E’ presto per dire se la Turchia erdoğaniana,
attualmente metà della nazione votante, volterà le spalle all’Atatürk
islamico e se il rifiuto prenderà spunto dall’affaristico restyling di
un angolo del centro di Istanbul che si priva d’una romantica oasi verde
sul Bosforo. Certo è che la rivolta di questi giorni ha assunto
esplicite tinte politiche.
Vede impegnata la sinistra movimentista, minoritaria e già di per sé repressa da un sistema-regime con cui è in reciproco conflitto. Vede presente anche il maggiore partito d’opposizione che ha portato prima alcuni deputati poi i suoi attivisti in strada a contestare direttamente il premier. Silenti per ora nazionalisti e le inquietanti frange dei “Lupi grigi”.Del nemico Erdoğan i repubblicani punzecchiano la supponenza direttiva di progetti che economicamente avvantaggiano una struttura che di fatto loro stessi non disdegnano. Quella del business, più privato e meno pubblico ma comunque capitalistico, che favorisce imprese magari amiche; però non si tratta, almeno per ora, di bonyad controllate dal clero alla maniera iraniana. La “modernizzazione”, che coinvolge la metropoli storico-monumentale più d’ogni altra città turca, è già in corso da oltre un decennio quando il governo era appunto guidato da uomini del Cumhuriyet Halk Partisi.
Il boom economico che negli anni scorsi ha lanciato la nazione verso un Pil a doppia cifra ha fatto sorridere imprenditori e mercanti grandi e piccoli dal cuore laico e islamico. Ha vellicato l’iniziale ottomanesimo dell’alter ego dell’Adalet ve Kalkınma Partisi, il ministro degli Esteri Davutoğlu e ne ha riconvertito a Oriente le smanie di potenza regionale per il veto tedesco all’entrata nell’Unione Europea. La “furbizia” dei vertici dell’Akp - definito da opinionisti italiocentrici una Dc turca per la sua tattica di confessionalismo interclassista - è stata quella di cavalcare il progetto della modernizzazione che pone il termine sviluppo (kalkınma) nella sigla di una componente vessata dal kemalismo. I concetti di “virtù, felicità” rientravano nelle precedenti diciture del gruppo islamico moderato perseguitato e sciolto da militari e avversari laici. Il recupero della tradizione e dell’identità musulmana, succubi del laicismo militarista passato per dittature oppressive e fasciste, ha costituito dagli anni Novanta un elemento di novità nell’oppressivo panorama politico turco. E il vizio del colpo di mano quale soluzione autoritaria estrema o vendicativa ha caratterizzato casi come il noto Sledgehammer rivolti direttamente contro il progetto.
Detrattori e avversari sostengono che ispiratore del disegno entrista islamico nei gangli dello Stato turco (comprese Forze Armate e sistema giuridico) sia l’intellettuale Fetullah Gülen. L’intento è usare la fede come sostegno identitario di una struttura che rovescia i princìpi secolari virando verso lo Stato confessionale. L’obiettivo dell’islamismo moderato di Ankara, giudicato da politologi occidentali un esperimento interessante, ha seguito percorsi soft, cercando di rilanciare diritti vietati. La questione del velo nei luoghi pubblici è illuminante: fino a poco tempo fa era proibito, attualmente lascia libertà di scelta delle donne, chi vuole indossarlo può, chi non vuole continuerà a non vestirlo. Ma la coerenza è virtù rara pure nello staff erdoğaniano. Le recenti restrizioni del consumo di alcolici (finora ammessi) nei locali pubblici hanno iniziato a preoccupare, oltre ai gestori, gli avventori. E il desiderio di modelli comportamentali che ora punisce le effusioni, soprattutto giovanili, nei luoghi pubblici ha fatto gridare ragazzi e laici alla repressione dei costumi. Se a tali sterzate moraleggianti s’aggiunge l’accresciuta mal sopportazione del dissenso, la tentazione d’imbavagliare informazione e libertà d’espressione, la scarsa attenzione per i diritti civili (su costumi, cultura, minoranze etniche) il luccichio della modernizzazione ingrigisce parecchio.
Anche perché un tema ritorna imperioso nella globalizzazione che viaggia a latere dai programmi faraonici divulgati con impegno propagandistico: la redistribuzione d’una ricchezza che, come per la Cina campione mondiale del Pil, non è per tutti. Oggi anche nell’Anatolia profonda parecchie cose son cambiate rispetto solo a vent’anni or sono, però proprio quello che finora è stato un sicuro serbatoio elettorale del partito di maggioranza quasi assoluta (province come Sivas, Kahramanmaraş e simili) non è detto che rimanga tale. L’anno che verrà porta due appuntamenti cui l’Islam politico ed Erdoğan in persona tengono moltissimo: presidenziali e amministrative. Per le prime l’Akp lavora alla riscrittura della Carta Costituzionale per introdurre il presidenzialismo, con l’attuale premier in predicato a ricoprire quell’incarico e garantirsi un prosieguo di carriera dagli ingombranti tratti putiniani. Se a intralciare il percorso cadranno gli alberi del Gezi park, se la marcia trionfale verrà ostacolata da proteste che l’inglese Guardian già definisce ‘Primavera turca’ lo vedremo nelle settimane a venire.
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