venerdì 31 ottobre 2014

La resistenza di Kobané, tra silenzi ed omissioni



Nel Rojava da mesi i curdi resistono valorosamente all’avanzata dell'ISIS. Ma per l’Occidente i combattenti sono alleati compiacenti solo se compatibili alle strategie delle grandi potenze; rimangono “terroristi” quando osano parlare di autonomia democratica della Regione e autorganizzazione della popolazione. Il 1 novembre, in Italia e nel mondo, una giornata di mobilitazione in sostegno di Kobané.

di Alessia Montuori e Giansandro Merli

Alcuni giorni fa, Remzi Kartal, co-presidente del Kongra-gel (Congresso del popolo) e rappresentante del movimento di liberazione curdo in Europa, ha evidenziato l'effetto enorme che gli avvenimenti in corso in Rojava (Kurdistan occidentale) stanno avendo sulle relazioni internazionali. Ha parlato della necessità di una “politica post-Kobanê”: la minaccia globale rappresentata da ISIS dovrebbe spingere anche il cosiddetto Occidente a rivedere le sue disastrose politiche mediorientali, le quali non sono riuscite ad assicurare né stabilità né pace nella regione. Kobanê come “fenomeno globale” perché la resistenza messa in atto dalla sua popolazione, dalle sue forze di difesa del popolo, YPG e YPJ (le unità femminili), ha avuto il merito di cambiare il corso di una storia che sarebbe dovuta andare in un altro modo. I calcoli di tutte le potenze in grado di fare qualcosa per la città, suggerivano di lasciarla al suo destino. Per Stati Uniti e alleanza anti-ISIS, una città non abbastanza strategica; per la Turchia addirittura una città nemica. Il governo di Erdogan, infatti, nonostante la presenza di facciata all'interno della coalizione contro i terroristi islamici, si è subito mostrato riluttante ad agire concretamente, pur essendo confinante per un lungo tratto di terra con il territorio siriano ora sotto controllo degli jihadisti e con un altro tratto che rischia di finire presto nelle loro mani.

Dietro questo “fenomeno globale”, dietro questa icona della resistenza curda che combatte dove altri (esercito iracheno, peshmerga del Kurdistan autonomo regionale) si sono volatilizzati, abbandonando intere popolazioni al proprio destino, ci sono elementi che i governi e media mainstream hanno deciso di omettere. Volutamente. E allora se si tessono le lodi della resistenza fiera di un popolo, delle donne giovani e belle che combattono con il kalashnikov in mano (appassionando mezzo mondo dietro lo schermo di un televisore o di un computer come si trattasse di un gioco un po' cruento) e di altri parametri compatibili con gli schemi orientalistici... è vietato parlare di autonomia democratica, di gente che si organizza dal basso in comuni e comitati per decidere da sé come amministrarsi, di parità di genere negli organismi elettivi, di partecipazione di tutte le componenti linguistiche, etniche e religiose, non si parli insomma dei cantoni del Rojava e della loro carta del contratto sociale. Potrebbe essere contagioso.

È per questo che il PKK (Partito comunista curdo) è ancora considerato un'organizzazione “terrorista”. Nonostante la proposta politica del confederalismo democratico avanzata da Abdullah Öcalan per risolvere la questione curda, che si ispira il Partito di Unione Democratica del Kurdistan siriano. Ma se per la Turchia questo sembra essere un riflesso condizionato quasi immutabile, trasversale a post-kemalisti e post-islamisti del partito di governo, perfino alcuni settori dell'amministrazione statunitense sembrano averne avuto abbastanza. Almeno per quanto riguarda il comportamento riluttante dell'alleato NATO e l'efficacia nel combattere ISIS sul terreno dimostrata dai cosiddetti “terroristi separatisti”, i curdi del Rojava. I bombardamenti della coalizione contro le postazioni e i militanti di ISIS si sono fatti via via sempre più incisivi, con grande rabbia del governo turco e del Presidente Erdogan.

Un fragile velo si è dunque temporaneamente squarciato. Grazie a quella resistenza che, contro tutte le previsioni, ha impedito la cattura della città simbolo di Kobanê. Grazie alla straordinaria interposizione fisica della popolazione al confine turco-siriano. Grazie alle vaste mobilitazioni in tutto il Kurdistan: turco, dove sono costate una cinquantina di morti, iracheno e perfino iraniano, dove solo partecipare a una manifestazione espone al rischio di venire uccisi. E grazie alle manifestazioni della diaspora curda in Europa e nel mondo. Anche in questa occasione i confini mostrano così chiaramente il loro portato di violenza, sopraffazione e potere esercitato contro intere popolazioni. La Turchia fa notare di aver accolto centinaia di migliaia di profughi. Quegli stessi profughi che, se decidono di recarsi in massa come scudi umani e osservatori al confine con il Rojava, vengono picchiati, gasati proprio dall'esercito turco.

Insomma, i curdi sembrano benvoluti solo come alleati compiacenti o come vittime silenziose, fino a quando non danno fastidio, rimanendo delle pedine delle politiche delle grandi potenze. Diventano “terroristi”, invece, quando alzano la testa, quando si oppongono, quando documentano i reiterati aiuti e il passaggio di armi dalla Turchia a ISIS, il passaggio di feriti jihadisti che vanno a curarsi in territorio turco, mentre viene sbarrata la strada a coloro che vogliono andare a Kobanê a difendere la città unendosi alle YPG. O se praticano l'autodifesa dal regime di Assad e da quelle frange dell'Esercito Siriano Libero da cui sono stati ripetutamente attaccati in questi ultimi tre anni.

C'è da dire che anche fra la sinistra europea e nostrana qualcuno accusa i curdi di essere diventati “filoimperialisti”, perché hanno chiesto e accettato il limitato aiuto occidentale. Ma accettare questo limitato aiuto quando si è a rischio di un genocidio è “vendere” i propri principi? Lo sarebbe se vi fosse stata una rinuncia all'autonomia democratica, allo straordinario esperimento in atto nei cantoni del Rojava (così come in alcuni territori del Nord Kurdistan in Turchia, o ad esempio nel Kurdistan regionale iracheno, nel campo di Maxmur, dove vivono da un paio di decenni profughi curdi costretti a fuggire dalla politica di sistematica distruzione dei villaggi della Turchia negli anni '90). Ma i curdi non hanno chiesto un intervento dall'esterno, solo la parità militare con il nemico, per impedire un genocidio, e il riconoscimento internazionale del proprio esperimento confederale.

Una delegazione della sinistra del Parlamento europeo, presente in questi giorni al confine con la Siria, ha denunciato il sostegno turco a ISIS, e ha affermato che si adopererà per l'apertura di ciò che chiedono i curdi assediati di Kobanê: un corridoio umanitario che consenta la fornitura di cibo, medicine e rinforzi militari. Questo è l'atteggiamento che potrà condurre a una via d'uscita non solo per la città allo stremo, ma per tutta la regione. Riconoscere politicamente i cantoni, togliere il PKK dalla lista “nera”, proseguire sulla strada del negoziato per il riconoscimento dei diritti dei curdi con Abdullah Öcalan: questa “utopia” è l'unica possibilità di pace e di stabilità per tutta l'area. Un'utopia che ha da insegnare molto anche qui, anche a noi. Soprattutto mentre i diktat dei mercati finanziari svelano ogni giorno di più la vuotezza delle democrazie liberali. Mentre nuove forme di nazionalismo emergono ovunque in Europa. Mentre pratiche e retoriche razziste vengono fomentate nelle città e nei quartieri.

Per questo, è importante partecipare alla giornata globale di azione per Kobanê e per l'umanità del 1° novembre: una giornata di sostegno a una visione del mondo ottimistica, che elabora e tenta di praticare soluzioni positive, pacifiche e inclusive, paritarie fra i generi e le componenti diverse della società, contro una visione uniformatrice, oppressiva, totalitaria che non accetta alcuna diversità, perseguita da ISIS e visibile nei luoghi amministrati dal “califfato”. Una visione che è alternativa anche alle politiche di sfruttamento e rapina del capitalismo neoliberale.

Il primo novembre in tutta Italia, così come nel resto del mondo, sono previste manifestazioni in molte città: Milano, Torino, Brescia, Firenze, Udine, Bologna, Cagliari, Lecce, Reggio Calabria, Catania, Messina, Ragusa. A Roma un corteo partirà da piazza dell'Esquilino alle 15.30, per arrivare a piazza SS. Apostoli. Scendere in piazza il 1° novembre è il minimo che si possa fare per sostenere Kobanê, un'utopia che ci riguarda tutti.

La Fiom si mobilita contro l’aggressione ai lavoratori di Terni. Dal 31 ottobre scioperi e iniziative per i diritti del lavoro e la democrazia


La Fiom si mobilita contro l’aggressione ai lavoratori di Terni. Dal 31 ottobre scioperi e iniziative per i diritti del lavoro e la democrazia


di Roberta Fantozzi 
In risposta ai gravissimi episodi di ieri il Comitato Centrale della Fiom ha dato indicazione alle proprie strutture di organizzare scioperi e presidi territoriali a partire dalla giornata di venerdì 31 ottobre. Invitiamo tutte e tutti a partecipare e sostenere le diverse iniziative previste nelle città. Riportiamo di seguito il documento approvato dalla Fiom che indica anche le pricipali tappe di mobilitazioni contro il “Jobs Act ” e la politica del governo Renzi.
DOCUMENTO CONCLUSIVO DEL COMITATO CENTRALE FIOM
Il Comitato Centrale della Fiom dà indicazione di realizzare fermate e assemblee in tutti i luoghi di lavoro e iniziative sul territorio, a partire dalla giornata di venerdì 31 ottobre, per rispondere ai gravi fatti accaduti ieri a Roma durante la manifestazione degli operai di Terni.
Rispondiamo con la mobilitazione all’aggressione contro i lavoratori che manifestavano pacificamente per difendere la fabbrica e il posto di lavoro e alle falsità contenute nel comunicato della Questura di Roma che cerca di addossare la colpa ai lavoratori.
Il Comitato Centrale della Fiom, nell’esprimere solidarietà ai lavoratori dell’Ast impegnati in una difficile vertenza contro la multinazionale Thyssen che vuole smantellare il polo siderurgico di Terni, ringrazia quanti di loro presenti ieri a Roma hanno manifestato pacificamente in una situazione di grande tensione.
Il Comitato Centrale della Fiom, nell’ambito delle decisioni prese a Cervia dall’Assemblea nazionale della Fiom e come prosecuzione della mobilitazione avviata dalla Cgil con la manifestazione del 25 ottobre, proclama 8 ore di sciopero generale dei metalmeccanici da svolgersi nel mese di novembre.
Ciò a sostegno e in preparazione dello sciopero generale di tutte le categorie, per contrastare le misure contenute nel “jobs act” e per rivendicare scelte diverse di politica economica e industriale, che la Cgil deciderà nel proprio direttivo già convocato il prossimo 12 novembre.
Il Comitato Centrale della Fiom dà mandato alla segreteria nazionale di articolare lo sciopero generale della categoria in almeno due grandi manifestazioni nazionali da svolgersi indicativamente il 14 novembre a Milano e il 21 novembre a Napoli.
 Roma, 30 ottobre 2014

Giappone. La droga (monetaria) non funziona? Aumentare la dose...


Giappone. La droga (monetaria) non funziona? Aumentare la dose...
Non se l'aspettava nessuno. Perché quando una cura non funziona (l'allentamento monetario o quantitative easing, in pratica stampare moneta per favorire la ripresa del mercato finanziario e di lì l'economia reale) si cerca in genere una medicina alternativa.
Ma per i mercati finanziari la "liquidità" - anzi, l'eccesso di liquidità - è una droga. E come in tutte le tossicodipendenze, quando un certo dosaggio non produce più l'effetto atteso... si aumenta la dose.
E proprio questo ha fatto la Banca del Giappone (BoJ) stamattina, provocando - oltre che il delirio di gioia della borsa di Tokyo (+4,83%) - un crollo della quotazione dello yen, sceso subito ai minimi da sei anni a questa parte, quotando in chiusura 110 per un dollaro.
La BoJ espanderà la base monetaria di altri 10mila-20mila miliardi di yen l'anno (per un totale di circa 80mila miliardi) e triplicherà gli acquisti di Etf (titoli legati all'andamento di vari indici o comparti, non solo finanziari) e trust immobiliari. Inoltre allungherà la durata media dei titoli che ha in portafoglio, rinviando dunque il momento della restituzione.
Anche il Giappone sta del resto sperimentando un inizio di deflazione, anche se non nelle dimensioni di quella europea, ma comunque al di sotto del "desiderabile" 2%. Non si è trattato però  di una decisioe unanime, Il comitato esecutivo si è espresso infatti con 5 membri a favore e 4 contro.
Sulle quotazioni di borsa hanno infliuito anche le indiscrezioni su un possibile cambio di strategia da parte del Fondo pensioni pubblico, che dovrebbe raddoppiare l'esposizione sul mercato azionario (dal 12 al 25%), immettendo a sua volta enormi quantità di soldi liquidi nel mercato borsistico e - ovviamente - mettendo a rischio le coperture per le pensioni dei dipendenti pubblici (se vai in pensione in un momento di crisi di borsa riceverai briciole invece di panini).
La decisione della BoJ arriva mentre si stavano tirando i bilanci di quasi due anni di "abenomics", la svolta imposta dal premier liberal-liberista-mazionalista Shinzo Abe). Negativo, e in modo anche pesante. Gli ultimi dati macro registrano infatti un calo dei consumi delle famiglie del 5,6% in un anno e un tasso di disoccupazione salito al 3,6% (ridicolo per noi o per gli Ua, ma un dramma per la società nipponica). Nemmeno l'aumento dell'Iva - misura assai contestata al momento del varo - ha risollevato la tendenza a deflazionare, anche se ha scoraggiato lo stesso i consumi.
La BoJ ha quindi scelto di incrementare la portata della stessa strategia. La conseguenza più importante, però, è sul fronte della guerra tra le principali monete mondiali. Lo yen, di fatto, subisce una svalutazione ulteriore, proprio mentre la Federal Reserve statunitense - che ha messo fine in settimana alla sua terza ondata di quantitative easing - ha preso a muoversi con circospezione in direzione opposta, scontando anche una rivalutazione del dollaro. Ma soprattutto mentre la Bce ha iniziato - con moltissima prudenza e sotto lo sguardo preoccupato di Bundesbank - una politica simile a quella giapponese.

Da Beppe Grillo a Roberto Fiore: mezzo meet up di Vibo Valentia passa a Forza Nuova —  Silvio Messinetti


Il sin­daco di Comac­chio, pre­veg­gente, lo aveva detto, una volta messo alla porta del movi­mento diret­ta­mente da Beppe Grillo: «E’ in atto una deriva fasci­sta del 5 stelle. E’ Grillo a dover essere espulso per que­sto». Qual­cuno deve averlo preso alla let­tera. Anzi, più di qual­cuno. Visto che si tratta di mezzo Meet-up, quello di Vibo Valen­tia. A par­tire dal suo fon­da­tore Edoardo Ven­tra. Che diventa, da un giorno all’altro, com­mis­sa­rio pro­vin­ciale di Forza nuova.
E’ la segre­te­ria regio­nale di Fn ad annun­ciare la nascita nella pro­vin­cia vibo­nese di un pro­prio «nucleo mili­tante» in cui viene nomi­nato, diret­ta­mente dai diri­genti nazio­nali, come com­mis­sa­rio poli­tico Ven­tra. A cui «è stato affi­dato il com­pito di orga­niz­zare il par­tito in tutta la pro­vin­cia di Vibo. La carica di com­mis­sa­rio avrà durata di sei mesi al ter­mine del quale si pro­ce­derà con la crea­zione della fede­ra­zione pro­vin­ciale che sul ter­ri­to­rio sarà strut­tu­rata ed orga­niz­zata con cari­che e nomine come pre­vi­sto dal nostro sta­tuto. A lui e a tutti gli ormai ex atti­vi­sti M5S vanno i migliori auguri di buon lavoro. Grande sod­di­sfa­zione viene espressa dal segre­ta­rio nazio­nale Roberto Fiore».
In che cosa con­si­sta il «lavoro» poli­tico di Forza nuova è roba nota. Appena due set­ti­mane fa un cen­ti­naio di mili­tanti sco­raz­za­vano libe­ra­mente per Cro­tone (senza che il sin­daco Pd facesse nulla per impe­dirlo) al grido: «Via i clan­de­stini. L’Italia agli ita­liani» e altre ame­nità del genere. D’altronde che nella pan­cia del 5 stelle alber­ghino rigur­giti xeno­fobi ed idee di destra è altret­tanto noto­rio. Basta farsi un giro in rete e dare uno sguardo ai com­menti sulle spa­rate di Grillo in tema di immi­gra­zione. Il movi­mento è spac­cato in due. Da una parte, quelli più a sini­stra, irri­tati dai toni «modello Farage» del capo.
Ven­tra ha così spie­gato in rete la sua ade­sione a Fn : «Molti poli­tici non hanno nulla di ono­re­vole per­ché non ono­rano con le loro azioni le cari­che pub­bli­che che rico­prono, sono inde­gni degli ita­liani one­sti Per que­sto motivo gli ita­liani one­sti hanno il dovere di orga­niz­zarsi. Ade­rire, ade­rire, ade­rire». Qua­lun­qui­smo abbor­rac­ciato e pil­lole di popu­li­smo di pro­vin­cia. Che fa il paio con il finale della nota con cui Fn comu­nica la fuo­riu­scita dei gril­lini: «La coe­renza con la quale Fn affronta da sem­pre tema­ti­che quali il blocco dell’immigrazione,il ritorno alla piena sovra­nità poli­tica, eco­no­mica e mone­ta­ria e la lotta con­tro i veri spre­chi, a comin­ciare dall’abolizione delle regioni, dà i suoi frutti; molto pre­sto, infatti, daremo noti­zia di altre impor­tanti ade­sioni in varie parti d’Italia.
Chi è dav­vero ani­mato da spi­rito rivo­lu­zio­na­rio sce­glie sem­pre più Fn come unica, radi­cale, valida alter­na­tiva al sistema par­ti­to­cra­tico asser­vito alla grande finanza inter­na­zio­nale». Se cam­bias­simo le sigle e al posto di Forza nuova ci fosse scritto M5S, par­rebbe un comu­ni­cato scritto da Grillo. Invece è ver­gato da Roberto Fiore.

giovedì 30 ottobre 2014

Lo stipendio del sindacalista "complice"

RAFFAELE BONANNI
Un Raffaele Bonanni tutto d'oro. Che oltre a godere di una pensione stellare (8.593 euro lordi al mese), è stato protagonista negli ultimi anni di una strabiliante ascesa salariale. Nel suo periodo da segretario della Cisl - dal 2006 fino alle improvvise dimissioni del settembre scorso - il suo stipendio è aumentato vertiginosamente: da 118.186 euro a 336mila, una cifra da capogiro, di molto superiore al tetto per i grandi manager di Stato (240mila).
Tanto per fare qualche paragone, nel suo primo anno da leader Cisl, Bonanni prendeva già più del presidente del Consiglio Matteo Renzi, il cui stipendio da presidente del Consiglio ammonta a 114.796,68 euro. La sua ultima busta paga, invece, era addirittura superiore a quella del presidente americano Barack Obama (circa 275mila euro).
A diffondere questi numeri è il Fatto Quotidiano, che è entrato in possesso di uno dei dossier avvelenati che riguardano l'ex segretario Cisl.
Il sindacalista - ricorda il Fatto - viene eletto segretario generale della Cisl nel 2006. Fino a quella data era segretario confederale e guadagnava meno di 80mila euro lordi all'anno. 75.223 nel 2003, 77.349 nel 2004 e 79.054 nel 2005. Quando diventa segretario generale, secondo il regolamento interno alla Cisl, il suo stipendio viene incrementato del 30%. Quindi, secondo le regole interne, avrebbe dovuto guadagnare circa 100mila euro lordi annui.
Nel 2006, la Cisl dichiara all'Inps una retribuzione lorda, ai fini contributivi, di 118.186 euro. Un po' più alta di quella prevista ma non molto. Le stranezze devono giungere con gli anni seguenti.
Nel 2007, infatti, la retribuzione complessiva dichiarata all'Inps è di 171.652 euro lordi annui. Che aumenta ancora nel 2008: 201.681 annui. L'evoluzione è spettacolare, gli incrementi retributivi di Bonanni sono del 45% e poi del 17%. Ma la progressione continua: nel 2009, la retribuzione è di 255.579 (+26%), nel 2010 sale "di poco" a 267.436 (+4%) mentre nel 2011 schizza a 336.260 con un aumento del 25%.
Sono stati tutti questi aumenti a consentire all'ex segretario di ritirarsi da pensionato d'oro. Senza dimenticare che Bonanni è riuscito a sfuggire sia alle modifiche introdotte nel '95 dalla riforma Dini che introdusse il sistema contributivo (grazie all'anzianità di servizio), sia alla riforma Fornero.
Sentito dal Fatto, l'ex segretario della Cisl ha preferito non rilasciare dichiarazioni.

Quello che dobbiamo imparare dalla Leopolda

leopolda-schermi-1000x600Il giradischi per far suonare il vinile con attacco Usb esiste, da un pezzo. Come la macchina fotografica digitale reflex, dove si continua a mettere il rullino. Bisognerebbe che qualcuno degli hipster della Leopolda lo avesse fatto presente a Renzi, ma forse erano tutti intenti ad assaporare il profumo del suo ragù, più buono come ha detto qualcuno dei suoi cortigiani, “perfino di quello che fa mamma”. In ogni caso queste metafore sul vintage tecnologico, vengono in soccorso a noi, a quelli che erano in quella piazza così antica secondo il Premier, da risultare come un’illusione ottica (definizione della Moretti), un ologramma, un niente.
Ci è utile intanto dire che il nuovo e il vecchio stanno sempre insieme. Gli iPhone della Apple, oggetti “erotici” per la generazione Leopolda, sono assemblati dalla Foxxcon, un gigante da 600.000 dipendenti, con sede principale a Taiwan. Gli operai, sottoposti a un regime militare di lavoro, come lo definisce la BBC, firmano una clausola al momento dell’assunzione che recita così: “In caso di infortuni (fra cui il suicidio o il ferimento volontario, etc.) sottoscrivo che la compagnia ha seguito leggi e regolamenti e né io né i miei familiari faremo causa”. Come immagine per dire quanto quelli della piazza siano vecchi, il nostro Premier ha utilizzato l’immagine del gettone, che dentro il sottilissimo smartphone non entra. Ma le condizioni di vita alle quali sono sottoposti quei lavoratori e lavoratrici, vita che è lì dentro, tra lo schermo, i chip, i nanocircuiti integrati, l’oscillometro, ed è fatta a brandelli, compressa fino a farli ammazzare, non ricordano tempi più antichi e terribili di quelli evocati dalle cabine telefoniche?
Il nuovissimo e il vecchissimo dunque. L’ipertecnologico strumento dell’information society, e il lavoro semischiavistico prefordista. Non è una stranezza, è ciò che accade nel mondo del mercato globale, quello che piace tanto agli amici del Premier come il finanziere Serra. Massimi profitti, e minimi costi. La dignità delle persone, delle donne, degli uomini, dei bambini, e anche il rispetto per il vivente, come ci direbbe il Papa, ha un costo, e questo è un impedimento per chi ha come unico obiettivo quello di aumentare all’infinito la propria ricchezza personale. È una cosa vecchissima questa di fissarsi sulla dignità di tutti, vecchia come Spartaco, ha le sembianze di Rosa Parks, oppure quelle di Thoreau. Eppure, come si vede alla Foxxcon e a Pomigliano, non è mai superata.
Volere l’iPhone e la dignità è come cercare di infilarci dentro il gettone? Per l’Ad della multinazionale di Taiwan si. Come farebbe ad essere il 117 esimo uomo più potente della Terra altrimenti? Se gli schiavi pretendessero diritti, come farebbe lui ad accaparrarsi gli appalti al massimo ribasso da Nokia, HD, Apple e un’altra infinità di marche “smart” e “wired” del nostro tempo?
La lezione che si deve trarre dalla Leopolda dunque, per noi che eravamo a Roma, è che solo se saremo capaci di “smontare” l’iPhone, e di mettere in luce le sue parti vecchie che sono ben nascoste, solo allora lo trasformeremo in qualcosa di utile, che non è né vecchio né nuovo. Ma la Leopolda è ricca anche di altre lezioni, a volerle vedere.
Sbaglia chi pensa che non ci serva. Il posto fisso non esiste più, è verissimo. L’unico posto fisso lo possiede chi vive di rendita o attraverso l’attività speculativa, legale/illegale perché il confine è sempre più indefinito, accumula enormi ricchezze nella crisi. Quando il Premier parla di posto fisso in realtà compie un piccolo artificio retorico: è la garanzia e continuità di reddito per la stragrande maggioranza della popolazione che non è più garantita, non tanto il “posto”, che della sua caducità se ne erano accorti tutti negli ultimi vent’anni.
Garantiti sono solo i ricchi, tremendamente pochi e tremendamente ricchi, e continuano ad arricchirsi. Gli altri, tutti gli altri, sono intermittenti. O working poor, lavoratori poveri. È questa la condizione di quel milione e passa che erano in piazza sabato 15 ottobre, pensionati compresi. Si, anche chi ha la pensione, che serve a mantenere l’acquisto di servizi di welfare che oggi sono privatizzati, o a distribuire un po’ di reddito ai figli e nipoti, che non ne hanno tutti i mesi. Chi ha un contratto a tempo indeterminato, dopo il Jobs Act è di fatto nella stessa condizione di chiunque altro. Ed è il salario, il suo livello, che definisce la condizione di intermittenza di chi lo percepisce. Il salario è basso, e tenderà a scendere. E quando se ne va interamente per pagare rate del debito privato composte da acquisti a credito e mutui, il lavoratore povero non è altro che un precario che cerca lavoro senza alcun reddito. Anche in questo caso il vecchio e il nuovo si abbracciano mortalmente. Flessibili e poveri, internet e miseria, Prada e pezze al culo.
Quindi imbocchiamola davvero questa modernità della Leopolda: al modificarsi del mercato del lavoro, non possiamo rispondere semplicemente che si stava meglio prima. Dobbiamo fino in fondo percepirci tutti nella stessa condizione e puntare sulle moderne forme di recupero della dignità e della possibilità di vita dignitosa. La battaglia per un reddito minimo è all’ordine del giorno, e molti esempi in europa possono aiutarci. A fianco naturalmente di quella per tassare le rendite sul serio: se lo sgravio dell’Irap premia le imprese che licenziano, e se nel 90% dei casi licenziano perché gli interessa di più la “reputazione” dei loro titoli in borsa piuttosto che la produzione sulla quale sono impegnati, allora questo equivale a de-tassare la rendita, a premiare la speculazione. La Thissen Krupp, con 560 operai licenziati a Terni, avrà un premio dal governo di circa 7 milioni di euro.
 
Ma la Leopolda ci dice tante altre cose. Ad esempio ci parla di quella che Marco Bascetta ha recentemente definito “l’economia della promessa”. La crisi è anche, per tutti quelli che erano in piazza e per molti che erano all’interno del Truman Show di Renzi, crisi di identità, di status, di qualificazione sociale. Perché migliaia di giovani offrono il proprio lavoro gratuitamente all’Expo, negli stage, in tutti i campi del lavoro cognitivo? Per poterlo scrivere, ad esempio, nel curriculum. Per dire che fanno, e sanno fare, quello, almeno in quel momento. Perché questo sistema competitivo alla base della piramide sociale e monopolistico nel suo vertice, vive sulla promessa, che un giorno, se sei bravo, se sei stato strategico nell’investire il tuo tempo di vita, avrai successo. Solo tu, non quello accanto a te. Solo Steve Jobs, non quelli che lavorano come operai alla Foxxcon. L’ossimoro dell’imprenditore di se stesso corrompe l’idea di una comunità sociale, a favore invece della società competitiva degli individui. La Big Society di Cameron, “start up for your right”, con buona pace del vecchio, e superato, Bob Marley. Lo Start up, l’investimento si fa barattando la vita, la dignità, i diritti. Si mettono sul piatto quando non si hanno soldi per partire, e si spera. Otto start up americane su dieci falliscono, ci hanno insegnato, e anche nel caso delle vite sturt up, otto su dieci falliscono.
Solo che di vita ce ne abbiamo solo una. Economia della promessa, ovvero dal credito al consumo al lavoro a credito. Forse tutto questo, il vecchio e il nuovo, non si possono affrontare semplicemente “a sinistra” di Renzi. Che il Pd abbia una sinistra al suo interno è auspicabile. Come dire che è meglio Al Gore come vice, che Dick Cheney. Ma non potrà rispondere a tutto questo se non si crea qualcos’altro, un altrove da Renzi. Il campo è quello che quella piazza ha mostrato. È ampio, non ristretto all’opposizione ideologica, identitaria, rancorosa. Ci parla dell’esigenza di dotare le nostre proposte di alternativa economica e sociale di una pratica politica all’altezza della sfida. La Leopolda ci dimostra come lo spazio pubblico e politico ibrido, comunicativo, che produce l’opinione, che considera la comunicazione un agire e non uno strumento, funziona eccome. Abbiamo molto da imparare dalla Leopolda, guardando da quella piazza dove eravamo sabato 25 ottobre. Anche se non siamo disposti a vendere nostra madre per compiacere il re. Il ragù buono come quello che fa lei non lo fa nessuno. “Chesta è carne c’a pummarola”.

LUCA CASARINI
attivista, candidato de L’Altra Europa con Tsipras

da L’huffington post

Pd, chi aspetta obbedendo di Michele Prospero, Il Manifesto

Sinistra Pd. Se Renzi vince la sinistra interna farà testimonianza, se Renzi perde verrà travolta dalle macerie. E’ preferibile un disegno esplicito di rottura, con una guerriglia aperta sulle riforme
Ormai di tempo per pren­dere le misure del feno­meno Renzi, la sini­stra Pd ne ha avuto abba­stanza. E, a meno di una con­sa­pe­vole volontà di ras­si­cu­ra­zione che pog­gia però sul niente, dovrebbe aver per­ce­pito che uno spa­zio per la media­zione è impos­si­bile. Renzi peral­tro non lo cerca, si vanta di aver “spia­nato” i reduci, schiaf­feg­giato le loro ban­diere, umi­liato la loro piazza. L’offerta di una tre­gua è una ste­rile invo­ca­zione, quella di non infie­rire troppo, rivolta dagli scon­fitti allo spie­tato castigatore.
Renzi non è inte­res­sato alla costru­zione di un par­tito strut­tu­rato, retto cioè da una logica uni­ta­ria e da una lea­der­ship rispet­tosa delle dif­fe­renze interne. Riven­dica solo una fedeltà per­so­nale, con scene ordi­na­rie di una obbe­dienza con­for­mi­stica al capo. Egli non mostra alcuna pre­oc­cu­pa­zione per i com­piti di coe­sione pro­pri di una dire­zione poli­tica auto­re­vole. Renzi vuole solo coman­dare con col­la­bo­ra­tori dalla schiena curva, non diri­gere una orga­niz­za­zione com­plessa. Chi non si ade­gua alla sua ine­so­ra­bile stra­te­gia di edi­fi­care una variante del par­tito per­so­nale, non più a matrice azien­dale ma non per que­sto sprov­vi­sto di fonti ingenti di approv­vi­gio­na­mento mediatico-finanziario che lo rin­sal­dano al potere, è desti­nato ad essere schiac­ciato, senza pietà.
E’ per lui inu­tile ogni visi­bile segno di auto­no­mia, qual­siasi voce cri­tica farebbe solo ombra alla sacra­lità del capo che in soli­tu­dine inter­preta gli umori pro­fondi del popolo ostile all’élite. La pre­tesa di domi­nio è così asso­luta che non esita a spez­zare ogni sta­bile radi­ca­mento del Pd nella com­po­nente, quella del lavoro, peral­tro mag­gio­ri­ta­ria della sua antica coa­li­zione sociale. Iden­tità, radici sociali, forma par­tito, cul­tura delle isti­tu­zioni: dav­vero tutto separa la sini­stra del Pd da Renzi e pro­prio nulla la uni­sce a un capo che per­se­gue un dise­gno, sem­pre più espli­cito, di edi­fi­care un potere per­so­nale a forte traino popu­li­sta e ben pro­tetto dal quasi totale con­for­mi­smo dei media.
Que­sto espli­cito piano di sem­pli­fi­ca­zione a sfondo cesaristico-mediatico è for­te­mente regres­sivo, incom­pa­ti­bile con la cul­tura della sini­stra e andrebbe per­ciò osta­co­lato, in ogni modo effi­cace. La vit­to­ria di Renzi non coin­cide con il suc­cesso della sini­stra. Certo, la situa­zione è per la mino­ranza assai para­dos­sale, per­ché la obbliga a distri­carsi tra un male mag­giore e un male minore. Se vince Renzi, fini­sce la poli­tica e viene san­cita l’eutanasia di ogni aspi­ra­zione alla rina­scita di una qual­che demo­cra­zia dei par­titi. Se perde, non dopo una bat­ta­glia tra­spa­rente ma per­ché tra­mor­tito dalla forza delle cose, dalle sue mace­rie verrà tra­volta anche la sini­stra interna, rovi­nata dal suo vano atten­di­smo. E’ infatti un’illusione aspet­tare obbe­dienti, e solo con qual­che riserva, dalle retro­vie che il folle piano vada a sbat­tere e imma­gi­nare di ripren­dere a cam­mi­nare a testa alta subito dopo il fra­gore rovi­noso da tutti avvertito.
E’ pre­fe­ri­bile per­ciò un lavoro poli­tico con­sa­pe­vole, un dise­gno espli­cito di rot­tura che accom­pa­gni Renzi alla resa. Nello svuo­ta­mento delle resi­duali divi­sioni poli­ti­che tutte ospi­tate in un indi­stinto par­tito della nazione (in effetti Renzi potrebbe essere, con pari cre­di­bi­lità, lea­der di uno qual­siasi dei tre non-partiti oggi esi­stenti), si con­so­li­de­rebbe altri­menti un sistema informe e retto da un pro­filo pseudo cari­sma­tico dif­fi­cile da scal­fire una volta con­so­li­dato al potere.
Machia­velli notava che in poli­tica «si cava una regola gene­rale, la quale mai o raro falla, che chi è cagione che uno diventi potente, ruina». E nella rapida, quanto sinora incon­tra­stata, ascesa di Renzi alla con­di­zione di «potente», anche i suoi avver­sari interni sono la «cagione» del tanto domi­nio in fretta accu­mu­lato. Prima sol­le­ci­tando in dire­zione un cam­bio di passo rispetto a Letta, e poi votando in aula una fidu­cia “cri­tica” alla delega all’esecutivo per la sop­pres­sione dell’articolo 18, la mino­ranza del Pd ha con­sen­tito al ren­zi­smo di incas­sare dei grandi atte­stati di potenza e con tali incaute mosse rischia forse di aver san­cito la pro­pria «ruina».
Il timore di una crisi di governo ha para­liz­zato qual­siasi dispo­ni­bi­lità alla prova di forza su una grande que­stione iden­ti­ta­ria (diritto di licen­ziare come arma della moder­niz­za­zione e della ridu­zione di ogni dignità al lavoro). Sinora la mino­ranza del Pd ha evi­tato di por­tare lo scon­tro nella sola zona di cri­ti­cità esi­stente per Renzi, cioè nei gruppi par­la­men­tari, non ancora del tutto omo­lo­gati ma anch’essi pros­simi alla resa nel mirag­gio di una rican­di­da­tura. E così ha spia­nato la strada al dise­gno di un potere a con­du­zione per­so­nale senza mai lan­ciare dei sassi, col­pire di sor­presa, ten­dere agguati. Machia­velli avver­tiva che in poli­tica «è meglio fare et pen­tirsi che non fare et pentirsi».
La scis­sione allora? Non è detto che essa accada. La tat­tica pre­vale sulla stra­te­gia in que­ste scelte. Esclu­derla in linea di prin­ci­pio è però di sicuro una castra­zione pre­ven­tiva della pos­si­bi­lità di osta­co­lare un tra­gitto regres­sivo che con­duce verso il domi­nio di una per­sona priva di oppo­si­zioni, limiti, con­trolli e alla sicura archi­via­zione a tappe suc­ces­sive della forma di governo par­la­men­tare. Ogni pra­tica scis­sio­ni­sta deve valu­tare, con distacco, la pre­senza di una con­di­zione indi­spen­sa­bile. Machia­velli chia­ri­sce bene la que­stione, che vale per ogni costrut­tore di una cosa nuova: «esa­mi­nare se que­sti inno­va­tori stanno per loro mede­simi, o se dipen­dano da altri: ciò è se per con­durre l’opera loro biso­gna che pre­ghino, o vero pos­sono forzare».
Insomma, su cosa, su quali forze reali, potrebbe pog­giare l’iniziativa per imporre, nella lotta aperta con­tro la dege­ne­ra­zione del poli­tico, una auto­noma forza della sini­stra? La frat­tura sociale sui temi del lavoro, il pos­si­bile scio­pero gene­rale come radi­ca­liz­za­zione della con­tesa, offrono una occa­sione pro­pi­zia ovvero aprono la giun­tura cri­tica per rom­pere. Il rap­porto orga­nico del nuovo sog­getto poli­tico con il sin­da­cato evoca uno sce­na­rio quasi rove­sciato rispetto al rap­porto tra sog­getto poli­tico e orga­niz­za­zione sociale domi­nate nella sto­ria repub­bli­cana. E però anche una tale for­ma­zione ad ibri­di­smo politico-sindacale (sulla scorta più della vicenda inglese che di quella con­ti­nen­tale) non farà strada senza una grande cul­tura poli­tica, non mino­ri­ta­ria e di mera protesta.
Nella assai fran­tu­mata mino­ranza Pd forse pre­varrà una linea più atten­di­sta (la guer­ri­glia sulle riforme elet­to­rali e isti­tu­zio­nali è però meno dirom­pente e mobi­li­tante come rea­zione allo sfre­gio sim­bo­lico per­pe­trato da Renzi sull’esplosivo tema iden­ti­ta­rio del lavoro). Se comun­que que­sta via della imbo­scata par­la­men­tare pre­varrà, almeno con essa si punti a bloc­care l’unica con­di­zione per il suc­cesso dello sta­ti­sta di Rignano, cioè l’Italicum comun­que ritoc­cato (con il rialzo delle soglie e il voto di pre­fe­renza). Senza il pre­mio di mag­gio­ranza in mano, Renzi ha le ali spun­tate e la sua pistola del ricatto diventa scarica.
Guer­ri­glia aperta sulle riforme, dun­que, e in più un ristretto ma coeso gruppo di con­tatto al senato (che mostri che senza di esso il governo non ha i numeri a Palazzo Madama), pos­sono creare degli osta­coli, sca­vare trap­pole affin­ché “pié veloce” inciampi. Le tat­ti­che pos­sono variare. Quello che non muta è però l’obiettivo. Renzi va scon­fitto. E da sinistra.

Il Nuovo Partito Democratico del futuro di Alessandro Avvisato, Contropiano.org

Il Nuovo Partito Democratico del futuro
La settimana che sconvolse il (piccolo) mondo dei rapporti tra politica e sindacato.
Il 24 ottobre lo sciopero generale indetto dai sindacati di base, riuscito ben al di là delle attese, a dimostrazione di una tensione forte e antigovernativa tra i lavoratori italiani, nonostante il silenzio dei mass media.
Il 25 la manifestazione nazionale della Cgil, “un milione di persone” a Roma, convocata cercando di tenere basso il livello di conflittualità con il governo (una manifestazione “pesa” decisamente meno di uno sciopero generale), ma esplosa in piazza contro Renzi e la sua banda, il jobs act e in generale le sue politiche. Una rottura esplicita rispetto ai “consensi” vantati dal premier.
Il 26 il “me ne frego” del premier-segretario del (nuovo) Partito Democratico, dalla Leopolda, che equipara il sindacato e le tutele del lavoro al telefono a gettoni; “rottami sui binari” da buttar via il più rapidamente possibile per far ripartire il “treno della crescita”.
Il 27 e 28 attraversato da botte e risposte (verbali) tra la segretaria della Cgil e alcuni pitbull renziani, con accuse di “messo lì dai poteri forti” e “eletta con tessere false” che volano come manganellate metaforiche.
Il 29 dalle parole si passa ai fatti. Le botte - nella versione delle manganellate della polizia - diventano fisiche, le distribuisce la polizia su sindacalisti Fiom e operai Ast di Terni, venuti a Roma per sventare la minaccia di 550 licenziamenti e il ridimensionamento dello stabilimento.

Una settimana che segna il passaggio d'epoca, non un episodio scappato di mano. Lo andiamo ripetendo da mesi: i governi diretti dalla Troika (da Monti in poi, solo indirettamente quelli precedenti) non hanno più lo spazio finanziario per la mediazione sociale. Quindi debbono anche “ideologicamente” abolirla. Così come debbono smantellare i corpi intermedi (sindacati e partiti) che per 70 anni hanno interpretato bene o male il ruolo dei mediatori, accogliendo e stemperando interessi sociali, slanci di ribellione, bisogni vitali, ambizioni di emancipazione.
Renzi lo dice in modo chiaro, supportato sfacciatamente da ogni media padronale; lui per primo ha acceso lo scontro indicando il sindacato – la Cgil, soprattutto, per dimensioni, storia, “base sociale” della sinistra riformista – come un nemico da demolire. Molte delle misure economiche pensate per “tagliare i viveri” alle organizzazioni sindacali (dal dimezzamento dei distacchi e dei permessi fino alla riduzione dei fondi per patronati e Caf) erano addirittura “popolari”, giocate in chiave di sforbiciata alle “spese inutili” per una casta quasi indistinguibile da quella politica. La chiave del successo in questa offensiva l'aveva in qualche modo anticipata lui stesso: “tratto con gli operai, non con i sindacati”. Ovvero attacco ai vertici con un uso strumentale degli argomenti (quasi sempre rispondenti alla realtà) tipici delle critiche da sinistra al sindacato (acquiescenza con padroni e governi, disinteresse per il precariato, avallo dato alle peggiori operazioni di divisione del mondo del lavoro, ecc) per facilitare un'identificazione della base col “rottamatore”, colui che “sta facendo qualcosa di nuovo”. Salvo entrare nel merito e scoprire che “il nuovo” è un ritorno alla giungla ottocentesca...
Ma le cariche su operai e sindacalisti lo hanno zittito. Il gioco della comunicazione si è improvvisamente spezzato. Non può essere un “premier operaio” quello che manda la polizia a manganellare gli operai, trattandoli come i centri sociali, i No Tav o i black bloc (quelli si possono bastonare senza tanto scompiglio...).
Non ci interessa qui stabilire – non abbiamo “fonti” a palazzo Chigi o al Viminale – se l'ordine di caricare sia venuto da Renzi stesso o dal solito Angelino Alfano. Le due ipotesi sono una peggiore dell'altra. Sta di fatto che è stato creato un clima politico e ideologico in cui caricare e pestare gli operai e addirittura i sindacalisti “concertativi” è diventato legittimo, possibile, fattibile. Chi conosce anche superficialmente la geografia interna ai sindacati, sa bene che la Fiom dell'Ast non è neppure “landiniana”, ma addirittura camussiana. Alcuni dei feriti sono pacifici funzionari che in vita loro hanno trattato qualsiasi accordo – in genere pessimi – senza battere ciglio.

“Il futuro è solo l'inizio”. Lo slogan della Leopolda è diventato carne e sangue nelle vie di Roma, ieri mattina.
Chi si illudeva – sia tra i tranquilli funzionari sindacali come nella sinistra antagonista - che i governi della Troika fossero solo una “blindatura tecnica” degli scassatissimi bilanci dello Stato, mentre tutte le dinamiche politico-sociali potevano andare avanti come prima (un cartello elettorale qua, un'occupazione là, un inciucio su, un gioco di sponda giù, ecc) deve ora prendere atto che ci stiamo muovendo in territorio sconosciuto e minato. Le “regole istituzionali” prima in vigore non esistono più.
Quelle regole dicevano che esisteva una protesta legittima perché politicamente controllata, che aveva libero accesso in ogni dove; e un'altra protesta dichiarata altrettanto legittima, ma solo sulla carta, doveva invece contrattare ogni passo, districandosi tra “zone rosse”, “tonnare”, infiltrazioni, avvisi di garanzia, detenzione carceraria o domiciliare
.

La linea di faglia della “legittimità” è stata spostata all'interno del campo prima considerato in toto “istituzionale”. La politica – le leggi e le pratiche dello Stato – riconosce i rapporti di forza sociali creati negli ultimi quaranta anni e “decreta” (jobs act, bavaglio “monetario” alla libertà di stampa, cariche di polizia, ecc) che il mondo del lavoro non ha più diritto a una rappresentanza. Né all'interno delle istituzioni, né fuori di esse. È un passaggio storico “di classe” e strutturale, non un incidente di percorso di un governo o di un partito guidato da neofiti senza patente. Il Nuovo Partito Democratico – per scelta o per incidente – ha cominciato a farsi conoscere. È l'Npd del futuro, una sigla inquietante.

Intervista a Ferrero da Kobane “Curdi in trappola tra Isis e Turchia” – il Fatto quotidiano


Intervista a Ferrero da Kobane “Curdi in trappola tra Isis e Turchia” – il Fatto quotidiano
La missione di Ferrero “Curdi in trappola tra Isis e Turchia”
Di Mariateresa Totaro – Il fatto quotidiano -
La Turchia preferisce armare l’Isis, piuttosto che aprire un dialogo con i curdi, che fanno proposte democratiche di gestione del territorio. E la situazione dei profughi è una vera emergenza”. Da Suruc, avamposto turco di fronte alla città-martire siriana di Kobane, Paolo Ferrero, segretario del Prc in visita insieme a una delegazione del Partito della Sinistra europea, lancia l’allarme.
Cosa ha trovato al suo arrivo?
La situazione è tragica. Ci sono più di 100-150 mila profughi. E non sono cifre ufficiali perché il governo turco non se ne occupa. Ha organizzato l’accoglienza forse di 7 mila persone.
Chi accoglie i profughi?
Gli unici che se ne stanno occupando sono le autorità locali, le municipalità curde, che provvedono come possono a fornire assistenza, a dare cibo, medicine, vestiti. Un allarme umanitario che peggiorerà con l’inverno, perché qui fa freddo e questa gente non ha un posto per ripararsi. In pochi mesi ci sono città che con l’arrivo dei profughi hanno raddoppiato il numero di abitanti. Mancano servizi d’ogni genere.
Coma sta reagendo la gente?
Ho visto un’enorme partecipazione alla battaglia di Kobane. La gente ha paura, si vede il fumo, si sentono i colpi di mitragliatrice. E i curdi protestano per la mancanza di un corridoio umanitario. Sono gli unici che combattono l’Isis, ma il governo turco li ostacola.
Come?
Per contrastare l’isis i curdi hanno bisogno di armi pesanti, non di qualche fucile. Invece la Turchia, piuttosto che accogliere le loro proposte democratiche, preferisce sostenere lo Stato islamico, fornendogli le armi. Il governo vede le cose al contrario, considera i curdi la vera minaccia e poi manda cento persone a combattere, è un gesto di facciata.
Lei ha definito i terroristi dell’Isis dei “nazisti”
In realtà non io. Qui, a Suruc, tutti parlano di fascisti e nazisti quando si riferiscono ai guerriglieri dello Stato islamico. E in effetti lo sono, perché chi non è sunnita non viene emarginato, viene ammazzato. Non è vero che combattono, ammazzano e basta in nome della religione sunnita. Una pulizia etnica in nome della religione.
Gli Usa sembrano gli unici in grado di fermare l’Isis.
Gli unici che stanno combattendo questi terroristi sono le milizie popolari curde. Gli Usa, se proprio volessero fare qualcosa, dovrebbero smettere di fornire armi all’Isis attraverso il Qatar e l’Arabia. È ridicolo: vogliono combatterli, ma li hanno armati loro, mica l’Australia.
È solo un problema di armi?
Non solo. Ci vorrebbero politiche internazionali che appoggino soluzioni pacifiche e di coesistenza di etnie e religioni. Non come si è fatto in Iraq o in Libia. Gli Stati Uniti hanno destabilizzato queste terre, escludendo la cooperazione. Le armi dovrebbero darle a chi combatte l’Isis.
L’Europa ha delle colpe?
È vergognoso che Ue e Usa considerino il partito dei lavoratori Pkk una formazione terrorista.
Cosa le raccontano politici e parlamentari turchi?
Si lamentano del fatto che il Parlamento turco fa orecchi da mercante e non vuole occuparsi dei profughi.
La difesa del popolo curdo sembra essere una priorità per la Sinistra europea. Perché?
I curdi hanno il diritto di autodeterminarsi. Sono un faro di civiltà in quest’area e propongono una forma di democrazia partecipata che fa paura alla Turchia. Chi avanza tali proposte, a pochi chilometri dall’Europa, va difeso. È una causa giusta che noi difendiamo, non siamo certo il Pd che ormai pare la destra e ha dimenticato certe battaglie.

Ast Terni, scontri a Roma: ‘Come siamo messi?’, chiede Landini. Malissimo, siamo messi malissimo

Foto tratta da Facebook  @masonotariannidi Maso Notarianni, Il Fatto Quotidiano

Altro che slogan del cazzo, altro che palle, leopolde e cazzate varie. Il governo deve chiedere scusa ai lavoratori. Perché questo Paese esiste perché ci siamo noi a pagare le tasse. E dobbiamo prendere anche le botte, noi che paghiamo, noi che lavoriamo? E da chi, da altre persone che per vivere devono lavorare? Ma che diano l’ordine di colpire quello che c’è da colpire. Cazzo, in un Paese di ladri, di gente che evade, di corruzione, se la vengono a prendere con gli unici onesti? Ma dove cazzo siamo messi?”. Sono durissime le parole del segretario della Fiom-Cgil Maurizio Landini dopo la carica della polizia contro i lavoratori della Ast-Terni.

‘Dove siamo messi?’ Siamo messi malissimo.
Siamo messi malissimo perché chi può (non sono tanti ad avere questo potere, visto che la maggior parte degli italiani è analfabeta funzionale) sa che la distribuzione delle ricchezze è spaventosamente ineguale, quasi come ai tempi del feudalesimo. E lo dicono gli studi delle banche svizzere, non dei bolscevichi. Ma chi può saperlo è anche chi detiene questa ricchezza, o che gode delle briciole (cospicue briciole, ma briciole in confronto) elargite dai ricchi e potenti.
Siamo messi malissimo perché ci raccontano che c’è crisi, e invece la crisi è ingiustizia sociale, e basterebbe redistribuire la spaventosa ricchezza concentrata nelle mani di quei pochi per vivere tutti meglio.
Siamo messi malissimo perché abbiamo al governo gente che abusa della parola sinistra (sempreché questa parola abbia ancora quel significato, cosa che non è per la maggior parte delle persone) e favorisce tutto questo permettendo alla polizia di manganellare chi chiede conto di queste ingiustizie.
Siamo messi malissimo perché la televisione e la stampa hanno contribuito a far diventare la solidarietà (una delle parole fondamentali dell’umanità) una parolaccia. Lo dice il Papa, non un teorico marxista: “Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma una parola è molto più di alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni… La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia”.
Siamo messi male perché qui e in altre parti del mondo (per fortuna non tutto o non ancora) ci accontentiamo, sempre per citare il Papa,di promesse illusorie, scuse o alibi”. E stiamo ad aspettare a braccia conserte l’aiuto di Ong, piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai, o che, se arrivano, lo fanno in modo tale da andare nella direzione o di anestetizzare o di addomesticare”. E questo, dice ancora Bergoglio, “questo è piuttosto pericoloso”. Perché “non si può affrontare lo scandalo della povertà promuovendo strategie di contenimento che unicamente tranquillizzano e trasformano i poveri in esseri addomesticati e inoffensivi”. E noi siam tutti contenti per quegli sporchi 80 euro promessi da Renzi. O per l’elemosina alle mamme data mentre si tagliano asili e servizi sociali.
Perché siamo addomesticati. E la colpa è anche e soprattutto di chi fa il mio mestiere. Di chi dovrebbe avere un’etica professionale. E invece contribuisce, godendo delle briciole elargite dai ricchi e potenti padroni, al rincoglionimento generale, all’addomesticazione di chi subisce una delle peggiori diseguaglianza sociali che la storia recente ricordi. “Non si dicono le parole con precisione, e la realtà si cerca nell’eufemismo. Una persona, una persona segregata, una persona accantonata, una persona che sta soffrendo per la miseria, per la fame, è una persona senza fissa dimora; espressione elegante, no? Voi cercate sempre; potrei sbagliarmi in qualche caso, ma in generale dietro un eufemismo c’è un delitto”, sempre Papa Francesco.
Siamo messi male perché mancavano le manganellate della polizia al segretario della Fiom per farci tornare in tutto e per tutto agli anni ’50. O forse no, anche peggio. Perché in quegli anni la solidarietà c’era. Oggi è una brutta parola.
Forse, per non essere del tutto pessimisti, possiamo guardare a quel milione di persone che sono state in piazza San Giovanni sabato scorso. E che hanno portato un po’ di vento nella stagnazione delle intelligenze. Ma abbiamo bisogno “che questo vento si trasformi in uragano. Di speranza”.
Oh, lo dice il Papa, non un pericoloso sovversivo. E fors’anche per questo siamo messi malissimo.

(qui il fondamentale discorso di Bergoglio all’Incontro mondiale dei Movimenti Popolari tenutosi in Vaticano ieri)

L’Altra Europa–Umbria: manifesto-appello per un percorso comune della sinistra


Il nostro Paese sta attraversando una delle stagioni più drammatiche della sua storia repubblicana. Il perdurare della crisi economica sta progressivamente determinando una radicale trasformazione degli assetti produttivi: dismissione e delocalizzazione di interi comparti industriali; accentramento delle proprietà agricole a scapito di decine di migliaia di piccoli produttori; riduzione della domanda interna; smantellamento dei servizi a seguito dei tagli alla spesa pubblica. A questo si accompagnano un’inarrestabile calo dell’occupazione, un ricorso illimitato alla cassa integrazione (nel 2013 oltre un miliardo di ore), una progressiva precarizzazione dei rapporti di lavoro.
Questo processo recessivo, che da anni i governi non sono in grado o non vogliono contrastare, si intreccia strettamente con una profonda riarticolazione delle Istituzioni pubbliche, dove la riduzione degli spazi di democrazia, l'accentramento dei poteri decisionali negli organismi centrali di governo, la riduzione delle risorse per i servizi essenziali e la privatizzazione dei beni comuni costituiscono di fatto un nuovo paradigma di potere, al servizio della finanza globale anziché della popolazione. E il trattato TTIP, segretamente discusso tra UE e USA, renderà questo potere ancor più inattaccabile.
L'Umbria, nel corso di questi anni, ha percorso fino in fondo questa strada, guidata da classi dirigenti che, lungi dal contrastare il disegno neoliberista e neoautoritario imposto dalla Troika e attuato dai governi nazionali, hanno promosso una stagione di riforme in contrasto con i bisogni e le aspettative della cittadinanza, con le conseguenze che oggi possiamo misurare. Infatti la regione Umbria:
- incapace di sviluppare un’adeguata politica industriale, ha subito le scelte delle multinazionali presenti nel suo territorio; non una delle vertenze apertesi in questi anni (Basell, Merloni, Sgl Carbon, IMS, AST, ecc.) ha trovato risposte adeguate in termini industriali ed occupazionali)

- ha promosso una politica energetica sregolata e devastante per l'ambiente regionale e per la salute degli abitanti (proliferazione di impianti a biomasse, ripresa delle attività d'incenerimento dei rifiuti, mancato raggiungimento degli obiettivi di raccolta differenziata..ecc.,

- ha approvato, con soli 5 voti contrari la trasformazione della E45 in autostrada, ennesima grande opera inutile e dannosa per il nostro territorio e la sua economia.

- ha realizzato la svendita e la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi, facendo perdere progressivamente alla popolazione il potere di controllo sul territorio in cui vive (commistione tra pubblico e privato in servizi pubblici come l’acqua e i rifiuti, vendita di Umbria Mobilità)

- non si è opposta in alcun modo ai tagli alla spesa pubblica che hanno portato nel giro di pochi anni alla fine del modello di welfare regionale con cui l'Umbria garantiva una qualità della vita maggiore di quella media nazionale.
Gli umbri pagano un prezzo della crisi più alto rispetto a quello di altri territori, anche grazie al decadimento morale di una classe politica che ha scelto di legare i propri destini a quelli dei poteri forti. Ma c'è un'alternativa alla crisi del sistema di governo della nostra regione. Un'alternativa ispirata ai principi di uguaglianza e di giustizia sociale, che pone al centro l'individuo anziché il profitto, che fa della democrazia non solo una richiesta ma una pratica interna, con l'obiettivo di aprire il confronto sui grandi temi irrisolti nel governo regionale e nazionale e fornire risposte concrete alla domanda di diritti e di dignità sottesa al dramma sociale in corso nel Paese.
La recente esperienza, alle elezioni europee, dell'Altra Europa con Tsipras dimostra l'esistenza di uno spazio dentro cui tale alternativa al populismo ed al neoliberismo può prender corpo anche nella nostra regione, dando vita ad una processo innovativo dove le storie individuali e collettive possano trovare una nuova e più autorevole sintesi.
Lavoro, diritti, ambiente, salute, giustizia sociale, beni comuni, cultura, democrazia: su queste grandi questioni intendiamo costruire una proposta in discontinuità con il presente. Per questo facciamo appello a tutte le soggettività che hanno animato la proposta politica dell'Altra Europa ed a quanti credono nella necessità di inaugurare una nuova fase nella nostra regione, affinché partecipino alla costruzione di una proposta politico-programmatica per il governo dell'Umbria, coerente con i principi ed i valori espressi dalla lista alle scorse elezioni europee. Solo ponendo al centro l'elaborazione politica dei territori potremo dare alla nostra regione una nuova speranza di cambiamento e sviluppare finalmente quel processo di ricostruzione di un’opposizione politica e sociale capace di rispondere adeguatamente all'attacco ai diritti ed alla democrazia perpetrato dal Governo nazionale.
È tempo di rimettersi in cammino. È tempo di lavorare per un’Altra Umbria in un’Altra Europa.

Incontriamoci 
SABATO 1 NOVEMBRE alle 15.30 
nella sala Conti,  presso CGIL regionale, 
via del Bellocchio 26, Perugia 
(dietro la stazione ferroviaria di Fontivegge).

“Lo abbiamo messo lì per questo” Di ilsimplicissimus


Renzi, assalto agli operai - Il simplicissimusLe parole di Marchionne sull’ascesa di Renzi prima nel Pd, grazie a una valanga di soldi giunti in busta paga al guappo di Rignano  e poi a Palazzo Chigi –  “lo abbiamo messo lì” – ritrovano tutto il loro senso dopo il pestaggio di ieri degli operai della Ast di Terni. E per molti evidenti motivi che la canea dei media di regime e il regime talkshottaro tende a nascondere: ossia la natura di messaggio lanciato al Paese dal premier fasciopiddino, la valenza simbolica dell’evento.
Intanto si trattava di una manifestazione degli operai della Ast di Terni contro i 500 licenziamenti previsti dall’azienda: è stato fatto capire loro che nemmeno i morituri hanno diritto a manifestare, nemmeno pacificamente come in effetti stavano facendo venendo di fatto aggrediti
In secondo luogo la Ast è un’azienda del gruppo ThyssenKrupp, quella della strage di Torino, il cui gauleiter, alias amministratore delegato, fu applaudito a scena aperta nella tana degli sciacalli, ossia in un assemblea di Confindustria. Si tratta dunque di un segnale indiretto, ma chiarissimo sul piano psicologico, su chi davvero comanda e tira i fili del potere, propina l’orrida ribollita renziana. E su chi aspira ad essere elevato al di sopra della legge, nazi di fare la legge nascondendosi dietro i portaborse della politica .
Infine alla manifestazione erano presenti in prima fila  alcuni leader sindacali tra cui Landini: è stato fatto loro capire che possono essere direttamente colpiti se per caso volessero fare sul serio. E questo a pochi giorni dall’attacco a testa bassa contro il sindacato di Renzi, dell’amichetto Serra e di tutto il politicume inguardabile e cialtrone della Leopolda
Questi tre elementi acquistano l’evidenza cristallina del messaggio trasversale proprio perché le cariche sono state del tutto gratuite, quasi volute a freddo, senza alcun motivo ed è inutile nascondersi dietro assurde giustificazioni, come quella che gli operai si stessero dirigendo verso la stazione Termini. Totalmente falsa perché il realtà si trattava di evitare una sosta degli operai davanti al ministero delle Attività economiche dove la Guidi e la Morselli, dirigente Ast , due sciacalline griffate, trattavano sulla vicenda. Ma poi anche se fosse che cosa cambia se andavano alla Termini? E’ un falso problema chiedersi se vi siano stati errori da parte dei dirigenti presenti  o se invece vi fossero indicazioni precise di reprimere la protesta contro i licenziamenti: certi ordini non c’è bisogno di specificarli, sono nelle cose, nei twitter, sui giornali in cui si glorifica il massacro del lavoro facendo finta di correre in suoi soccorso. Si raccolgono dalle atmosfere e dalle parole d’ordine. Cadono poi su poliziotti esasperati e ancora una volta presi in giro sui fantomatici aumenti, promessi e smentiti, di nuovo promessi e di nuovo negati. Il che ovviamente lascia spazio alle posizioni del sindacato semi fascista Sap che fa la voce grossa, ma che difendendo anche le più orrende azioni di qualsiasi mela marcia(vedi caso Aldrovandi)  crea l’alibi, il contesto e il pretesto per i raggiri governativi. O per il ricatto: pestate la gente in cambio di quattro soldi.
E’ un circolo vizioso, un’ altra miccia accesa contro la democrazia. Ma i fatti di ieri, le dichiarazioni della fascistella senza testa  Cocorito Picierno, i giuramenti di stare a tutti i costi col governo, la stessa chiarezza del pizzino mandato al Paese, ci dicono che non c’è nulla da attendersi dal Pd che è ormai un coacervo di interessi personali , di istanze della destra più pura e nel migliore dei casi non riesce ad esprime che muffosi tatticismi. 
La scissione l’hanno fatta, ma col Paese.

Crisi, aumentano i supermiliardari nel mondo. Italia tra le nazioni in cui aumenta il divario tra ricchi e poveri

Dall'inizio della crisi finanziaria, il mondo si trova a fare i conti con super-ricchi più che raddoppiati e 805 milioni che ancora soffrono la fame. E pensare che . con solo l'1,5% delle super-ricchezze si potrebbe garantire istruzione e sanità a tutti i cittadini dei Paesi più poveri. ''Nella sola Italia, secondo l'Ocse, da metà degli anni '80 fino al 2008, la disuguaglianza economica è cresciuta del 33% (dato più alto fra i Paesi Ocse, la cui media è del 12%).
Al punto che oggi l'1% delle persone più ricche detiene più di quanto posseduto dal 60% della popolazione (36,6 milioni di persone); mentre dal 2008 a oggi, gli italiani che versano in povertà assoluta sono quasi raddoppiati fino ad arrivare a oltre 6 milioni, rappresentando quasi il 10% dell'intera popolazione. A mettere nero su bianco ricchezza e povertà è il rapporto di Oxfam, "Partire a pari merito: eliminare la disuguaglianza estrema per eliminare la povertà estrema", che parla di un fenomeno talmente esteso che si può riscontrare perfino in Africa, dove nella regione sub-sahariana al fianco di 358 milioni di persone in povertà estrema, prosperano ben 16 miliardari.
Il rapporto sottolinea come, a causa della crescita della disparità di reddito in molti Paesi del mondo, i benefici della crescita economica non raggiungano grandi fasce di popolazione, ma si fermino a una élite che dispone di più ricchezza di quanta possa materialmente consumarne nell'arco di generazioni.
Tra il 2013 e il 2014, le 85 persone più ricche al mondo (che, secondo un dato già diffuso da Oxfam lo scorso gennaio, hanno la stessa ricchezza della metà della popolazione più povera al mondo) hanno collettivamente aumentato la loro ricchezza di 668 milioni di dollari al giorno. Ovvero, quasi mezzo milione di dollari ogni minuto.
''Questi dati ci mostrano una realtà che non possiamo evitare di vedere: l'estrema disuguaglianza economica oggi non è uno stimolo alla crescita, ma un ostacolo al benessere dei più - commenta Winnie Byanyima, Ddrettore esecutivo di Oxfam International - Finché i Governi del mondo non agiranno per contrastarla, la spirale della disuguaglianza continuerà a crescere, con effetti corrosivi sulle istituzioni democratiche, sulle pari opportunità e sulla stabilità globale''.
Ogni anno ci sono 100 milioni di persone che cadono in povertà perché costrette a pagare per l'assistenza sanitaria e milioni di bambini che non hanno la possibilità di andare a scuola – continua Winnie Byanyima - Per Oxfam porre l'attenzione sulla crescita incontrollata della disuguaglianza economica estrema non significa voler puntare il dito contro i più ricchi, ma stimolare i leader globali a mettere in atto politiche efficaci ad assicurare alle persone più povere la possibilità di giocare a pari merito la partita per migliorare la propria esistenza".
Tra le raccomandazioni delineate da Oxfam nel rapporto di ricerca, che ha ricevuto, tra gli altri, gli apprezzamenti di Kofi Annan, Jeffrey Sachs e Joseph Stiglitz: la necessità che gli Stati de Mondo promuovano politiche tese a garantire un salario minimo dignitoso, a ridurre il divario tra le retribuzioni di uomini e donne, ad assicurare reti di protezione sociale e accesso a salute e istruzione gratuite per i loro cittadini.

NON SIAMO DALLA STESSA PARTE, di Alessandro Robecchi

Due o tre cose su antichi gettoni e moderni manganelli

Ecco, ci siamo. Era fatale che lo scontro da teorico diventasse molto pratico. Dico subito che non mi piace. In generale non mi piace veder menare nessuno, e meno di tutti i più deboli. Nel caso, lavoratori con una lettera di licenziamento in tasca, persone che sono davvero davanti al dramma, gente che probabilmente vede benissimo – meglio di me – la differenza tra il fighettismo glamour della Leopolda e le proprie vite. Una differenza dickensiana, quasi.
A questi uomini (uomini perché lavorano l’acciaio, ma anche alle donne, ovvio) si è detto di tutto in questi sei mesi di governo. Che sono vecchi, che il loro posto fisso (l’unica cosa che hanno, e la stanno perdendo) non è più un valore, anzi che sembra un peso per il Paese.
Si è citato ad esempio Sergio Marchionne (quello che cacciava gli operai con la motivazione che erano della Fiom), si è data tribuna (e applausi) a un finanziere che vive a Londra invitato a dar lezioni a chi guadagna facendosi il culo un centesimo di quel che guadagna lui. Si sono insultati i sindacati dei lavoratori, e non parlo della gag dei gettoni (non solo), ma dell’eterno, ripetuto, ossessivamente reiterato fastidio per “i corpi intermedi”, la trattativa, il dialogo. Anche oggi, questa mattina, un’esponente del nuovo Pd ha accusato la Cgil di tessere false (poi retromarcia imbarazzante, ma è tutto imbarazzante, francamente). Il Premier è andato in televisione a dire che “l’imprenditore deve poter licenziare quando vuole”. Persino la legge di stabilità che abbassa le tasse agli imprenditori (la famosa Irap), fa sconti miliardari senza chiedere alcun vincolo, alcun impegno ad assumere. Anzi, si cancella l’ultimo barlume di argine a una politica da Far West nel mondo del lavoro. Segnali. Dieci, cento, mille segnali. Fatti, con schermaglie da social network o freddure buone per twitter. O frasette di facile presa come quelle dei Baci Perugina (come dice giustamente Maurizio Landini: "slogan del cazzo"), o per scempiaggini come "Questo è il governo più di sinistra degli ultimi 30 anni" (Renzi, febbraio 2014).
Ora il problema non è più “due sinistre”, ammesso che ci sia mai stato.
Ora il problema è che per quelli in piazza oggi e per moltissimi lavoratori (non solo quelli del 25 ottobre) il Pd che sta governando, quello leopoldo e chic, quello amico di Marchionne e Davide Serra, quello che va in visita da Cameron e dice che il lavoro in Italia è ancora troppo rigido, questo governo che fa i patti con Berlusconi, applaudito da Ferrara e da Confindustria, non è più un riferimento.

Nemmeno un lontano parente. Se c’era un sottilissimo cordone ombelicale con il vecchio Pci (e successive modificazioni) non c’è più. Per sempre.
Mi dicono che la destra sta strumentalizzando, mi si segnalano (dall’interno del modernissimo Pd renziano, tra l’altro) tweet di Salvini e della Meloni. Ma… Ma quello che va detto è che oggi per uno che lavora male, pagato male, incerto sul suo futuro, spaventato, e perdipiù insultato (vecchio, conservatore, dinosauro…) le differenze tra la Meloni e Renzi, tra Salvini e Poletti, tra Verdini e la Boschi sono impalpabili, inesistenti. La politica sul lavoro è la stessa, basta vedere gli applausi di Sacconi al Jobs act. Persino lo scherno e il disprezzo verso chi lavora somiglia a quelli della destra più retriva. Operaio, fabbrica, vengono trattate come parole antiche e volgari, senza alcun rispetto (e non dico sacralità, quello era il vecchio Pci ideologico, brutto, sporco e cattivo: meglio Fanfani ci hanno detto di recente).
Ecco, ci siamo.
Il coraggio di dire: non siete più dei miei, nemmeno lontanamente viene dunque dalle cose reali, non è un vezzo (diranno: nostalgia, gettoni, anni Settanta, tutte cose che non c’entrano niente), ma un dato di fatto. Ora - a parte i soldatini zelantissimi più renzisti di Renzi - arrivano da quella parte, la parte del governo inviti alla calma, alla freddezza, ad "abbassare i toni". Potrebbe essere tardi.
Quando uno dice frasi come “chiudere senza salvare” deve sapere che c’è chi ha pochissimo da salvare, ma proprio perché pochissimo molto molto prezioso.
 
Lo scontro ci sarà, è inevitabile, si può solo sperare che nessuno si faccia male come oggi. Ma una cosa è certa: nessuno potrà dire all’altro “siamo dalla stessa parte”.
Perché non è vero.