisciata di medioevale memoria.

La nuova aristocrazia

Si va formando un’iperborghesia transnazionale che ha la pretesa di porsi come nuova aristocrazia, un’élite che coniuga alle posizioni di potenza alcuni segni di coesione culturale. La posizione di potenza deriva dai posti che costoro occupano all’interno dei gruppi finanziari, di consulenza o nelle industrie giuridiche, in altri termini, nelle sale di comando dei flussi monetari e delle decisioni d’autorità.
L’iperborghesia mondiale è spartizione di posti chiave e, in questi, non si giustappone alle borghesie nazionali o regionali, le sostituisce. E la borghesia tradizionale, così come noi la conosciamo, sarà ricondotta al ruolo di servizio che aveva ai tempi della nobiltà.
Tre esempi per definire le caratteristiche dell’élite emergente:
La capacità di concentrarsi, in modo concertato, su operazioni finanziarie a livello mondiale per trarne grande profitto indifferente alla rovina di centinaia di milioni di individui;
La capacità di intervenire anche militarmente in altri paesi per impossessarsi delle enormi ricchezze e riserve finanziarie utilizzando anche la polizia-Nato;
La capacità di far funzionare il teatro mediatico ottenendo il consenso delle masse, per cui un presentatore televisivo conta molto di più di un “esperto” che egli fa apparire o scomparire dal teleschermo ogni volta che serve.
L’iperborghesia occupa le funzioni di chi l’ha preceduta, ma su scala mondiale. Per questo la vecchia borghesia non riavrà il suo ruolo. Assistiamo alla riduzione delle remunerazioni e delle responsabilità delle categorie borghesi tradizionali che vedono il loro ruolo mortificato e derubricato. Nei posti chiave avviene man mano la sostituzione della vecchia borghesia con le nuove figure neoliberiste.
L’iperborghesia “nidifica” presso le borghesie nazionali che vengono trattate come reti coloniali, in una realtà che la vede sempre più distaccata non solo dalla popolazione, ma, anche, dalle sorti dei ceti medi. Si “riconosce” già nel modo di porsi, nell’ ”abito-divisa” maschile e femminile, nel tipo di carriera universitaria, nel moralismo vittoriano di ultima generazione, funzionale solamente alla soggezione ed al ricatto degli oppressi. Non ha patria, non ha dio, non ha bandiere, non è razzista, ma tutto questo non la assolve, anzi, chiarisce, ancora di più, l’oscenità dell’utilizzo strumentale che fa di queste categorie. La nascita di questa élite comporta, anche, un vero e proprio impoverimento culturale ed è, addirittura, anticulturale. E’ naturale che sia così perché il valore supremo è l’azione attraverso la quale si è capaci di trasformare tutto in merce e in ricchezza. La vita è sostanziata dal denaro e dal suo accumulo. E, questo, al di là degli schermi lessicali, in ultimo, non è altro che la capacità di provocare l’altrui rovina e la miseria dei/delle più. L’iperborghesia, quindi, porta un attacco senza quartiere, vera e propria ridefinizione della classe, alle borghesie nazionali e allo Stato Nazione attraverso la demonizzazione delle istituzioni parlamentari, delle funzioni della così detta “democrazia”, attraverso l’annullamento delle forme di mediazione, partiti, sindacati, e con lo svilimento del termine stesso di politica.
La tendenza è la trasformazione degli Stati in protettorati e colonie a seconda del ruolo e del livello, guidati da funzionari che sono nient’altro che vassalli. I partiti socialdemocratici, da noi il PD, si sono assunti questa funzione di vassallaggio.
Il rapporto di vassallaggio è fortemente gerarchizzato e basato sul servizio. Al vertice della piramide ci sono gli USA che si pongono come riferimento statuale transnazionale. In cambio i vassalli hanno privilegi personali o di gruppo. La popolazione è costituita da servi e non ha nessuna voce in capitolo. L’annullamento dello stato sociale cammina, paradossalmente, pari passo al disfacimento delle borghesie nazionali.
Sempre a proposito della formazione delle élites internazionali, non si può non parlare delle Ong. Queste sono il banco di costruzione del percorso formativo delle élites sovranazionali che, attraverso queste esperienze, innescano ulteriori carriere nelle istituzioni statali, nelle grandi agenzie di consulenza e nelle stesse multinazionali. L’esperienza acquisita nelle Ong, associata alla visibilità mediatica, alla pratica del “lobbying”, torna utile nella riconversione come “imprenditoria morale”. Uscire dall’Ecole Nationale d’Administration (ENA), dalla Bocconi, da Harvard è un buon viatico per diventare ministro a Parigi e a Roma. Un gruppo di privilegiati/e per nascita e censo, può, contemporaneamente, far valere la propria notorietà nazionale per esprimersi sulla scena internazionale e investire nell’internazionale per rafforzare le proprie posizioni nel campo del potere nazionale. A questo punto, le grandi istituzioni “filantropiche” private, come le fondazioni Ford, Rockefeller, Soros sono un passaggio obbligato ed un crocevia per la formazione della classe dirigente, il cui personale passa, indifferentemente, dal FMI, dalle istituzioni sovranazionali ad una carica di ministro di un governo locale. Tutto nobilitato dal fatto che le fondazioni e le Ong si presentano a tutela dei diritti della persona e dell’ambiente, saltando a piè pari che i loro valori neoliberisti sono quelli che permettono e promuovono la violazione dei diritti della persona e la distruzione dell’ambiente. E, come ricorda Pierre Bourdieu (Raisons Pratiques - Seuil 1994), a proposito dell’imperialismo ammantato dalla bandiera dei diritti umani e della democrazia,”il richiamo all’universale è l’arma per eccellenza”.
Venendo meno il riferimento statuale e la dimensione politica dell’agire sociale, è estremamente difficoltosa per gli oppressi/e l’individuazione del nemico che è possibile identificare solo nella struttura che mette in atto il mero controllo sociale, repressivo e poliziesco. Questo è l’unico compito, infatti, che viene demandato a chi ha preso in carico il vassallaggio. Le decisioni vengono prese altrove e il contatto tra chi prende le decisioni e chi le subisce è inesistente. Il potere sembra qualcosa di inafferrabile.
Le proteste sociali perciò potrebbero prendere sempre di più l’aspetto e le caratteristiche delle rivolte, dei riots, delle jacqueries.
E’ necessario, perciò, smascherare il ruolo del PD che si pone come potere locale del governo dell’iperborghesia e ha quasi compiuto il programma di naturalizzazione del neoliberismo nel nostro paese, recuperare il concetto di lotta di classe e ripensare radicalmente le forme e le modalità delle lotte da mettere in campo.

Forza Alessio. Lo studente che ha osato urlare: ‘Il re è nudo’ di Marco Travaglio

Impazza sul web un video girato l’altro giorno all’Università di Catania, dove la ministra Maria Elena Boschi ha fatto tappa per propagandare la sua controriforma costituzionale. Il format era l’unico accettabile per la molto democratica ministra che, non avendo argomenti al di fuori del suo sorriso da spot del dentifricio, non regge i pareri contrari: il monologo. Al suo fianco, nel prestigioso ruolo di tappezzeria, le sagome cartonate del Magnifico Rettore e del Presidente della Scuola Superiore. Tutto, nel soliloquio compiaciuto della Madre Costituente – che si è trovata molto d’accordo con le sue proprie tesi e ha concluso, dopo ampio dibattito interiore, che la sua è la migliore delle riforme possibili – è filato liscio fino a quando ha sventuratamente preso la parola uno studente di 22 anni, Alessio Grancagnolo.
Il giovanotto ha premesso che gli amici gli avevano caldamente consigliato di smussare il suo intervento, purgandolo di ogni accenno polemico verso la ministra e la sua “riforma”: lui però aveva deciso di esporlo così come l’aveva pensato, perché in una democrazia non bisogna avere paura di esprimere le proprie idee. La Boschi ha sfoderato il consueto sorriso di ordinanza, facendo buon viso a cattiva sorte e complimentandosi molto (“ti ringrazio per questo”): forse non sospettava che l’impunito padroneggiasse così bene l’argomento.
In otto minuti fulminanti, Alessio le ha squadernato una per una tutte le forzature antidemocratiche del metodo seguito dal governo per imporre al Parlamento la nuova Costituzione e poi tutte le ragioni di merito che rendono l’Italicum incostituzionale come il Porcellum e la “riforma” della Carta indigeribile, pericolosa, pasticciata, dunque invotabile. Anche perché, checché se ne dica, finge di non toccare la prima parte della Costituzione, quella sulla forma di Stato e di governo, ma in realtà stravolge la nostra Repubblica parlamentare in premierato assoluto e senza contrappesi. Tutto quello che nei talk show, dov’è solita sorridere e parlarsi addosso, nessun sostenitore del No ha mai avuto il privilegio di dirle in faccia. A un certo punto, sopraffatta dall’analisi che demoliva pezzo per pezzo il suo capolavoro, scritto a quattro piedi con Verdini, la Boschi ha tentato di interromperlo (“Ho altri impegni, dopo”), ma lo studente ha continuato imperterrito. E, sul finale, s’è scusato ironicamente per aver disturbato il “tour promozionale” della madonna pellegrina renziana. Allora il Magnifico Rettore gli ha tolto la parola.
Gli ha spiegato che già gli aveva fatto un favore a dargliela (“qui non è previsto il contraddittorio e chi non gradisce il format può anche non partecipare”) e soprattutto che nessuno deve permettersi di chiamare “tour promozionale” un tour promozionale. Per questo oggi abbiamo deciso di intervistare Alessio Grancagnolo e di tributargli il piccolo onore della nostra prima pagina. Non sappiamo per chi voti né come la pensi né quali giornali legga, ma sappiamo che è un ragazzo in gamba che ha osato sfidare il Potere con l’arma più efficace e temibile: la cultura. Alessio ha studiato (frequenta Giurisprudenza), si è informato e poi ha detto ciò che pensa in faccia alla ministra, senza timori reverenziali, libero dall’incultura autoritaria dell’ipse dixit che frena molti cittadini, soprattutto giovani, dall’uscire allo scoperto nel timore di chissà quali conseguenze, facendo dell’Italia un paese democraticamente immaturo e del popolo italiano un gregge di pecore anziché una comunità di cittadini. Averne, di Alessio. Parliamo di lui perché speriamo che altri seguano il suo esempio: che, insomma, di qui a ottobre, ovunque i piazzisti del Sì alla controriforma tenteranno di imbonire la gente, si ritrovino di fronte un Alessio che si alza in piedi, chiede educatamente la parola e poi smonta con la forza delle idee le loro balle.
Il discorso di Alessio ricorda la fiaba del bambino che, al passaggio del sovrano in mutande, osa urlare “il re è nudo!”. Ma pure un altro video, divenuto anch’esso virale: quello di una giovane (anche se meno di lui) e timida (anche se meno di lui) dirigente periferica del Pd che il 21 marzo 2009 scosse la pallosa e sonnacchiosa assemblea nazionale dei Circoli del Partito. Anche lei si alzò in piedi e, dando del “lei” all’allora segretario Dario Franceschini, prima sorprese e poi conquistò la platea con un intervento iniziato fra il distratto brusio generale e finito in una standing ovation. La giovane donna impertinente contestò a una a una le magagne, gli inciuci, le ambiguità e le doppiezze del suo partito con un linguaggio fresco, diretto, sincero, senza lasciarsi intimidire dalle smorfie sempre più nervose e imbarazzate del politburo pidino assiso ai piedi del palco. Disse basta ai compromessi con B. che “hanno costretto molti nostri elettori a votare Di Pietro per disperazione, perché gli abbiamo fatto fare da solo l’opposizione su temi che ci appartengono, come il conflitto d’interessi e la questione morale”. Invocò una legge sul testamento biologico contro le resistenze interne sui diritti civili e la laicità, perché “la Costituzione è chiara, basta quella”. Chiese che le candidature non calassero dall’alto, ma salissero dalla base. Aggiunse che “non possiamo non tassare i ricchi solo perché sono troppo pochi”. Dodici minuti di intervento interrotti da 35 applausi a scena aperta. Quella giovane donna si chiamava Debora Serracchiani e oggi, vicesegretario del Pd e governatore del Friuli-Venezia Giulia, dice e fa l’esatto contrario di ciò che diceva allora. Auguriamo di cuore ad Alessio di non fare la stessa fine.

mercoledì 11 maggio 2016

Noi sì che valiamo, Il Simplicissimus

autostima

Non contiamo un amato un cazzo, ma in compenso valiamo. Valiamo come acquirenti di shampo, come animali da consumo, come ammiratori incondizionati di supposti “talenti”, come vittime di serie televisive, come citrulli dello chef, come mandrie da cinema e automi di telefonino. E’ la moderna antropologia occidentale che anestetizza attraverso il desiderio continuamente stimolato come fossimo topi da laboratorio, la condizione di servi della gleba del nuovo medioevo. Come cittadini siamo ridotti a zero, siamo indispensabili solo come indiretti produttori di profitti altrui, eppure non siamo in grado di svolgere la matassa di inganni e di inautentico che ci avvolge, anzi partecipiamo come comparse piene di entusiasmo e trepidazione al grande spettacolo. In ogni caso pensiamo positivo e invece di chiederci perché siamo precari o di lavoro non ne abbiamo proprio, disoccupati, perché le retribuzioni si fanno minuscole e le pensioni sono in pericolo costante, perché la ricchezza finisce solo in poche mani. non ci passa nemmeno per la mente di agire di conseguenza e porre un argine al masacro, preferiamo l’autoinganno non riuscendo ovviamente a superare decenni di esposizione al consumismo, all’egotismo, al conformismo e all’alienazione. Al culto dell’io nelle sue forme più tristi.
Così il disoccupato preferisce inventarsi un lavoro, il licenziato diventa consulente, la cameriera manager nel campo della ristorazione, il cuor contento pilota di droni, il protervo a una dimensione si accalca alle selezioni televisive di qualunque tipo e il venditore porta a porta si trasforma in imprenditore. Tutto questo pare più adeguato all’ideologia corrente, mentre l’analisi della propria condizione e delle sue cause è qualcosa divenuto sospetto: sum ergo non cogito. Queste le cose le conosciamo, le vediamo ce le raccontiamo come un groppo in gola che non vuole proprio andare giù. Ma uscire dalla rete del consenso è difficile ancor più che per i branzini perché un disarmante circolo vizioso chiude l’orizzonte: più siamo mediocri, più ciò che consumiamo diventa mediocre, e rassomiglia a un pastone per il truogolo del consenso, più attingiamo a questa fonte e più diventiamo miseri: ci facciamo fanatizzare come bambini da musica scritta al computer, assentiamo pensosi all’arte che ci viene suggerita da un meccanismo di arricchimento commerciale, siamo disposti a pensare che qualunque gadget banale sia un avanzamento tecnologico, le più trite ideuzze divengono incensate starup, battiamo le mani al talento che appena vent’anni fa sarebbe sembrato un dozzinale dilettante, viviamo immersi nell’immagine creata dal foro stenopeico della moda e del mercato che poi detta i suoi criteri anche al discorso pubblico e politico che mai era stato così rozzo, quasi primordiale come oggi, nel quale le parole stesse sono state svalutate a spiccioli buoni per ogni occasione e per ogni stagione o schieramento. E del resto cosa ci si potrebbe aspettare se in anni e anni di produzione, serie pseudo politiche sulle quali si forma la mentalità degli adolescenti e degli adulti mentalmente coetanei, non riescono ad esprimere un solo, unico, miserabile concetto politico?
Alla fine questa falsa dinamicità, questa autoreferenzialità del sistema non produrrà che un mondo scadente e grossolano, fondato sull’auto menzogna e sulle illusioni. Anzi lo sta già producendo da tempo mettendo le basi per il declino occidentale. Talvolta con esisti esilaranti come i presuntuosi brand fatti e pensati integralmente altrove, comprese le tecniche di stampa dei medesimi sugli oggetti del desiderio o le esultanze per l’ingresso nel settore spaziale dei privati, oggetto di un battage senza precedenti in Usa, salvo scoprire che questi utilizzavano i fondi di magazzino dell’industria spaziale sovietica, venduti a caro prezzo nonostante fossero modernariato degli anni ’60. Ma insomma basta vedere l’uniformità soffocante dalla quale siamo schiacciati per accorgersi cosa si muove dietro lo specchio. Cioè, absit iniuria verbis, dietro di noi che non ce ne accorgiamo impegnati come siamo ad amarci, a “fittarci” e affittarci senza requie.

lunedì 2 maggio 2016

TORGIANO BENE COMUNE: INTERVENTO DEL GRUPPO DI OPPOSIZIONE IN MATERIA DI BILANCIO DEL CONSIGLIO DEL 27/04/2015

Il Rendiconto 2015 è lo strumento attraverso il quale si evidenzia la gestione finanziaria e le scelte politiche che nell’anno passato hanno contraddistinto questa amministrazione. Partendo dal presupposto evidenziato dal nostro gruppo Consiliare a inizio legislatura e considerando che questa maggioranza seppur con una diversa formulazione politica governa questo Comune ormai da sette anni non possiamo che riscontrare e enunciare una presa di posizione netta e contrastante dalle scelte attuate fin ora e specificatamente dell’anno appena trascorso.
A inizio legislatura abbiamo sottolineato come le priorità nel governo del territorio dovessero essere incentrare sulla qualità della vita dei cittadini che si declina in azioni di riqualificazione dei servizi, attenzione alle fasce sensibili della popolazione, tra cui i disoccupati, anziani e famiglie in difficoltà, nonché in politiche più accorte volte alla ripresa economica e valorizzazione delle caratteristiche del territorio.
Da questo bilancio si evidenzia viceversa che i costi dei servizi sono aumentati , senza fornire una appropriata riqualificazione degli stessi, non vi è traccia in questo bilancio di forti azioni politiche volte al sostentamento dei soggetti in difficoltà, nonché di una chiara e decisa azione che incida nella ripresa dello sviluppo economico. Su questo successivamente l’amministrazione potrà elencare come azioni innovative tutte le innumerevoli voci del bilancio consultivo, ma la maggioranza, così come l’opposizione e cittadini torgianesi, sanno benissimo che quelle voci rappresentano solo ed esclusivamente l’ordinaria amministrazione. Di questo non siamo sorpresi, d’altronde è ben chiara la netta differenziazione tra questa maggioranza e l’opposizione.
Se per caso la maggioranza volesse utilizzare questa differenziazione e tradurla in risultati elettorali, può farlo, ma è ben noto che i risultati elettorali di due anni fa dipendevano da necessità, istanze e promesse elettorali che attualmente non sono state minimente rispettate. Di conseguenza questa differenziazione politica oggi si tradurrebbe in risultati elettorali completamente diversi dai precedenti.
Quello di cui invece siamo sorpresi e preoccupati risiede in un insieme di innumerevoli elementi negativi riscontrabili negli atti che stiamo discutendo. I maggiori elementi negativi che contraddistinguono questo bilancio risultano dalle seguenti situazioni:
a - La certificata diminuzione di capacità di pagamento della spesa corrente che ha questa amministrazione: dal 2013 al 2015 questa amministrazione è stata in grado di perdere 6 punti percentuali di capacità di pagamento della spesa corrente equivalenti a oltre 500 mila euro.
b - Un incidenza dei debiti fuori bilancio sulle spese correnti di oltre 300 mila euro.
c - La necessità di accendere un ulteriore mutuo di oltre 140 mila euro riguardante la costruzione degli spogliatoi per il campo sportivo di Brufa, i quali dovevano essere finanziati originariamente attraverso delle sponsorizzazioni. La necessità di ricorrere ad un ulteriore finanziamento esterno evidenzia da una parte l’incapacità della maggioranza di attuare politiche programmatiche, dall’altra un incurante propensione a gravare ulteriormente sulle spalle dei cittadini torgianesi,
Che sommato al debito residuo:
- Determina un indebitamento medio per cittadino torgianese di circa 602 euro.
- La necessità di ricorrere attraverso il decreto MEF ad una anticipazione di liquidità di 659 mila euro attraverso la Cassa Depositi e Prestiti per il pagamento dei debiti certi liquidi ed esigibili del 2014, che si traduce in una incapacità di questa amministrazione di pagare i debiti liquidi. Questa incapacità graverà ulteriormente sull’ente, e quindi sui cittadini torgianesi, per i prossimi 30 anni.
- L’aumento indiscriminato delle sanzioni amministrative, le quali solo quelle riguardanti il codice della strada sono aumentate da 116 mila euro nel 2009 a 275 mila nel 2015, segno evidente che questa amministrazione ormai riesce a far cassa solo ed esclusivamente attraverso i gravosi aumenti che direttamente o indirettamente carica sulle spalle dei cittadini, come il recente aumento della TARI del 2016 ha chiaramente confermato.
- Un aumento esponenziale dei residui passivi, nel 2014 erano circa 552 mila euro, mentre nel 2015 sono ben oltre i 2 milioni di euro. Traducibile in un ulteriore indebitamento di questa amministrazione verso soggetti terzi.
Gli elementi sopra riportati evidenziano senza nessun dubbio l’incapacità di questa amministrazione di far fronte agli impegni di spesa riguardante la gestione dell’ente ( Minore capacità di pagamento spesa corrente nel triennio 2013- 2015, debiti liquidi e residui passivi) con un indebitamento dell’ente che resta costante, aggravato dai debiti fuori bilancio.
Come risposta questa amministrazione può tranquillamente rispondere che i parametri di indebitamento annuali sono sotto controllo e conformi alla normativa vigente. Ma questa amministrazione sa benissimo che questo è possibile grazie soprattutto alla rinegoziazione dei tassi sui mutui accesi, i quali nel breve periodo garantiscono una regolarità finanziaria, ma gravano in maniera determinante nella gestione di lungo periodo.
Al di là delle giustificazioni che ci saranno fornite come risposta in questa assise, il Gruppo Consiliare Torgiano Bene Comune formalizza attraverso questo documento il voto contrario al rendiconto anno 2015.

Serena Peppicelli
Consigliere di minoranza

domenica 1 maggio 2016

DI MAIO: QUANDO È TROPPO È TROPPO

[ 1 maggio ]

Roberto Fico, uno dei cinque membri del Direttorio di M5S, il 24 aprile scorso, sul Blog BeppeGrillo.it, così commentava la partecipazione della ministra Boschi ad una riunione romana con la Trilaterale:
«Nel 2012 era il Bilderberg, oggi è la Trilaterale, riunita per tre giorni a Roma sotto la protezione di un imponente apparato di sicurezza. Forse è il caso di ricordare cosa sia la Trilaterale, quanto questa organizzazione delle élite economiche abbia influito sulle politiche dei Paesi occidentali. La dottrina della Trilaterale è riassunta nel Rapporto del 1975: la democrazia entra in crisi quando ci sono troppi cittadini coinvolti e attivi; i cittadini non hanno gli strumenti per governare la cosa pubblica; troppa domanda politica e partecipazione ostacolano il funzionamento del sistema. Il fondamento della dottrina della Trilaterale è insomma la netta separazione fra potere (kratos) e popolo (demos): un pensiero antidemocratico penetrato nella società attraverso i media e realizzato progressivamente dagli esecutivi occidentali. Quando si comprimono i diritti perché altrimenti “non sono sostenibili”, quando si allentano i contrappesi della Costituzione e si restringono gli spazi di partecipazione perché “ci vuole governabilità”, dietro tutto questo c’è la dottrina della Trilaterale. Il Ministro Boschi convocato alla riunione dei potenti non è che il simbolo di un Governo senza autonomia, una misera pedina al servizio di interessi altri, non della volontà popolare. Tutto questo con il beneplacito di un Presidente della Repubblica che ha accolto serenamente una riunione della quale non ci è dato sapere nulla, perché non c’è uno straccio di giornalista che possa o voglia (come il Presidente della Rai) raccontare nulla. Questa vicenda non può essere chiusa sotto silenzio, utilizzeremo ogni strumento per vederci più chiaro».
Parole chiare, parole sacrosante.

Peccato che proprio mentre Fico denunciava quanto sopra, Luigi Di Maio (anche lui membro del Direttorio e Presidente del Consiglio in pectore) partecipava a Milano, esattamente il 22 aprile, ad un pranzetto (lunch talk) promosso dall'ISPI.

L’Ispi è il think tank più autorevole sulla politica internazionale, conta come presidente onorario l’ex capo dello Stato e golpista Giorgio Napolitano e come vice presidente Mario Monti. Non è tutto. 

Da notare chi c'era tra i compagni di merende: il professor Carlo Secchi (già rettore della Bocconi e presidente della berlusconiana Mediolanum), Mario Monti, i vertici di aziende e istituzioni tra i quali Pirelli, Intesa Sanpaolo, A2A, Eni, Dalmine”. C'era infine Paolo Magri, presidente della sezione italiana della Trilateral Commission.
Del pranzetto ne dava notizia, il 23 aprile, proprio il sito dell'ISPI, con un articolo accompagnato dalla foto di cui sopra. Il 30 aprile il fattaccio rimbalzava su IL FATTO QUOTIDIANO, con un articolo dal titolo: Prove da candidato: Di Maio al pranzo con i membri italiani della Trilateral. [foto a destra]

Che dire? 
Avevamo già denunciato il maxi-summit di Di Maio con gli ambasciatori e, pochi giorni dopo, la visita a Londra in cui il Nostro ha condannato la Brexit.
I dirigenti di M5S, sentendo aria di elezioni anticipate, confortati da sondaggi che li danno vincenti, stanno facendo l'anticamera, cercando di ottenere il lasciapassare per Palazzo Chigi da parte dei poteri forti. 
Che questi poteri forti tentino non solo di sondare il terreno ma di addescare i massimi esponenti di M5S al fine di normalizzarli e di corromperli, è nell'ordine delle cose. Ci stanno riuscendo? Forse sì.
Del resto, siamo nell'Italia dei gattopardi, degli inciuci e dei trasformismi dove, movimenti sorti fuori dal perimetro oligarchico come espressione dell'indignazione popolare, man mano che si avvicinano al potere, si liberano della loro radicalità per diventare ruote di scorta dei dominanti, finendo per essere nuovi strumenti del regime.

Proviamo a cambiare due parole di quanto scriveva lo stesso Fico e abbiamo:
«Luigi Di Maio, convocato alla riunione dei potenti non è che il simbolo di un movimento senza autonomia, una misera pedina al servizio di interessi altri, non della volontà popolare».
Del resto, dei balbettii e degli zig-zag di M5S, della sua incoerenza, della sua insipienza, di un cretinismo parlamentare fuori tempo, ne abbiamo avuto prova sulla questione dell'uscita dall'euro. Uscita declamata a quattro venti, salvo rimangiarsi il tutto sotto l'attacco della "casta".
Per cambiare davvero questo Paese occorrono idee chiare, una visione strategica, coerenza e coraggio. Tutte qualità che evidentemente non abitano dalle parti di Di Maio e del Direttorio.

Voglia di decidere. Una stagione di referendum per rivendicare democrazia politica ed economica

di Alessandro Somma

Il referendum trivelle è fallito, boicottato e colpito a morte da un esecutivo che ha fatto di tutto per impedire il raggiungimento del quorum. Ha iniziato rifiutando l’accorpamento con le elezioni amministrative di giugno, che avrebbe oltretutto fatto risparmiare trecento milioni di Euro. Ha proseguito con una campagna di vera e propria disinformazione e mistificazione sulla portata del quesito, propagandando falsità come la sicura perdita di migliaia di posti di lavoro. E ha concluso in bellezza invitando all’astensione: opzione fuori dalla Costituzione, dove si prevede il quorum per misurare il reale interesse dei cittadini sul quesito referendario, e non anche per trasformare la diserzione delle urne in un’arma politica.

Renzi ha festeggiato a modo suo il macabro successo: ha gettato benzina sul fuoco, dichiarando che il referendum è fallito perché la demagogia non paga, e accusando i media di averla alimenta. È stata una reazione arrogante, tanto da suonare se possibile più odiosa e urticante della sconfitta referendaria. Tutto questo mentre si è appena aperta una stagione di iniziative referendarie che comprendono il voto di ottobre sulla riforma costituzionale, ma anche la raccolta di firme per i questi sulla legge elettorale, la scuola, il lavoro e l’ambiente, oltre che per alcune leggi di iniziativa popolare in materia di lavoro e di diritto allo studio.

Insomma, l’arroganza a cui ci ha abituato il Premier ha finito per far esplodere la voglia di democrazia diretta: di partecipare e decidere in prima persona, di reagire da protagonisti all’autoritarismo renzista, ma anche all’attuale assenza di alternative credibili. Non solo per ripristinare i fondamenti della democrazia politica, ovvero per riaffermare il principio della sovranità popolare, ma anche per restringere il perimetro del mercato e allargare quello dei diritti fondamentali, nella sfera economica esattamente come nella sfera politica: una svolta indispensabile nel momento in cui l’attuale classe dirigente offre riscontri definitivi del suo asservimento ai desiderata di poteri forti più o meno identificati.

Riforma costituzionale

Il referendum al momento più noto è quello che riguarda la legge di riforma costituzionale appena approvata dalla maggioranza assoluta di ciascuna Camera[1]. La Costituzione afferma che in questi casi, ovvero se non si è raggiunta la maggioranza dei due terzi, la legge viene sottoposta a referendum se lo richiedono un quinto dei membri di una Camera o mezzo milione di cittadini. Nello specifico il referendum si terrà, il 16 ottobre prossimo, perché lo hanno già chiesto un numero più che sufficiente di parlamentari, e probabilmente perché lo chiederanno anche un numero consistente di cittadini: il 25 aprile inizierà infatti la raccolta di firme per chiedere che la riforma sia sottoposta e referendum.

Non ce ne sarebbe bisogno, visto che comunque la consultazione referendaria è assicurata dalla richiesta dei parlamentari, ma in questo modo si rende il dibattito sulla riforma costituzionale una vicenda non limitata al ceto politico. Tanto più che anche i parlamentari della maggioranza hanno fatto richiesta di referendum, volendo con ciò trasformarlo in un plebiscito su Renzi. A conferma della sua volontà di ridurre tutta la vita politica italiana a un dialogo tra il leader e i suoi sudditi, secondo la migliore tradizione cesarista o bonapartista, che in questo caso finisce per sequestrare il dibattito sul patto fondativo dello stare insieme come Paese.

Ma torniamo al 25 aprile, data di inizio della campagna referendaria che non è stata scelta a caso. Con la Liberazione, infatti, si festeggia la riconquista della democrazia e dunque della sovranità popolare: il bene prezioso che la riforma costituzionale sacrifica invece sull’altare dell’autoritarismo efficientista di chi vuole ridurre i tempi della politica ai ritmi dell’economia. È questo il senso ultimo di un provvedimento ampio e complesso con cui si incide profondamente sull’assetto istituzionale, e non solo per le modalità con cui si è abolito il bicameralismo perfetto: si sarebbe potuto trasformare il Senato nel luogo in cui valorizzare il dialogo tra istanze nazionali e rappresentanze regionali, e invece è diventato una Camera dai compiti residuali, nella quale siederanno rappresentanti individuati in base a criteri confusi, risultato dell’ennesimo scontro stucchevole e tormentato tra le anime del partito del Premier.

Ma la riforma non si limita a questo aspetto: sono complessivamente numerosi gli interventi sulla Costituzione. Spiccano tra essi la moltiplicazione dei procedimenti legislativi, differenziati con modalità che non mancheranno di produrre conflitti, o l’indebolimento delle autonomie regionali con un vero e proprio rovesciamento della linea emersa con la riforma del 2001. Certo, vi sono anche interventi apprezzabili, come la previsione di referendum propositivi o il vincolo per il Parlamento a discutere le leggi di iniziativa popolare, per le quali si eleva però a centocinquantamila il numero delle firme necessarie alla presentazione. Siamo peraltro chiamati a pronunciarci sul senso complessivo della riforma, ben rappresentato dalla circostanza che è stata varata da un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale: il mitico Porcellum. E a nulla vale ricordare che la Consulta ha voluto salvare l’operato dei parlamentari in virtù del principio della continuità dello Stato[2]: forse questo principio è buono per sanare sul piano formale l’attività dei deputati, ma non certo per avallarla dal punto di vista sostanziale, almeno laddove, come nel nostro caso, esorbita in modo evidente rispetto al disbrigo degli affari ordinari.

Legge elettorale

Che la riforma costituzionale rappresenti un attentato alla sovranità popolare, emerge in modo chiaro se la si mette in relazione con l’Italicum[3]: la legge elettorale appena approvata, non a caso ricorrendo al voto di fiducia, per rimpiazzare il Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta. Questa legge consente al partito che ottiene più voti alle elezioni di ottenere maggioranze parlamentari solide e dunque di esprimere in solitudine l’esecutivo. E permette a queste maggioranze di controllare l’elezione del Presidente della Repubblica, e quindi di un terzo dei giudici costituzionali, per la quale la Costituzione prevede che dal quarto scrutinio sia sufficiente la maggioranza assoluta dei votanti (art. 83). È vero che la riforma costituzionale modifica questo aspetto, richiedendo una maggioranza non inferiori ai tre quinti dei votanti, ma è altrettanto vero che ciò sembra più che altro un espediente davvero perverso per sostenere la necessità di una sua approvazione popolare.

Proprio il legame tra la riforma costituzionale e la legge elettorale impone dunque che la volontà popolare cancelli entrambe. Per questo è in corso la raccolta di firme per l’abrogazione delle parti dell’Italicum in cui si riproducono, e se possibile amplificano, i medesimi difetti di costituzionalità riscontrati con riferimento al Porcellum: l’impossibilità di esprimere preferenze a causa delle liste bloccate, e la previsione di un premio di maggioranza senza l’indicazione di una soglia minima per la sua attribuzione[4].

Formalmente l’Italicum prevede che solo il capolista sia bloccato, e dunque indicato dall’alto con possibilità di essere eletto a prescindere dal legame con gli elettori. Peraltro si prevedono collegi di dimensioni molto ridotte, da tre a sei seggi, sicché in pochi casi un partito potrà eleggere più di un deputato, ovvero il capolista bloccato. La legge prevede poi una soglia minima per attribuire il premio di maggioranza: il 40% dei voti validi. Se però nessuna lista la raggiunge, il che non è certo un’ipotesi remota, si ha un ballottaggio tra le due liste più votate con attribuzione del premio a quella che ottiene maggiori voti. Il risultato è che liste con un gradimento indefinito, comunque al di sotto della soglia del 40%, possono ottenere la maggioranza assoluta dei seggi.

I referendum sull’Italicum mirano a rimuovere dalla legge questi due aspetti[5], parte integrante del tentativo di sacrificare la volontà popolare che trova il suo apice nella riforma costituzionale. La raccolta delle firme, realizzata insieme a quella per la consultazione sulla riforma costituzionale, è iniziata il 9 aprile e durerà sino all’8 luglio.

Scuola e università

I media non ne parlano, ma dal 9 aprile, e fino all’8 luglio, è in corso anche la raccolta di firme per i cosiddetti referendum sociali: un pacchetto di quesiti che si occupano di scuola e ambiente.

Quattro sono i quesiti dedicati alla scuola. Mirano a smontare le parti più odiose della riforma varata la scorsa estate dal Governo Renzi, quella volta a demolire i fondamenti dell’istruzione pubblica, la cui portata eversiva è stata occultata dietro il nome rassicurante di “buona scola”[6].

La riforma ha complessivamente trasformato la scuola da luogo di trasmissione del sapere critico, indispensabile alla costruzione di una cittadinanza consapevole, a luogo in cui si veicolano e praticano valori aziendalisti. Ha cioè amplificato la complessiva tendenza ad assolutizzare le dinamiche del mercato come punto di riferimento per definire lo stare insieme come società: per confondere l’inclusione nel mercato con l’inclusione sociale. Il tutto alimentato da un’errata concezione del rapporto tra mondo del lavoro e mondo dell’istruzione: che deve ovviamente esserci, come deve esserci il rapporto con la società in genere, tuttavia non per trasformare il mondo dell’istruzione in un passivo ricettore delle istanze provenienti dal mondo del lavoro, bensì per realizzare scambi virtuosi, comprendenti anche la possibilità per il sistema formativo di condizionare le scelte del sistema produttivo.

Con i primi due referendum si chiede di abolire i poteri incontrollati del dirigente scolastico, che attentano alla libertà di insegnamento e incentivano a gestire l’istituto in modo clientelare e comunque poco trasparente: il potere di scegliere e confermare i docenti, e il potere di scegliere se destinare loro incentivi premio. Un terzo referendum mira invece a eliminare l’obbligo dell’alternanza scuola lavoro, per cui gli studenti sono tenuti a trascorre un periodo di almeno duecento ore, se si tratta di licei, o quattrocento ore, se si tratta istituti tecnici, presso imprese e altri enti pubblici o privati. Il tutto sottraendo tempo alla didattica e soprattutto in assenza di coordinamento con la didattica, dal momento che l’alternanza scuola lavoro, se obbligatoria per un elevato monte di ore, incentiva la formazione di una massa di lavoratori non pagati da destinare a mansioni poco o per nulla qualificanti. Con il quarto referendum si vuole infine cancellare la possibilità di donazioni a singole scuole, possibilità che crea una perversa gerarchia tra istituti più o meno beneficiati da finanziatori privati, e a monte un’odiosa competizione tra istituti per soddisfare le necessità di quei finanziatori, magari ripagati destinando loro forza lavoro nell’ambito del sistema obbligatorio di alternanza[7].

In tema di istruzione c’è un’altra iniziativa volta in ultima analisi a difenderne e a rilanciarne il carattere pubblico. È la proposta di legge di iniziativa popolare sul diritto allo studio, elaborata da un nutrito gruppo di sigle del mondo universitario, per porre rimedio a uno dei tanti tristi primati italiani: un numero di laureati dimezzato rispetto alla media europea, dovuto alla cronica carenza di fondi e strutture[8].

L’iniziativa legislativa popolare è prevista dalla Costituzione, per cui la proposta deve essere sostenuta da almeno cinquantamila cittadini (art. 71), chiamati a sottoscriverla con le medesime modalità previste per i referendum[9]. Non sono fissati termini entro cui la proposta deve essere discussa dal Parlamento, e difatti questo è finora avvenuto in meno della metà dei casi, senza che peraltro l’esito sia poi stato particolarmente lusinghiero: nel corso degli anni poco più dell’1% delle proposte di iniziativa popolare sono state approvate e sono divenute legge. Ciò nonostante l’iniziativa riveste un notevole significato politico, giacché punta a coordinarsi con la campagna per i referendum sociali, motivo per cui la raccolta di firme è iniziata il 9 aprile e proseguirà sino all’8 luglio.

Ambiente

Passiamo ai referendum sociali sulle tematiche ambientali[10]. Il primo è particolarmente significativo, perché mira a rilanciare rispetto a quanto richiesto con il referendum dello scorso 17 aprile: ottenere il divieto di nuovi interventi di perforazione ed estrazione di idrocarburi anche sulla terra ferma e anche in mare oltre le dodici miglia. Questo risultato si ottiene incidendo sulla disciplina del piano energetico nazionale laddove si elencano le zone in cui è vietata la prospezione, la ricerca e l’estrazione di idrocarburi: eliminando l’elenco delle eccezioni resta il divieto come regola[11]. Il tutto per fermare le oltre cento richieste attualmente pendenti, a riprova dell’urgenza di mettere finalmente la parola fine allo sfruttamento delle risorse naturali che producono profitto per pochi e danni ambientali irreversibili per tutti.

Va nella stessa direzione il secondo referendum, con il quale si chiede di superare le disposizioni del cosiddetto provvedimento Sblocca-Italia che incentivano il ricorso all’incenerimento dei rifiuti, e dunque colpiscono la salute dei cittadini e vanificano gli sforzi volti a incrementare la raccolta differenziata e il riciclaggio. La disposizione che si vuole abrogare stabilisce tra l’altro che gli inceneritori sono opere strategiche di preminente interesse nazionale, la cui realizzazione e localizzazione spetta pertanto al governo nazionale, senza che le Regioni abbiano nel merito voce in capitolo o il diritto di opporre limiti di conferimento[12].

Beni comuni

I promotori dei referendum sociali hanno incluso tra le loro iniziative anche la raccolta di firme in calce a una petizione sul tema dell’acqua bene comune. La petizione è anch’essa uno strumento di democrazia diretta, tuttavia piuttosto debole: la Costituzione la prevede, stabilendo solo che può riguardare la richiesta di provvedimenti legislativi o l’esposizione di comuni necessità, e che va diretta alle Camere (art. 50). Nulla si dice a proposito del numero di firme necessarie, né tanto meno circa un eventuale obbligo del Parlamento di prenderla in considerazione.

Peraltro, in questa materia, neppure gli altri strumenti di democrazia diretta hanno sortito gli effetti sperati e comunque previsti dalla legge. Come è noto, infatti, i referendum del 12 e 13 giugno 2011 avevano per un verso eliminato la possibilità di ricavare proventi dalla gestione del servizio idrico, con la finalità, evidenziata dalla Consulta, di renderlo “estraneo alle logiche del profitto”[13]. Per un altro verso avevano abrogato le norme che imponevano la privatizzazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica: non solo di quelli idrici, come è stato chiarito nuovamente dalla Consulta nella sentenza che ha dichiarato l’incostituzionalità di una legge con cui il governo Berlusconi aveva inteso vanificare l’esito referendario[14].

A distanza di cinque anni dal referendum sull’acqua, Renzi coglie l’occasione per fornire l’ennesimo riscontro della sua naturale inclinazione a seguire le orme del Signore di Arcore, se possibile con maggiore disprezzo per la volontà popolare. Il Testo unico sui servi pubblici locali, attuativo della cosiddetta Legge Madia sulla riorganizzazione della Pubblica amministrazione, rilancia la privatizzazione dei servizi, la loro gestione in regime di concorrenza e il ruolo dei privati, reintroducendo nel merito la possibilità di prevedere nella tariffa una quota di profitto[15].

Ebbene, con la petizione si chiede di rispettare l’esito referendario del 2011, e quindi il ritiro del Testo unico sui servizi pubblici locali. Non si tratta qui solo di ripristinare la volontà popolare, ma anche di mettere in luce la comune matrice della sua compressione e dell’insofferenza verso i beni comuni: beni che richiedono una gestione partecipata, capace di preservarne la fruizione da parte delle generazioni future, scandita dalle regole della democrazia piuttosto che da quelle del mercato. Il tutto sancito dalla richiesta, contenuta anch’essa nella petizione, di inserire nella Costituzione il diritto all’acqua, per sottrarre finalmente le sorti di questo bene alla voracità delle contingenti maggioranze parlamentari[16].

Lavoro

Non fanno formalmente parte dei referendum sociali, ma ne completano idealmente la filosofia di fondo, i tre proposti dalla Cgil e dedicati a quella riforma del lavoro che, ricorrendo alla lingua inglese e alla sua capacità di occultare il senso delle cose, è stata chiamata jobs act[17].

La Costituzione italiana colloca il lavoro al centro del patto sociale. Per un verso stabilisce in capo ai cittadini un dovere di svolgere un’attività concorrente al progresso sociale, tutelandoli però in caso di inabilità, infortuni, malattia, invalidità e vecchiaia, e per un altro prevede un diritto all’equa retribuzione e un complesso di diritti sociali destinati a liberare dal bisogno e a promuovere il pieno sviluppo della persona. Accade invece l’opposto: il lavoro viene sempre più precarizzato e svalutato, quindi sempre più accostato a una relazione di mercato qualsiasi, mentre lo Stato sociale è in costante ritirata, sostituito da un mercato sempre più famelico.

La riforma del lavoro voluta da Renzi costituisce forse l’atto più arrogante ed esplicito in quella direzione, e i referendum mirano a smantellare alcuni degli aspetti più odiosi. Il primo punta alla cancellazione del lavoro accessorio[18], trasformatosi nel tempo in una forma di sfruttamento e di elusione di norme fiscali e previdenziali. Con il secondo referendum si vuole reintrodurre la responsabilità solidale dell’appaltante e del committente in tema di organizzazione del lavoro e di trattamento riservato ai lavoratori[19]. Il terzo referendum riguarda invece il cosiddetto contratto a tutele crescenti, per il quale è stato sostanzialmente eliminato il reintegro in caso di licenziamento illegittimo, che si vuole invece ripristinare[20].

Questi tre referendum, per i quali si raccolgono le firme nello stesso periodo previsto per i referendum sociali, ovvero dal 9 aprile all’8 luglio, si affiancano a una proposta di legge di iniziativa popolare: quella per l’adozione di una “Carta dei diritti universali del lavoro”, da intendersi come “nuovo statuto delle lavoratrici e dei lavoratori”[21]. Il testo non si sostituisce allo statuto attualmente in vigore, quello approvato quasi mezzo secolo fa[22], ancora attuale ma alterato nello spirito, se non altro per lo svuotamento della tutela contro i licenziamenti illegittimi. Del “vecchio statuto” si mantengono infatti le disposizioni favorevoli al lavoratore, che il “nuovo statuto” intende completare per dare attuazione, nella mutata realtà economica e sociale, all’imperativo contenuto nella Costituzione: tutelare il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35). Ecco perché l’articolato si rivolge a “tutti i lavoratori titolari di contratti di lavoro subordinato e di lavoro autonomo anche nella forma di collaborazione coordinata e continuativa pure se occasionale” (art. 1), e ripristina inoltre il reintegro come misura generale prevista per i licenziamenti illegittimi, anche nei confronti dei datori di lavoro che impiegano meno di quindici dipendenti (art. 83).

La Lettera della Bce

Da notare che l’approvazione della Carta dei diritti universali del lavoro porterebbe anche a eliminare la possibilità, per la contrattazione collettiva a livello aziendale o territoriale, di derogare in peggio a quanto previsto negli accordi nazionali, e persino dalla legge (art. 38). È quanto venne consentito da un contestato provvedimento emanato dal Governo Berlusconi nella calda estate del 2011[23], quando il mitico spread era alle stelle e la Banca centrale europea ne approfittò per indirizzare la famosa lettera contenente l’elenco delle riforme poi realizzate da Mario Monti, Enrico Letta e infine, senza soluzione di continuità, da Renzi.

Quella lettera, che come è noto è divenuta la Costituzione materiale italiana, eversiva rispetto a quella nata dalla Liberazione, ma seguita alla lettera da tutti i governi, ha ispirato molte delle scelte contro cui si indirizza la nuova stagione di democrazia diretta. Chiede in effetti “la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali”, oltre che di “migliorare l’efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese”. E impone alle autorità italiane di procedere a “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti”, oltre che di “riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva: permettendo accordi al livello d’impresa, in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende, e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”[24].

Se la stagione di democrazia diretta che ci aspetta avrà successo, sarà anche l’occasione per rifiutare la logica delle politiche austeritarie che impediscono lo sviluppo dell’Europa politica e sociale, e che trasformano quella economica e monetaria in un strumento di dominio plasmato a immagine e somiglianza delle necessità tedesche. Questa indicazione non potrà che venire dal basso, posto che i vertici governativi sono tutt’al più capaci di formulare qualche patetico brontolio, buono solo a nascondere l’assenza di prospettive e l’incapacità di resistere ai diktat di Bruxelles. O in alternativa a occultare l’intima volontà di assecondare Bruxelles, le cui politiche sono spesso funzionali a soddisfare le richieste dei centri di interessi che anche il Governo Renzi, come i suoi predecessori, ha inteso privilegiare.

Oltre i referendum

Durante la campagna per i referendum del 17 aprile, Renzi, come Craxi, ha invitato i cittadini a disertare le urne e ad andare al mare. Diversamente dall’esule di Hammamet, che non venne ascoltato e diede così avvio al suo declino, il bullo di Firenze è per ora riuscito nel suo intento. La sua rovina potrebbe però essere solo una questione di tempo, giacché i mesi a venire offrono molte opportunità per ribadire che chi di arroganza ferisce, di democrazia diretta perisce.

Potrebbe essere anche l’occasione per ricompattare e rinnovare la sinistra e la sua idea di società, per ritrovare i fili di un’identità perduta, e di nuove forme per esprimerla. La materia grezza non manca: ci sono i contenuti, ovvero la difesa della democrazia come valore da affermare nella sfera politica così come nella sfera economica, e c’è una folta schiera di persone e gruppi disposti a lottare per imporre quei contenuti nell’agenda politica e nel dibattito pubblico. È opportuno ricordarli e metterli in fila, per rendersi conto del quadro che si sta formando sotto i nostri occhi, e che il silenzio assordante dei media punta a non farci vedere.

I referendum sulla riforma costituzionale e sulla legge elettorale sono stati promossi in particolare dal Coordinamento per la democrazia costituzionale, nel quale sono attivi diverse personalità della politica e della cultura, come Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Massimo Villone e Gustavo Zagrebelsky, ma anche diverse associazioni: tra queste Articolo 21, l’Associazione per il rinnovamento della sinistra, Giuristi democratici, Il Manifesto in rete e Libertà e giustizia. Non mancano poi organizzazioni sindacali, come Fiom e Usb, e politiche come Rifondazione comunista e L’Altra Europa[25].

I referendum sociali sono stati promossi dalla Campagna stop devastazioni, dal Comitato blocca inceneritori, dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, dal Movimento per la scuola pubblica. A quest’ultimo aderiscono tra gli altri i Cobas, la Flc-Cgil e il movimento nato attorno alla Legge di iniziativa popolare per una buona scuola per la Repubblica, che nel 2006 ha raccolto centomila firme, il doppio di quelle previste dalla Costituzione per la sua presentazione[26].

La proposta di iniziativa popolare sul diritto allo studio è stata avanzata da un folto gruppo di sigle del mondo universitario e non, comprendenti fra l’altro l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani, l’Arci, la Flc-Cgil, la Fiom, Legambiente, Link - Coordinamento Universitario, il Comitato di sostegno alla legge di iniziativa popolare per una buona scuola per la Repubblica, l’Unione degli studenti, oltre ad alcune forze politiche: in particolare Rifondazione comunista e Sel - Sinistra italiana.

Quanto ai referendum e alla legge di iniziativa popolare proposti dalla Cgil, il tutto è stato presentato, discusso e avallato nel corso di oltre quarantamila assemblee nei luoghi di lavoro, con il coinvolgimento di un milione e mezzo di lavoratori.

Insomma, si sta appalesando una naturale alleanza di sindacati, movimenti e singoli, che da più parti viene ritenuta il presupposto per rifondare un progetto politico di sinistra. Un progetto abbastanza ampio e forte da evitare che sia egemonizzato, e dunque condannato all’insuccesso, dai partitini che litigano alla sinistra del Pd, innanzi tutto per decidere se convenga o meno accettare o proporre alleanze elettorali con il renzismo.

Ovviamente l’ampiezza e la forza del progetto dipende anche dalla capacità di stare insieme innanzi tutto durante la campagna referendaria. Peraltro questa è molto utile a far emergere aspetti qualificanti di quel progetto, ma è insufficiente a farlo percepire nella sua totalità. Occorre dunque andare oltre la campagna referendaria, immaginare forme di collaborazione e integrazione che consentano di non disperdere quanto si sarà nel frattempo costruito, recuperando in questo modo molte delle idealità espresse con il lancio della Coalizione sociale[27]: scomparsa prima ancora che potesse mostrare ciò di cui poteva essere capace.

NOTE

[1] Testo di Legge costituzionale 12 aprile 2016 (Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione).

[2] Corte costituzionale, 13 gennaio 2014, n. 1.

[3] Legge 6 maggio 2015, n. 52 (Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati).

[4] Corte costituzionale, 13 gennaio 2014, n. 1.

[5] I quesiti sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell’11 dicembre 2015, n. 288.

[6] Legge 13 luglio 2015, n. 107 (Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti).

[7] I quesiti sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale del 19 marzo 2016, n. 66.

[8] Cfr. http://linkcoordinamentouniversitario.it/wp-content/uploads/2016/02/Lip-dsu-in-pillole.pdf.

[9] Art. 49 Legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo).

[10] I quesiti sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale del 19 marzo 2016, n. 66.

[11] Cfr. art. 4 Legge 9 gennaio 1991, n. 9 (Norme per l’attuazione del nuovo piano energetico nazionale: aspetti istituzionali, centrali idroelettriche ed elettrodotti, idrocarburi e geotermia, autoproduzione e disposizioni fiscali).

[12] Cfr. art. 35 Legge 11 novembre 2014, n. 164 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle cattività produttive).

[13] Corte costituzionale, 26 gennaio 2011, n. 26.

[14] Corte costituzionale, 20 luglio 2012, n. 199.

[15] Cfr. il testo nella forma dello schema (che ha poi ricevuto la bollinatura della Ragioneria generale dello Stato il 29 febbraio): http://www.funzionepubblica.gov.it/sites/funzionepubblica.gov.it/files/Dlgs_Servizi_pubblici_locali_1.pdf.

[16] Il testo della petizione: http://www.referendumsociali.info/wp-content/uploads/2016/04/Petizione_popolare_alle_camere.pdf.

[17] I quesiti sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale del 23 marzo 2016, n. 69.

[18] Sono interessati gli artt. 48-50 Decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’art. 1, comma 7, della Legge 10 dicembre 2014, n. 183).

[19] Si incide sull’art. 29 Decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla Legge 14 febbraio 2003, n. 30).

[20] Sono interessati il Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti) e parti del nuovo art. 18 Legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori).

[21] Testo e commento: www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2016/01/Commentario_Carta_dei_diritti.pdf.

[22] La legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e nell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento).

[23] Art. 8 Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella Legge 14 settembre 2011 n. 148.

[24] Cfr. il testo della lettera: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-09-29/testo-lettera-governo-italiano-091227.shtml?uuid=Aad8ZT8D.

[25] Elenco completo in https://coordinamentodemocraziacostituzionale.net.

[26] Notizie in http://lipscuola.it/blog.

[27] Ho approfondito questi aspetti in A. Somma, L’altra faccia della Germania. Sinistra e democrazia economica nelle maglie del neoliberalismo, Roma, 2014 e Id., Il mosaico della sinistra. Cinque tesi sulla cosa rossa (9 novembre 2015), http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-mosaico-della-sinistra-cinque-tesi-sulla-cosa-rossa.