Sembra si sia finalmente giunti alla sia pur faticosa gestazione di un nuovo soggetto unitario della sinistra. È un tema ineludibile, non più rinviabile. Le recenti elezioni regionali hanno infatti visto due vincitori: nell’area di centrodestra la Lega, nell’area di centrosinistra il non voto.
È ragionevole pensare che il Pd renziano sia imbrigliato in contraddizioni destinate a durare, vista la linea politica del premier e il suo blocco sociale di riferimento. Oggi le paga soprattutto in termini di astensionismo, poiché le forze che si muovono alla sua sinistra non sono state ancora in grado di rendersi visibili al paese. Che non è fatto – chiariamolo una volta per tutte – di militanti capaci di spaccare il capello in quattro, o di avidi lettori di giornali e social network, ma di persone «in carne e ossa», più che mai alle prese con problemi materiali notevoli e con alle spalle un deserto pluridecennale in termini di cultura politica, che ha tolto loro la possibilità di leggere la realtà mediante occhiali in grado di fondere interessi, passioni, progetti.
La sinistra a sinistra del Pd fino a ora non cresce. E come potrebbe? Appare da anni divisa e rissosa, piena di personalismi. In ogni elezione si presenta in ordine sparso (addirittura, nelle ultime elezioni, in alcune regioni in alleanza e in altre in alternativa al Pd), con sigle sempre differenti, localmente con nomi diversi, riconoscibili solo per un piccolo gruppo di militanti «irriducibili». Ma ciò che può avere un senso per i militanti, non lo ha automaticamente a livello elettorale, a livello di grandi numeri. Qui, ci piaccia o no, valgono altre leggi: più semplici, solo in apparenza più facili, forse più rozze.
Che fare? Provo a elencare qualche snodo decisivo, al centro della discussione tra le forze che stanno adoperandosi per questo parto più arduo del previsto.
In primo luogo, occorrerebbe a mio avviso varare al più presto un nuovo soggetto articolato e plurale, con un nome e un simbolo che non cambino ogni sei mesi, che parlino a tutti e tutte, identificabili chiaramente come «di sinistra». Non deve essere solo un cartello elettorale, che di fronte al primo insuccesso si sfascia. Deve essere una forma politica nuova in cui ci sia spazio per individui singoli (che non fanno parte di nessun soggetto collettivo) e partiti politici, associazioni e giornali, riviste e centri culturali. In questo quadro, il ruolo dei partiti già esistenti è a mio avviso essenziale. La soluzione migliore mi pare quella della doppia tessera, poiché è importante partire superando perplessità e mal di pancia dei militanti e dei dirigenti delle formazioni politiche esistenti, che (forse non a torto) avrebbero qualche remora nel lasciare il noto, molto imperfetto, per lo sconosciuto, per quanto potenzialmente migliore. Per non ricadere nelle vecchie, fallimentari e paralizzanti logiche federative, però, ci si deve basare su un principio democratico chiaro: una testa, un voto. Deve essere una formazione saldamente collegata al Partito della Sinistra Europea, ovvero a Syriza, ma anche alla Linke e al Pcf e a Izquierda Unida: forze anche molto diverse, che però hanno capito che bisogna cercare di lottare insieme, e su scala europea, contro il neoliberismo e per un’altra Europa, e che per questo fanno parte del Gue (a cui afferisce, non va dimenticato, anche Podemos).
In secondo luogo, a questa nuova formazione politica si aderisce in base al programma. Anzi, ai due programmi. Un «programma fondamentale», o una «tavola dei valori», se si preferisce, soprattutto rivolto ai potenziali militanti, che dica che tipo di società e di convivenza umana si ritiene auspicabile (o necessaria) nel lungo periodo: un decalogo di principi chiari e distinti su questioni fondamentali quali, ad esempio, la scelta della priorità del bene pubblico, delle libertà (anche sui temi eticamente sensibili), della espansione della democrazia, della pluralità delle forme economiche, del rispetto ambientale, ecc.
E un «programma di governo» semplice e chiaro, rivolto in primo luogo agli elettori: pochi punti che tutte e tutti possano intendere e che non siano una fiera demagogica, un libro dei sogni, ma qualcosa che si potrebbe realizzare in pochi anni, anche nel campo della produzione e distribuzione del reddito. Qualcosa di avvertito come fattibile per i più, insomma. Con un respiro di governo, anche se si parte dall’1%, perché bisogna sempre pensare in grande e in modo non subalterno. Il che vuol dire nutrire delle ambizioni e non proporsi l’obiettivo di «cambiare il Pd». Dunque fuori dal Pd e senza il Pd, anche in prospettiva, che ci sia o non ci sia Renzi. E non nell’alveo del «socialismo europeo»», da anni fautore di politiche neoliberiste appena più umanitarie di quelle della Merkel.
In terzo luogo, a partire dalle forze attualmente già in campo, è auspicabile che si formino gruppi dirigenti giovani e plurali, soprattutto a livello nazionale, che aprano una fase di crescita collettiva. Basta coi settarismi, le preclusioni, i leaderismi, i veti. Non si deve «rottamare» nessuno, ma è indispensabile parlare pure ai più giovani, che non solo noi, ma quasi tutta la politica intercetta solo in minima parte. Un ricambio anche generazionale si impone, fermo restando che anche chi è anziano è chiamato a dare – in questo momento decisivo – il massimo di ciò che può dare.
Vi è senza dubbio un problema di riconoscibilità mediatica, ma non vi può essere né il ricorso al «caro leader» di turno, né l’affidamento a una ristretta élite, sia pure di estrema sinistra. Il nuovo gruppo dirigente deve aprire una fase di coinvolgimento e crescita di gruppi dirigenti locali che non siano fatti col bilancino: bisogna iniziare una «fusione a caldo» fra le varie anime di questo nuovo soggetto politico. Occorre uno scatto di antisettarismo, una scelta di collegialità.
Da ultimo, la cosa più importante: il nostro orizzonte non deve essere la sconfitta di Renzi o le prossime elezioni. Bisogna vivere e crescere nella società proponendo un diverso modello di sviluppo, azioni concrete per il lavoro, per il reddito, per i giovani, per il welfare, per i più deboli, per i diritti. Bisogna riconoscere che le classi e la lotta di classe ancora esistono, ma anche saper vedere le forme nuove in cui oggi vivono e le altre questioni con cui si intersecano e che concorrono concretamente a fare la felicità degli individui.
Le elezioni andranno bene se si lavorerà prima, nei quartieri, nelle fabbriche, nelle scuole, nella sanità, tra i giovani disoccupati, nelle lotte. E anche se si elaborerà una piattaforma culturale che cerchi di dire davvero cosa deve essere la «terza fase della lotta per il socialismo» o «il socialismo del XXI secolo» di cui si parla da alcuni lustri. La sfida egemonica sarà lunga, lunghissima, ma da qui occorre partire.
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