domenica 3 febbraio 2013

Il Re è (sempre più) nudo di Sandro Moiso, Carmillaonline.com

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Chi si occupa d’affari, impiegato in una banca, non è padrone di se stesso. La banca viene prima di tutto” (Charles Dickens, Una storia tra due città, 1859)
Non più di tre settimane or sono, su queste pagine, si è accennato alla regalia di svariati miliardi di euro che il governo in carica stava approntando per la più antica banca italiana in cambio di un pugno di carta straccia dato in garanzia del prestito. L’esplodere dello scandalo derivati e il susseguente scambio di accuse tra Ministro del Tesoro, Bankitalia, Monti, PD e quant’altri ancora non ha fatto che confermare quanto allora si era già sinteticamente affermato.
Poiché intorno al caso si è sviluppata una ridda di ipotesi e di giudizi, spesso sfocianti nella vera e propria canea populista, forse, sarebbe il caso di soprassedere per non correre il rischio di suonare una musica già eseguita o scritta da altri. Ma il caso Monte dei Paschi è paradigmatico dell’attuale situazione economica e politica italiana e soltanto per questo vale la pena di essere ancora tirato in ballo, sulla base di uno spartito che nessun altro sembra oggi voler suonare.
Si è spesso insistito, proprio qui su Carmilla, sugli interessi e gli intrecci politico-finanziari che agiscono al riparo delle cosiddette politiche del rigore e che vedono stretti in un mortale abbraccio i principali protagonisti della scena economica e politica nazionale. Così come si è anche insistito sulla sostanziale unitarietà di intenti che muove, al di là degli strombazzamenti demagogici, gli schieramenti politici principali. Senza quasi alcuna differenza tra sinistra (PD – Sel), centro (Monti e associati) e destra (PDL- Lega).
Il Monte dei Paschi è una delle principali banche italiane (la terza per ordine di importanza dopo Intesa San Paolo e Unicredit) e, anche se è difficile dimostrarlo, probabilmente ha costituito per anni un autentico "valore aggiunto" per la sinistra istituzionale italiana ( e non importa che negli ultimi anni il controllo politico sia passato attraverso la fondazione più che attraverso il vero e proprio CdA). Una vera e propria Camelot finanziaria nel cuore di una delle regioni più “rosse”, se per rosso vogliamo intendere il PCI-DS-PD. In una città in cui il peso politico della famiglia Berlinguer non è da considerarsi secondario e in una regione in cui il peso della massoneria si è fatto sentire pesantemente anche tra le fila della sinistra (e di cui Fabio Mussi divenne una delle vittime politiche “illustri” quando osò chiedere ai rappresentanti DS della sua circoscrizione elettorale di rendere pubblica la propria eventuale appartenenza alle logge massoniche).
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Si è parlato a lungo, in anni recenti, di inciuci, soprattutto tra D’Alema e Berlusconi, per tutto quanto riguardasse i diritti televisivi o le proposte di riforme costituzionali. Ma il tutto sembrava sempre arenarsi in una critica moralistica di scelte tattiche individuali, che la parte sana della sinistra istituzionale (Bersani? Renzi?) avrebbe prima o poi saputo rintuzzare o rimuovere del tutto.
Una più attenta analisi materialistica dei fatti sociali, economici, politici e culturali, però, non permette a tale spettacolino di critica dell’aria fritta di funzionare realmente come spiegazione delle scelte politiche attuate da maggioranza e opposizione.
Una Camelot che, però, come uno dei regni ideati da George R. R. Martin per il suo infinito “Game of Thrones”, nasconde intrighi, legami ambigui, corruzione e tanta, tanta spazzatura sotto forma di derivati e titoli tossici. E che, magari, ha contribuito in passato alla realizzazione delle Milano 2 e 3 di Berlusconi o, in tempi più recenti, a celare i conti privati attraverso cui retribuire le “olgettine”. Cose risapute dopo gli ultimi giorni? Certo, ma utili a comprendere quale infinita ragnatela finanziaria legasse tra di loro lo squalo di Arcore e i moralizzatori del PD.
Ecco allora che gli interessi bancari e finanziari, una volta giunti alla luce del sole, danno forma concreta alle scelte delle parti in causa. Spiegano il perché dell’assoluta mancanza di opposizione politica reale alle strategie predatorie di Berlusconi prima e di Monti poi.
E spiegano anche come mai individui come Mario Draghi siano passati dalla direzione della Banca d’Italia alla BCE nel plauso generale della sinistra istituzionale.
Discorso che vale anche per la rapida ascesa politica dei professori della Bocconi.
Le banche, gli interessi bancari, le operazioni di salvataggio sono cose e fatti concreti. Il luogo privilegiato delle reali alleanze o delle reali guerre tra gli avvoltoi del capitale finanziario.
E che questa autentica bolla di merda, più che finanziaria, esploda tra le mani e in faccia al PD in questo periodo di convulsioni elettorali è tutt’altro che casuale. Lo scontro tra i cosiddetti poteri forti sta raggiungendo il parossismo, oltre che i vertici del ridicolo, ma tant’è.
Nessuna delle grandi nazioni imperialistiche (Stati Uniti e Gran Bretagna in testa) è passata attraverso la crisi successiva al 2008 senza un autentico bagno di sangue bancario. Autentici colossi bancari sono scomparsi o sono stati riassorbiti da altri gruppi finanziari ( come nel caso dell’americana City Bank oppure della Lehman Brothers). Il capitale finanziario si è salvato, ma a prezzo di non salvare tutti. Qualcuno, e per una volta tanto non solo i lavoratori, ci ha rimesso, metaforicamente, le penne.
Per chi segua, anche solo superficialmente, le vicende del mondo finanziario e bancario nazionale è da tempo evidente che, nonostante la rapina continua ai danni dei contribuenti e dei lavoratori, non appare possibile continuare a salvare capra e cavoli. Qualcuno, qualche istituto potrebbe essere giunto all’ultimo giro di valzer, ma occorre decidere chi dovrà saltare. L’affaire Monte dei Paschi, al di là delle rassicurazioni messe in atto dal CdA o dallo stesso Presidente della Repubblica, sembra quindi svolgere proprio questa funzione: arrivare ad una prima resa dei conti nel mondo dell’alta finanza e delle banche più importanti.
E se non fosse così non si capirebbe come, per la prima volta, all’interno dell’ex-governo tecnico, possa manifestarsi un così grave attrito tra il ministro del Tesoro (Grilli) e lo stesso Monti, costretto a scaricare in fretta e furia ogni responsabilità politica sull’amato-odiato PD.
In tempi di vacche magre la regalia miliardaria al Monte proprio non è andata giù a qualche concorrente. Da qui il precipitare della crisi.
Anche se sorge, talvolta, il dubbio che lo scontro Monti – Bersani degli ultimi giorni risponda più all’esigenza di ravvivare, probabilmente su suggerimento di David Axelrod (il vero e proprio consigliori di Obama, prestato attualmente alla politica italiana), i toni di una campagna elettorale moscia e distante dai problemi reali dell’elettorato, piuttosto che ad uno scontro reale tra le due fazioni. Utile sia a Monti che a Bersani per mostrare muscoli che oggettivamente non ci sono.
Comunque chi governerà dovrà decidere che fare dell’istituto di credito più antico del mondo e le attuali montagne russe borsistiche in cui sale e scende il valore del titolo del banco senese sembrano indicare che la partita per il controllo o per l'affondamento dell'istituto si è aperta e continuerà senza esclusione di colpi nelle settimane a venire.
Uno dei principali motivi addotti per giustificare l’attuale situazione di crisi dell’istituto di Siena è direttamente collegato all’errato acquisto del Banco Antonveneto, pagato circa dieci miliardi di euro a fronte di un valore reale di tre. Ora le questioni sono due: o i colossi bancari sono guidati da incapaci totali che sbagliano di “soli” 7 miliardi la valutazione dell’oggetto da acquistare oppure c’è dell’altro. Altro che va nascosto premurosamente come polvere sotto il tappeto (tanto per usare una metafora cara a Bersani).
Le indagini inerenti all’acquisto di Antonveneto vertono, guarda caso, sempre più sulle operazioni che l’hanno accompagnato e che hanno portato ad una perdita complessiva di circa 17 miliardi di euro. A tal proposito sempre più spesso si accenna a “capitali occulti” e a manovre tese a nascondere i precedenti buchi di bilancio oltre che vere e proprie mazzette, in cui sarebbero coinvolti anche giganti finanziari internazionali come il Banco Santander e JP Morgan. Insomma, a ben guardare, tutta l’operazione potrebbe essere servita a nascondere enormi partite di giro in cui o si fingeva di maneggiare capitali inesistenti (scomparsi magari in qualche investimento creativo in titoli spazzatura) oppure si mandavano al “macero” capitali che non avrebbero potuto esistere nei conti reali a causa della loro dubbia origine.
Sotto il profilo giuridico la questione è poi un po’ più complessa poiché nel primo caso (inesistenza dei capitali dichiarati) si è di fronte ad una frode fiscale, magari aggravata, ma comunque sempre tale. Nel secondo (messa in circolazione di capitali occulti) si entra in un altro settore ovvero in quello delle economie occulte, per dirla in altre parole nel settore del riciclaggio dei capitali. In entrambi i casi l’accusa sarebbe di falso in bilancio e turbativa del mercato, ma nel secondo, valida o meno che sia tale ipotesi nel caso in questione, si aprirebbe un discorso troppo spesso lasciato cadere anche da chi si occupa professionalmente delle mafie ovvero quello dell’intreccio infernale tra finanza nazionale ed internazionale ed economie illegali.
Qui non si sta parlando delle Cayman o dei conti in Svizzera, ma delle operazioni e delle transazioni finanziarie che avvengono quotidianamente alla luce del sole tramite la borsa e le banche. E che in caso di “errori” troppo grossolani possono essere rifinanziate, in parte o in tutto, da Pantalone ovvero dallo stato oppure essere scaricate semplicemente sulle spalle dei piccoli risparmiatori raggirati dalle promesse dei promotori finanziari. Parafrasando Springsteen: “Darkness at the edge of capitalism”.
Il sistema del credito pubblico, ossia dei debiti statali, le cui origini possono essere rintracciate sin nel Medioevo, a Genova e Venezia, si estese, nel periodo della manifattura, a tutta l’Europa, e trovò nel sistema coloniale, con il suo commercio pei mari e con le sue guerre di mercato, la propria serra calda. [...] Il debito pubblico, vale a dire l’alienazione dello stato – dispotico, costituzionale o repubblicano – imprime il suo marchi all’era capitalistica” (K. Marx, Il Capitale, vol.I, cap.XXIV). Fin qui Marx, il quale vedeva in questa alienazione dello stato un significativo impulso allo sviluppo delle attività manifatturiere ed imprenditoriali private.
Peccato che oggi tale alienazione, come si è già detto altre volte, sembri mirare soltanto al vantaggio di intascare denaro cash, fresco e pronto per coprire le proprie perdite o incrementare i propri guadagni attraverso la pura e semplice speculazione finanziaria. Insomma: “prendi i soldi e scappa “ e senza neanche ringraziare (ovvero senza lasciare dietro alcuna forma di investimento produttivo). Così, da questo punto di vista, la coincidenza degli scandali attuali con l’anniversario della morte dell’Avvocato Gianni Agnelli ha veramente del sublime.
Il più noto rappresentante della famiglia e del gruppo finanziario più ingrassato dallo Stato nella storia d’Italia, viene oggi celebrato come cittadino, senatore ed imprenditore modello.
Prego signori: applausi, trombette, tricche-tracche e petardi a go-gò! E sì, perché è vero: Agnelli non può che essere il modello di riferimento nell’Italia di Marchionne, Marcegaglia, Luca Cordero di Montezemolo, di Monti e Fornero. Prendi i soldi, fatti regalare le industrie e milioni di ore di cassa integrazione e poi scappa ad acquistare qualcos’altro dall’altra parte del mondo!
Bene! Bravi!! Bis e Tris!!!
Ma torniamo alla nostra banca, al nostro casus belli.
E’ la più antica d’Italia, forse del mondo. Si potrebbe pensare ed affermare che il Monte dei Paschi è nato con il capitalismo che, piaccia o meno, è nato qui da noi, nell’Italietta medievale. Mercatura, lettere di credito, usura rubata agli ebrei ( quando ancora la Chiesa riteneva che qualsiasi prestito ad interesse costituisse peccato mortale e relegava tale attività a quelle consentite agli ebrei, dopo aver fortemente limitato la loro presenza nei commerci mediterranei) e trasformata in attività redditizia e rispettabile (attraverso la creazione di un Purgatorio, prima inesistente nel manicheismo cristiano, che permettesse ai banchieri di farsi perdonare i peccati monetari, come ha ben dimostrato Jacques Le Goff). E, pensa un po’, tale vera e propria nascita della banca avvenne proprio lì in Toscana. Patria di Dante, Boccaccio e del capitale finanziario. Storia lunga eh?!
La si studia sui banchi di scuola, anche in storia della letteratura quando si parla del giovane Boccaccio avviato alle attività di mercatura dal padre. Ma si sa, i docenti di lettere, accecati dalla metrica e dalle figure retoriche, si perdono, come al solito, la sostanza. Ovvero che il capitalismo italiano è nato rentier. Nasce sulla rendita, sulla speculazione, sul prestito ad interesse lasciando che fossero poi gli altri a sudare per estrarre carbone, inventare le macchine a vapore e darci dentro con investimenti, muscoli, fatica e rischio. Al capitalismo nostrano bastava la rendita.
Con cui, poi, comprare terre e titoli onorifici. Fingersi nobili, pur rimanendo borghesi e inventando le regole del “Cortegiano” e del “Galateo”. Povero Machiavelli, non è mai stato il padre nobile della politica italiana. Alla nostra borghesia sono bastati il “particulare” di Guicciardini e i trattati di Baldassarre Castiglione e Giovanni Della Casa. E anche povero Gramsci: non aveva proprio capito che con maestri del genere non avrebbe mai potuto esserci una vera rivoluzione nazionale! Al massimo una presa di distanze da vicini troppo invadenti contro cui far giocare a proprio vantaggio le mire espansionistiche di altri. La storia dei Savoia e del Regno di Sardegna, insomma.
In fin dei conti che necessità c'era una rivoluzione borghese? Il nostro capitalismo era già nato “moderno” e saltando la fase “eroica” dell’accumulazione era passato direttamente allo svuotamento delle casse altrui e dello stato senza perder tempo in pargoleggiamenti industriali.
Perché seguire lo schema D – M - D¹ là dove era possibile pensare a D - D¹- D²?!
Che poi questo non funzioni sul lungo periodo, chi se ne frega! Il capitalismo è la civiltà del qui e subito (per chi dispone di capitali) e “del doman non v’è certezza” come cantava il Magnifico.
Insomma questo capitalismo italiano è strutturalmente così, geneticamente portato all’investimento di rendita (proprietà terriera, immobiliare, speculazione borsistica e finanziaria, svuotamento delle casse dello Stato) fin dalle origini. E se il Monte dei Paschi si vanta di essere la più antica banca del mondo, le banche italiane, che affondano la loro esperienza nella mercatura medioevale, possono vantare una delle più solide tradizioni di interazione con gli affari di Stato e di acquisizione di prebende, commissioni e lauti guadagni a spese dei cittadini e dei piccoli investitori. Oltre che, naturalmente, di una lunga storia di fallimenti e raggiri, quasi sempre impuniti.
E fin dagli albori dello stato unitario i titoli di stato hanno fatto la parte del leone tra gli investimenti dei nostri possidenti. Vale la pena, forse, di fare qui qualche esempio.
Fin dagli inizi dello Stato italiano i governi hanno fatto sempre ricorso ad un aumento dei rendimenti dei titoli di stato rispetto a quelli esteri, in media 4 punti percentuali in più tra il 1862 e il 1913, per “finanziare” il proprio debito. Nelle loro frequenti operazioni di collocamento di titoli all’estero, le autorità italiane fanno affidamento soprattutto sulla potente banca francese Rothschild.
Ma questa scelta finirà con il condizionare pesantemente la continuità di flussi di capitale.
Infatti, l’annuncio di una nuova guerra con l’Austria, nel 1866, farà emergere un rischio-paese nelle considerazioni della finanza internazionale e i titoli pubblici italiani crollano sulle borse europee ed in particolare in quella francese, di importanza vitale per l’Italia. Proprio sulla piazza di Parigi il principale titolo italiano dell’epoca (Rendita Italiana) vede scendere le proprie quotazioni da 80 a 65,4 tra il 1860 e il 1865; per poi crollare a 43,9 nel 1866. Così il divario negativo tra quotazioni interne ed estere degli stessi titoli pubblici italiani crea grandi occasioni di speculazione tra i detentori italiani dei titoli stessi.
Infatti molto correranno a rivenderli alle banche stesse in cambio di moneta metallica (aurea o argentea) per poi riacquistare gli stessi titoli a prezzi stracciati sulle piazze estere e poi rivenderli ancora ( a prezzo intero) sulle piazze italiane. Già povere di metallo le principali banche italiane (la Banca nazionale Toscana e la Banca nazionale degli Stati Sardi) dovranno far fronte ad un rapido prosciugarsi delle loro riserve metalliche. Così, cinque anni prima che Roma diventasse capitale, per salvare anche le “case più accreditate” il decreto governativo n. 2873 del primo maggio 1866 dichiara la carta moneta non più convertibile in metallo a partire dal giorno successivo.
Solo nel 1880 e nel 1927 si tornerà a parlare di ripristino della convertibilità, ma in entrambe le occasioni rimarrà un obiettivo sfuggente.
In qualche modo le stesse banche principali , come la BN degli Stati Sardi, avevano finanziato la “propria crisi metallica” mantenendo saggi di interesse inferiori ai tassi dei titoli di stato. In questo modo risultava conveniente per gli speculatori contrarre dei prestiti per acquistare e rivendere titoli con il sistema sopra esposto. Come premio per questa abile amministrazione le banche più importanti, BNSS in testa, ottennero, di fatto, di diventare tutte banche di emissione con la facoltà di emettere carta moneta non convertibile con cui concedere prestiti allo Stato.
Ma sarà il primo conflitto mondiale a vedere crescere a dismisura il debito pubblico attraverso un’emissione di titoli di stato destinati più ad ingrassare i grandi investitori e a permettere un’espansione industriale finanziata quasi tutta dalla spesa statale.
I cinque prestiti di guerra lanciati tra il gennaio 1915 e il marzo 1918 significarono non soltanto un gigantesco incremento del debito pubblico italiano, ma anche una lauta occasione di guadagno per gran parte della finanza e dell’imprenditoria italiana che poté beneficiarne. Ma procediamo con ordine.
La prima guerra mondiale segnò di fatto il trionfale primato del capitale finanziario su quello industriale, quello che in quegli anni Lenin intitolò come “Imperialismo, fase suprema del capitalismo”. Il fabbisogno finanziario del primo conflitto mondiale sopraffece i sistemi fiscali di tutti gli stati belligeranti. Nessuno dei maggiori protagonisti del conflitto riuscì a coprire più di un quarto delle spese di guerra con il prelievo fiscale. La spesa complessiva dei belligeranti ammontò ad una cifra valutabile intorno ai duecento miliardi di dollari, calcolata su base aurea. Spesa che risultò di cinque volte superiore a quella degli anni precedenti il 1914 e pari a cinque volte il totale dei debiti pubblici all’inizio del conflitto. L’esborso complessivo equivalse a sei volte e mezza la somma di tutti i debiti pubblici accumulati nel mondo dalla fine del XVIII secolo all’agosto del 1914. WW1.jpg
Nella specificità italiana si può rilevare come il debito pubblico verso l’estero passasse dai 7,4 miliardi di lire del 1917 ai 66 del 1918 e ai 101 del 1924, mentre il debito verso l’interno, a media e lunga scadenza, cresceva dai 14,8 miliardi di lire del 1914 ai 34,4 del 1919, fino ai 60 del 1924. I buoni ordinari del Tesoro, infine, passarono, dai 380 milioni di lire del 1914 ai 15 miliardi del 1919 e ai 22 miliardi del 1924. Anche se, aggiungendo a questi ultimi altri titoli a breve scadenza, si passerà complessivamente da un debito statale di 15 miliardi e 766 milioni di lire del 1914 ad un debito di 194 miliardi e 384 milioni nel 1924. Soltanto tra il 1917 e il 1918 il disavanzo statale aveva superato del 60% il reddito nazionale.
In cosa consiste, però, la specificità italiana, visto che anche le altre nazioni belligeranti avevano dovuto ricorrere in gran parte all’emissione di titoli di stato per finanziare lo sforzo bellico?
L’esempio della Gran Bretagna dovrebbe essere significativo.
Il Defense of Realm Act (Dorr) dell’agosto del 1914 diede ai ministeri bellici il diritto di assumere il controllo delle fabbriche o di requisirne la produzione. Non dava indicazioni sulla compensazione, ma il governo, sulla base dell’uso consuetudinario, ritenne di non essere obbligato a pagare i beni requisiti per motivi di emergenza nazionale, e fu di conseguenza in grado di fissare a propria discrezione il livello delle compensazioni.
Il 23 febbraio 1917, il Dorr fu ulteriormente modificato con la precisazione che:”non si terrà conto del prezzo di mercato, bensì dei costi di produzione del prodotto requisito e dell’ammontare degli utili abitualmente raggiunti attraverso la vendita di tale prodotto prima della guerra, della eventualità che tale ammontare fosse irragionevole o eccessivo e di ogni circostanza del caso”.
Inoltre, in virtù dei poteri concessi dal Dorr, 70 aziende alla fine del 1915 e 250 al momento dell’armistizio furono attratte dal governo britannico sotto il proprio diretto controllo. Circa la metà di queste furono realizzate dal nulla durante il conflitto, in parte in collaborazione con industriali privati; l’altra metà consisteva di fabbriche requisite o cedute dai legittimi proprietari. Le fabbriche potevano essere confiscate quando i risultati della produzione fossero stimati insoddisfacenti.
Sia chiaro, il sistema britannico non fu concepito per prevenire l’accumulo di profitti di guerra, né lo fece. Le autorità britanniche strutturarono i prezzi e le imposte in maniera da lasciare agli imprenditori un margine di profitto abbastanza ampio da fare in modo che preferissero lavorare per il governo, e da spronarli a massimizzare la produzione. La politica britannica, tuttavia, fu intesa ad inibire l’accumulo di profitti che eccedessero i livelli necessari a raggiungere tali obiettivi.
Nulla di tutto ciò fu messo in atto in Italia e lo Stato italiano non fece alcuno sforzo per aumentare la produzione delle fabbriche di armamenti statali e neppure un’azienda privata fu rilevata dal governo. Questo lasciò mano libera agli imprenditori nel fissare il volume degli investimenti, della produzione e dei prezzi che continuarono a lievitare per tutto il corso del conflitto.
Così gli stessi gruppi finanziari e imprenditoriali che traevano profitto dagli interessi sui titoli di stato, potevano poi incrementare a dismisura i propri profitti costringendo lo stato stesso a pagare cifre sempre più alte per i rifornimenti bellici prodotti dalle loro fabbriche, spesso senza aver nemmeno investito in migliorie tecniche e produttive.
Fu così che il debito pubblico salì in quegli anni al 160 % del Prodotto Interno Lordo.
Fermiamoci qui, anche per non tediare il lettore con troppe cifre e troppi dati, ma non vi è ombra di dubbio che in termini di alienazione dello stato a favore del capitale privato l’Italietta del XX secolo abbia ben poco da apprendere da altre esperienze. Anzi potremmo dire che tale alienazione ha continuato a costituire una costante da Mussolini a Fanfani fino alle attuali “manovre d’austerità” del governo Monti. Con cui, guarda caso, il debito pubblico è tornato a salire al 127,3 % del PIL.
Deve essere però chiaro il perché questo excursus, talvolta ironico, sui rapporti tra capitale e stato in Italia, teso a dimostrare (e gli esempi sarebbero ancora infiniti) come il capitalismo italiano sia nato “finanziario”, sempre in bilico tra rendita feudale e scarsa propensione all' investimento industriale.
L’imprenditoria italiana è quasi sempre stata relegata alla piccola e media impresa, mentre i grandi colossi industriali, dalla FIAT all’ILVA, hanno vissuto e si sono ingranditi grazie a commesse, prebende ed aiuti statali. Checché se ne dica in Italia manca completamente la tradizione dei “grandi padroni del vapore”. Marchionne è molto più figlio d’Italia che non del capitalismo anglo-sassone e le sue origini ideali risalgono ai banchieri fiorentini più che alla dinastia di Henry Ford.
Tutto questo ha finito, inevitabilmente, col condizionare anche la forma dei rapporti politici. Più l’alienazione dello stato è andata avanti, più gli stessi partiti politici hanno finito coll’assumere sempre di più il carattere di rappresentanti del capitale privato “dentro” lo stato più che la funzione di mediatori tra gli interessi dei cittadini e delle diverse classi sociali e Stato. Fa ridere oggi chi parla di mutamento antropologico della sinistra istituzionale o degli altri partiti. In assenza della lotta di classe tutti si sono adattati a diventare gli esecutori della volontà del capitale privato e gli unici contrasti derivano, proprio come nel caso del Monte dei Paschi, dalla spartizione di utili, aiuti e prebende.
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Per dare a Pierluigi ciò che è di Pierluigi, occorre dire che un po’ di ragione ce l’ha quando dichiara di voler “sbranare” chi attacca il PD sulla questione della banca di Siena pur avendo avuto le mani in pasta nel Credito Cooperativo Fiorentino (PdL) oppure nel Crediteuronord (Lega). Ma questo non sta a dimostrare altro che, ormai, tutte le forze politiche in campo, con la loro corsa al controllo delle fondazioni bancarie e delle banche, hanno seguito lo stesso percorso e sono schiave delle stesse logiche. Anche il PD e anche il Grillo azionista del Monte dei Paschi, quest'ultimo abile nel creare "boatos" borsistici i cui ultimi beneficiari non potranno certo essere i piccoli risparmiatori..
Il re è sempre più nudo e solo la riconquista di un punto di vista politicamente autonomo da parte dei lavoratori e una contemporanea ripresa delle lotte sociali potranno porre fine a tale disgustoso spettacolo. Per sempre.


Bibliografia
Douglas J. Forsyth, La crisi dell’Italia liberale, Corbaccio 1998
Franco Spinelli, Michele Fratianni, Storia monetaria d’Italia, Arnoldo Mondadori 1991
Gianni Toniolo, a cura di, La Banca d’Italia e l’economia di guerra 1914 - 1919, Laterza 1989
Antonio Confalonieri, Ettore Gatti, La politica del debito pubblico in Italia 1919 – 1943, Cariplo – Laterza 1986
Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, Einaudi 1982
Eliya Ashtor, Gli ebrei nel commercio mediterraneo nell'alto medioevo (sec.X - XI), www.unistrada.it

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