1. La Rivoluzione
Quello tra Lenin e la Rivoluzione d’Ottobre è un legame molto profondo:
Se
Marx fosse morto senza aver partecipato alla fondazione della Prima
Internazionale egli sarebbe sempre Marx. Se Lenin fosse morto senza aver
potuto costruire il Partito Bolscevico, senza aver potuto dispiegare la
propria guida nella rivoluzione del 1905 e, più tardi, in quella del
1917, senza aver potuto fondare l’Internazionale Comunista, non sarebbe
stato Lenin1.
Ma il legame di Lenin con la
rivoluzione oltrepassa il crocevia storico e politico dell’Ottobre.
Anche quando sembra lontanissima, la rivoluzione è sempre il punto di
riferimento costante rispetto al quale Lenin misura ogni scelta
Proprio
l’attualità della rivoluzione, che è l’idea fondamentale di Lenin, è
anche il punto che lo collega decisivamente a Marx. Poiché il
materialismo storico, come espressione concettuale della lotta di
liberazione del proletariato, poteva essere afferrato e formulato
teoricamente solo in quel determinato momento storico in cui la sua
attualità pratica fosse venuta all’ordine del giorno della storia2.
Tutta
la riflessione di Lenin è infatti concentrata su un punto
apparentemente semplice eppure denso di significato: il compito dei
rivoluzionari è ‘fare la rivoluzione’, agire per fare avanzare il
processo rivoluzionario. E questo, tanto che la rivoluzione sia
‘all’ordine del giorno’, tanto che la rivoluzione appaia lontana, come
spesso era accaduto nei lunghi giorni del confino e dell’esilio.
2. La filosofia
Come
noto, Lenin non è stato un filosofo. I suoi studi di filosofia sono gli
studi un autodidatta, anche se di un autodidatta molto particolare, sia
per intelligenza che per ‘pignoleria’; una pignoleria che spinge Lenin
ad affrontare lo studio attraverso un immenso sforzo di approfondimento
teorico. Basti pensare allo studio sull’imperialismo3: «[...] è l’epoca dei Quaderni sull’imperialismo (t. 39): 148 opere, 232 articoli in 4 lingue, un migliaio di pagine stampate»4.
È
dunque assai più arduo di quanto non possa apparire a prima vista
liquidare le considerazioni di Lenin, tanto più che esse si appoggiano
ad un ‘sostrato filosofico’ composto da due elementi molto solidi: la dialettica di Hegel ‘rovesciata’ e la concezione materialistica della storia che ne costituisce una delle più importanti applicazioni.
Anche se Lenin non è mai stato un filosofo ha offerto comunque un grande contributo alla filosofia e in particolar modo alla filosofia politica. Il fatto che l’‘accademia’ abbia
spesso snobbato questo contributo (specialmente a partire dalla caduta
del muro di Berlino, in ossequio al nuovo clima culturale da ‘fine della
storia e delle ideologie’) significa solo che spesso la filosofia
politica accademica ha meritato l’accusa che Lenin le aveva rivolto
ovvero di essere soprattutto produzione di ideologia e legittimazione del potere.
Non
è dunque un caso se negli annali della filosofia politica troveremo
nomi come quelli di Platone o Machiavelli o Hobbes o Spinoza e di tanti
altri più o meno noti (Arendt, Rawls, Strauss, Schmitt…), ma raramente
troveremo il nome di Lenin. E il perché è presto detto: tra i tanti
‘filosofi politici’ che vengono studiati ogni anno da migliaia di
studenti in tutto il mondo non se ne troverà uno che non ambisca al
ruolo di ‘consigliere del principe’ e che non desideri suggerire al
potere come realizzare efficacemente i suoi propositi (primo tra tutti,
la propria riproduzione). Lenin, al contrario, intende essere il ‘consigliere del popolo’ che lotta per abbattere il potere e interrompere la sua riproduzione.
Ecco
dunque il punto: stanno su lati opposti della barricata i ‘filosofi
politici’ accademici e il non filosofo Lenin. E dunque la rimozione di
Lenin non è per nulla una rimozione filosofica ma è, innanzitutto, una
rimozione politica.
Ci
si rende ben conto che tra Lenin e la filosofia ufficiale non ci sono
soltanto malintesi e conflitti di circostanza, e neppure le reazioni di
suscettibilità offesa dei professori di filosofia che si sentono dire in
faccia da un semplice figlio di maestro, piccolo avvocato diventato
dirigente rivoluzionario, che essi sono, nella loro massa, soltanto
degli intellettuali piccolo borghesi, degli ideologi la cui funzione nel
sistema d’educazione borghese è d’inculcare alle masse della gioventù
studentesca i dogmi, critici e postcritici quanto si vuole,
dell’ideologia delle classi dominanti. Tra Lenin e la filosofia
ufficiale c’è una relazione intollerabile nel vero senso della parola:
quella per cui la filosofia imperante è toccata nel vivo del suo
rimorso: la politica5.
È dunque proprio in quanto mette a nudo il carattere ideologico della filosofia accademica – il cui ruolo è, in definitiva, quello di concorrere alla riproduzione del modo di produzione capitalistico6
– che la filosofia accademica respinge Lenin senza neppure tentare di
annacquarne il messaggio come tenta sistematicamente di fare con Marx.
Del resto, Lenin è colpevole della più imperdonabile di tutte le colpe:
avere mostrato concretamente che la rivoluzione è possibile e che
quell’alterità rivoluzionaria che ogni giorno viene negata nelle aule
universitarie di tanto in tanto emerge carsicamente dal sottosuolo
magmatico della società reale.
Lenin si è occupato in diverse occasioni di filosofia.
Gli approfonditi studi giovanili (e mai interrotti) su Marx ed Engels
nonché gli studi su Hegel, Feuerbach, Aristotele, la dialettica...
raccolti nei pur frammentari Quaderni filosofici7 ne
sono una testimonianza. Così come ne è un esempio la sua difesa del
materialismo attraverso la critica dell’idealismo empirio-criticista8.
E
sebbene considerasse la filosofia ‘ufficiale’ come una forma molto
sofisticata di ideologia, Lenin la tenne sempre in alto conto, così come
si deve tenere in conto un nemico temibile; lo dimostrano, tra gli
altri, due fatti.
Il primo fatto riguarda la scelta,
apparentemente inspiegabile, di intensificare gli studi filosofici (e
soprattutto gli studi sulla filosofia di Hegel9) proprio all’indomani di un evento politico di importanza storica come il tracollo della socialdemocrazia internazionale di fronte all’esplosione della prima guerra mondiale10:
La
scelta, solitaria e, quantomeno in apparenza, altamente improbabile, di
Hegel, e più precisamente della Scienza della logica, quale terreno
privilegiato, e quasi esclusivo per il periodo decisivo dall’agosto al
dicembre 1914, di questa rottura deve essere esso stesso inteso come un
incontro tra molteplici serie di determinazioni eterogenee, alle quali
solo l’effetto retrospettivo dell’incontro conferisce unitarietà e
convergenza11.
Il secondo fatto è in realtà un’osservazione che Lenin annota nei suoi appunti di studio sulla dialettica
Aforisma. Non si può comprendere a pieno Il capitale di
Marx, e in particolare il suo primo capitolo, se non si è studiata
attentamente e capita ‘tutta’ la logica di Hegel. Di conseguenza, dopo
mezzo secolo, nessun marxista ha capito Marx!12.
Si tratta, per l’appunto, di un aforisma;
ma un aforisma che assume un significato del tutto particolare perché
l’importanza che Lenin attribuisce alla conoscenza della dialettica
hegeliana si ricollega idealmente all’importanza che Marx attribuisce alla Scienza della logica di Hegel.
Si
è definitivamente preso atto dell’esistenza di una stratificazione
interna anche per quanto riguarda l’interpretazione di Hegel: si sono
individuate sostanzialmente due letture, la prima giovanile,
direttamente influenzata dalla sinistra hegeliana e dalla temperie
culturale del Vormärz; la seconda risalente al 1857, periodo in cui Marx
scrive il primo grande abbozzo complessivo della teoria del modo di
produzione capitalistico; Marx asserisce che rileggere la Scienza della
logica gli è stato di grande aiuto per quanto riguarda il metodo [cfr.
lettera ad Engels del 16 gennaio 1857]13.
3. Tre punti
Dal momento che la filosofia politica di Lenin è sparsa in un contributo molto vasto14 è possibile scegliere al suo interno focalizzazioni e percorsi diversi. Noi abbiamo scelto di percorrere, sia pure in forma estremamente sintetica, il percorso che lega i 3 temi del partito, della classe e dello Stato.
La
scelta di individuare tre punti focali nel nostro percorso non è
arbitraria solamente rispetto alla scelta dei punti, ma anche nel senso
che i punti scelti non sono isolabili, bensì strettamente correlati gli uni agli altri.
Si pensi ad esempio al rapporto tra classe e partito.
Si possono analizzare a lungo i vari elementi che segnano il percorso
di sviluppo dell’organizzazione rivoluzionaria marxista in Russia, a
cominciare dal distacco con la tradizione populista rivoluzionaria degli
anni ‘70 per arrivare alla costituzione del POSDR15 e, più avanti, delle frazioni bolscevica e menscevica; ma un punto che deve restare sempre ben fermo è che la teoria leninista del partito è strettamente collegata alla teoria leninista delle classi e questa, a sua volta, è strettamente collegata alla teoria leninista della coscienza. E il tutto è strettamente collegato al mondo storico e politico concreto entro cui Lenin opera.
4. La classe
Come è noto, le pagine in cui Lenin espone con maggiore forza la propria riflessione sul rapporto tra classe e partito sono contenute all’interno del contributo scritto in vista del II Congresso del POSDR e intitolato Che fare?16
– come l’opera del famoso poeta populista degli anni ‘60, Nikolaj
Gavrilovic Černyševskij – un congresso nel quale il movimento marxista
russo, già indebolito dai colpi della repressione zarista e soprattutto
dall’influenza della tendenza economista, finirà per fare, per dirla con
le parole di Lenin, «un passo avanti e due indietro»17.
In realtà, già da tempo la riflessione di Lenin si sviluppa sulla base di alcuni punti cruciali: la lotta contro l’egemonia populista all’interno del movimento rivoluzionario, la lotta contro lo spontaneismo, la lotta per l’autonomia politica del proletariato dalla borghesia.
Quella contro il populismo è la prima grande battaglia politica condotta da Lenin il cui obbiettivo polemico non è tanto il populismo rivoluzionario degli anni ‘70 – quello della Narodnaja Voljia18 per intenderci – quanto piuttosto il populismo liberale che
ne ha preso il posto. Ci sono molte questioni che dividono i populisti
dai marxisti: il ruolo della tradizionale comunità rurale russa – l’obsčina – nella costruzione del socialismo, la possibilità che possa invertirsi la linea di sviluppo del capitalismo russo19, la sopravvalutazione della tattica ‘terroristica’ rispetto a quella insurrezionale... Ma per quanto ci interessa in questa sede la linea di frattura tra Lenin e le concezioni populiste riguarda soprattutto la teoria delle classi e del processo rivoluzionario in Russia.
Per
i populisti la rivoluzione sociale può appoggiarsi solo sui contadini
che costituiscono la parte più povera e più numerosa della popolazione.
Al contrario, Lenin pensa che i contadini – e specialmente i contadini
poveri – siano importanti, ma non decisivi per l’esito del processo
rivoluzionario perché li ritiene incapaci di scrollarsi di dosso
concezioni che, in definitiva, sono espressione di un mondo che sta già tramontando a
causa di uno sviluppo capitalistico che in Russia è certamente arrivato
tardi, ma viaggia a gran velocità bruciando le tappe. Le città e i
distretti industriali e minerari stanno diventando la destinazione di
grandi masse di ex-servi della gleba liberati20 e in breve tempo diventeranno l’epicentro del processo rivoluzionario.
Come
si sa, Lenin aveva ragione e i populisti avevano torto. Quando la
rivoluzione arriverà saranno soprattutto gli operai delle nuove grandi
fabbriche e le masse urbane, assieme ai soldati, a determinare il corso
degli eventi; nel loro complesso, i contadini svolgeranno spesso un
ruolo apatico, quando non apertamente contro-rivoluzionario, come del
resto farà il Partito Socialista Rivoluzionario, loro principale
espressione politica. Solo le componenti più povere del mondo rurale
accetteranno l’alleanza con i lavoratori e sempre comunque con la
speranza di realizzare il proprio sogno piccolo-borghese – la proprietà privata della terra – ciò che sarà fonte di grandi problemi nel tentativo di costruzione del socialismo.
Il
secondo fronte di battaglia politica Lenin lo apre contro lo
spontaneismo e costituisce uno degli elementi più importanti e
controversi del suo pensiero. Il punto centrale è il seguente: le masse
popolari non riescono a sviluppare spontaneamente una coscienza politica
indipendente.
Abbiamo
detto che gli operai non potevano ancora possedere una coscienza
socialdemocratica. Essa poteva essere apportata soltanto dall’esterno.
La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia, con le sue
proprie forze solamente, è in grado di elaborare soltanto una coscienza
tradeunionista, vale a dire la convinzione della necessità di unirsi in
sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal
governo questa o quella legge necessaria agli operai, ecc... La dottrina
del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche ed
economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi
possidenti, gli intellettuali. Dal punto di vista della posizione
sociale, i fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed
Engels, erano degli intellettuali borghesi21.
L’idea
che la coscienza politica possa essere portata solo ‘dall’esterno’ è
stata spesso deformata e usata per dipingere Lenin come un uomo che non
ha fiducia nelle potenzialità delle ‘masse’ e pensa che esse debbano
essere comandate dai ‘capi’ attraverso l’apparato del partito22.
Ma le cose non stanno così, anzitutto perché ‘l’esterno’ di cui parla Lenin non è l’esterno della classe, ma è essenzialmente l’esterno della logica della semplice rivendicazione immediata, quella che noi chiameremmo logica sindacale.
La
coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo
dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno
della sfera dei rapporti operai-padroni. Il solo campo dal quale è
possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le
classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il
governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi23.
La coscienza politica della classe – intesa come volontà di trasformazione rivoluzionaria dell’esistente – non si forma spontaneamente, ma solo attraverso la fusione del movimento operaio con il socialismo scientifico:
Con
questa fusione la lotta di classe degli operai si trasforma in lotta
cosciente del proletariato per la sua emancipazione dallo sfruttamento
operato ai suoi danni dalle classi abbienti e si sviluppa la forma
suprema del movimento operaio socialista: il partito operaio
socialdemocratico autonomo. L’avere indirizzato il socialismo verso la
fusione col movimento operaio è il maggior merito di Marx ed Engels:
essi hanno creato una teoria rivoluzionaria che ha spiegato la necessità
di questa fusione e posto ai socialisti il compito di organizzare la
lotta di classe del proletariato24.
Una volta
che questa fusione tra intellettuali borghesi e classe si sarà
realizzata nel partito, sarà proprio questo a promuovere la formazione
di quelli che a quel punto saranno intellettuali rivoluzionari non borghesi.
È
significativo che per Lenin il ‘maggior merito’ di Marx ed Engels sia
stato quello di aver propugnato il superamento dei ‘socialismi
primitivi’ che mendicavano riforme dall’alto o confidavano
illusoriamente nella capacità di diffusione di esempi dal basso e di
aver invece indirizzato le energie verso la costituzione della classe in partito.
E del resto, in effetti, Marx ed Engels hanno impegnato molte delle
proprie energie nella costruzione di organizzazioni rivoluzionarie:
dalla Lega dei comunisti degli anni ‘40 all’Associazione internazionale dei lavoratori degli anni ‘60 all’unificazione della socialdemocrazia tedesca negli anni ‘70.
Il terzo elemento
sul quale Lenin concentra il proprio discorso politico è quello della
battaglia contro il cosiddetto ‘marxismo legale’25, per l’autonomia
politica della classe; il tema, in sostanza, del partito.
5. Il partito
Lenin, lo abbiamo detto, è convinto che la classe lavoratrice sia in grado di sviluppare al più una coscienza di tipo economicistico e di promuovere lotte soprattutto di tipo sindacale e
rivendicativo; di conseguenza, lo sviluppo della coscienza politica
della classe può determinarsi solo in congiunzione con il socialismo
scientifico che, in origine, è ‘portato alla classe’ da intellettuali di
estrazione sociale e culturale borghese. Ma una volta che questa
fusione del movimento operaio con il socialismo scientifico si è
realizzata essa prende forma in un partito politico che deve essere in
grado di produrre i propri intellettuali e anzi di essere esso stesso intellettuale collettivo26, per dirla à la Gramsci. Per Lenin, dunque, il partito non è mai una semplice forma organizzativa, ma l’espressione tangibile della coscienza politica del proletariato. Questo punto è essenziale per capire molte cose del rapporto tra Lenin e l’idea del partito come necessità storica e politica.
Per Lenin i lavoratori hanno bisogno di un proprio partito
politico indipendente; questo partito deve essere composto di
‘rivoluzionari di professione’ che dedicano le proprie migliori energie
alla lotta rivoluzionaria; il partito dev’essere capace di garantire la
propria ‘continuità’ e quindi proteggere il proprio gruppo dirigente e
il proprio sistema di collegamenti con la classe; il partito deve essere
formato da quadri e militanti, non da semplici aderenti;
tutti devono essere impegnati in una qualche organizzazione legata al
partito; etc. Si potrebbe proseguire a lungo, ma sarebbe comunque
impossibile esaurire la questione in modo davvero efficace soprattutto
perché è qui impossibile analizzare le argomentazioni con cui Lenin sostiene le sue proposte; e queste argomentazioni sono altrettanto interessanti dei risultati perché costituiscono una importante lezione di dialettica.
Può essere dunque interessante studiare il modo in cui Lenin pone le questioni. E possiamo farlo utilizzando come case study un
singolo problema – il problema del rapporto con la tattica
‘terroristica’ – che era di grande rilevanza per il nascente movimento
marxista e che riassumeva diverse questioni: il rapporto con il
populismo rivoluzionario, il rapporto con l’economismo, il rapporto con
lo spontaneismo, il rapporto con l’attività legale...
Per sviluppare il nostro studio porteremo due esempi: uno contenuto nel Che fare? ed uno relativo agli anni successivi alla rivoluzione del 1905.
Primo momento. Nel Che fare? Lenin
ha parole apparentemente dure per il ‘terrorismo’ anche se non condanna
l’omicidio politico in sé, perché è convinto che la questione delle forme di lotta – siano esse l’azione terroristica o l’azione parlamentare – sia sostanzialmente una questione di tattica, non di principio27; del resto le idee politiche di Lenin, come si sa, non erano improntate alla ‘nonviolenza’ e comunque ogni processo rivoluzionario deve necessariamente fare i conti con il problema dell’uso della violenza.
Lenin
condanna le tendenze ‘terroristiche’ che si agitano all’interno del
marxismo rivoluzionario soprattutto perché ritiene che esse siano
espressione di una forma mascherata di spontaneismo:
[...]
in generale, tra gli economisti e i terroristi esiste un legame non
accidentale, ma necessario, intrinseco, del quale dovremo ancora
occuparci parlando della educazione dell’attività rivoluzionaria. Gli
economisti e i terroristi della nostra epoca hanno una radice comune: la
sottomissione alla spontaneità di cui abbiamo parlato nel capitolo
precedente come di un fenomeno generale e di cui esamineremo ora
l’influenza sull’azione e sulla lotta politica.
A
prima vista, la nostra affermazione può sembrare paradossale, tanto
grande sembra la differenza tra coloro che antepongono a tutto la
‘grigia lotta quotidiana’ e coloro che propugnano la lotta che esige la
massima abnegazione: la lotta di individui isolati. Ma non si tratta per
niente di un paradosso. Economisti e terroristi si prosternano davanti
ai due poli opposti della tendenza della spontaneità: gli economisti
dinanzi alla spontaneità del ‘movimento operaio puro’, i terroristi
dinanzi alla spontaneità e allo sdegno appassionato degli intellettuali
che non sanno collegare il lavoro rivoluzionario e il movimento operaio,
o non ne hanno la possibilità. È infatti difficile, per chi non ha più
fiducia in tale possibilità o non vi ha mai creduto, trovare al proprio
sdegno e alla propria energia rivoluzionaria uno sbocco diverso dal
terrorismo28.
Nella misura in cui i ‘terroristi’
intendono far leva sull’indignazione popolare per suscitare la rivolta
trasformano l’azione ‘terroristica’ in qualcosa di diverso da una
semplice ‘forma di lotta’; la trasformano in una strategia che in ogni momento ha sé stessa come obbiettivo (si
pratica l’azione ‘terroristica’ per condurre altre persone sul terreno
dell’azione ‘terroristica’ facendo leva propagandisticamente sulla
soddisfazione che le masse provano nel vedere eliminati i personaggi ad
esse invisi).
Spesso, questa strategia dell’azione ‘terroristica’ si
afferma tra i rivoluzionari quando essi non hanno fiducia che le masse
possano sollevarsi e si pensa che esse abbiamo bisogno di essere
‘stimolate’ con azioni esemplari.
Secondo momento. Il
riflusso che segue il tentativo rivoluzionario del 1905 apre all’interno
del movimento rivoluzionario russo un duro scontro sulla tattica da
seguire. Tra i bolscevichi si affermano progressivamente le idee degli
otzovistiche considerano ininfluente l’azione legale e propugnano
l’adozione di una tattica di tipo ‘terroristico’ – diciamo, neo-populista
– basata su un programma di omicidi politici mirati nei confronti di
personaggi odiati dal popolo (in questo senso, potremmo dire, essere populisti significa dare simbolicamente in pasto al popolo ciò che il popolo desidera avere in pasto).
Tra gli esponenti più importanti della frazione otzovista c’è Aleksandr
Bogdanov, uno dei massimi dirigenti del partito e del suo apparato
illegale (nonché importante scienziato a cui si deve l’introduzione
della tecnica delle trasfusioni di sangue29).
Era
giusto sessant’anni fa, nel 1908. Lenin stava allora a Capri, in
compagnia di Gorki, di cui apprezzava la generosità e ammirava
l’ingegno, ma che trattava tuttavia da rivoluzionario piccolo-borghese.
Gorki l’aveva invitato a Capri per discutere di filosofia con un
gruppetto d’intellettuali bolscevichi di cui condivideva le tesi, gli
Otzovisti. 1908: era l’indomani della prima Rivoluzione d’Ottobre,
quella del 1905, il riflusso e la repressione del movimento operaio, lo
smarrimento fra gli «intellettuali», anche fra gli stessi intellettuali
bolscevichi. Buona parte di quest’ultimi aveva formato un gruppo,
conosciuto nella storia con il nome di Otzovisti. Politicamente gli
otzovisti erano estremisti, per misure radicali: ritiro (otzovat’) dei
rappresentanti dalla Duma, rifiuto di tutte le forme legali d’azione,
passaggio immediato all’azione violenta. Ma queste affermazioni
estremiste mascheravano posizioni teoriche di destra. Gli Otzovisti si
erano lasciati conquistare da una filosofia alla moda, o da una moda
filosofica, l’«empirio-criticismo», di cui il celebre fisico austriaco
Ernst Mach aveva rinnovato la forma30.
Contro gli otzovisti Lenin conduce una battaglia politica fatta anche a colpi di saggi filosofici – come Materialismo ed empiriocriticismo, che intende essere un’accorata difesa del materialismo e della dialettica –. Ma di questo si è già pur lapidariamente detto.
Oltre
a questo è interessante osservare che, nello stesso momento in cui è
attaccato dagli otzovisti, Lenin deve fronteggiare anche l’opposizione
di un’altra tendenza – detta dei liquidatori – i quali, al contrario degli otzovisti, propugnano lo smantellamento (la liquidazione, appunto) dell’apparato illegale-clandestino del partito. Lenin combatte dunque su due fronti: il fronte che vuole l’adesione completa alla lotta armata, la completa illegalità, l’abbandono di ogni tattica legale (a cominciare dalla presenza all’interno delle nascenti istituzioni russe) e il fronte che vuole l’abbandono completo della lotta armata, la completa legalità, l’abbandono di ogni tattica illegale.
Lenin compie una scelta apparentemente singolare: rifiuta la deriva militarista del partito bolscevico, ma si oppone allo smantellamento dell’apparato militare. In questi due esempi si mostra il ‘metodo di Lenin’ (qui, applicato al tema del partito): tenere assieme ciò di cui la classe ha bisogno oggi (sfruttare
anche quegli esigui spazi di agibilità che lo zarismo ha dovuto
concedere allo sviluppo del capitalismo in Russia) con ciò di cui la classe avrà bisogno domani (non
rinunciare a nessuno degli strumenti necessari per produrre la rottura
rivoluzionaria – e all’appuntamento dell’Ottobre, infatti, i bolscevichi
si presenteranno addirittura con due apparati armati: quello costruito attraverso la propaganda nell’esercito in guerra e quello costruito negli anni della clandestinità).
Tattica e strategia. Immanenza della rivoluzione. È questa la lezione di Lenin. Anche sul partito.
6. Lo Stato
Lenin tratta dello Stato in vari contributi, il più noto dei quali è senza dubbio Stato e rivoluzione e non è dunque arbitrario scegliere questo testo del 1917 come punto di riferimento.
Stato e rivoluzione è un testo caleidoscopico e ‘visionario’ nel quale si possono identificare almeno tre piani: il piano dello Stato ‘in senso stretto’, il piano della democrazia, il piano del comunismo. Questi piani non sono distinti nettamente, ma sono piuttosto intrecciati e rimandano l’uno all’altro. Qui, attraverso numerose citazioni, Lenin ripropone i punti cardine della teoria marxista dello Stato e lo fa evidenziandone il carattere pienamente politico e non formalistico.
Il primo punto è decisivo: lo Stato e i suoi apparati non sono elementi neutri ma, al contrario, espressione dell’inconciliabilità tra le classi sociali e del dominio della classe dominante
Lo
Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi
inconciliabili tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento e in
quanto, dove, quando e nella misura in cui, gli antagonismi di classe
non possono essere oggettivamente conciliati31.
Per Marx lo Stato è l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di
una classe da parte di un’altra; è la creazione di un “ordine” che
legalizza e consolida questa oppressione, moderando il conflitto fra le
classi. Per gli uomini politici piccolo- borghesi l’ordine è
precisamente la conciliazione delle classi e non l’oppressione di una
classe da parte di un’altra32.
Di conseguenza, lo Stato non è semplicemente un asettico terreno sul quale combattere per l’egemonia (secondo una lettura che potrebbe condividere, ad esempio, Pierre Bourdieu33). Al contrario, lo Stato è il terreno sul quale è proprio il potere che
cerca di collocare lo scontro perché quivi possiede tutti gli
strumenti, materiali e intellettuali, per imporsi con maggiore facilità.
Il fatto che lo Stato non sia un ‘campo neutro’ ha almeno due implicazioni fondamentali: la prima è che non si tratta solo di ‘conquistare il potere statale’ bensì di operare per la distruzione della macchina statale borghese e per la sua sostituzione con una nuova macchina statale socialista capace di gestire la fase di transizione che deve condurre alla nascita della futura società comunista; la seconda implicazione
è che se lo Stato borghese è la forma che assume a livello
istituzionale la dittatura della borghesia allora lo Stato socialista è
la forma che assume a livello istituzionale la dittatura del proletariato.
Lo
Stato, miei cari, è un concetto di classe. Lo Stato è un organo, uno
strumento di violenza di una classe su un’altra. Fino a quando esso è la
macchina della violenza della borghesia sul proletariato non vi può
essere che una sola parola d’ordine proletaria: distruzione di questo
Stato. Ma quando lo Stato sarà proletario, quando esso sarà lo strumento
della violenza del proletariato sulla borghesia, noi saremo
completamente e incondizionatamente per un potere forte e per il
centralismo34.
[…] è evidente che la liberazione della classe oppressa è impossibile non soltanto senza una rivoluzione violenta, ma anche senza la distruzione dell’apparato del potere statale che è stato creato dalla classe dominante35.
Vero è che, a ragionare in termini ‘politically correct’, mai parola fu
scelta peggio di ‘dittatura del proletariato’. Chi può volere una
dittatura, sia pure ‘proletaria’ ovvero diretta dalle organizzazioni dei
lavoratori? Messi di fronte alla scelta di una delle due parole ‘democrazia’ e ‘dittatura’ – usata generosamente dalla borghesia la prima e dai marxisti la seconda – chi non sceglierebbe la prima, chi non respingerebbe la seconda? Chi vorrebbe una dittatura se potesse scegliere una democrazia?
Eppure, una scelta tanto linguisticamente infelice nasconde una straordinaria onestà intellettuale che merita di essere sottolineata. Possiamo partire da ciò che il senso comune –
che ama la democrazia e ripudia le dittature, e giustamente – definisce
‘democrazia’ ovvero, alla fin fine, la ‘regola della maggioranza’ (e,
certo, anche il rispetto delle regole comuni che però,
ovviamente, sono approvate a maggioranza). E si badi bene: con un
criterio già molto blando come questo, neppure Atene si sarebbe potuta
definire ‘democratica’ dal momento che innestava la ‘regola della maggioranza’ su una platea composta da un’esigua minoranza sociale che escludeva dai diritti politici le donne (più o meno la metà della popolazione), gli schiavi (più o meno 3/4 della popolazione) e gli immigrati di prima generazione. E in ogni caso, come narra Erodoto36, la ‘democratica’ assemblea di Atene poteva decidere a maggioranza l’eliminazione di tutti gli abitanti della città ribelle di Mitilene e questo ci aiuta a comprendere che l’accezione necessariamente positiva
che attribuiamo al concetto di democrazia dovrebbe essere ripensata,
specialmente nella misura in cui si limita ad esprimere una forma di
legittimazione del potere e prescinde dai contenuti delle decisioni effettivamente assunte. Purtroppo, quella della ‘Democrazia’ è in larga misura una vera e propria ideologia37 che meriterebbe, anche grazie anche agli strumenti critici del marxismo, di essere decostruita.
Questo ragionamento non deve tuttavia suggerire che Lenin sottovaluti in qualche modo il problema della conquista della maggioranza; al contrario, uno dei temi fondamentali del suo discorso politico riguarda proprio la formazione di coalizioni sociali (necessarie
anche in virtù del fatto che il proletariato industriale non è classe
maggioritaria nella Russia ‘pre’ e ‘post’ rivoluzionaria)
Il
potere statale, l’organizzazione centralizzata della forza,
l’organizzazione della violenza, sono necessari al proletariato sia per
reprimere la resistenza degli sfruttatori, sia per dirigere l’immensa
massa della popolazione – contadini, piccola borghesia,
semi-proletariato – nell’opera di «avviamento» dell’economia socialista38.
La nuova forma di organizzazione politica e istituzionale – la ‘dittatura’ del proletariato - deve dunque essere usata per reprimere i nemici e per sviluppare l’alleanza con le classi potenzialmente amiche nel processo di costruzione del socialismo.
D’altra parte, riconoscere che in una società ancora divisa in classi lo Stato esprime gli interessi generali delle classi dominanti equivale a constatare che il discorso di Platone – Trasimaco nella Repubblica – il giusto è l’utile del più forte anche quando il ‘più forte’ non è che la maggioranza di un sistema democratico – ha una sua forza oggettiva (che infatti Platone-Socrate, in definitiva, sembra non riuscire a smontare del tutto).
Il problema del perché poi le masse possano appoggiare movimenti che esprimono gli interessi economici e politici di segmenti di società sempre più di élite – qualche anno fa, il movimento Occupy Wall Street aveva lanciato lo slogan ‘We are the 99%’39 – è in effetti un problema; anzi, è il problema dei problemi, ma ha più a che fare con il tema della coscienza politica delle masse che
non con quello del carattere più o meno democratico dello Stato. Del
resto, la schiavitù non cessa di essere tale anche se gli schiavi si
rassegnano e non si ribellano; e quello nazista non diventa un partito
democratico solo perché nel 1932 aveva ottenuto il consenso di quasi il
40% degli elettori tedeschi. Come insegnano i plebisciti francesi per
Luigi Bonaparte, si possono ‘eleggere’ anche gli imperatori – ovvero i poteri assoluti – anche se questo può apparirci singolare.
Lenin
ha riproposto in modo magistrale la concezione marxista dello Stato e
ha tentato di avviare il processo di costruzione del socialismo nelle
difficilissime condizioni che hanno seguito l’Ottobre. Il risultato non
ha corrisposto alle aspettative? È vero. Ma bisogna anche riconoscere
che questo accade a tutte le rivoluzioni
[…]
la sfasatura tra programmi e risultati è propria di ogni rivoluzione. I
giacobini francesi non hanno realizzato o restaurato la polis antica; i
rivoluzionari americani non hanno prodotto la società di piccoli
agricoltori e produttori, senza polarizzazione di ricchezza e povertà,
senza esercito permanente e senza forte potere centrale; i puritani
inglesi non hanno richiamato in vita la società biblica da loro
miticamente trasfigurata40.
Questo significa
minimizzare i problemi emersi? Certamente no. Al contrario, significa
ribadire che bisogna sempre ‘andare a lezione’ dalla storia reale e
ribadire il monito leniniano del fare sempre l’analisi concreta della situazione concreta. Ma significa anche riconoscere che non esiste alcun sillogismo in base al quale dedurre che ciò che non ha funzionato una volta debba non funzionare per sempre.
7. Conclusione
Sui
temi che abbiamo affrontato in questo contributo si è discusso per
decenni in tutto il mondo. Dire cose innovative era molto difficile. Il
tentativo che si è inteso fare è stato quello di mostrare come il
pensiero politico di Lenin – la sua filosofia politica – sia ancora oggi un terreno molto fecondo di riflessione che merita di essere recuperato, anche per comprendere meglio gli esiti storici di
quello che è stato chiamato ‘socialismo reale’ e dei quali Lenin è
stato certamente un protagonista, sia pure nella fase iniziale.
Senza Lenin il ‘900 è letteralmente impensabile così come è impensabile ogni trasformazione radicale dell’esistente; il fatto che venga operata sistematicamente la rimozione intellettuale di
un uomo che ha concorso in modo decisivo al realizzarsi di eventi che
hanno scosso – e le cui ‘onde lunghe’ forse ancora scuotono – il mondo,
in fondo non è che il segno dello straordinario arretramento del
dibattito politico odierno, ormai incapace di criticare l’esistente e di pensare il non (ancora) esistente.
Fare
‘tabula rasa’ di tutti i pensatori autenticamente rivoluzionari è
ovviamente una comprensibilissima strategia politica delle classi
dominanti (guai far sapere che cambiare il mondo è possibile); è
un po’ meno comprensibile sul piano intellettuale, ma in fondo chi
chiede, oggi, agli intellettuali di rendere conto del proprio coraggio