sabato 17 settembre 2016

La ‘crescita’ che non c’è e le colpe della politica di Alfredo Morganti

Ieri, sul Corriere della Sera è comparsa un’intervista a un giovane economista italiano, Fadi Hassan. Insegna al Trinity College ed è ricercatore alla LSE, e per i prossimi dodici mesi, anche in Banca d’Italia. Hassan parla di un ‘ventennio perduto’ da parte della nostra economia, e spiega che “Sono 20 anni che l’Italia cresce meno del resto d’Europa. A metà degli anni 90 il PIL pro capite” del nostro Paese “era superiore del 3% alla media della zona euro. Adesso è inferiore del 13%”. Fatti i conti, siamo all’incirca a un -16% complessivo. Detto ciò, sviluppa ancora la sua analisi e sottolinea come il tessuto delle piccole e medie imprese, a suo dire, non ha retto l’urto della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica e, in egual modo, gli imprenditori italiani non hanno investito adeguatamente in ricerca e sviluppo. Dopo di che all’intervistatore la domanda è venuta spontanea: “Il ventennio perduto coincide con la II Repubblica. Non sarà colpa della politica?”. Tema intrigante, sui cui Hassan da economista glissa. Tuttavia la questione effettivamente si pone.
Non sono un’economista e dunque mi limiterò a due spicci di analisi politica. Sì, rispondo io, è anche colpa della politica. O, almeno, del modello di politica proposto in questo ventennio, così descrivibile: riduzione della mediazione e della rappresentanza ed enfatizzazione dell’esecutivo e della decisione. Restringimento progressiva del ruolo dei corpi intermedi (partiti in primis) a favore del leaderismo. Verticalizzazione della catena di comando, indebolimento del dibattito pubblico e della partecipazione democratica e organizzata, nonché sfarinamento della coesione sociale e nazionale, tutto a vantaggio di uno scontro sempre più di vertice, tutto interno alla classe dirigente senza più un sistema dei partiti. Sostituzione della politica con la comunicazione-politica, con l’accresciuta rilevanza del ruolo del messaggio nei confronti dei suoi contenuti effettivi. Infine, Parlamento sempre più svuotato di credibilità e legittimazione. 
Tutti questi ingredienti hanno prodotto il restringimento delle basi di consenso (passività, astensione, protesta) e la riduzione della partecipazione popolare al destino della cosa pubblica. Il gioco democratico, che era duro ma leale nel rapporto maggioranza-opposizione a partire dal Parlamento, si è ridotto a ‘vincere’, ‘perdere’, ‘comandare’, ‘scendere in campo’, ‘metterci la faccia’ e ‘prendere in mano lo scettro’. Con un’attenzione esagerata verso la mera ’potenza’ del potere, direttamente sgorgante dallo spartiacque ormai ‘polarizzato’ del fronte politico. Il famoso bipolarismo, per il quale anche la sinistra si è battuta pervicacemente.
Voi direte: che cosa c’entra l’economia? C’entra. Perché se la politica è sana e rinvigorisce la partecipazione, se le grandi scelte sono compiute nel coinvolgimento di tutte le forze (ove possibile), se la coesione nazionale sprigiona anche una coesione sociale, almeno nei momenti difficili, se tutto questo avviene davvero, la risposta delle istituzioni e del Paese diventa forte, convincente ed efficace. Quello della Prima Repubblica, nonostante il conflitto sociale vero che la segnava, e forse a cagione proprio di questo, era un tessuto democratico coeso, unitario (l’unità costituzionale!), che permetteva alle classi dirigenti anche di prendere decisioni difficili, purché suffragate da un briciolo almeno di indispensabile concordia nazionale. E il Parlamento lavorava per rafforzare questa unità di fondo, verso la quale i conflitti che si innestavano non erano dirompenti, ma vere iniezioni di stabilità, per quanto appaia paradossale. La II Repubblica ha rotto questo equilibrio, che l’ondata neoliberale aveva già scisso socialmente. Ha ‘fratturato’ il Paese in due ‘poli’. Ha gettato l’acqua entro cui il bambino-Paese galleggiava alla ricerca di equilibri e di risposte politiche efficaci, lasciando questo bambino in balìa di chi diceva: già da domenica sera si deve sapere chi ha vinto! Come nel calcio.
Ma da quando la politica democratica, il gioco di maggioranza e opposizione, la sfida per il governo si sono ridotti allo schema del vincere e del perdere come nello sport? Da quegli anni 90, ecco da quando. Se prima sindacati e industriali, sotto l’occhio vigile del governo, potevano discutere e trovare accordi utili al Paese, da allora la scacchiera si è svuotata, e ridotta al Re che comanda e all’alfiere avversario che si oppone (sempre che non si accordino in qualche oscuro Patto del Nazareno). Il Patto dell’Eur, che fu invece anche il simbolo di un modo di governare, con un’ampia diffusione di responsabilità e partecipazione, non fu più possibile, se non nel senso dell’accordo al ribasso o della divisione sindacale. I corpi intermedi, invece, oggi sono stati messi da parte. I partiti morti. La Costituzione unitaria ridotta a legge ordinaria e sottoposta a strappi e frizioni politiche. È solo un esempio, ma dà l’idea di quanto sia dura la strada per ritornare a livelli di democrazia davvero adeguati a quella che gli economisti chiamano ‘crescita’. La politica ha le ‘sue’ colpe, dunque. Come no.

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