Ieri, sul Corriere della Sera è comparsa
un’intervista a un giovane economista italiano, Fadi Hassan. Insegna al
Trinity College ed è ricercatore alla LSE, e per i prossimi dodici
mesi, anche in Banca d’Italia. Hassan parla di un ‘ventennio perduto’ da
parte della nostra economia, e spiega che “Sono 20 anni che l’Italia
cresce meno del resto d’Europa. A metà degli anni 90 il PIL pro capite”
del nostro Paese “era superiore del 3% alla media della zona euro.
Adesso è inferiore del 13%”. Fatti i conti, siamo all’incirca a un -16%
complessivo. Detto ciò, sviluppa ancora la sua analisi e sottolinea come
il tessuto delle piccole e medie imprese, a suo dire, non ha retto
l’urto della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica e, in egual
modo, gli imprenditori italiani non hanno investito adeguatamente in
ricerca e sviluppo. Dopo di che all’intervistatore la domanda è venuta
spontanea: “Il ventennio perduto coincide con la II Repubblica. Non sarà
colpa della politica?”. Tema intrigante, sui cui Hassan da economista
glissa. Tuttavia la questione effettivamente si pone.
Non
sono un’economista e dunque mi limiterò a due spicci di analisi
politica. Sì, rispondo io, è anche colpa della politica. O, almeno, del
modello di politica proposto in questo ventennio, così descrivibile:
riduzione della mediazione e della rappresentanza ed enfatizzazione
dell’esecutivo e della decisione. Restringimento progressiva del ruolo
dei corpi intermedi (partiti in primis) a favore del leaderismo.
Verticalizzazione della catena di comando, indebolimento del dibattito
pubblico e della partecipazione democratica e organizzata, nonché
sfarinamento della coesione sociale e nazionale, tutto a vantaggio di
uno scontro sempre più di vertice, tutto interno alla classe dirigente
senza più un sistema dei partiti. Sostituzione della politica con la
comunicazione-politica, con l’accresciuta rilevanza del ruolo del
messaggio nei confronti dei suoi contenuti effettivi. Infine, Parlamento
sempre più svuotato di credibilità e legittimazione.
Tutti questi
ingredienti hanno prodotto il restringimento delle basi di consenso
(passività, astensione, protesta) e la riduzione della partecipazione
popolare al destino della cosa pubblica. Il gioco democratico, che era
duro ma leale nel rapporto maggioranza-opposizione a partire dal
Parlamento, si è ridotto a ‘vincere’, ‘perdere’, ‘comandare’, ‘scendere
in campo’, ‘metterci la faccia’ e ‘prendere in mano lo scettro’. Con
un’attenzione esagerata verso la mera ’potenza’ del potere, direttamente
sgorgante dallo spartiacque ormai ‘polarizzato’ del fronte politico. Il
famoso bipolarismo, per il quale anche la sinistra si è battuta
pervicacemente.
Voi direte: che cosa
c’entra l’economia? C’entra. Perché se la politica è sana e rinvigorisce
la partecipazione, se le grandi scelte sono compiute nel coinvolgimento
di tutte le forze (ove possibile), se la coesione nazionale sprigiona
anche una coesione sociale, almeno nei momenti difficili, se tutto
questo avviene davvero, la risposta delle istituzioni e del Paese
diventa forte, convincente ed efficace. Quello della Prima Repubblica,
nonostante il conflitto sociale vero che la segnava, e forse a cagione
proprio di questo, era un tessuto democratico coeso, unitario (l’unità
costituzionale!), che permetteva alle classi dirigenti anche di prendere
decisioni difficili, purché suffragate da un briciolo almeno di
indispensabile concordia nazionale. E il Parlamento lavorava per
rafforzare questa unità di fondo, verso la quale i conflitti che si
innestavano non erano dirompenti, ma vere iniezioni di stabilità, per
quanto appaia paradossale. La II Repubblica ha rotto questo equilibrio,
che l’ondata neoliberale aveva già scisso socialmente. Ha ‘fratturato’
il Paese in due ‘poli’. Ha gettato l’acqua entro cui il bambino-Paese
galleggiava alla ricerca di equilibri e di risposte politiche efficaci,
lasciando questo bambino in balìa di chi diceva: già da domenica sera si
deve sapere chi ha vinto! Come nel calcio.
Ma
da quando la politica democratica, il gioco di maggioranza e
opposizione, la sfida per il governo si sono ridotti allo schema del
vincere e del perdere come nello sport? Da quegli anni 90, ecco da
quando. Se prima sindacati e industriali, sotto l’occhio vigile del
governo, potevano discutere e trovare accordi utili al Paese, da allora
la scacchiera si è svuotata, e ridotta al Re che comanda e all’alfiere
avversario che si oppone (sempre che non si accordino in qualche oscuro
Patto del Nazareno). Il Patto dell’Eur, che fu invece anche il simbolo
di un modo di governare, con un’ampia diffusione di responsabilità e
partecipazione, non fu più possibile, se non nel senso dell’accordo al
ribasso o della divisione sindacale. I corpi intermedi, invece, oggi
sono stati messi da parte. I partiti morti. La Costituzione unitaria
ridotta a legge ordinaria e sottoposta a strappi e frizioni politiche. È
solo un esempio, ma dà l’idea di quanto sia dura la strada per
ritornare a livelli di democrazia davvero adeguati a quella che gli
economisti chiamano ‘crescita’. La politica ha le ‘sue’ colpe, dunque.
Come no.
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