martedì 30 ottobre 2012

Dopo il grande successo del No Monti Day andiamo avanti.


La manifestazione del 27 ottobre a Roma ha visto una partecipazione enorme di popolo, che ha rotto il silenzio colpevole dei palazzi della politica e dell'informazione e che ha mostrato la forza reale e ancor più quella potenziale di uno schieramento che si opponga a Monti dal punto di vista dell'eguaglianza sociale, dello stato sociale dei beni comuni e della scuola pubblica, dei diritti del lavoro e del reddito, della democrazia.
Chi e' sceso in piazza lo ha fatto consapevole che gli avversari principali di ogni movimento di lotta sono oggi il governo Monti e la sua politica del rigore e di tagli sociali, assieme alla corrispondente politica europea guidata dai governi liberisti, dalla banca europea, dal fondo monetario internazionale. Questa politica fa pagare alla grande maggioranza della popolazione tutti i costi della crisi e fa solo gli interessi del grande capitale multinazionale.
Chi è sceso in piazza lo ha fatto consapevole che questa politica europea contro i popoli è definita dai trattati liberisti che, come il fiscal compact, distruggono la democrazia e lo stato sociale, principali conquiste dopo la vittoria contro il fascismo. Questi patti iniqui sono alla base del governo Monti e sono stati votati dalla gran parte del parlamento italiano, assieme alla controriforma delle pensioni, alla cancellazione dell'articolo 18, alla distruzione della scuola pubblica, fino alla modifica dell'articolo 81 della Costituzione con l'obbligo del bilancio in pareggio.
Chi è sceso in piazza lo ha fatto consapevole che senza stracciare questi patti e senza rovesciare questa politica non ci sarà alcun cambiamento positivo, la crisi si aggraverà e la condizione sociale dell'Italia sarà sempre più simile a quella della Grecia e di tutti i paesi europei che subiscono le stesse misure di massacro sociale. Non saranno i patti sociali, in Italia come in Europa, né la disastrosa pratica della riduzione del danno a fermare questa devastazione.
Chi è sceso in piazza lo ha fatto consapevole del ritardo che c'è nel nostro paese rispetto a tutti gli altri ove cresce la mobilitazione contro le politiche europee. Questo ritardo è dovuto anche ai danni provocati dalla lunga egemonia della destra berlusconiana, che hanno fatto sì che una sapiente campagna dei poteri forti potesse presentare Monti come il nuovo, anziché come il più rigoroso continuatore delle politiche della destra liberista e conservatrice. Ma questo ritardo è dovuto oggi in primo luogo al ruolo negativo che stanno svolgendo le principali forze del centrosinistra e del sindacalismo concertativo, che con la politica di unita' nazionale danno sostegno alle scelte di Monti.
Chi è sceso in piazza lo ha fatto consapevole che non si possono ripercorrere vecchie strade, che occorre rompere con tutte le continuità del sistema italiano e che e' necessario costruire una alternativa a tutte le forze che direttamente o indirettamente danno appoggio alle politiche di Monti,cioè sia alla destra che al centro sinistra.
Chi è sceso in piazza lo ha fatto sulla base di un appello di persone e forze sociali e politiche diverse tra loro , ma accomunate dalla consapevolezza che una vera alternativa alle politiche di Monti si costruisce mettendo assieme tutte le forze che non ci stanno Questo ha chiesto con convinzione la manifestazione: netta discriminante verso chi nelle forze sociali e politiche non rompe con Monti e con chi lo sostiene, e forte unità' di coloro che questa discriminante condividono.
Sulla base del messaggio chiaro e forte del No Monti Day il comitato promotore e le forze che lo compongono decidono di dare continuità all'iniziativa. A tale scopo il comitato promotore e tutte le forze che hanno promosso il No Monti Day si incontreranno il prossimo 6 novembre a Roma.
In quella sede si definiranno le mobilitazioni già annunciate in piazza S.Giovanni per il 14 novembre, tra cui quella davanti al Parlamento.
Si definiranno proposte e discriminanti comuni da portare al meeting 8-11novembre di Firenze, sulla base della piattaforma del No Monti day.
E soprattutto si discuterà su come andare avanti assieme, consolidando e diffondendo un programma alternativo a quello di Monti e di chi lo sostiene, in una assemblea delle opposizioni sociali e politiche da svolgere alla fine di novembre.
Il grande successo del No Monti Day consegna a tutte e tutti noi la responsabilità di proseguire sulla strada percorsa a Roma da tante persone.
Il 27 ottobre siamo ripartiti, andremo avanti.
29 ottobre 2012.
COMITATO PROMOTORE NO MONTI DAY

La sovranità che conta di più di Luciana Castellina, Il manifesto

A Torino un politicissimo congresso di Slow Food con delegati provenienti da 96 paesi. Tema: «La centralità del cibo, punto di partenza di una nuova politica, di una nuova economia, di una nuova socialità»

La politica si reinventa. Per fortuna.Trova la strada di tematiche ufficialmente ritenute distanti da quelle delegate a rappresentarla nelle sedi istituzionali, e perciò si rivolge a soggetti estranei a quello che viene chiamato "professionalismo politico"; e, di conseguenza, si colloca anche in sedi diverse.Per esempio qui a Torino dove si è svolta in questi giorni la politicissima triplice e concomitante scadenza promossa da Slow Food: il nono Salone del gusto (centinaia di migliaia di visitatori); la quinta assemblea di Terra Madre (migliaia di contadini in rappresentanza della rete mondiale nata nel 2004 e cui oggi aderiscono 135 paesi); il sesto Congresso internazionale di Slow Food (delegati provenienti da 96 paesi). Tema: «La centralità del cibo, punto di partenza di una nuova politica, di una nuova economia, di una nuova socialità».
Tanti appassionati dell'agricoltura dentro i tetri spazi del Lingotto, fabbrica dismessa dell'industria per eccellenza, la Fiat, fa un bel vedere: riequilibra il pensiero e rende più facile rendersi conto che il dramma che si prepara è la sparizione della terra, mangiata a bocconi giganti - migliaia di ettari ogni anno (6 milioni di ettari in trent'anni solo in Italia) - dalla cementificazione indotta da industrializzazione e urbanizzazione dissennate. Constatabile a vista d'occhio: fra Lombardia e Piemonte non c'è ormai che un ininterrotto agglomerato di edifici, la campagna ridotta a qualche aiuola. (Di cui le ciminiere spente delle fabbriche chiuse è solo un'altra faccia della crisi).
La nuova rapina dell'Africa
Che la terra sia tornata ad essere oro se ne stanno rendendo conto in tanti che cercano ora di accaparrarsela, investendo come un tempo si faceva col mattone: i cinesi per primi, che pure di spazio a casa loro ne hanno tanto, che stanno comprando l'Africa pezzo per pezzo. Land grabbing, così si chiama la nuova rapina.
Per fortuna è oramai da un po' di anni che solo pochi dinosauri si azzardano ancora a parlare di Slow Food come del club dei buongustai. La nascita, dal suo grembo, di Terra Madre, la rete di contadini che continuano a produrre senza offendere la natura e facendo barriera conto la forza distruttiva dell'agrobusiness, ha contribuito a dare un colpo decisivo alle interessate accuse rivolte all'associazione fondata nel 1989, per combattere l'invadenza del fast food, da Carlin Petrini, oggi presidente di un'organizzazione diventata internazionale, negli anni '70-80 consigliere comunale di Bra per il Pdup assieme al suo attuale braccio destro, Silvio Barbero, i più votati fra tutti i consiglieri del partito in Italia. Perché già allora avevano cominciato a gettare nella nostra cultura iperoperaista il seme fertile della Terra che, avevano capito, era un problema centrale. E in una regione come la loro, fra le Langhe e Barolo, il messaggio era stato capito subito.
Oggi che la coscienza ecologica si è fatta più forte ed estesa è più facile capire il guasto di politiche che allora erano state fatte passare come progresso. Innanzitutto la famosa "rivoluzione verde" avviata dalla Banca Mondiale, una modernizzazione dell'agricoltura del terzo mondo che ha sconvolto le campagne, introducendo le sementi prodotte dalle grandi corporations del grano, merce a buon mercato e perciò mortalmente competitiva con quella locale, ma dotata di un piccolo colossale imbroglio: si tratta di semi sterili, privi dei semi necessari alla successiva semina. Di qui l'indebitamento drammatico dei contadini (solo in India se ne suicidano per debiti dai 200 ai 300 mila l'anno, ma nessuno li conta), i più giovani che scappano verso le città, ingrossando le mostruose immense megalopoli dove sopravvivono mangiando rifiuti e rimanendo inproduttivi.
A chi dice che senza l'applicazione delle moderne tecnologie (non solo la meccanica, ma la chimica e la biogenetica) non si può salvare il mondo dalla fame bisognerebbe rispondere con più forza con i dati raccolti e analizzati dai tanti interventi al congresso di slow food, mostrare la contabilità di un modo di produrre e di vivere che avvelena gli esseri umani, inquina l'acqua che bevono, l'aria che respirano, producendo danni che riparare sarà tanto costoso da rendere impossibile. E denunciare lo spreco: oggi si produce cibo per 12 miliardi di persone, ma un miliardo non mangia a sufficienza.
Rispetto agli altri congressi di Slow questo ha mostrato una rete di quadri maturati, documentati, sperimentati, con tanta voglia, hanno detto molti di loro, di rendere sempre più politica la loro azione. Non basta l'azione dal basso, dobbiamo investire di più i centri del potere. Ma politica, e non solo godereccia, era quest'anno anche la folla che si è assiepata al Salone del gusto, accostandosi agli stand dove venivano offerti prodotti inusitati, perché antichi e non in scatola, il contrario delle "merendine", non solo per assaggiarli ma per informarsi, per assaporare un modo diverso di consumare, e anche di vivere. La diffusione a macchia d'olio dei mercatini contadini nelle nostre città, il «cibo a km zero», sottratto alle inutili e costose peregrinazioni attraverso il mondo di prodotti artefatti dalla conservazione, sono la testimonianza che si cominciano a capire i guasti del mercato.
Giusta retribuzione per i contadini
Costa troppo mangiar buono e pulito? Sì, costa di più. Ma lo slogan di Slow aggiunge un altro aggettivo su cui occorre riflettere: «giusto». Vuol dire che i contadini vanno retribuiti in modo giusto altrimenti scompariranno, abbandoneranno le campagne lasciandole al dissesto e al cemento, e la nostra nutrizione in mano a un gruppo di speculatori che lucreranno anche sulle nostre insorgenti malattie da malnutrizione. Di quanto spendiamo per nutrirci, solo pochi centesimi vanno in tasca a chi lavora i campi. E il consumismo sconsiderato ha stravolto la gerarchia dei nostri piaceri, riempiendoci di inutili gadget e privandoci delle cose buone. Slow ha dedicato le manifestazioni di quest'anno alla mela: la mela di Newton, l'ha chiamata per invitare ad usare la testa nelle nostre scelte alimentari.
Remunerazione giusta: perché da decenni i contadini non sono più pagati equamente per il loro lavoro, strozzati dall'agrobusiness e dai supermarket. In Europa i contadini al di sotto dei 35 anni sono oramai solo il 7 per cento. Ma anche questo è stato interessante al Lingotto: una quantità di giovani, e un crescente movimento di ritorno ai campi. Ne fa fede anche lo straordinario successo dell'Università di scienze gastronomiche creata a Pollenzo da Slow food 8 anni fa, ma oggi riconosciuta dallo stato, dove per tre anni si insegna agricoltura, veterinaria, biologia, medicina, storia. Un successo: vi studiano giovani provenienti da 70 paesi diversi, gli stranieri sono oltre il 50 per cento; e pare persino che, una volta laureati, trovino lavoro.
Il cibo è un diritto recita lo slogan di Slow food, e dunque l'alimentazione, come l'acqua, un bene comune. E invece, per l'Onu, è ancora solo diritto economico e sociale (Convenzione del 1966), non umano, mentre non potrebbe essere più chiaro che senza il cibo non c'è sopravvivenza, e dunque non c'è vita. L'acqua, sorella del cibo, ha conquistato questo status nel 2010, ora dovrebbe toccare al nutrimento.
Nella sala del congresso gremita di tutte le razze ci sono i colori di bandiera difficilmente accostate: quella dei delegati della Palestina e quella dei delegati di Israele, quella cinese e quella giapponese, quella cubana e quella americana. Quel che conta, per noi, dice un delegato, è la sovranità che conta di più: quella alimentare.

Le nuove forme della protesta di Donatella Della Porta, Il Manifesto

Un linguaggio cosmopolita, la rivendicazione di diritti globali e la critica al capitale finanziario internazionale. Ecco cosa pensano gli «europeisti critici»

Emersa a dieci anni di distanza dalla nascita del movimento per una giustizia globale, la nuova ondata di protesta che è cresciuta in Europa, contro la crisi finanziaria e le politiche di austerity, mostra certamente continuità ma anche discontinuità rispetto al passato. Diversa è soprattutto la forma di transnazionalizzazione della protesta, simile l'attenzione alla costruzione di un'altra democrazia.

Per quanto riguarda la costruzione di un movimento transnazionale, entrambe le ondate di protesta parlano un linguaggio cosmopolita, rivendicando diritti globali e criticando il capitale finanziario globale. In entrambi i casi, in Europa i movimenti hanno sviluppato una sorta di europeismo critico, opponendosi all'Europa dei mercati (e oggi, di banche e finanza) e impegnandosi a costruire una Europa dal basso (oggi, «con l'Europa che si ribella»). Mentre il movimento per una giustizia globale si è però mosso dal transnazionale al locale, coagulandosi nel Forum sociale mondiale e nei controvertici, e organizzandosi poi nei forum continentali e nelle lotte locali, la nuova ondata di protesta sta muovendosi verso un percorso opposto, dal locale al globale.

Seguendo la storia, la geografia e l'economia della crisi - che ha colpito aree diverse in momenti diversi, con diversa intensità, ma anche con caratteristiche differenti (debito pubblico o private, indebitamento con banche nazionali o internazionali) i movimenti anti-austerity hanno dei più evidenti percorsi nazionali. Innanzitutto, tra la fine del 2008 e l'inizio dell'anno successive, in Islanda - primo paese europeo colpito dalla crisi - cittadini autoconvocati hanno reagito al crollo provocato dal fallimento delle tre principali banche del paese, denunciando le responsabilità delle otto famiglie che dominavano politica ed economia (significamente definite come parte di un octopus tentacolare), e imposto un referendum che si è concluso stabilendo una rinegoziazione del debito. Proteste nelle forme più tradizionali dello sciopero generale e delle manifestazioni sindacali hanno accompagnato la crisi irlandese, opponendosi ai tagli nelle politiche sociali. Nel marzo del 2011, in Portogallo, una manifestazione organizzata via Facebook ha portato in piazza 200 mila giovani. In Spagna, un paese rapidamente caduto dalla ottava alla ventesima posizione in termini di sviluppo economico, la protesta degli Indignados si è diffusa da Madrid in tutto il paese, conquistando visibilità globale. Mentre il numero degli attivisti accampati a Puerta del Sol a Madrid cresceva da quaranta il 15 maggio del 2011 a 30 mila il 20 maggio, centinaia di migliaia occupavano le piazza centrali di centinaia di città e paesi. La protesta del 15 di Maggio ha poi ispirato simili mobilitazioni in Grecia, il paese più colpito da drammatiche politiche di austerity, che hanno aggravato le condizioni economiche del paese, facendo crescere esponenzialmente il numero dei cittadini al di sotto della soglia di povertà. In Italia, dove il governo di Mario Monti (governo di grande coalizione, sostenuto da una maggioranza parlamentare Pdl-Pd-Udc) ha imposto politiche ultra-liberiste, la protesta sta crescendo dal basso, a livello locale, ma anche con momenti di aggregazione nazionale.

Ci sono stati certamente numerosi esempi di diffusione cross-nazionale di forme d'azione e schemi interpretative della crisi. Dall'Islanda, simboli e slogans hanno viaggiato verso il Sud Europa, diffondendosi attraverso canali indiretti, mediatici (soprattutto attraverso le nuove tecnologie), ma anche diretti, fatti di contatti tra attivisti di diversi paesi, per natura geograficamente mobili. Il 15 ottobre 2011, una giornata mondiale di lotta, lanciata dagli Indignados spagnoli, ha visto eventi di protesta in 951 città di 82 paesi. Nel 2012, mentre le proteste sindacali e gli scioperi si susseguono intense in tutto il Sud Europa, i sindacati spagnoli, greci e portoghesi hanno chiamato ad una giornata di lotta europea contro le politiche di austerità, oltre che a scioperi generali in tutti e tre i paesi per il 14 novembre. Tra i sindacati dei paesi più colpiti dalle politiche di austerità, solo quelli italiani, confermando subalternità ai partiti che sostengono il governo, non hanno (ancora) proclamato uno sciopero generale.

Il grado di coordinamento transnazionale della protesta è comunque certamente ancora minore che per il movimento per una giustizia globale, per il quale i forum mondiali e i controvertici hanno rappresentato fonti di ispirazione per identità cosmopolite e occasioni importantissime di costruzione di reticoli transnazionali. Sondaggi fra i cittadini mobilitati nelle proteste anti-austerity in Europa hanno inoltre indicato una crescente attenzione alla dimensione politica nazionale, seppure non disgiunta da quella alla politica europea e mondiale. Le forme di comunicazione transnazionale di questi movimenti sono emerse, se non più deboli, certamente diverse rispetto a quelle dei movimenti di inizio millennio. La dispersione sociale prodotta dalle politiche di austerity ha portato anche ad una maggiore rilevanza delle forme di comunicazione più individuali favorite dal Web 2.0, rispetto a quelle dei network organizzati della precedente ondata.

Nonostante questa (importante) differenza, ci sono comunque molte continuità rispetto alla precedente ondata di protesta: una delle più importanti è l'attenzione alla degenerazione della democrazia liberale in democrazia neoliberista («La chiamano democrazia, ma non lo è», recitano i cartelli degli indignados spagnoli), insieme però alla volontà di costruire una democrazia diversa: dal basso, partecipata e deliberativa. Le critiche sono, allora come ora, alla corruzione di parlamenti e governi, accusati di avere provocato la crisi, non solo per adesione ideologica alle dottrine economiche neoliberiste ma anche per diffuse connivenze politico-affaristiche in un coacervo di interessi forti (dell'1% contro il 99%). Anche dal movimento per una giustizia globale viene ai movimenti di oggi l'attenzione alla privazione di diritti di cittadinanza provocata dalla sempre maggiore delega di decisioni ad organizzazioni internazionali, che sfuggono strumenti di controllo - privazione aggravata oggi dal moltiplicarsi di trojke totalmente prive di legittimazione democratica. Allora come ora, inoltre, i movimenti rivendicano il loro ruolo nello sperimentare nuove forme di democrazia, basate su una ampia partecipazione dei cittadini non solo nel momento della decisione, ma anche nella elaborazione di idee, identità, soluzioni ai problemi. In questo, i movimenti di oggi rappresentano anzi una sorta di radicalizzazione della idea di partecipazione e deliberazione estesa a tutti. Nelle acampadas si realizza infatti una continua sperimentazione di quello che gli attivisti di inizio millennio chiamavano il "metodo" del social forum, che vuole facilitare il consenso attraverso la costruzione di una molteplicità di sfere pubbliche, plurali e orizzontali. E' attraverso queste pratiche democratiche che, anche oggi, movimenti transnazionali possono crescere dal basso.

lunedì 29 ottobre 2012

No Monti Day, siamo tornati in Europa di Giorgio Cremaschi, Micromega

Ce l’abbiamo fatta. Nonostante il mal tempo che sappiamo aver ridotto la partecipazione, ma grazie anche ad un improvviso vento amico che ha fermato le nubi per tutto il pomeriggio, un corteo imponente ha percorso le vie di Roma e piazza S. Giovanni si è riempita come nelle grandi manifestazioni sindacali.
È un successo che ci dà forza per ripartire e che ci fa tornare in Europa. Sì perché stavamo diventando il paese più passivo e sfiduciato del continente. Mentre tutti i popoli colpiti dalla politica di austerità della Troika (Banca Europea, Commissione europea, Fondo Monetario) si ribellano, finora Monti poteva vantare all’estero l’assenza di proteste nel nostro paese. E in un certo senso aveva ragione, perché in ogni parte dell’Italia si lotta per il lavoro la salute, i diritti, ma finora una mobilitazione di massa direttamente rivolta contro il governo non c’era. Ci avevamo provato il 31 marzo a Milano sotto la Borsa, ma ci eravamo fermati, ancora non era in campo un movimento generale contro Monti, la sua politica e chi li sostiene. Ora c’è.
Lavoratrici e lavoratori del sindacalismo di base e che nella CGIL dicono basta alla complicità e alla subalternità al governo. Movimenti civili, in testa i disabili in sciopero della fame, ambientalisti, per la democrazia. Tutte le formazioni politiche che hanno detto no a Monti e al centro sinistra che lo appoggia. I protagonisti di lotte durissime, dai No Tav a chi è stato per mesi su una torre alla stazione di Milano. E poi un grande corteo di quegli studenti a cui bisogna riconoscere il merito di aver aperto oggi lo scontro con il governo, e con loro giovani precari della scuola e di ovunque.
Quello del 27 ottobre a Roma è un popolo in via di formazione e organizzazione. Il popolo anti Monti.
Il palazzo in tutte le sue espressioni, comprese le finte alternative e le finte opposizioni, ha fatto il possibile per cancellare questo popolo. Una censura di regime ha colpito la stessa elementare informazione sul No Monti Day. Ma tutto questo non ha fermato le persone che sono scese in piazza con la voglia di rompere il gelo del silenzio e della passività. E il ghiaccio alla fine si è rotto. Siamo tornati nell’Europa dei popoli che lottano, è solo l’inizio, sarà dura come non mai, ma siamo partiti e non ci fermeremo più.

Il Comune di Capannori ci prova: entro il 2020 rifiuti zero

121029plasticadi Elisa Zanetti
Sacchetti dell’immondizia dotati di microchip, supermercati alla spina, un centro per riparare oggetti che altrimenti finirebbero in discarica, e uno di ricerca per ideare prodotti non inquinanti. Tutto questo accade a Capànnori, in Provincia di Lucca, Comune che entro il 2020 smetterà di produrre spazzatura.
Prevenire, ridurre, riparare, compostare e poi nel caso riciclare. È questa la filosofia di Capànnori, comune di poco più che 46mila abitanti in provincia di Lucca, dove cittadini e amministrazione comunale stanno cercando di portare a quota zero la produzione di rifiuti nel territorio. Dal 2007 infatti Capannori ha aderito a Zero Waste, Rifiuti Zero, un progetto promosso da Paul Connettt, professore di chimica e tossicologia presso la St. Lawrence University di New York, che prevede l’abbattimento totale della produzione di spazzatura e l’abolizione dell’uso degli inceneritori.

Pur vantando ad oggi una percentuale di raccolta differenziata pari al 73%, contro una media nazionale del 33,6% (dati rapporto Ispra 2011), ai capannoresi questo non sembra bastare: «Riciclare è importante, ma non è sufficiente – spiega a Linkiesta Rossano Ercolini, coordinatore dell’osservatorio Rifiuti Zero – il nostro obiettivo è quello di ridurre al minimo la produzione di spazzatura: se non creiamo rifiuti non occorrerà nemmeno riciclarli». Il risultato da raggiungere è quota zero entro il 2020 e sembra proprio che il Comune sia sulla strada giusta: da un po’ infatti a Capannori le lancette del tempo sono tornate al 1995 con una produzione di rifiuti pari ai livelli di oltre 15 anni fa. «Siamo molto orgogliosi di questo risultato, in molti comuni del resto d’Italia, nonostante gli effetti della crisi che hanno tendenzialmente portato a una battuta d’arresto, la quantità di rifiuti prodotti continua a crescere».

Per portare avanti al meglio Rifiuti Zero, a Capannori è nato un centro di ricerca e riprogettazione che si occupa di analizzare i materiali conferiti nel “sacco nero”, ovvero quello della raccolta indifferenziata. «Guardare dentro i sacchetti – prosegue Ercolini – ci permette di capire se ci sono stati “errori di comunicazione” per quanto riguarda i rifiuti conferibili o meno e di individuare quali sono i rifiuti più presenti fra i non riciclabili per poi elaborare possibili soluzioni. Il residuo, ciò che non può essere riciclato, va reso visibile, perché rappresenta una patologia del sistema, un errore di progettazione cui porre rimedio».

Scarpe, tessuti, giocattoli, piccoli elettrodomestici e utensili di metallo sono fra le presenze fisse del sacco nero dei capannoresi e così, per ridurre la loro presenza, il comune ha lanciato le cosiddette “soffitte in piazza”, una sorta di mercatino delle pulci dove tutti possono vendere oggetti che altrimenti butterebbero. Da ottobre è stato inoltre inaugurato un centro di riparazione e riuso, che permette il recupero e la redistribuzione di oggetti destinati alla discarica. «Il centro si trova proprio accanto all’isola ecologica – spiega Ercolini – in questo modo i nostri operatori con “un’occhiata clinica” possono salvare dalla discarica oggetti che possono invece avere una seconda vita. Si riparano bici, elettrodomestici e si recuperano vestiti che poi vengono dati a chi ne ha bisogno».

Per quello che riguarda invece i prodotti non riciclabili, il comitato locale di Rifiuti Zero si sta muovendo su un altro fronte, contattando direttamente i produttori e cercando di favorire una loro maggiore responsabilizzazione. «Abbiamo aperto un tavolo con Aiipa (l’associazione italiana industrie prodotti alimentari) per risolvere il problema della capsule da caffè, in modo da rendere la plastica dell’involucro separabile dalla polvere; con Ecobimbi stiamo lavorando a un prototipo di pannolino riutilizzabile, mentre con l’editore Pizzardi stiamo cercando di produrre delle figurine riciclabili. Infine – conclude Ercolini – stiamo cercando di coinvolgere un centro calzaturiero nella produzione di “calzature ecologiche”, fatte con materiali biodegradabili e riciclabili e senza l’uso di colle tossiche».

Tra i progetti già attivi “la spesa alla spina”: detersivi, bibite, pasta, biscotti e molti altri prodotti possono essere comprati riutilizzando i propri contenitori, mentre da gennaio è partita la sperimentazione di sacchetti dell’immondizia dotati di microchip. In questo modo è possibile controllare quante volte l’utente mette in strada il sacco nero della raccolta indifferenziata e in base al numero di esposizioni calcolare la tassa sui rifiuti, incentivando così il compostaggio domestico dei rifiuti organici e una sempre più attenta raccolta differenziata.

Attualmente i comuni che hanno aderito a Rifiuti Zero sono 106 e se fino al 2010 il loro numero era decisamente modesto, a partire dal 2011, al ritmo di quattro Comuni al mese, le iscrizioni sono aumentate velocemente, arrivando così a toccare un totale di più di due milioni e 800mila cittadini coinvolti. Ad eccezione di Napoli che l'anno scorso ha aderito a Rifiuti Zero, e di Parma, che da pochissimi giorni ha scelto di sposare questa causa, all'appello mancano però le grandi città italiane. Una strada troppo in salita per i centri urbani? Forse, ma di certo non impraticabile se si pensa che all’estero città come San Francisco hanno preso parte al progetto del professor Connett raggiungendo una percentuale del 78% di raccolta differenziata.

da Linkiesta.it

domenica 28 ottobre 2012

La sinistra Keynesiana e il suo cocktail di desideri di Claus Peter Ortlieb



In Germania, stavolta, saranno guai per i ricchi. La coalizione "Per una ripartizione equa" ha lanciato un'iniziativa, chiamando, non senza una certa audacia grammaticale, ad una giornata d'azione nazionale:

"C'è una via d'uscita alla crisi economica e finanziaria: redistribuzione! Noi non vogliamo più soffrire per la mancanza di prestazioni sociali e di servizi pubblici, e non vogliamo che la grande maggioranza della popolazione venga penalizzata. E' piuttosto la ricchezza eccessiva, e la speculazione finanziaria, che deve essere tassata. Non si tratta solo di denaro, ma anche di solidarietà concreta in questa nostra società."
In tal modo, la coalizione reclama un'imposta permanente sulle fortune eccessive dei contribuenti eccezionali, alfine di "finanziare in tutta equità la spesa pubblica e sociale indispensabile e ridurre il debito", senza dimenticare la "lotta costante contro l'evasione fiscale ed i paradisi fiscali, ed in favore della tassazione delle transazioni finanziarie, contro la speculazione e contro la povertà, dappertutto nel mondo".

Alcune frazioni dell'SPD e dei Verdi hanno accolto con favore la campagna e la sua concretizzazione, per mezzo dei loro rispettivi programmi, che dovrebbero in line adi principio aumentare il tasso più alto di imposizione fiscale, dal 42% al 49%. Deliberatamente, dimenticano di ricordarsi che, negli anni '90, loro stessi hanno abbassato tale tasso, che allora si attestava sul 53%.
Nella misura in cui, entrambi i partiti hanno anche sostenuto l'iscrizione nella Costituzione, della regola del pareggio di bilancio, e la politica di austerità di Angela Merkel, si può dire che non ci sia molto da aspettarsi da un eventuale governo rosso-verde, nel 2013, se non delle misure di ordine simbolico: si alzerà leggermente il tasso massimo di imposta, per sottolineare che siamo "tutti insieme" sulla stessa barca. In definitiva, la prossima riduzione delle pensioni passerà meglio se i pensionati colpiti potranno dire che "quelli che stanno in alto" versano anche loro le loro quote.

I membri di "Per una ripartizione equa", tuttavia, prendono la cosa molto sul serio. Attac, per esempio, esige un prelievo eccezionale e progressivo sul patrimonio dei milionari e dei miliardari, del quale circa il 50% dovrà essere sequestrato e versato nelle casse pubbliche.  Quattromila miliardi di euro potrebbero così devoluti a livello europeo. Per il resto, la ricetta che dovrebbe salvarci dalla crisi attuale sembra riassumersi in un ritorno agli anni '70, a quel sistema di ripartizione del reddito e della ricchezza, ed agli strumenti di politica fiscale corrispondenti. Ridateci il nostro capitalismo renano!

La comprensione delle crisi che sottende queste rivendicazioni potrebbe essere ancora più semplicistica di quella, fondata sul modello neoclassico della "casalinga di Voghera", che la maggior parte dei tedeschi condivide con il proprio cancelliere: dal momento che "tutti insieme", e tutti particolarmente nei "nostri paesi del sud", abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, ed ora è tempo di risparmiare, risparmiare e ancora risparmiare. Che questa politica non porti ad altro che ad una crisi più profonda, è cosa talmente di dominio pubblico, dopo il decreto legge d'urgenza di Brüning, che è inutile starlo a ricordare.

Quanto al modello keynesiano di sinistra rappresentato da Attac e compagnia, esso considera la ineguale ripartizione del reddito e della ricchezza come la causa - e in alcuni casi la conseguenza - dei fenomeni di crisi: il neoliberismo ci avrebbe deviato dalla retta via, quella del "capitalismo buono", e portato alla crisi.

In contrasto con questi modelli semplicistici, c'è la teoria delle crisi formulata da Robert Kurz a partire dal 1986. Come aveva già stabilito Marx, la contraddizione nel processo del capitale fa sì che, da un lato, la sua ricchezza astratta ha per unica sorgente il lavoro, mentre dall'altro lato, nella misura in cui la produttività aumenta, la forza-lavoro umana diventa sempre più svantaggiata ed espulsa dal processo di produzione. Per Marx, tale contraddizione è suscettibile di far saltare la base del capitale. Da certe evidenze, a partire dagli anni '70, con l'utilizzo della microelettronica - i cui potenziali ai fini dell'automazione sono, del resto, assai lontani dall'essere esauriti - il capitalismo sia entrato in questa fase terminale che la teoria marxiana aveva anticipato.

La serie di crisi finanziarie che abbiamo conosciuto in questi ultimi trent'anni e che, con il crack del 2008, ha assunto per la prima volta una dimensione planetaria, ha il suo punto di partenza in quella che è la "stagflazione" degli anni '70, cioè la coincidenza della stagnazione dell'economia mondiale con dei tassi di inflazione elevati, che possono arrivare fino a due cifre. La politica economica keynesiana, il cui dominio, in quest'epoca, non è ancora stato messo in discussione, può certo attenuare i fenomeni di crisi, ma non è più in grado di generare una nuova ondata di accumulazione. La conseguenza è stata che ha ceduto il passo al neoliberismo.
La risposta di questi, a fronte dell'impossibilità di produrre un plus-valore reale in quantità sufficiente, consiste, in breve, nel garantire i profitti con altri mezzi: in primo luogo, l'aumento crescente della disoccupazione permette di esercitare una pressione sui salari; secondo, in virtù di quella che si chiama una politica economica "basata sull'offerta", si diminuiscono le imposte sulle società e sui redditi da capitale; terzo, in mancanza di reali possibilità di investimento, un cospicuo numero di imprese si rivolgono verso il credito, contribuendo così, col loro capitale finanziario, a generare delle bolle che possano dare in questo modo una parvenza di equilibrio ai loro bilanci. La Siemens, per esempio, dagli anni '90 si è vista ironicamente qualificare come una banca, con annesso un dipartimento elettronico.

Da un punto di vista fenomenologico, Attac e gli altri hanno completamente ragione. Da un lato, i salari reali sono effettivamente scesi. D'altra parte, abbiamo visto in trent'anni - e anche questa è una conseguenza della deregolazione del settore finanziario - moltiplicarsi per venti la quantità di attività finanziarie e immobiliari a livello mondiale, senza che si possano collegare tali attività ad un qualche valore reale.

Il problema sta proprio qui: queste attività sono in maggior parte fittizie, sia che provengano da bolle finanziarie, sia che consistano in crediti dubbi. Ogni tentativo, in grande scala, volto a trasmutarle in ricchezza materiale porta alla loro svalutazione immediata.
Sarebbe questo che, all'occorrenza, provocherebbe il progetto di Attac, di reindirizzare la metà di queste risorse verso le casse dello Stato. L'idea che ci sarebbero soldi a bizzeffe, e che si tratterebbe semplicemente di ripartire diversamente, si rivela un progetto decisamente un po' troppo semplicistico, equivalente a quello che dice che basterebbe stampare la quantità necessaria di denaro.
Anche l'appello ad un ritorno, in materia di ripartizione dei redditi e della ricchezza, al "buon capitalismo" degli anni '70, non è meno irrealistico. La rivoluzione neoliberale non è stato un semplice errore ma una risposta intracapitalista alla crisi degli anni '70 ed al fallimento del keynesismo. Con questo stratagemma non si supera la crisi, ci si accontenta semplicemente di rimandarla e, così facendo, di aggravarla. Il ritorno al punto di partenza è impossibile - tanto più che le condizioni di produzione di plus-valore si sono ancora deteriorate a causa del livello di produttività nel frattempo raggiunto.

Ciascuno ha il diritto di esprimere i propri desideri. Però, al di fuori dei compleanni dei bambini, si dovrebbe chiarire sotto quali condizioni essi possono essere realizzati. E per quanto riguarda il vecchio e pio desiderio del "Per una ripartizione equa", una sola cosa è sicura: la sua realizzazione non è più possibile sotto le condizioni del capitalismo.

(Apparso su Konkret, settembre 2012)

A Elsa Fornero il Nobel per la simpatia: per i giovani supera Cossiga e Pol Pot di Alessandro Robecchi, Il Misfatto

Dopo “bamboccioni”, “sfigati” e “choosy”, il governo studia altre formule per incentivare l’entusiasmo giovanile, come la garrota e il dentifricio nelle scarpe. Il ministro del lavoro si scaglia contro i privilegi dei precari: “Se cominciate a lavorare a cinquant’anni non potete andare in pensione a settanta!”. Monti precisa: “E se morite a 71 anni dovete renderci i soldi!”.
Il coraggio di rischiare l’impopolarità, di dire una verità scomoda, di rompere convenzioni e luoghi comuni. Elsa Fornero, ministro del lavoro, ha fatto invecchiare di colpo decine di proverbi e modi di dire. La frase sui giovani italiani che sono un po’ “choosy”, schizzinosi, di fronte al mondo del lavoro spazza via altre frasi dello stesso tipo, come “I terroni non hanno voglia di lavorare”, “Gli zingari rubano i bambini”, e “E’ tutta colpa dei sindacati”. Tutte cose vecchie, superate dalla nuova frase del ministro Fornero: prendete il primo lavoretto del cazzo e poi guardatevi intorno da dentro.
“Io l’ho fatto – dice un giovane di Salerno che preferisce restare anonimo – pur di lavorare ho cominciato con il piccolo spaccio e ora sono un apprezzato killer di camorra. La Fornero ha ragione, c’è sempre spazio per chi si dà da fare”. Ma è nelle realtà metropolitane che l’entusiasmo dei giovani è alle stelle. Dice un turnista di un call center della capitale: “Anch’io all’inizio ero un po’ schizzinoso a pulirmi il culo con la mia laurea, ma poi ci ho fatto l’abitudine e ora sono felice di aver studiato vent’anni per guadagnare tre euro all’ora. Sto pensando di prenderne un’altra, visto che vale meno della carta doppio velo”.
L’apprezzamento per il ministro del lavoro trabocca dai social network. Scrive ad esempio Giovanni, da Milano: “La mia laurea in lettere si è rivelata preziosa per il mio lavoro nei cessi della stazione: mi aiuta a correggere le scritte sul muro davanti ai pisciatoi”. Anche chi inizialmente aveva pensato a un autogol della ministra ora deve ricredersi, basta guardare i sondaggi. “E’ vero – dicono alla Swg – non si era mai visto un ministro italiano scalare così velocemente la classifica. Ora la Fornero, per simpatia, si colloca tra Pol Pot e Cossiga, e la tendenza è in crescita”. “Oltretutto – aggiungono alla Doxa – si è rivelata eccellente nell’aggregare i giovani italiani. I numeri parlano chiaro. 35 su 100 sono disoccupati. 40 su 100 sono precari, e a 99 su 100 sta prepotentemente sul cazzo Elsa Fornero”. Non è stato reso noto il nome del centesimo intervistato del campione, che subito dopo aver risposto al sondaggio si è affrettata a chiamare mamma al ministero del lavoro.

L' altra Europa fa dieci più dieci di Mario Pianta, Il Manifesto

Il Parlamento europeo boccia la Banca centrale europea non per la sua politica che protegge la finanza e aggrava la crisi, ma perché non trova una donna da inserire del Comitato esecutivo (il voto è solo consultivo). I sindacati di Grecia, Spagna e Portogallo convocano uno sciopero generale comune contro le politiche di austerità il 14 novembre e i sindacati italiani e europei restano in silenzio. I partiti socialisti e democratici di Francia, Italia e Germania vanno alle elezioni - tenute sei mesi fa a Parigi, tra cinque mesi da noi, tra un anno a Berlino - senza una posizione comune su Fiscal compact , eurobond e come uscire dalla recessione.

Dov'è l'Europa? Se guardiamo alle istituzioni, alla politica e al sindacato, il vuoto è impressionante. Subalterni al "pensiero unico" della finanza, ripiegati sulle convenienze elettorali di casa propria, i politici europei hanno disertato le loro responsabilità. Senza combattere, hanno lasciato il campo ad Angela Merkel e al protettorato tedesco sul continente che - alleato con la Banca Centrale Europea - da tre anni salva le banche e condanna alla depressione tutti gli altri, rafforza la Germania e sprofonda nella disperazione la periferia dell'Europa. A cinque anni dallo scoppio della crisi finanziaria, le istituzioni europee sono sempre più parte del problema e non della soluzione . Hanno imposto un Trattato di stabilità (il Fiscal compact ) che è tanto folle da essere (speriamo) irrealizzabile: pareggio di bilancio in costituzione, azzeramento del deficit pubblico, rimborso in vent'anni del debito pubblico che supera il 60% del Pil.
Hanno affrontato la speculazione contro i paesi fragili regalando 1000 miliardi di euro alle banche che speculavano e messo in piedi un Meccanismo europeo di stabilità che non ha risorse per stabilizzare nulla. Impongono tagli di spesa, dei salari e dell'occupazione in Grecia, Portogallo e Spagna che portano i disoccupati al 25%, distruggono il welfare e la sanità, creano povertà di massa. Manifestazioni ad Atene e Lisbona, indignados a Madrid, piccoli gruppi di Occupy a Londra e Francoforte, proteste frammentate in Italia e Francia sono state le reazioni di questi anni. Significative, ma inadeguate, queste risposte sociali si presentano ancora senza un orizzonte comune, senza una rete organizzativa europea, senza un'alternativa per il post-liberismo. La politica istituzionale ha rispoBrussels sul commercio mondiale, dai No Tav sulle grandi opere, dai movimenti europei per l'acqua sui beni comuni, da Attac di diversi paesi, Espace Marx e Transform sulla crisi, da Via Campesina sulla sovranità alimentare, da Cgil, Fiom e sindacati francesi e spagnoli sul lavoro, dall'Arci e l'associazionismo europeo sulla partecipazione. Sull'austerità sono previste iniziative del Corporate Europe Observatory, Transnational Institute, il Cadtm e la rete contro il debito e poi ancora incontri sulla cooperazione allo sviluppo, l'ecologia, la cultura, promosso dalla Rete della conoscenza. Sulla democrazia - un tema chiave per Firenze - si saranno attività proposte da European Alternatives, dai Social Forun di Ungheria, Repubblica Ceca e Austria, dal Movimento federalista europeo e ancora diversi incontri su pace e conflitti, con la partecipazione di movimenti per la pace da tutta Europa. Il programma dettagliato sarà presto disponibile sul sito dell'incontro, dove si possono già registrare sia i singoli partecipanti che le organizzazioni: www.firenze1010.eu/index. php/it/ . Per informazioni: redazione@sbilanciamoci.infoinfo@firenze1010 www.firenze1010.eu facebook: firenze10+10 twitter: firenze1010 sto con grande lentezza. A Parigi ha vinto François Hollande con l'alleanza socialisti-verdi, ma i cambiamenti stentano a vedersi; in Grecia la sinistra radicale di Syriza è balzata in avanti ma resta opposizione; in Olanda la spinta di socialdemocratici e socialisti ha comunque portato a una grande coalizione con i liberali. Il cambiamento di rotta dell'Europa non è nell'agenda dei governi e stenta a venire da processi elettorali ancorati a dinamiche strettamente nazionali. Il paradosso di cinque anni di crisi drammatica senza proteste generalizzate e senza cambiamento politico significativo ha tre ragioni di fondo. La prima è l' opacità del potere in Europa. Manca una Costituzione, strutture "visibili" con responsabilità politiche, il potere ha una natura "dispersa" tra vertici del Consiglio europeo, direttive della Commissione, "indipendenza" della Bce, la voce grossa di Berlino e il potere dei tecnocrati. Tutto ciò rende difficile concentrare la protesta, fermare le decisioni, cambiare le politiche. La seconda ragione è la tragica mancanza di democrazia in Europa. I capi di governo che decidono tutto - e lasciano che a decidere siano i più forti - un Parlamento con poteri ridotti, partiti inesistenti a scala europea, autorità non legittimate dal voto dei cittadini e che rispondono soprattutto alle lobby delle imprese. In queste condizioni, anche quando l'opposizione alle politiche europee diventa maggioranza, come si può affermare in un sistema politico senza democrazia? La terza ragione è l'assenza di uno spazio pubblico europeo , che apra discussioni e deliberazioni comuni, su problemi e soluzioni pensate a scala dell'Europa. Nemmeno la crisi ha fatto emergere un'opinione pubblica europea; l'azione della società civile è rimasta a scala nazionale; sindacati e movimenti hanno dato la priorità alle lotte di resistenza contro gli effetti della crisi; l'Europa non è (ancora) diventata l'orizzonte comune necessario per sconfiggere finanza e neoliberismo. Eppure, tra il 1999 e il 2006 la critica della globalizzazione neoliberista era diventata la bandiera comune dei movimenti di tutto il mondo, con i Forum sociali mondiali iniziati a Porto Alegre e il primo Forum sociale europeo tenuto nel 2002 a Firenze, con grandi mobilitazioni transnazionali, contro la liberalizzazione di commercio, finanza e investimenti, per la cancellazione del debito del terzo mondo, la Tobin tax, il diritto ai farmaci, la protezione dell'ambiente. Una stagione che ha cambiato il modo di vedere la globalizzazione e organizzare la protesta, ed è riuscita a cambiare alcune politiche concrete: la notizia più recente è che la tassa sulle transazioni finanziarie sarà introdotta da 13 paesi europei. La crisi ha rotto quest'orizzonte transnazionale e frammentato le mobilitazioni. La politica nazionale ha monopolizzato le energie, chiuso il dibattito in un quadro inadeguato, disperso i movimenti, stretto la società all'interno di dinamiche elettorali che non possono far altro che registrare l'ascesa di disaffezione e populismo. Ma un'occasione per uscire da questa stretta e ricostruire un orizzonte europeo c'è: a Firenze, dall'8 all'11 novembre, migliaia di persone da tutta Europa saranno all'incontro "Firenze 10+10" che chiede un'altra Europa, adesso . Si metteranno in comune le analisi su quanto è successo, le esperienze costruite dal basso, le proposte su come far cambiare rotta all'Europa. Si intrecceranno i risultati del lavoro di reti sociali e sindacali, di gruppi di economisti e associazioni, l'esperienza di "Un'altra strada per l'Europa", il forum al Parlamento europeo del 28 giugno scorso che ha messo a confronto movimenti e politici europei su economia e democrazia, con un documento finale che chiede di legare le mani alla finanza, risolvere il problema del debito con una responsabilità comune dell'eurozona, rovesciare le politiche di austerità, tutelare il lavoro, un new deal verde e una vera democrazia in Europa. Queste e molte altre le proposte che emergeranno a Firenze, per far cambiare rotta a un'Europa andata fuori strada. Prima che sia troppo tardi.

Marcello Cini, la Società e la Scienza


È scomparso all'età di 89 anni Marcello Cini. Con "L'ape e l'architetto" mise in discussione la visione di una scienza neutrale e impersonale, mettendone in luce non solo le implicazioni, ma anche e soprattutto le responsabilità sociali. Precorse una specie di “terza via”, a metà strada tra gli eccessi acritici dell’accettazione scientista e del rifiuto idealista.

di Piergiorgio Odifreddi, da Repubblica
 
È morto a quasi novant’anni Marcello Cini, influente e discusso scienziato engagé, nel senso alto della parola: quello portato alla ribalta dalle contestazioni studentesche degli anni ’60, e oggi purtroppo solo un ricordo di tempi passati. Esatta antitesi dell’intellettuale chiuso nel suo laboratorio a osservare le particelle, o rinserrato nel suo studio a cercarne le leggi, Cini era uscito allo scoperto per diventare un “cattivo maestro”, come si era definito con provocatoria civetteria negli autobiografici Dialoghi di un cattivo maestro, appunto.

A portarlo alla ribalta nel 1976 fu L’ape e l’architetto, un libro scritto con Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio, che sollevò un vero e proprio polverone. Cini e i suoi coautori attaccavano infatti la visione di una scienza neutrale e impersonale. Ne mettevano in luce non solo le implicazioni, ma anche e soprattutto le responsabilità sociali. E percorrevano una specie di “terza via”, a metà strada tra gli eccessi acritici dell’accettazione scientista e del rifiuto idealista.
Il linguaggio di quelle pagine oggi suona un po’ arcaico e demodé, con tutti quei riferimenti ai “modi di produzione” e alle “classi dominanti”. Ma la sostanza rimane attuale, se è vero che, come ricordava qualche tempo fa lo scomparso premio Nobel per la pace Joseph Rotblatt, la maggioranza degli scienziati attualmente lavora a ricerche direttamente o indirettamente legate agli armamenti. E una percentuale ancora maggiore, ovviamente, a ricerche direttamente o indirettamente legate all’industria e alla tecnologia.

Sorprendentemente, a scagliarsi contro quest’interpretazione marxista della scienza fu Lucio Colletti, coetaneo di Cini, che in una famosa recensione sull’Espresso scrisse: «Qui la scienza e il capitalismo fanno tutt’uno. Il valore oggettivo della conoscenza scientifica è saltato. Malgrado le intenzioni è saltato anche il materialismo». Quasi quarant’anni dopo, la storia registra la coerenza di Cini, collaboratore fino all’ultimo del Manifesto, e il tradimento di Colletti, fiore all’occhiello di Forza Italia dal 1996 alla morte nel 2001.

Politicamente, Cini (nato nel 1923 a Firenze, chiamato alla Sapienza da Edoardo Amaldi per insegnare Fisica teorica e, poi, Teorie quantistiche) aveva fatto parte del Partito Comunista Italiano fino al 1970, quando ne era stato espulso insieme agli altri fondatori del Manifesto, appunto. E nel 2010 aveva accettato la candidatura da capolista di Sinistra Ecologia Libertà alle regionali del Lazio. D’altronde, l’ecologia e l’ambientalismo erano due dei grandi temi del suo pensiero, a favore dei quali si era impegnato nella presidenza del consiglio scientifico di Legambiente.

L’ultima zampata da leone l’aveva data il 14 novembre 2007, indirizzando al rettore della Sapienza una lettera di protesta in cui gli chiedeva di annullare l’invito a Benedetto XVI in occasione dell’apertura dell’anno accademico. Decine di docenti dell’università sottoscrissero l’appello di Cini, e centinaia di studenti manifestarono contro la visita del papa, che decise diplomaticamente di cancellare la propria lectio magistralis.

Fu in quell’occasione che vidi Cini per l’ultima volta. Partecipammo insieme, la sera del 16 gennaio 2008, a una puntata di Porta a Porta, il giorno prima della mancata visita papale. Monsignor Fisichella e l’onorevole Buttiglione chiamarono a raccolta per la domenica successiva in Piazza San Pietro. Cini intervenne signorilmente e pacatamente, a difesa della scienza e della sua separazione dalla religione. E le sue parole e la sua chioma bianca sono il mio ultimo ricordo del “cattivo maestro”, che quella volta era riuscito a scuotere l’Italia intera.

IL BRILLANTE DOCENTE E RICERCATORE CHE INCONTRÒ LA STORIA E LA SOCIETÀ
di Giorgio Parisi, da il manifesto

Durante il '68 Marcello Cini non stava a Roma: aveva preso un anno sabbatico in un'università parigina. In quel periodo sentivo spesso parlare di questo compagno professore, che aveva sempre pronta una citazione raffinata di Marx e che era appena andato nel Vietnam del Nord bombardato dagli americani.Lo incontrai al suo ritorno a Roma, avrei dovuto seguire un suo corso di fisica, ma tra occupazioni e altre vicende le lezioni a cui sono andato si contano sulle punte delle dita. Ma ho ancora impresso in mente lo sforzo che Marcello faceva per non separare i risultati della meccanica quantistica (la formulazione matematica, i teoremi, le previsioni sperimentali) dal come un piccolo numero di uomini era riuscito a fare queste scoperte meravigliose, formulando all'inizio ipotesi insensate e contraddittorie che con gli anni si modificavano e diventavano sempre più sensate e coerenti. Non era affatto facile portare assieme i due discorsi: la storia di un'avventura che si dipanava per un periodo di una trentina d'anni (dal 1900 al 1930) e la descrizione della teoria risultante. Era un modo diverso di raccontare la scienza, che faceva notevole impressione a noi abituati a vedere solo il prodotto finale, bello lucido, senza che ci rendessimo conto della fatica che era stata necessaria per arrivarci.

Era un periodo di transizione nella vita di Marcello. Nel primo dopoguerra era diventato un brillante fisico teorico nella disciplina allora di punta, la fisica delle altre energie, e a soli 33 anni nel 1956 aveva vinto una cattedra all'università di Catania. Aveva continuato a lavorare, pubblicava articoli su prestigiose riviste, era invitato a parlare a importanti congressi internazionali, ma la fisica teorica gli stava diventando stretta. Come lui stesso dice nei Dialoghi di un cattivo maestro, «la fisica teorica stava cambiando. La concorrenza diventava sfrenata. Se avevi un'idea, scoprivi che altre sei persone ci stavano lavorando sopra. (...) Quando eravamo pochi, anche il nostro lavoro aveva un senso. Ma una volta diventati tanti, veniva da domandarsi a che cosa servisse. (...) Questo disagio professionale si accompagnava all'insoddisfazione che provavo da qualche anno nei confronti della politica del Pci».

In quel periodo Marcello stava cessando di lavorare nel filone principale della fisica: riprenderà la sua attività di ricercatore diversi anni dopo, affascinato da uno dei problemi più intriganti e mai ben risolti della fisica: quale sia «il significato» della meccanica quantistica, cosa sia la realtà fisica, quale sia in questo contesto il rapporto tra la l'osservatore e l'oggetto osservato, quanto l'osservazione di un fenomeno modifichi necessariamente il fenomeno stesso. Marcello incominciava a riflettere su i rapporti tra la scienza, la storia e la società, a vedere la scienza come una delle tante attività umane che diventa «comprensibile solo se riferita alla totalità dell'operare degli uomini». La scienza non è più neutrale, ma porta con sé i segni delle ideologie degli scienziati che l'hanno prodotta.

Sono le tesi che confluiscono ne L'Ape e l'Architetto, libro pubblicato nel 1976 e che raccoglie saggi scritti negli anni precedenti da Giovanni Ciccotti, Marcello Cini, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona Lasinio. Erano tesi doppiamente eretiche rispetto all'ortodossia dominante, dal punto di vista sia politico che scientifico, e suscitarono una reazione furiosa: Lucio Colletti e Giorgio Bocca furono tra gli oppositori più accesi che cercarono di smontarle con una serie di banalità impressionanti. La reazione del mondo scientifico fu più composta, di grande freddezza in pubblico, ma veementemente negativa in privato. Il libro, che ebbe una notorietà enorme e che è stato recentemente ristampato, ebbe tuttavia, col passare degli anni, una fortissima influenza sul modo in cui concepiamo il rapporto tra scienza e società e molte delle tesi scandalose sono diventate sentire comune.

Marcello non si era però fermato lì: aveva continuato a riflettere sui rapporti tra scienza, tecnologia società e democrazia, su quali fossero concretamente e in dettaglio queste relazioni, come si modificassero con il tempo, su come fossero diverse per esempio fisica e biologia, riflessioni che hanno generato molti libri in cui raffina e approfondisce il suo pensiero. Marcello è stato uno dei pochi grandi intellettuali che ha cercato di capire a fondo il mondo, non solo negli aspetti tecnici di una disciplina scientifica, ma nella sua interezza, riempiendo la propria vita sia dell'impegno politico che dello sforzo per arrivare a una maggiore comprensione e controllo della natura. Era uno dei pochi punti di riferimento che avevamo, sempre pronto a discutere e ad aiutarti a capire. Ci mancherà moltissimo.

UN OTTIMO CATTIVO MAESTRO
di Marco D’Eramo, da il manifesto

Marcello Cini lo conobbi prima come professore, al terzo anno, quando dall'ottobre del 1968 seguii il suo corso di Istituzioni di fisica teorica. Parlava molto lentamente, con quel tossicchiare a scandire le frasi che avrei imparato a conoscere così bene, e all'inizio trovavo noiose le sue lezioni. Col mio sguardo di 21-enne lo trovavo vecchio. Aveva 45 anni ed era nel pieno fulgore della sua maturità. Non sapevo quanto le nostre vite sarebbero state intrecciate. Infatti nel gennaio di quello stesso anno erano iniziate le agitazioni studentesche a Roma, che erano culminate il primo marzo con quella che fu chiamata «la battaglia di Valle Giulia» ma che continuarono per tutto l'anno successivo. L'istituto di fisica Enrico Fermi fu uno dei centri del movimento romano, insieme a Lettere e Architettura. Leader del movimento erano giovani fisici, assistenti e borsisti, che nel decennio successivo avrebbero seguito traiettorie diverse: Franco Piperno, Gianni Mattioli, Massimo Scalia, Sandro Petruccioli, Mimmo De Maria. E, quando tornò dal suo anno sabatico a Parigi, Marcello fu l'unico ordinario a interloquire con noi, anche a polemizzare, ma stando sempre dalla nostra parte, lui che era noto per la sua militanza nel Partito comunista italiano (da cui sarebbe stato radiato dopo pochi mesi, nel 1969, insieme a tutto il gruppo della rivista il manifesto).

Poi Marcello fu il mio direttore di tesi e dopo la laurea si adoperò perché divenissi borsista nel suo gruppo di ricerca teorica. Quando abbandonai la fisica e andai a studiare sociologia a Parigi, negli anni Settanta, ogni volta che veniva sulla Senna, ci vedevamo, cenavamo insieme con la sua (allora) nuova compagna, Agnese. Poi, nel 1980 per le peripezie della vita, venni a lavorare nel quotidiano di cui Marcello era stato uno dei fondatori e dalle cui colonne ora vi sto scrivendo. Ancora, il figlio di Marcello, il regista Daniele Cini, aveva vissuto per anni nella stessa casa della nostra indimenticata Carla Casalini, e la sua perdita nel 2008 ci ha stretti alla sua figlia Gaia.Non solo, ma negli anni Settanta Marcello aveva animato un gruppo di fisici teorici (di cui oltre a Marcello facevano parte Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio) che avrebbe prodotto l'unico contributo italiano davvero rilevante alla filosofia della scienza, e cioè L'ape e l'architetto (Feltrinelli 1976, ripubblicato con rivisitazioni degli autori presso Franco Angeli nel 2011). Era la prima volta in Italia che a discutere di neutralità della scienza erano scienziati professionisti.

Fino al fine anni Sessanta infatti la sinistra italiana era stata scientista, d'istinto e di convenienza. Lo scientismo era l'orizzonte filosofico più comodo per coniugare insieme emancipazione sociale e progresso tecnologico, razionalismo antisuperstizioso e laicità. Una versione paludata di quello slogan «Soviet + elettrificazione» in cui cui Lenin aveva condensato tutto il comunismo. Sul versante opposto, le critiche alla scienza venivano tutte da un orizzonte irrazionalista, poetante, nietzscheano, aborrente i numeri («la legge di gravità non renderà mai conto della poesia della luna di notte») e la rivendicazione di un'ineffabilità sostanziale del mondo.Ma già dal sottotitolo, Paradigmi scientifici e materialismo storico, i quattro autori rimescolavano le carte ed esplicitavano il loro obiettivo: affrontare la non-neutralità della scienza, la sua storicità, non dalla prospettiva di un irrazionalismo di destra, ma da sinistra e dall'interno del razionalismo. Non a caso i quattro autori avevano tutti partecipato in modi diversi al '68.

E ci voleva la carica eversiva del '68 per poter formulare - contro tutto l'establishment accademico e contro la corporazione degli scienziati, in primis dei fisici - una visione storicizzata della scienza. Per poter cioè dire che la scienza è prodotto storico, come ogni altra attività umana, e in quanto tale condizionata dalla società in cui viene esercitata. Fino ad allora aveva prevalso la tesi che la scienza di per sé è neutra e a-storica, anche se il suo (buono o cattivo) uso può essere determinato dal contesto sociale. L'ambizione dell'Ape era invece quella di mostrare che la correlazione tra società e ricerca scientifica penetrava fino nelle teorie e nei concetti. Un'ambizione che valse al libro una levata di scudi sul genere becero «la legge di gravità fa cadere i corpi allo stesso modo in un regime socialista e in uno capitalista».

Fu proprio la non neutralità degli stessi concetti scientifici a indirizzare il lavoro giornalistico e di ricerca che facemmo sul manifesto per tutti gli anni '80 sulle pagine culturali e sul supplemento monografico settimanale la talpa. Un lavoro cui partecipavano tra gli altri Michelangelo Notarianni, Franco Carlini, Danielle Mazzonis.Certo Marcello, non sempre andavamo d'accordo tu e io: per esempio non condividevo la sua passione per Bateson, ma è certo che il confronto intellettuale sui temi che ci arrovellavano entrambi ha stimolato la mia mente, come quella di tanti altri, e ci ha consentito di non assopirci nel generale letargo della ragione che ha colpito la nostra società.E come apprezzammo nel 2007 la lettera che dalle colonne del manifesto scrivesti (insieme ad alcuni altri docenti tra cui Giorgio Parisi) al rettore dell'università La Sapienza di Roma per far annullare la lectio magistralis di Benedetto XVI!

Una vita lunga e invidiabile la tua Marcello: non solo sei sempre stato un bellissimo uomo, ma hai fatto un bellissimo lavoro, quello di fisico teorico, hai visitato terre lontane (come quando nel 1967 andasti in Vietnam e in Laos, sotto le bombe americane, come membro della giuria del Tribunale Russell), hai avuto una miriade di amici intelligenti che ti amavano, eri stimato, hai militato per una società migliore, hai contribuito a fondare il manifesto, hai stimolato la discussione filosofica italiana, hai goduto i piaceri della vita. Come scrisse Catullo a suo fratello: et in perpetuo salve atque vale.

La mano visibile del mercato: intervista a Luciano Gallino


“Si sente dire spesso che ‘si vede la luce in fondo al tunnel’, che la ripresa non è lontana. Sono dichiarazioni totalmente slegate dalla realtà. E chi le afferma, se ne deve assumere la responsabilità”. Luciano Gallino, classe 1927, sociologo di fama internazionale e autore di innumerevoli manuali e saggi, è lucido nella sua analisi, forte di un incessante lavoro di studio e ricerca che dura da oltre 50 anni.
Professor Gallino, che cosa ci dicono i recenti dati sul lavoro in Italia?
“Ci dicono che la situazione dell’economia e del lavoro è gravissima. La disoccupazione tocca livelli altissimi: tra disoccupati ‘dichiarati’ e lavoratori ‘scoraggiati’ siamo arrivati ormai a quasi 4 milioni di persone. Se il tasso di disoccupazione è diminuito quindi è solo perché molte persone hanno semplicemente smesso di cercare lavoro.
Ma non solo. Ancora in questi giorni ho letto che i cosiddetti ‘precari’ sono soprattutto giovani. Ora, è senz’altro vero che l’80% delle nuove ‘assunzioni’ (se così possiamo chiamarle) riguarda persone poco avanti con gli anni. È anche vero, però, che ormai milioni di lavoratori hanno seguito questa trafila: dopo 15, 20 anni di contratti di breve durata di vario genere, non sono più tanto giovani. Si stima che almeno un 30% dei precari oggi abbia passato i 40 anni. Le stime dicono che i precari sono 3 milioni. Io ipotizzo 4 milioni. Quel che conta però è il totale: stiamo parlando di 7, 8 milioni di persone che non hanno lavoro, o lo hanno scadente e mal pagato (ricordiamoci che i precari quando hanno uno stipendio ragionevole lo hanno per 8, 9 mesi). Non vedo proposte adeguate per questa situazione. Eppure si dovrebbe ridurre di almeno 1 milione o 2 i disoccupati. Senza dimenticare un altro dato: per il 2012 è previsto un miliardo di ore di cassa integrazione, pari a mille ore in media per un milione di persone. La Cig vuol dire per un lavoratore ricevere meno di 750 euro netti al mese, per chi ne prendeva 1.200. La nostra situazione è più simile a quella della Spagna che a qualunque altro Paese europeo”.
Quali conseguenze ha la disoccupazione?
“La disoccupazione è peggio di non avere reddito, o averlo senza essere occupati. È una ferita profonda del proprio senso di autostima. Soprattuto per i giovani: perché non ho lavoro? Ho studiato, ho esperienza… Senza contare i problemi familiari: anche coi 750 euro della cassa integrazione, il reddito è insufficiente, i rapporti in famiglia si logorano, si inaspriscono.
La disoccupazione è un enorme spreco economico e sociale. L’unica cosa che crea valore reale è il lavoro: 4 milioni di persone che non producono, 4 milioni che producono poco e male. Poi ci sono le professionalità che si perdono: il 50% dei disoccupati ha superato un anno di inattività, un’eternità se comparato con lo sviluppo della produzione e il mutamento delle tecnologie. Per strada si perdono forme di conoscenza. La disoccupazione è il più grande scandalo che la società possa conoscere. Che non se ne parli è uno degli aspetti più gravi”.
Perché colpisce il sistema produttivo italiano?
“La finanziarizzazione dell’economia ha stravolto i criteri delle imprese. Il risultato è stato che queste cercano di comprimere i costi del lavoro, spremute dagli azionisti e dagli investitori, per inseguire rendimenti elevati, assurdi dal punto di vista industriale. Rendimenti tipici della speculazione, ovvero 3, 4 volte superiori rispetto a quelli tecnicamente sostenibili nel periodo medio lungo per una normale azienda.
Il risultato sono compressione dei salari, intensificazione dei ritmi, emarginazione dei sindacati. Attenzione, però, vale per tutti i Paesi europei, anche per la Germania, dove milioni di lavoratori hanno pagato questa situazione. Tuttavia la Germania ha una ventina di grandi industrie che vanno abbastanza bene, e parecchi altri elementi che spiegano la differenza con noi.
Uno fra tutti è il tasso di investimento in ricerca e sviluppo. Sui 27 Paesi dell’Unione europea, l’Italia è al quindicesimo posto, dietro all’Estonia, con un tasso di investimento dell’1,25% del Pil. Il tasso tedesco è più del doppio, quasi il triplo. Anche l’Inghilterra, che di per sé ha un prodotto interno lordo molto legato alla finanza, investe molto di più in ricerca. Un altro dato: sono particolarmente carenti gli investimenti in capitale fisso. Gli stabilimenti italiani sono irrimediabilmente invecchiati, con un’età media di 25 anni. In Europa la media è la metà. Neanche a dirlo, l’insufficienza degli investimenti è equamente divisa tra pubblico e privato”.
Quanto hanno influito le riforme del mercato del lavoro che si sono susseguite nel tempo?
“Le cosiddette riforme del lavoro progettate dalla fine degli anni 90 in poi hanno aumentato il lavoro precario. In particolare, se si guarda la curva del lavoro precario, dal 2003 -anno della stesura del decreto attuativo della legge 30- c’è una fortissima impennata. La precarietà peraltro contribuisce alla crescita del coefficiente di disoccupazione, perché tra un contratto e l’altro passa sovente qualche mese.
È una delle conseguenze delle dottrine neoliberali, che per quanto sconfitte, smentite e sconfessate, sono sempre lì, si insegnano nelle università, costituiscono la forma mentale dominante nei media.
Chiunque abbia studiato a fondo la questione si rende conto che non c’è nessuno studio empirico di peso che metta in correlazione flessibilità nel lavoro e aumento dell’occupazione. Semmai molti studi dimostrano il contrario. Negli anni 90 l’Ocse insisteva molto sulla flessibilità, ma già dal 2004 ha cominciato a ricredersi.
L’evidenza ci dice che dal 2000 in poi l’indice Ocse della rigidità del lavoro in Italia è diminuito moltissimo, passando dal 3,50 del 2003 a meno di 1,8 oggi, in una scala da 0 a 5, dove il massimo significa quasi impossibilità di licenziare (tra gli indicatori c’è ad esempio il costo per il licenziamento). Ma questo nella testa degli economisti non entra. Eppure si danno l’aria di scienziati, e dovrebbero sapere che si fa se un esperimento fallisce”.
Molti spingono sulla retorica del costo del lavoro e della scarsa produttività, come nel caso Fiat.
“Assistiamo a dell’umorismo nero: 5 anni fa Sergio Marchionne disse ‘Che cos’è questa storia del costo del lavoro, che incide 5/6% sul totale! Bisogna occuparsi di cose serie’. Anni dopo pare abbia scoperto che il lavoro costa troppo… Chissà, forse non aveva previsto la crisi…
Continuano a sperare di produrre 6 milioni di auto. Nel 2007 -l’ultimo anno buono per l’industria automobilistica- in Europa si sono vendute di 17 milioni di auto. Quest’anno saremo sotto i 13 milioni, 4 milioni di pezzi in meno. Tutte le società automobilistiche sono in crisi, tranne forse la VolksWagen. I manager non hanno tenuto conto che l’auto è alla fine dei suoi giorni. E ciò vale soprattuto per l’Italia, visto che detiene il maggior numero di auto per abitante (in Francia è inferiore di un terzo)”.
Non c’è però solo l’auto: tutto il nostro sistema industriale pare in crisi.
“Come nel caso dell’acciaio: siamo il maggior produttore d’Europa, ma non è un segno di buona salute. Le acciaierie dovrebbero essere più piccole, per fare acciai più adatti. Noi abbiamo l’impianto più grande d’Europa, espressione di un vecchio modello produttivo, difficilmente riformabile. Negli Stati Uniti hanno chiuso gli impianti per realizzarli 5 volte più piccoli. Il sistema va ripensato, anche per ragioni ecologiche. Occorrerebbe pensare a produrre valore in settori differenti. Il territorio italiano è un disastro, da riqualificare. Il 50% delle scuole non è a norma, tra soffitti che crollano e pavimenti che cedono. C’è poi il risparmio energetico: 9 case su 10 riscaldano anche l’esterno…
Poi c’è da sviluppare nuovi sistemi di mobilità. Basti solo pensare alla metropolitana: l’Italia avrà meno di 250 chilometri di linee. Da sola, Parigi ne ha il doppio, Londra anche di più, così come Berlino. Tradotto stiamo parlando di grandi investimenti, per decine di migliaia di posti di lavoro”.
Come si può creare lavoro?
“La cementificazione è un fatto orrendo: in 20 anni la popolazione è aumentata di 2 milioni, ma sono stati costruiti 20 milioni di vani. Pura follia, così come costruire senza fine fiumi di automobili e lavastoviglie. Molte altre scelte creerebbero lavoro specializzato ad alta intensità: riqualificazione del territorio, di quel 70% di edifici non antisismici, degli acquedotti che perdono, delle scuole non a norma. C’è un’ampia platea di settori che richiederebbero lavori che sono altamente tecnici, che richiedono l’impiego di tecnologie avanzate e al tempo stesso hanno utilità collettiva ampia e diffusa”.
Il suo ultimo libro parla esplicitamente di lotta di classe.
“Le classi ci sono più che mai: quando una persona guadagna 1.200 euro al mese, è totalmente soggetto a ordini dall’alto, addirittura fino al modo in cui si muove. Prendiamo come esempio l’accordo per lo stabilimento Fiat di Pomigliano. In realtà è un diktat: 19 pagine sono dedicate alla metrica del lavoro, ovvero come e in quanti secondi si devono muovere la mani, le braccia, il collo, le gambe.
Ma questo vale non solo per l’industria meccanica, anche per la ristorazione, per l’agricoltura. Lavoratori con uno stipendio scarso, e una pensione che si annuncia da fame. Questa è una prima classe, distinta da altre, che hanno un minimo di indipendenza in più e di controllo fisico in meno: insegnanti, funzionari, fascia alta degli impiegati, commercianti.
Infine c’è la classe dominante, quella espressione di un potere politico ed economico enorme, che dice al 90% della popolazione che cosa fare, e controlla i mezzi per farglielo fare. Diffonde quella che viene chiamata ‘la mentalità del governare’. Sul piano internazionale è una classe dominante formata da tante classi locali.
In molti Paesi queste classi si assomigliano sempre di più, sono sempre più legate tra loro, dormono in alberghi identici, hanno gli stessi parametri di riferimento. Parecchi anni fa fu coniata l’espressione ‘classe capitalistica transnazionale’.
Tra classi, infine, la mobilità è dovunque inferiore a quanto si pensi. Un Paese in cui è particolarmente bassa sono gli Stati Uniti. La rigidità intergenerazionale negli Usa è drammatica. Anche in Italia la rigidità dell’ascensore sociale è molto rilevante, anche perché la cuspide della piramide del lavoro è sempre più stretta e c’è sempre meno posto”.
I salari fanno parte di questa dinamica.
“Con patrimoni finanziari ingenti si può fare tutto. Ma invece di spendere in investimenti o in impianti fissi, una quota rilevantissima degli utili delle aziende è stata utilizzata per compensare i top manager, sia Usa sia in Europa. Oppure l’impresa compra azioni proprie per far salire il valore di mercato, perché su questo si misura l’operato del manager. Il risultato è crescita di disuguaglianze. I salari italiani sono fermi dal ‘95, negli Usa fermi addirittura dal 1975. Si stima anzi siano leggermente regrediti. Il fenomeno riguarda l’80, 90% della popolazione, mentre si è enormemente arricchito il famoso 1%. Tanto è vero che in alcuni Paesi europei troviamo indici di disuguaglianza astronomici. La Germania ha un indice di Gini (misura la distribuzione del reddito in una scala da 0 -massima distribuzione- a 1 -massima concentrazione-, ndr) tra i più alti del mondo: 0,8. Un Paese sull’orlo dell’esplosione sociale, dove a 5 milioni di persone sono corrisposti 500 euro al mese per 15 ore di lavoro la settimana, e il 22% dei lavoratori dipendenti, soprattutto operai, ricevono meno della metà del salario mediano”.
Come giudica la recente riforma del lavoro del Governo?
“A leggerne i provvedimenti, è chiaro che si ispira quasi alla lettera alle indicazioni contenuti in alcuni documenti della Commissione europea e dell’Ocse di una ventina di anni fa. Nel 1996 l’Ocse aveva pubblicato un rapporto in cui si insisteva molto sul fatto che la rigidità dei contratti manteneva bassi i tassi di occupazione. Dopo vari rapporti intermedi la stessa Ocse ha pubblicato altri studi in cui diceva che tutto sommato non c’è evidenza empirica del rapporto tra rigidità e tasso di occupazione. Vi sono stati dunque casi di Paesi con rigidità elevata accompagnata a occupazione elevata, e viceversa. In sostanza, l’Ocse ha smentito se stessa. Eppure, la riforma del mercato del lavoro riprende pari pari queste indicazioni. Devo dire a questo punto che pensare sia utile in un momento di grave crisi (finanziaria, ma con forti radici nell’economia reale) facilitare i licenziamenti per accrescere il tasso di occupazione, significa applicare una ricetta del tutto sbagliata. Diciamo che da una parte c’è l’orientamento preconcetto di persone che hanno la mente intrisa delle dottrine neo liberali. Ma ci sono anche ragioni più dirette: qualcosa bisognava dire o dare al Fondo monetario internazionale, all’Ocse, alla Bce, un testo che li accontentasse. A ogni riunione che si fa si dice che l’Italia ha fatto passi in avanti sulla strada delle riforme”.
Perché la finanza ha preso tutto questo potere?
“Perché non ha avuto opposizione. Non certo dai partiti, che a partire dagli anni 80 si sono adoperati per la finanziarizzazione, la liberalizzazione di movimenti di capitale, la produzione a valanga dei titoli come i derivati strutturati. Tra questi i partiti di sinistra e di centro-sinistra, che hanno ispirato molti documenti degli anni 80 in quella direzione, spinti da illustri personaggi della sinistra. Lo dico con una certa ambasce: i francesi Mitterand, Delors e Camdessus, il tedesco Schröder.
Le dottrine neo liberali, diffuse e propagandate a suon di dollari investiti in decine di ‘pensatoi’ e centri studi, hanno avuto un successo straordinario anche tra uomini politici, intellettuali e accademici. Poi c’è stata la caduta del Muro, e molte sinistre hanno fatto il possibile per mostrare di essersi allontanati dalle ideologie che vedevano nello Stato un soggetto di peso.
A dire il vero, soprattutto in Francia, furono dei problemi coi movimenti di capitale a sollecitarne la liberalizzazione. Si cominciò a dire che i capitali fuggivano, anche se il dato era falsato. Il risultato fu di liberalizzarne i movimenti.Questi fattori hanno fatto sì che la finanza non abbia avuto la minima opposizione. Il risultato sono state direttive, norme, leggi: l’Unione europea è diventata più liberale degli Usa.
Il fatto straordinario è che le banche oggi hanno convinto i governi che andavano salvate per la seconda volta. In meno di tre anni il debito pubblico europeo è aumentato del 20%. A partire dal 2008 si sono dissanguati i bilanci pubblici per salvare le banche. I tedeschi si sono trovati con miliardi di debiti. L’istituto Hypo Re è costata ai tedeschi 142 miliardi di euro: troppo grande per fallire, avrebbe trascinato con sé milioni di piccoli risparmiatori.
Dal 2010 la crisi delle banche è stata travestita da crisi del debito pubblico. E quando i bilanci pubblici sono esangui non ce la fanno più, e scattano i tagli. Ci sono dei progetti in sede di Parlamento Ue per regolare i derivati (che sono stati definiti da Warren Buffet un’ ‘arma finanziaria di distruzione di massa’) e per suddividere la banche commerciali da quelle di investimento, ma sinora non si è fatto nulla. La crisi ora è vagamente sotterrata ma potrebbe riservarci amare sorprese.
In America nel 2010 è stata introdotta la Wall Street Reform, ma è talmente complicata che richiede 500 decreti attuativi, che a oggi sono solo una trentina. La legge è farraginosa, e le lobby fanno la loro parte per svuotarla”.
Perché il lavoro è così colpito dalla finanza?
“Sin dagli anni 80 e 90, con lo sviluppo tecnologico, i mercati di consumo hanno cominciato a essere saturi, poiché l’industria aveva capacità produttiva in eccesso. Eccesso di capacità produttiva vuol dire che il capitale investito rende poco. Vuol dire che il rendimento è basso. La proprietà -non solo brutti personaggi panciuti col sigaro, ma anche gli investitori istituzionali, compresi i fondi pensione- chiedono rendimenti molto più alti. Sono i proprietari di metà delle azioni dei capitali delle imprese di tutto il mondo. Coi bassi profitti che non si possono far salire perché si produce troppo e si vende poco, i dirigenti, per dare retta agli investitori, hanno puntato a comprimere il costo del lavoro. Quindi flessibilità, precarietà, e compressione dei diritti. Si chiama la ‘strada bassa’, la strada impervia delle relazioni industriali.
Nessuno però ne parla. E non parlarne fa parte dello straordinario successo ideologico delle dottrine”.
Pietro Raitano - Micro Mega (Altraeconomia.it)

La pura tecnica della conservazione di Alberto Burgio, Il Manifesto

berlusconi dellutri
Se ne va? Non se ne va? Berlusconi è talmente inaffidabile che non sarebbe ragionevole azzardare pronostici. Ma forse non è nemmeno così importante saperlo.
Ancora un paio di anni addietro, non avremmo immaginato che il suo personale destino politico potesse apparire irrilevante. Berlusconi aveva il monopolio della rappresentanza di un composito blocco sociale e della direzione del centrodestra. Oggi è tutt'al più un comprimario, sempre meno influente, sempre meno ascoltato all'interno del suo stesso partito. L'insieme degli interessi che aveva saputo tutelare ha trovato un garante ben più autorevole. Se Berlusconi ha deciso di ritirarsi, non è soltanto perché i sondaggi dicono che la sua immagine è in declino. Medita un passo indietro anche perché la sua «rivoluzione» ha trovato il legittimo erede.
Mario Monti è stato in questi undici mesi uno straordinario interprete della rivoluzione conservatrice che da un quarto di secolo viene trasformando l'Italia nel segno della sovranità del capitale e dell'impresa. Lo è stato principalmente in forza di quattro fattori. Due esterni: i diktat della troika e la dittatura dello spread, che hanno legittimato la macelleria sociale, facendola apparire una dolorosa necessità. Due interni: l'investitura del Quirinale (che si rinnova fragorosamente ogni giorno) e l'assenza di un'opposizione parlamentare in grado di impensierire il suo governo. Un quinto fattore - lo scarto di credibilità personale che lo separa dal predecessore - fa di Berlusconi, paradossalmente, il secondo padre del governo Monti, accanto al presidente della Repubblica, che lo ha fortissimamente voluto.
Sta di fatto che in meno di un anno il governo dei pretesi tecnici ha fatto molto di più di quanto lo stesso centrodestra non avesse realizzato in tre anni e mezzo (per limitarci a questa legislatura). L'ennesimo colpo di maglio alle pensioni (senza alcuna giustificazione contabile); la cancellazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; altre drastiche riduzioni dei redditi da lavoro; nuovi micidiali tagli dello Stato sociale. Il tutto salvaguardando caparbiamente profitti, rendite, alti redditi, interessi delle banche (e del Vaticano). Un capolavoro, dinanzi al quale il Cavaliere può recedere in tutta tranquillità, se non con orgoglio.
Oggi si guarda a Monti come al prossimo premier o al futuro presidente della Repubblica. Consideriamo entrambe queste ipotesi esiziali. Non soltanto per quanti - a cominciare dal mondo del lavoro e dalle giovani generazioni - pagano il prezzo più alto del malgoverno di questi decenni. Esiziale la persistenza di Monti sarebbe per la stessa democrazia italiana e per la Costituzione che la ispira.
Più volte il presidente del consiglio ha mostrato di considerare «quantità trascurabile» le istituzioni fondamentali della repubblica parlamentare. Ancora in questi giorni - tra un autoelogio e un esercizio di finta modestia - ha sostenuto che la strada del prossimo governo è già tracciata. Come dire che il Parlamento non serve a niente e che le elezioni sono un'inutile farsa. Anche se privo di tessera della P2, un personaggio del genere non tranquillizzerebbe alla guida del prossimo governo. Figuriamoci al Colle.
E diciamoci la verità. Checché ne pensi il diretto interessato, avere paracadutato l'attuale presidente del consiglio su palazzo Chigi non è un motivo di gratitudine nei confronti di Napolitano. Al quale ci permettiamo di ricordare che, certo, «tenere conto dell'esperienza Monti» nel prossimo futuro sarà inevitabile, ma non compete al presidente della Repubblica dire in che modo e traendone quali conseguenze.

Il 10% del Paese ha in mano il 45%. È ora che paghi di Vladimiro Giacchè, Pubblico

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«Il contributo di solidarietà del 3% sui redditi sopra i 150 mila euro a favore degli esodati è iniquo»: così ha dichiarato ieri il vice presidente di Confindustria Aurelio Regina. Il contributo per finanziare l'ampliamento delle garanzie per gli esodati, a suo avviso, colpirebbe inoltre «una fascia di popolazione che è l'unica che spende, minacciando ulteriormente i consumi».
La prima reazione, nell’apprendere dell’attacco di Confindustria all'emendamento a favore degli esodati approvato dalla commissione Lavoro della Camera, è stata di soddisfazione. In Italia c’è ancora qualche istituzione che funziona: la difesa dei propri associati da parte di Confindustria è stata pronta e decisa. La cosa è ammirevole. E dovrebbe anche suscitare anche un po’di invidia, soprattutto nel mondo dei lavoratori dipendenti: basti pensare che il provvedimento di “riforma ” delle pensioni - proprio quel provvedimento che, elevando bruscamente l’età minima di pensionamento ha creato, tra l’altro, il dramma degli esodati senza stipendio né pensione – è diventato legge nel silenzio del mondo sindacale, e che non una sola ora di sciopero è stata indetta dai principali sindacati per contrastarlo.
Se però si passa al merito delle argomentazioni di Aurelio Regina, allora la soddisfazione cede il passo alla delusione. Perché dispiace che il vice presidente di Confindustria affermi che la fascia di cittadini con un reddito superiore ai 150 mila euro “è l’unica che spende”. Dispiace perché non è vero. In un certo senso è vero il contrario: infatti, quanto più si sale nella scala del reddito, tanto minore è la quota di reddito destinata ai consumi. Sono i cittadini con i redditi più bassi quelli che spendono di più in proporzione a quanto guadagnano (e quindi, siccome sono molti di più, anche in assoluto). Precisamente per questo motivo ogni aumento delle tasse indirette, quelle sui consumi, è una tassa regressiva (ossia una tassa che colpisce in proporzione i poveri più dei ricchi). E quindi andrebbe evitata. Invece anche questo governo, come già quello Berlusconi- Tremonti, ha tra l’altro aumentato proprio le tasse indirette.
Ma l’affermazione del vicepresidente di Confindustria che lascia più perplessi è quella secondo cui il contributo di solidarietà del 3% sui redditi sopra i 150 mila euro sarebbe “iniquo”. Di equità o meno delle manovre finanziarie dell’ultimo anno si è più volte dibattuto. In genere dimenticando che un criterio oggettivo su cui misurarle ci sarebbe.
E anche semplice. Siccome il 45% della ricchezza in Italia è detenuto dal 10% delle famiglie, una manovra equa avrebbe fatto pagare a quel 10% delle famiglie il 45% del peso dell’aggiustamento, e al restante 90% il resto. Non occorrono calcoli particolarmente sofisticati per capire che la proporzione è stata ben diversa. Sono gli stessi dati del Ministero dell’Economia a dirci come è stato ripartito il gettito nel 2011: su 412 miliardi totali, 193 sono stati costituiti da tasse indirette (vedi sopra), 127 da tasse su lavoratori dipendenti e pensionati, 78 da tasse sulle imprese, 14 miliardi dal gettito proveniente dai lavoratori indipendenti. È evidente la sproporzione a sfavore di lavoratori dipendenti e pensionati. Ed è anche evidente in quali categorie di contribuenti, tra quelle citate, si annidi un’evasione fiscale che nasconde al fisco 276 miliardi di euro di ricchezza all’anno e 120 miliardi di gettito. Ora, tutto questo non è soltanto eticamente inaccettabile. È una patente violazione di quanto previsto dalla nostra Costituzione. Vale infatti la pena di ricordare che secondo la Costituzione della Repubblica Italiana «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”(art. 53). Di fatto, invece, il principio costituzionale della progressività delle imposte in Italia è rovesciato.
Questa è l’iniquità del nostro sistema fiscale: quella vera. Rispetto a questo, un 3% una tantum richiesto a chi percepisce redditi superiori ai 150.000 euro non sembra gran cosa (anche perché oltretutto il contributo di solidarietà riguarderebbe soltanto la parte di reddito che eccede tale cifra). Meglio sarebbe una rimodulazione e aumento degli scaglioni dell’Irpef, abbassando le tasse sui redditi più bassi e aumentandole su quelli più elevati. Meglio ancora, una decisa lotta all’evasione.
E sebbene Bersani dica che «ci sono altre soluzioni», se invece per una volta si chiede qualcosa di più a chi ha di più, davvero non c’è alcun motivo di scandalo.