giovedì 29 ottobre 2015

Roma. Marino a fine corsa. Spunta l’ipotesi del rinvio delle elezioni di Sergio cararo, Contropiano.org



Roma. Marino a fine corsa. Spunta l’ipotesi del rinvio delle elezioni

Marino ha ritirato le dimissioni.
Noi non stiamo con Marino e neanche, ovviamente, con i suoi “fratelli coltelli” del Pd che lo hanno prima eletto e poi scaricato. E' bene dire subito come la si pensa in questo porto delle nebbie che avviluppa da mesi Roma e che oggi si è impantanato intorno alle dimissioni o meno del sindaco Marino.
Il sindaco “marziano” Marino e il commissario del Pd a Roma Orfini, si sono parlati in territorio "neutrale", ossia nell’abitazione privata casa del vicesindaco Causi. Ma l’incontro, a quanto pare non è stato risolutivo sulle sorti del sindaco né sulla consiliatura. E’ stata dunque un'ennesima giornata di incertezza ("Marino ritira le dimissioni", "No, le mantiene").
Le posizioni ormai sono note. Il Pd chiede che Marino metta fine al suo mandato subito, confermando le dimissioni. Il sindaco Marino invoca invece una via di uscita onorevole, un riconoscimento pubblico del lavoro svolto, e vorrebbe incontrare a quattr'occchi Renzi. Il premier però ha già fatto sapere di non avere nessuna intenzione di incontrare Ignazio Marino perchè il "caso è chiuso".
Ma se le sorti del sindaco della Capitale appaiono comunque segnate, le modalità per arrivare alla fine della giunta Marino sono ancora da definire. Il Pd, da solo non ha i numeri per imporre in aula la mozione di sfiducia. Gli servono anche i voti dell’opposizione di destra, tutta o in parte, mentre Sel, che prima aveva annunciato una mozione di sfiducia, adesso sembra impegnata a testa bassa nella difesa di Marino in vista di una possibile lista civica guidata dal “marziano” alle prossime elezioni comunali. In questo caso potremmo parlare di una sorta di  “Marino 2 la vendetta”, una vera e propria bomba a tempo tra i piedi del Pd romano.
Ma sottotraccia sembra delinearsi anche un’altra ipotesi, quella di rinviare le elezioni comunali a Roma."Ci potrebbe essere una terza possibilità” – lascia trapelare un parlamentare del Pd, molto vicino a Renzi. “Se Marino ritirasse le dimissioni e si presentasse in aula, il Pd potrebbe astenersi e lui andare avanti, ma solo fino alla presentazione del bilancio. A quel punto lo faremmo cadere votando contro". Questo potrebbe consentire anche uno slittamento delle elezioni amministrative nella capitale, cosa niente affatto sgradita a Renzi e al Pd che vedrebbero bene una Capitale di fatto commissariata con il pretesto della gestione del Giubileo. "Marino – spiega ancora l'esponente del Pd - non ce la farà sicuramente a presentare il bilancio entro fine anno, questo permetterebbe di arrivare a gennaio-febbraio, nominare allora il commissario e andare a votare più tardi, un'ipotesi certo non negativa”.  Ma è una possibilità sicuramente azzardata, anche perché – nonostante l’operazione “Giubileo” - prolungherebbe il collasso politico, amministrativo e morale della Capitale e dello stesso PD, a Roma e forse non solo a Roma.
Fin qui la cronaca e i retroscena della vicenda Marino. Restano le valutazioni politiche e di merito sulla Giunta comunale guidata dal “Marziano”, che le pugnalate ricevute dai fratelli coltelli del suo partito non possono salvare. E’ per questa ragione che non riusciamo a capire né a condividere l’entusiasmo con cui una parte del popolo della sinistra romano si è arruolato nella campagna “Io sto con Marino”. Abbiamo affermato più volte – e continueremo a riaffermarlo in ogni sede – che le amministrazioni oneste non sono un merito perchè dovrebbero essere il minimo sindacale. Quello che fa la differenza sono le priorità sociali su cui si decide di governare una città, soprattutto una metropoli martoriata ma resiliente come Roma. Il 23% degli abitanti vive oltre il Raccordo Anulare, altrettanti tra l’Anello Ferroviario e il Raccordo, una condizione di periferia non solo geografica e urbanistica ma sociale nella sua totalità. Il centro e le aree a ridosso – luoghi ormai gentrificati e sedi dei grandi eventi - sono ridotte da anni a foresteria e funzionali solo al devastante turismo di massa che è diventato una risorsa per pochi e un disagio per molti. Le emergenze e le condizioni sociali (da quella abitativa a quella lavorativa), la invivibilità, la collassata mobilità, la privatizzazione e il conseguente degrado dei servizi pubblici e sociali, la demonizzazione dei lavoratori comunali, delle aziende municipalizzare o dei poli archeologici e museali, sono priorità che hanno visto il Sindaco Marino o “sorprendersi della realtà” (il che non è affatto un bene) o schierarsi sistematicamente contro lavoratori, senza casa, abitanti delle periferie e alimentare un senso comune reazionario. Il segno antipopolare e rigorista del bilancio comunale perfettamente conforme ai diktat del Patto di Stabilità, è stato poi la ciliegina sulla torta. Il “candore” non è una qualità sufficiente ad assolversi dalle sue responsabilità. Restiamo convinti che Marino avrebbe dovuto far saltare il banco già a dicembre dello scorso anno dando le dimissioni quando è esplosa l’inchiesta su Mafia Capitale. Si è prestato per mesi a fare da foglia di fico al Pd romano e nazionale fino a quando ne è stato scaricato. Ma questo, da tempo, non è stato e non può essere un nostro problema. Anche a Roma, come nel paese e in Europa, serve la rottura, una rottura profonda della gabbia esistente e sulle esigenze sociali prioritarie a cui dare risposte, a cominciare dal rigetto del Patto di Stabilità che strangola le amministrazioni locali. O ci si mette in questa logica o si perpetua la fetida atmosfera che respiriamo da troppi anni. E solo questa può essere la strada che può sbarrare il campo alla destra, il resto è fuffa.

"Fermate il cemento nella nostra campagna". In Umbria torna la rivolta del Contado

Perugia, protesta contro il governatore che vuole abbattere il vincolo ambientale imposto dallo Stato.
 
Gli ultimi erano stati i Longobardi e i Bizantini: era dal VI secolo dopo Cristo che nel Contado di Porta Eburnea non si combatteva una battaglia altrettanto carica di futuro. Siamo a sei chilometri a sud-ovest di Perugia, tra le valli dei fiumi Caina, Genna e Nestore, in un territorio di bellezza spettacolare: centoventi chilometri quadrati di paesaggio intessuto di monasteri, torri, ville, piccoli borghi medioevali. L'Italia: al suo meglio. Quella che diresti che ormai non c'è più. E che invece resiste: almeno fino a quando lo consentiremo.
"Fermate il cemento nella nostra campagna". In Umbria torna la rivolta del Contado 
È un storia remota, quella che ha imposto al Contado la sua omogeneità culturale e visiva: è il 570 dopo Cristo quando i Longobardi non riescono a sfondare la linea delle fortificazioni di Narni, Amelia, Todi, Perugia e Gubbio. Si forma così il cosiddetto Corridoio Bizantino, che per quasi due secoli continuerà a connettere Roma a Ravenna, un resto di Italia romana sempre più accerchiata dai ducati longobardi. Nel 593 i Bizantini arrivano fino a creare un lago artificiale, che possa fermare l'avanzata dei "barbari". Ed è in questa resistenza  -  militare e culturale  -  che affonda le sue radici l'immagine di questa parte d'Umbria: perché, intorno all'anno Mille, le numerosissime strutture difensive che punteggiavano quella parte di Corridoio Bizantino divennero altrettanti luoghi di abitazione e lavoro per i monaci benedettini. La Grangia di Monticelli fu un'enorme azienda agricola monastica, che fece subentrare le ragioni dell'economia rurale e della preghiera a quella della guerra. Cosa quasi miracolosa, gli ultimi mille anni (e soprattutto gli ultimi cento) non hanno cambiato le cose più di tanto, permettendo a Perugia di conservare (almeno su questo lato) ciò che un tempo era il vanto di ogni città italiana: il dolce trapasso tra il tessuto urbano e la campagna. Come scriveva Carlo Cattaneo nel 1858, "la città formò col suo territorio un corpo inseparabile": una realtà che, mezzo millennio prima, il Buon governo affrescato a Siena da Ambrogio Lorenzetti aveva rappresentato con la forza delle immagini.
Ma come in tutte le favole, ad un certo punto arriva una strega cattiva: e la strega in questo caso si chiama speculazione edilizia. Perugia si espande, e sposta i suoi ospedali proprio verso il Contado. E nel cuore di quest'ultimo si cominciano a costruire complessi edilizi di cinque piani tra viali di tigli e ville storiche (sul crinale tra Pila e Badiola), si progettano strade a scorrimento veloce, si creano nuovi paesi di cemento accanto a borghi medioevali spopolati (115.000 metri cubi a San Biagio della Valle).

"Fermate il cemento nella nostra campagna". In Umbria torna la rivolta del Contado 
È a questo punto che i cittadini del Contado insorgono. Nel gennaio 2010 otto associazioni nate dal basso, comuni cittadini, proprietari di dimore storiche chiedono al Ministero per i Beni culturali di dichiarare che la salvaguardia del Contado di Porta Eburnea è di particolare interesse pubblico: in pratica, chiedono di vincolarlo, cioè di salvarlo prima che sia troppo tardi. Una volta tanto, lo Stato c'è, esiste, risponde. Dopo lunghe battaglie, e a prezzo di molti compromessi (l'area da difendere scende da 110 a 58,5 km quadrati), nel maggio di quest'anno il vincolo arriva. Tutto bene, dunque? Per niente: come in un film dozzinale, la strega apparentemente morta si rialza, più cattiva di prima. E, paradossalmente, la strega ha ora il volto della Regione Umbria e del Comune di Marsciano: i quali, invece di essere felici per la salvezza del loro stesso territorio, hanno deciso di ricorrere al Tar per annullare il vincolo.

Non è un episodio isolato: insieme alla Liguria di Toti, l'Umbria di Catiuscia Marini è forse la regione oggi più amica del cemento. Basti dire che nel marzo scorso il governo Renzi (non propriamente verde: si ricordi lo Sblocca Italia) ha deciso di impugnare davanti alla Corte Costituzionale il Programma Strategico Territoriale dell'Umbria, che pretenderebbe di sottoporre ab origine il Piano del Paesaggio alle esigenze dello sviluppo, in una specie di condono preventivo tombale. Ma c'è di peggio: la giunta regionale è arrivata a confezionare un dossier di 34 pagine (si trova sul web) per chiedere al ministro Franceschini di rimuovere il soprintendente Stefano Gizzi, colpevole di fare il suo mestiere, cioè di difendere il territorio. Nel dossier si legge che il vincolo del Contado di Porta Eburnea osa imporre  -  udite udite  -  prescrizioni "molto dettagliate e restrittive, e di forte impatto sulla pianificazione urbanistica di livello comunale". Un vincolo che vincola: quale oltraggio!

Naturalmente, l'argomento principe della Regione è l'eterna equazione cemento= lavoro. Ed è esemplare che a smentire questa visione insostenibile e suicida dello sviluppo siano stati i lavoratori umbri dell'edilizia, che nel pieno della battaglia per il Contado hanno diffuso un documento in cui dicono che dalla crisi del settore (pesantissima: dal 2009 al 2014 le imprese edili umbre sono scese da 4.548 a 2.838, e le ore lavorate da 20 a 10 milioni) si esce "limitando il consumo di territorio", e invece "puntando al recupero, alla difesa del territorio, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico-culturale, alla riqualificazione urbana, all'efficientamento energetico, alla messa in sicurezza delle scuole e di tutti gli edifici pubblici". Una bella lezione di lungimiranza, concretezza e responsabilità.

A giorni le associazioni di cittadini che difendono il Contado di Porta Eburnea depositeranno una diffida al Comune ed alla Regione, con l'invito a ritirare il ricorso contro il vincolo, in autotutela. Una copia della diffida sarà inviata alla Corte dei Conti chiedendo che, se il Tar rigetterà il ricorso, i consiglieri comunali e regionali paghino le spese di giudizio di tasca propria. Come dire: se proprio volete distruggere il paesaggio italiano, almeno non fatelo a spese nostre.

Poco, malpagato e improduttivo: il lavoro in Italia è un disastro

10mila dollari all'anno in meno di un tedesco di stipendio, produttività al palo mentre tutti crescono in Europa: no, il problema dell'Italia non è solo la disoccupazione 

di Gianni Balduzzi

È una triste litania a volte quella che elenca gli ambiti in cui l‘Italia con la grande crisi è rimasta indietro rispetto ai partner europei. Tuttavia se vi è un ambito in cui si può toccare maggiormente con mano la nostra progressiva perdita di competitività, quello del lavoro è uno dei più esemplificativi. Non soltanto in relazione alla disoccupazione, ma anche in funzione del livello degli stipendi di chi un lavoro ce l’ha. E della sua produttività.
Guardando i salari reali in dollari secondo il Purchase Parity Power (PPP), cioé a parità di potere d’acquisto, si evince immediamente come gli italiani non solo guadagnino meno dei lavoratori degli altri principali Paesi europei, ma anche che dal 2000 a oggi il divario non ha fatto che allargarsi.

Variazione dei salari reali medi in dollari (a parità di potere d'acquisto) - Dati Ocse

Se quindici anni fa Francia e Italia e Spagna avevano valori medi molto vicini, nel 2014 la Francia appare ormai irraggiungibile, e nonostante la crisi economica anche la Spagna ha allargato il suo vantaggio sul nostro Paese. A oggi, con una media lorda di 34.744 dollari di stipendio un lavoratore italiano ne percepisce quasi 10mila meno di uno tedesco, 7mila meno di un inglese e addirittura 16mila meno di un olandese.

Stipendi reali medi lordi in dollari (a parità di potere d'acquisto) - Dati Ocse

Cosa è accaduto? In questi anni in effetti il costo del lavoro in Italia è salito anche più che altrove, soprattutto più che in Germania, eppure gli stipendi sono rimasti al palo. Come mai? Innanzitutto l’inflazione. Quella che ormai sembra non esistere più, al punto che la Banca Centrale Europea deve pompare moneta comprando titoli di Stato per combatterne la nemesi, la deflazione. Tuttavia, l'inflazione è stata per lunghi anni più alta nel nostro Paese che nel resto del Continente. Questo grafico, non a caso in tedesco, mostra come in dieci anni l’Italia e il resto del Sud Europa abbiano perso quasi un 30% di potere d'acquisto rispetto alla Germania. In seguito è scesa ovunque, mantenendo però il gap quasi invariato
 

Ora che tuttavia impera la deflazione, non meno pericolosa, emerge quella che è in realtà la vera causa per cui gli stipendi italiani rimangono al palo: la produttività del lavoro (ossia il rapporto tra ciò che viene prodotto e la quantità di lavoro e capitali necessari a produrlo). Ebbene, l’Italia negli ultimi dieci anni non è riuscita a progredire sotto questo aspetto. La produttività è rimasta uguale o addirittura leggermente inferiore a quella del 2005.
Il grafico fa impressione: siamo superati da tutti Paesi dell’Est, con i Paesi Baltici in testa, ma anche dalla Spagna, che ha visto la produttività salire del 15%, e non a caso attualmente è il Paese mediterraneo che meglio sta uscendo dalla crisi economica, con una crescita del Pil stimata del 3%

Produttività del lavoro, 2005=100 - Dati 2013, Eurostat

Come mai tutto questo? Per mille motivi. Uno dei quali, tuttavia, merita una menzione speciale: la formazione dei lavoratori. Rimaniamo il Paese con il minore numero di laureati, soprattutto tra i giovani, solo il 23,9% tra i 30-34enni, addirittura il 18,8% tra gli uomini. Questo mentre la media europea è del 37,9%, e Paesi scandinavi, Spagna, Francia, Germania, viaggiano verso il 50%.
L’alternanza tra scuola e lavoro e la preparazione professionale sono viste con maggiore sospetto nel nostro Paese e questo certamente non depone a favore della disponibilità delle imprese ad assumere giovani ancora da formare, che difficilmente potranno contribuire a un aumento della produttività dell’azienda. E ancor meno, naturalmente, alla crescita del loro stipendio.

Fonte: Linkiesta

mercoledì 28 ottobre 2015

Roma ha bisogno di Sinistra! Documento del Circolo SEL Testaccio - San Saba - Aventino.

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Roma ha bisogno di Sinistra! Riportiamo qui sotto il documento condiviso da tutte le iscritte e tutti gli iscritti di SEL Testaccio - San Saba - Aventino in merito alla vicenda romana e al futuro della Sinistra a Roma.
Roma ha bisogno di Sinistra! Negli ultimi giorni, il Circolo SEL Testaccio si è riunito più volte e ha cercato di raccogliere opinioni e umori delle iscritte e degli iscritti su quanto è accaduto in Campidoglio e sulla costruzione della nuova Sinistra. I due temi si intrecciano profondamente: l’agire multiforme e disomogeneo del nostro partito intorno ai “fatti di Roma” è stata la rappresentazione plastica dell’assenza di una vera linea programmatica e di democrazia interna.
Questi nodi sono drammaticamente venuti al pettine nei giorni scorsi, quando il PD ha deciso di staccare la spina al governo Marino. SEL, che si trovava ancora in maggioranza nonostante l’uscita dalla Giunta, si è trovata davanti a un bivio: partecipare all’attacco sfrenato del Partito Democratico al sindaco, vuoi con il voto alla sfiducia o con la semplice richiesta di dimissioni – con il rischio di essere accusati di asservimento al renzismo romano – o scegliere la via della passività – che ci avrebbe disegnato come ipergarantisti sulla vicenda degli scontrini.
Come poi si è evoluta la vicenda è chiaro a tutti: SEL ha chiesto a Marino di andare a riferire in aula – salvo il fatto che i giornali hanno potuto approfittare dell’esistenza di un post su facebook di Fratoianni e di un comunicato di Paolo Cento in cui si annunciava la possibilità di una mozione di sfiducia per scrivere a cuor leggero che SEL prestava la propria mano al PD per sferrare il colpo di grazia a un sindaco inviso a Renzi. A ciò si è aggiunto un ulteriore passo compiuto da Gianluca Peciola, che ha annunciato l’apertura a Marino sulla base di un cambio di marcia nella sua amministrazione.
È evidente che il tutto si è svolto in tempi molto ristretti, che consentono di scrivere due righe su facebook ma non di convocare SEL Roma per un doveroso confronto interno; ma se dietro a tutti gli attori che hanno avuto una parte importante nelle vicende di questi giorni ci fosse stato un partito solido, con una linea programmatica netta e una reale democrazia interna, non saremmo arrivati a questo punto.
Nel dibattito strettamente attuale, in SEL Roma, sono state date molte colpe ai singoli esponenti per le fughe in avanti, gli annunci dati in pasto alla stampa senza la minima condivisione interna; e certamente in molti avrebbero potuto … comportarsi meglio; ma se si vuole analizzare e risolvere un problema, forse, bisogna trovarne la radice. E la radice si chiama alleanza con il Partito Democratico.
Come avrebbe potuto, SEL, preservarsi dallo scendere a patti con il PD, se fino a ieri ci ha condiviso un percorso di governo, a Roma? Solo un’uscita dalla maggioranza stabilita in precedenza ci avrebbe salvato un’immagine comunque molto opacizzata; sarebbe stata l’occasione di prendere le distanze da Marino e Marchini a partire dai temi, dal fatto che l’amministrazione stava disattendendo il programma su cui nasceva Roma Bene Comune: la questione del salario accessorio dei dipendenti comunali, l’emergenza asili nido e il conflitto con le maestre, il sostanziale abbandono delle periferie, la proposta di privatizzazione di Ama e Atac.
Tuttavia, nelle varie assemblee provinciali in cui qualcuno ha avanzato questa proposta, il gruppo dirigente romano si è diviso, rivelando mirabilmente la fragilità di questa struttura-partito. In SEL, la decisione sulle alleanze ha sempre preceduto la riflessione sui programmi. Ed è chiaro che, procedendo in questo modo, laddove si decida aprioristicamente di allearsi con il PD, la linea programmatica non potrà che essere molto ambigua. C’è bisogno di rimettere al centro i temi, e, tra questi, dare la priorità assoluta all’emergenza sociale che imperversa nel paese, nelle regioni, nelle città, nei municipi. Per fare questo, abbiamo bisogno di dar vita a una sinistra politica unita e non frammentata com’è ora, che torni ad avere il suo naturale interlocutore nelle associazioni, nei sindacati e nei movimenti. Abbiamo bisogno, lo ribadiamo con forza, di dar vita a un nuovo partito solidamente strutturato, identificarlo con un programma che metta in primo piano i diritti sociali e civili, amalgamarlo con nuove pratiche di comunicazione ed eleggere un gruppo dirigente innovativo. Fatti i temi e le persone, si fanno le alleanze; e, se ci sono casi in cui il dialogo con il Partito Democratico è possibile, tra questi non c’è Roma, piazza ovviamente troppo ambita dai renziani per non assediarla.
Alla luce di tutto ciò e in vista delle non lontane elezioni per scegliere il prossimo governo capitolino, tutte le iscritte e tutti gli iscritti di SEL Testaccio chiedono con forza che la proposta della sinistra per Roma sia una lista unitaria e assolutamente slegata dal PD: un cantiere, una proiezione in scala ridotta della nuova sinistra nazionale. E che la volontà delle iscritte e degli iscritti di non allearci con il Partito Democratico sia verificata democraticamente tramite assemblee di municipio resocontate in federazione.
Per costruire e divulgare al meglio questo progetto politico, pensiamo sia opportuno individuare, quanto prima e in modo partecipato, alcuni punti-chiave di quello che sarà il suo programma (ad esempio potenziamento e valorizzazione dei servizi pubblici, emergenza abitativa, investimenti sulla cultura e sulle rinnovabili, interventi di manutenzione edilizia nelle scuole) e lavorare attivamente con riunioni, gazebo, volantinaggi, attività web e quant’altro.
Da parte nostra, ci rendiamo disponibili sin da ora ad attivarci nell’ottica di una proposta di Sinistra per Roma. Questo chiediamo, questi i propositi usciti dalla riunione con il nostro Coordinatore nazionale e questa la richiesta che viene da tutte le compagne e tutti i compagni del nostro Circolo.
Roma ha bisogno di sinistra. Quella vera, quella che si respira per strada quando alla cittadinanza viene restituita la possibilità di un vivere civile. Fuggendo alle logiche di potere di cui è impregnato il partito della nazione e identificandoci ovunque con le istanze sociali, questo è possibile.

Sinistra Ecologia Libertà Testaccio – San Saba - Aventino

La «barca» italiana non va, ripresa lenta, crescita nulla di Pierluigi Ciocca, Il Manifsto

I problemi economici del nostro paese sono antichi e strutturali. Aggravati da un ciclo europeo segnato dalla politica tedesca avallata dalla Bce. Produttività, occupazione, investimenti, competitività: tutta l’attività economica nell’ultimo decennio è precipitata in un abisso. Purtroppo, le scelte del governo Renzi non invertono la rotta ma anzi seguono le stesse ricette di Monti e Letta
 
L’economia ita­liana pati­sce da diversi lustri due mali con­giunti: domanda glo­bale ane­mica, stallo della produttività. La bassa domanda glo­bale frena la ripresa, la fuo­ru­scita dalla reces­sione. L’improduttività delle imprese nega la cre­scita, il trend di svi­luppo dell’economia. Ripresa e cre­scita ven­gono nei media spesso con­fuse. Sono invece da distin­guere, pur nelle reci­pro­che connessioni.
Dopo quella del 2008–2009, la nuova reces­sione inau­gu­rata dal rigo­ri­smo del governo Monti alla fine del 2011 ha fal­ciato il Pil del 5% nel 2012–2014: come nel 1929!
Tec­ni­ca­mente, la reces­sione può dirsi finita nel primo seme­stre 2015, con risul­tati di pro­du­zione appena posi­tivi dopo tre anni. Ma la ripresa è lenta. L’incremento del Pil pre­vi­sto dal Fondo Mone­ta­rio è dello 0,8% per il 2015, dell’1,3% per il 2016. La ripresa è lenta rispetto all’abisso in cui è piom­bata l’attività eco­no­mica: alla fine del 2014 gli inve­sti­menti erano del 35% più bassi che nel 2007.
Oltre che lenta la ripresa è espo­sta a più di un motivo di fra­gi­lità. È stata finora ali­men­tata soprat­tutto da scorte la com­po­nente più insta­bile della domanda. Non sarà age­vo­lata da ulte­riori cali del costo del danaro, del cam­bio dell’euro, del prezzo del petro­lio. Il quan­ti­ta­tive easing della Bce non sti­mola la domanda, nell’assenza di una poli­tica fiscale euro­pea espan­siva. Con lo svi­li­mento dell’euro che per­se­gue rischia di ecci­tare sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive su scala mon­diale (la rea­zione della Cina docet).
La ripresa è fre­nata dal rischio di defla­zione che la Bce non rie­sce a sven­tare, dopo esser­sela lasciata sfug­gire allor­ché fra luglio 2012 e set­tem­bre 2014 la base mone­ta­ria dimi­nuì di un terzo. Vi è un «rischio Volk­swa­gen», con riflessi euro­pei e ita­liani. Infine, la ripresa non è soste­nuta come si potrebbe dalla poli­tica di bilan­cio del governo.
La cre­scita di lungo periodo nel capi­ta­li­smo moderno dipende fino al 70% dal pro­gresso tec­nico. Senza pro­dut­ti­vità, non c’è svi­luppo soste­nuto e sostenibile.
Preoccupano tre ordini di considerazioni concernenti l’economia italiana.
Il pro­gresso tec­nico è da tempo spento. La pro­dut­ti­vità totale è dimi­nuita del 6–7% rispetto ai primi anni 2000. Nella stessa mani­fat­tura il pro­dotto per ora lavo­rata ha rista­gnato. È per que­sto – e non per eccessi sala­riali — che dal 2000 il costo del lavoro per unità mani­fat­tu­riera pro­dotta è salito del 40%, rispetto al 15% in Fran­cia e allo 0% in Germania.
Sem­pre nella mani­fat­tura, il livello della pro­dut­ti­vità del lavoro ita­liano è infe­riore del 25% a quello tede­sco e a quello inglese.
Sus­si­diata dal governo, l’occupazione rischia di aumen­tare più della pro­du­zione. Nel primo seme­stre è salita dello 0,8% rispetto allo stesso seme­stre del 2014, il Pil solo dello 0,4%. Ciò abbatte la pro­dut­ti­vità e il pro­gresso di trend dell’economia.
La poli­tica eco­no­mica gover­na­tiva è ina­de­guata sia per la domanda/ripresa sia per la produttività/crescita. Su entrambi i fronti l’elemento chiave è rap­pre­sen­tato dagli inve­sti­menti pub­blici (infra­strut­ture, sicu­rezza dei cit­ta­dini e del ter­ri­to­rio, ricerca, scuola). Essi impri­mono la più forte spinta alla domanda.
In fasi di rista­gno, oltre il primo anno il loro mol­ti­pli­ca­tore della domanda glo­bale può salire da 1,5 a 2 e nel medio ter­mine fino a 3. È molto mag­giore del mol­ti­pli­ca­tore – solo 0,8 — di con­sumi pub­blici, tra­sfe­ri­menti, detassazione.
Anche l’apporto, diretto e indi­retto, delle infra­strut­ture alla pro­dut­ti­vità del sistema può essere cospi­cuo. È quindi deplo­re­vole che da anni in Ita­lia non siano state nep­pure manu­te­nute le infra­strut­ture esi­stenti, per qua­lità del 40% infe­riori a quelle degli altri paesi del G7.
I governi Berlusconi-Tremonti ave­vano effet­tuato inve­sti­menti della PA media­mente pari al 3% del Pil, già al disotto del 3,5% che era stato toc­cato in pre­ce­denza. I governi Monti, Letta, Renzi hanno tagliato gli inve­sti­menti pub­blici dal 2,8% del Pil nel 2011 al 2,2% nel 2014 e a una per­cen­tuale forse infe­riore al 2% quest’anno. Que­sti ultimi tre governi hanno abbat­tuto le opere pub­bli­che a prezzi cor­renti del 20%: da 45 miliardi nel 2011 a 36 miliardi nel 2014. Se non lo aves­sero fatto, il Pil, cete­ris pari­bus, sarebbe oggi di quasi 30 miliardi più alto e il defi­cit di bilan­cio e il debito pub­blico più bassi.
Non è espan­sivo della domanda con­te­nere uscite cor­renti – a mag­gior ragione inve­sti­menti! — impie­gando quei danari per tra­sfe­ri­menti e per ridurre le tasse, sulla casa o su qua­lun­que altro cespite: il de-moltiplicatore di quelle minore uscite e il mol­ti­pli­ca­tore dei mag­giori tra­sfe­ri­menti e delle minori impo­ste sono simili, dell’ordine dello 0,8 appena richia­mato. L’effetto netto è quindi pres­so­ché nullo.
La riforma dei rap­porti di lavoro può essere varia­mente valu­tata nei suoi aspetti giu­ri­dici e sociali. Ma ha riper­cus­sioni di segno incerto, comun­que non quan­ti­fi­ca­bili, su ripresa e crescita.
I sus­sidi alle imprese affin­ché assu­mano per­so­nale sono inef­fi­caci o con­tro­pro­du­centi in assenza di posi­tive pro­spet­tive di domanda. Se accre­scono l’occupazione, ma a parità di pro­du­zione, le imprese, con più lavoro e lo stesso capi­tale, abbat­tono ulte­rior­mente la pro­dut­ti­vità nell’immediato, ovvero ridu­cono gli inve­sti­menti e lo stock di capi­tale così fre­nando la domanda glo­bale e la pro­dut­ti­vità di medio periodo.
Non cono­scendo nel det­ta­glio la legge di sta­bi­lità che si sta defi­nendo, occorre chie­dersi se Governo e Par­la­mento inten­dano, o meno, fare quat­tro cose cruciali.
La prima: com­ple­tare il rie­qui­li­brio del bilan­cio con una final­mente rigo­rosa spen­ding review aprendo al tempo stesso lo spa­zio agli inve­sti­menti pub­blici più ido­nei a soste­nere la domanda e a favo­rire la pro­dut­ti­vità (si pos­sono rispar­miare 20–30 miliardi negli appalti e for­ni­ture e nei tra­sfe­ri­menti a imprese ed enti, le cui cifre sono gon­fiate anche dalla corruzione).
La seconda: riscri­vere secondo una visione d’assieme un diritto dell’economia (socie­ta­rio, fal­li­men­tare, pro­ces­suale, ammi­ni­stra­tivo, del rispar­mio, della con­cor­renza) che deprime – per punti per­cen­tuali — la produttività.
La terza: imporre – non solo con l’antitrust — la con­cor­renza dina­mica, senza la quale le imprese non sono sti­mo­late a per­se­guire l’efficienza.
Va infine cor­retta una distri­bu­zione del red­dito osce­na­mente spe­re­quata, inci­dendo sui più ric­chi eva­sori fiscali per vol­gere il get­tito recu­pe­rato a lenire le povertà e a ridurre le ali­quote su lavo­ra­tori, pen­sio­nati, aziende che non evadono.
Ma anche la migliore poli­tica eco­no­mica fal­lirà se le imprese ita­liane doves­sero nell’insieme non rispon­dere, per­si­stendo nell’attesa neghit­tosa di un ritorno a pro­fitti facili.
Nel 1992–2006, men­tre la pro­dut­ti­vità sce­mava, furono rea­liz­zati pro­fitti record. Lo furono gra­zie alla spesa pub­blica a piog­gia, all’evasione ed elu­sione fiscale, alla caduta del cam­bio, all’indebolirsi del sin­da­cato, al calo della con­cor­renza. I pro­fitti facili hanno allon­ta­nato per vent’anni le imprese dalla via mae­stra dell’investimento, della ricerca, dell’innovazione.
L’unica cer­tezza, pur­troppo suf­fra­gata dall’esperienza, è che le imprese non vanno accon­ten­tate quando, invece di aumen­tare la pro­dut­ti­vità, chie­dono danari pub­blici, pri­vi­legi, cam­bio sva­lu­tato, bassi salari.
I pro­blemi ita­liani sono anti­chi, strut­tu­rali, quindi prin­ci­pal­mente interni.
Tut­ta­via per la ripresa conta il qua­dro ciclico euro­peo. Il tono com­ples­sivo dell’Eurozona è dato dalla Ger­ma­nia. La Ger­ma­nia rifugge da una poli­tica di bilan­cio che sostenga la pro­pria domanda effet­tiva. L’economia tede­sca paga a que­sto orien­ta­mento di fondo prezzi alti, che chi governa sce­glie di far gra­vare sulla società civile, la quale evi­den­te­mente accetta di sopportarli.
La Ger­ma­nia sacri­fica a que­sta sua poli­tica di bilan­cio punti di red­dito nazio­nale; cede all’estero attra­verso l’avanzo com­mer­ciale – 8,5% del Pil! — risorse reali altri­menti impie­ga­bili all’interno; espone i pro­pri con­fini alla pres­sione degli immi­grati. Que­sti cer­cano in Ger­ma­nia, dove la disoc­cu­pa­zione è strut­tu­ral­mente bassa, il lavoro che non tro­vano in Ita­lia, Spa­gna, Fran­cia, Gre­cia, le eco­no­mie Medi­ter­ra­nee fre­nate anche dal fermo della «loco­mo­tiva» tedesca.
Si deve esclu­dere che il governo, la classe diri­gente, gli eco­no­mi­sti di Ber­lino igno­rino que­sti costi eco­no­mici per la società tede­sca. Quindi la fina­lità per­se­guita non può che essere metae­co­no­mica. Di poli­tica estera?
Più che la memo­ria dell’iperinflazione di Wei­mar pesa sui tede­schi il ricordo della Ger­ma­nia asser­vita per­ché debi­trice dopo i due con­flitti mon­diali? Può la Can­cel­liera pen­sare che per la nazione tede­sca essere cre­di­trice signi­fi­chi supre­ma­zia poli­tica sul resto d’Europa?
Sarebbe dav­vero grave, al di là degli aspetti stret­ta­mente eco­no­mici, se in Europa l’economia fosse subor­di­nata alle fina­lità di poli­tica estera di un solo paese…

martedì 27 ottobre 2015

L'enigma della Fed. Far saltare tutto o tirare a campare?

Se a distanza di soli cinque giorni, sul giornale di Confindustria, escono due (ottimi) articoli scritti da persone diverse, in cui si mette educatamente in discussione la serietà teorica dei manuali di economia adottati nelle facoltà del Vecchio e del Nuovo Continente, si vede che il problema sta diventando molto grande.
Senza teoria non ci si vede. Checché ne pensino i “pratici”, gli innamorati del “qui e ora”, del “franza o spagna purché se magna” (sul piano intellettuale, è ovvio), la complessità del reale è tale che solo cercando un filo logico rigoroso si può tentare di capirci qualcosa. Una teoria può essere sbagliata, un'altra giusta ma insufficientemente elaborata, ecc; ma senza una teoria si reagisce al movimento delle cose come un agnello in mezzo al branco. Si possono dare capocciate isteriche, ma la fine è certa...
Le teorie neoliberiste – quelle che dominano sui manuali obbligatori – non riescono a spiegare quel che sta accadendo dal 2007 ad oggi. Quindi, letteralmente, impediscono di vedere. Ma se non si vede, non si riesce a fare un'esame critico della situazione. Dunque non si possono prendere decisioni sensate. O meglio, visto che parliamo di capitale, si possono prendere decisioni vantaggiose per chi le prende, anche se magari mortali per il sistema.
Scendiamo sulla terra. L'articolo che qui di seguito vi proponiamo di leggere, di Vito Lops, spiega benissimo perché la decisione che tra oggi e domani dovrà prendere la Federal Reserve sia importantissima per l'evoluzione della crisi finanziaria globale; ma indica anche l'assoluta inefficacia delle scelte fin qui fatte da tutte le banche centrali del mondo, sulla base di assunti teorici e aspettative pratiche prive di riscontri.
626 tagli dei tassi di interesse, dal 2008 ad oggi, non hanno arrestato la caduta dell'inflazione. Né ci sono riusciti i numerosi e massicci quantitative easing, che hanno forse migliorato i bilanci delle grandi banche di investimento, ma non hanno avuto effetti concreti nell'economia reale.
O meglio, hanno avuto soltanto un effetto: hanno rinviato di continuo la resa dei conti tra i troppi capitali in cerca di valorizzazione.
Se la Fed decide di rialzare per la prima volta i tassi dopo sette anni di tagli innesca una spirale opposta mirando ad attirare parte di quei capitali verso il sistema finanziario Usa. E costringerà dunque tutti gli altri a fare altrettanto per frenare un drenaggio devastante le economie “emergenti” (ma anche quella europea). Il tutto mentre queste economie sono o in deflazione o in recessione, o comunque in drastico rallentamento.
Se la Fed lo fa, è una decisione di portata storica, con qualche robusta connotazione bellica. Se non lo fa, cede alle richieste che arrivano da tutto il mondo, compreso il Fmi. Dunque rinuncia ad operare da  banca centrale operante nell'esclusivo interesse degli Stati Uniti. O quantomeno rinvia il momento delle “scelte irrevocabili”.
Sottolineiamo, prima di lasciarvi alla lettura di Lops, come questa situazione globale di stallo sia il risultato di un indubbio “successo” del capitale nei confronti del lavoro. Trentacinque anni di neoliberismo hanno schiantato ovunque i salari e i diritti, distrutto sindacati e organizzazioni “progressiste”, travolte – anche quelle socialdemocratiche – dal tracollo del “socialismo reale”. Quel che Lops chiama ancora “ceto medio” (in realtà il lavoro salariato stabile, certo di poter prendere impegni finanziari a lungo termine come i mutui, ecc) è, dopo questa “cura”, impossibilitato a consumare quanto potenzialmente può esser prodotto.
Tre decenni di “politica dell'offerta”, tutta tesa ad abbassare i costi di produzione, hanno insomma distrutto la domanda.
Chi giustamente ragiona in termini teorici per trovare le soluzioni, è costretto dunque a buttar via le vecchie teorie liberiste. Ma non ne trova di alternative.
C'è deflazione anche nel pensiero.
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La deflazione spaventa Cina, Giappone, Usa ed Eurozona. Dal 2009 le banche centrali hanno tagliato (invano) 626 volte i tassi
di Vito Lops - IlSole24Ore

Oggi e domani si riuisce la Federal Reserve. Deciderà se e quando rialzare i tassi per la prima volta da 10 anni. Una decisione che andrebbe contro la direzione globale visto che tutte le altre principali banche stanno tagliando i tassi. Come mai? La politica monetaria sembra ardua se raccontata al bar. Ma forse lo è un po' meno se passa questo concetto: quando le cose vanno bene le banche centrali alzano i tassi per evitare che la corsa dell'economia faccia salire oltremisura l'inflazione, cioè il prezzo dei beni, per evitare un'eccessiva perdita del potere d'acquisto di chi ha redditi nominali stabili. Quando invece le cose vanno male, le banche centrali tendono a ridurre i tassi per rendere meno caro il costo del denaro, i prestiti alle imprese, i mutui alle famiglie. Nella speranza che questa liquidità aggiuntiva aiuti l'economia a risollevarsi.
Bene, a giudicare da quello che sta accadendo dal 2009 ad oggi le cose non è che stiano andando granché bene. Il termometro ineccepibile delle scelte di politica monetaria delle banche centrali ci dice che da allora sono stati tagliati i tassi per 626 volte.
L'ultimo caso balzato alla cronaca risale a venerdi quando la People’s Bank of China ha deciso di tagliare il costo del denaro per la sesta volta da novembre. Poco prima anche la Banca della Serbia ha sforbiciato i tassi, precedendo India, Taiwan e Norvegia.
Paesi agli antipodi geografici ma accomunati dalla scelta delle rispettive banche centrali di alleggerire le maglie del credito. Il conto delle sforbiciate del 2015 sale così a 69 (attuate da 45 banche centrali, alcune delle quali hanno quindi effettuato più di un taglio). È stato quindi già superato il totale dello scorso anno (65). Certo, siamo lontanissimi dal picco del 2009 (207 riduzioni) e dal totale raggiunto nel 2012 (108). Di questo, però, passo il 2015 potrebbe eguagliare il bilancio del 2013 quando i tassi furono tagliati per 89 volte nel mondo.
Non va dimenticato che ci sono stati istituti che sono andati ben oltre le sforbiciate, perché avevano portato in precedenza i tassi su livelli non più “tagliabili”. Quando infatti i tassi vengono portati a 0 ma non è abbastanza per risollevare l'andamento economico bisogna ricorrere alle manovre di riserva, quelle cosiddette non convenzionali. La più nota è il “quantitative easing”, cioè un allentamento monetario. È quello che hanno fatto Stati Uniti e Gran Bretagna dal 2009, Giappone dal 2013 ed Eurozona dal 2015. Come funzionano? Le banche centrali “stampano” nuova moneta e acquistano asset sui mercati aperti, fornendo così nuova liquidità a fondi di investimento e istituti di credito (che vendono alle banche centrali i loro asset).
Riepilogando, dal 2009 tutte le principali banche delle più importanti economie del pianeta non solo hanno azzerato i tassi ma sono state “costrette” a fornire un ulteriore aiutino all'economia attraverso piani di “Qe”. Le altre banche che invece hanno ancora i tassi sopra lo 0 e quindi non sono ancora arrivate al “Qe” hanno comunque ridotto il costo del denaro per 626 volte, 69 volte solo nel 2015.
Leggendo il dato al contrario, tutte queste misure sono figlie di un rallentamento globale dell'economia che si riflette anche in un conseguente rallentamento dell'inflazione e un crescente pericolo di disinflazione o deflazione, cioè di stagnazione o addirittura flessione dei livello dei prezzi di beni e servizi (il che è considerato un pericolo perché spinge gli attori economici a rimandare i consumi, la prima leva di crescita, in virtù di aspettative di riduzioni future dei prezzi).
Le previsioni sull'andamento dell'economia globale sono state ridimensionate da tutti gli analisti e anche il Fondo monetario internazionale, per bocca del direttore generale Christine Lagarde, ora avverte che la crescita quest'anno sarà più debole che nel 2014 (quando il Pil era cresciuto di un non entusiasmante 3,4%).
Anche l'inflazione globale sta frenando con una media del 2,5%. A settembre, dopo tre piani di “Qe” in 5 anni l'inflazione negli Usa si è attestata allo 0,1% mentre il livello dei prezzi nell'Eurozona è tornato a scendere (-0,2%). Persino la Cina – che negli ultimi anni ci ha abituato a una forte crescita del Pil con un'inflazione del 4-5%) – vede l'inflazione scendere pericolosamente sotto il 2% (1,6%).
L’inflazione frena contrariamente alle teorie economiche che studiamo da tempo sui manuali: quella monetarista secondo cui più moneta viene stampata maggiore è l’inflazione che si crea. Oppure la curva di Phillips secondo cui quando il tasso di disoccupazione è basso l’inflazione tende a crescere. Non è così per negli Usa dove l’inflaizone è a 0 mentre il tasso di disoccupazione ufficiale è sceso al 5,1%. È chiaro che c’è qualcosa che sfugge ai manuali, alle vecchie teorie economiche. È chiaro che il mondo sta cambiando. Molto probabilmente, i grandi Paesi fanno fatica a creare inflazione perché la coda lunga della domanda (il ceto medio-basso, quello che con i propri consumi ha la maggiore incidenza nella creazione di inflazione) è sempre più povero e indebitato. Di conseguenza manca la materia prima (ovvero un adeguato reddito per le classi medio-basse e un’adeguata capacità di chiedere prestiti) per creare l’inflazione. Forse questo andrebbe aggiunto nei manuali mentre non si può che aggiornare di giorno in giorno l’inesorabile conto delle sforbiciate, molte delle quali però sono colpi a salve, dato che al momento l’inflazione globale sta rallentando anziché crescere.

lunedì 26 ottobre 2015

I bassi salari non vi salveranno!

trenkle
 
- L'illusione del capitalismo delle miseria e delle prestazioni da servizi -  
di Norbert Trenkle
 
Da quando la crisi della società del lavoro è lentamente emersa nella coscienza collettiva (all'incirca a partire dalla fine degli anni 1970), il neoliberismo ha ostinatamente sostenuto il punto di vista per cui tale crisi non esiste assolutamente. Quel che accade, avrebbe a che vedere con il fatto che la forza lavoro è semplicemente "troppo cara". Se fosse più a buon mercato, e venisse offerta in maniera più "flessibile", si potrebbero creare posti di lavoro sufficienti, in tutto il mondo e per tutta l'eternità.  
Oggi, questo punto di vista viene generalmente accettato come senso comune. "In una società dove c'è divisione del lavoro, le persone devono guadagnarsi i propri mezzi di sussistenza sul mercato. Ed il prezzo viene fissato dall'offerta e dalla domanda. Se la merce non si vende, è perché il prezzo non è adeguato. La disoccupazione non significa che il lavoro sta scomparendo, ma che è diventato troppo caro", scrive il giornalista economico Nikolaus Piper (Süddeutsche Zeitung, 6.8.1998), e questo è soltanto un esempio fra tanti.
Dopo vent'anni di prassi neoliberista, gli ideologhi del lavoro e del mercato vedono confermata la loro semplicistica visione del mondo. Quindi, la verità sarebbe che dove la "deregolamentazione" del mercato del lavoro è stata di conseguenza perseguita, specialmente negli Stati Uniti, si sarebbero ottenuti dei successi giganteschi, come anche osserva Piper: "Negli Stati Uniti, nell'ultimo quarto di secolo, non solo sono stati creati 45 milioni nuovi posti di lavoro, ma allo stesso tempo è aumentata anche la giornata lavorativa, in media dello 0,1%; la percentuale delle persone occupate è aumentata dello 0,5% ed il rendimento pro capite è cresciuto del 1,6% per anno". Il fatto che questo glorioso "miracolo dell'occupazione", nonostante i continui abbellimenti cui è soggetto, sia consistito prevalentemente di posti di lavoro flessibili ("flexi-jobs") malpagati ed insicuri, e che il lavoratore debba accumulare due o tre di questi posti di lavoro per riuscire ad avere un reddito appena accettabile, è cosa cui il credo neoliberista non assegna alcuna importanza.
Ma anche a livello empirico non è che poi le cose siano state fatte con maggior rigore, dal momento che "i successi dell'occupazione" vengono abitualmente manipolati nelle statistiche. Anche ad una lettura superficiale, il "bilancio occupazionale" non sembro così positivo come ci viene raccontato.
Che si tratti di posti di lavoro a buon mercato o meno, che siano molti, oppure, forse, non poi così tanti - ufficialmente si ritiene dimostrata la tesi per cui la disoccupazione è soltanto la conseguenza del costo del lavoro troppo elevato e delle condizioni di lavoro non flessibili. Statisticamente, l'alto tasso di disoccupazione nei paesi dell'Unione Europea è, secondo la dottrina economica dominante, solo una prova del fatto che non si è ancora proceduto ad un'adeguata deregolamentazione - argomento del quale, il recentemente eletto governo socialdemocratico, approfitta per recuperare il ritardo il più rapidamente possibile. E se i Länder del Capitalismo di Stato collassato, dopo dieci anni di felicità di Capitalismo concorrenziale, affondano sempre più nell'agonia socio-economica, la colpa non può essere altro che della lentezza e della timidezza delle dolorose riforme della "economia di mercato", che semplicemente non sarebbero state ancora conseguentemente implementate. A proposito dell'economia, del tutto distrutta, dell'Ucraina, si dice, con una rara miscela di sincerità e di cinismo: "prima di un eventuale recupero, sono necessare due riforme: devono essere chiuse più fabbriche che fanno uso intensivo di energia, l'energia elettrica ed il gas devono rincarare per la popolazione; la disoccupazione aumenterà se le imprese che hanno un futuro - ad esempio, nell'industria dell'armamento (sic) - verranno finalmente ristrutturate; inoltre, i burocrati devono essere licenziati, di modo che l'iniziativa imprenditoriale possa svilupparsi" (Die Zeit, 23.04.1998).
Nonostante le argomentazioni di questo tipo, è manifesto che la presunta ripresa economica nelle regioni in collasso del Sud e dell'Est non avverrà, e che le consolazioni a colpi di un futuro radioso, anche se nel presente la cinghia viene sempre più tirata, non sono particolarmente credibili, a breve termine. Perciò, nel discorso giustificativo del neoliberismo, è stato innestato, dalla fine degli anni 1980, un nuovo paradigma ideologico: è stato scoperto il "settore informale", ed è stato dichiarato essere il serbatoio di una nuova imprenditorialità dinamica, e soprattutto libera, la quale a causa della "sovra-regolazione" del settore formale non trovava opportunità di sviluppo ed è stata costretta a rifugiarsi nella "informalità". Si è così passato a fomentare questo "settore dal basso" (titolo tedesco di un libro assai discusso del peruviano Herman de Soto), poiché esso sarebbe il punto di partenza e la base di uno sviluppo economico che in futuro avrebbe successo. In questa maniera si prendono due piccioni con una fava. Da un lato, si pretende di legittimare così l'eliminazione degli ultimi meccanismi di protezione e di regolamentazione e, dall'altro, di presentare il crescente deterioramento delle condizioni di vita delle masse, come prova della superiorità dell'economia di mercato.
Il fatto che un'argomentazione così grossolana possa svolgere un ruolo importante nel dibattito economico ufficiale, si può spiegare naturalmente con la brutalità degli interessi in gioco. Pertanto, da un punto di vista teorico, l'affermazione secondo la quale il sistema capitalista, basato sulla società del lavoro, possa continuare con successo fondandosi su lucidatori di scarpe, venditori di gomma da masticare, e su montagne di rifiuti, è tutto tranne che indiscutibile. Ed è ancora più penoso che questa brutale teoria neoliberista inventata di proposito sia penetrata in larghi settori della sinistra - anche se utilizzata in forma negativa e con l'aria di essere una critica particolarmente solida al capitalismo. La crisi della società del lavoro, si dice sempre più anche negli ambienti della sinistra, non avrebbe, in realtà, un carattere fondamentale e non potrebbe portare al collasso definitivo del sistema di produzione di merci; tutt'al più si tratterebbe soltanto della fine di una determinata fase del capitalismo: quella della prosperità del dopoguerra. Poi, il capitalismo tornato finalmente alla sua normalità, nella quale, ora, la maggioranza della popolazione deve mettersi in vendita in condizioni miserabili e, nella migliore delle ipotesi, deve sopravvivere in pessime condizioni - a meno che non abbia intenzione di lasciarsi morire di fame. Il capitale, in queste condizioni, potrebbe essere accumulato come non mai.
Il teorico della regolamentazione di sinistra, Joachim Hirsch, ha espresso con insuperabile chiarezza un'opinione che rispecchia la posizione neoliberista: "Il capitalismo si caratterizza per l'alterazione permanente delle condizioni di produzione e di lavoro e per la creazione (ciclica) di un esercito industriale di riserva. L'insicurezza dei posti di lavoro e la disoccupazione sono caratteristiche strutturali di questo sistema economico. Che questo venga frequentemente trascurato, deriva dal fatto che durante il capitalismo fordista del dopoguerra tali condizioni erano sembrate superate. La crisi della 'società del lavoro' è parte della crisi di questa formazione. Quella che ha avuto realmente fine è stata una forma storica specifica del capitalismo: il 'fordismo', il quale si era organizzato a partire dalla crisi economica mondiale degli anni trenta, nelle speciali condizioni del conflitto est-ovest e della guerra fredda" (Hirsch, 1999, p. 15). Questa crisi del "Fordismo" è già diventata chiaramente irreversibile sotto l'azione della globalizzazione e attraverso i metodi neoliberisti del "Ovest selvaggio", con la progressiva flessibilizzazione e don la deregolamentazione dei mercati: "con la divisione dei salariati e con la possibilità di giocare fortemente gli uni contro gli altri i loro segmenti nazionali, il capitale non solo ha attutato una modificazione strutturale a suo favore del rapporto di reddito, ma ha anche creato le condizioni per una razionalizzazione globale e, perciò, anche da questa prospettiva, di un forte crescita del suo profitto" (ivi, p.15 e segg.).
In qualche modo, quest'opinione è sorprendente. Apparentemente, Hirsh smette di pensare il sistema di produzione capitalista come un sistema globale, diversamente si sarebbe reso conto che le sue teorie dell'accumulazione e della crisi hanno i piedi d'argilla. Proprio come fa la teoria economica liberale, Hirsh coglie il piano macroeconomica del capitalismo globale a partire dal piano microeconomica della piccola impresa. Il fatto che esistano contraddizioni fondamentali fra questi due piani, non gli passa nemmeno per la testa. 
Un'impresa può aumentare i suoi profitti per mezzo della diminuzione dei salari e delle altre condizioni di lavoro, attraverso la riduzione delle sue imposte e altri sconti da parte dello Stato, dalla delocalizzazione di parti dell'impresa attraverso "localizzazioni a buon mercato" e (o in alternativa a questo) attraverso l'applicazione di nuove tecnologie, razionalizzando i processi imprenditoriali e sostituendo posti di lavoro con capitale tecnico. Visto dal punto di vista dell'economia globale, questo non significa un contributo alla risoluzione della crisi del capitalismo, ma, al contrario, il suo aggravarsi. Questo è subito visibile nel mercato dei beni di consumo in contrazione. Infatti, quando i redditi da lavoro e le sovvenzioni statali diminuiscono, questo significa anche (mantenendosi le altre circostanze) la contrazione della domanda. Quando le merci non vengono vendute, anche il capitale non può essere valorizzato. Le imprese individuali o le economie localizzate possono sottrarsi a questo dilemma nella misura in cui riescono a portare al fallimento i loro concorrenti ed a conquistare le loro quote di mercato. Ma in nessun modo riescono ad evitare che il mercato, nel suo insieme, diventi sempre più ristretto e nascano nuove sovraccapacità nei settori centrali della produzione mondiale, così come avviene da anni. Ma non si tratta semplicemente di un problema di mancanza di potere di acquisto sul mercato (sul piano della circolazione), come viene affermato dal punto di vista keynesiano, bensì di un problema di mancanza di potere di acquisto risultante da un dilemma molto più profondo: lo squagliarsi della sostanza del lavoro e, insieme ad essa, della base della valorizzazione del capitale nel corso della terza rivoluzione industriale ( e della microelettronica). Il potere di acquisto reale non proviene dal fatto di stampare moneta e di metterla in circolazione, ma dal fatto che si conseguano "redditi da lavoro" che derivino dall'utilizzo imprenditoriale di forza lavoro. Devono pertanto sorgere nuovi settori di produzione che creino sufficienti posti di lavoro supplementari al livello delle condizioni tecniche ed organizzative della produzione vigente sul piano mondiale, affinché possano essere compensati i potenti effetti della razionalizzazione economica imprenditoriale risultante dalla microelettronica. Sul piano del mercato dei beni di consumo, l'aumento dei profitti deve manifestarsi con una domanda allargata di beni di investimento, mentre devono sorgere simultaneamente nuovi redditi da lavoro che possano essere espressi a livello di domanda di beni di consumo.
Ma sono stati proprio questi, gli effetti che il metodo neoliberista non è riuscito a produrre. Poiché, nello stadio ora raggiunto dalle forze produttive, attraverso l'incorporazione delle scoperte scientifiche, il meccanismo che aveva permesso il superamento delle crisi del capitalismo, fino ad oggi, non ha sortito effetti. In realtà nascono nuovi settori economici, come quelli legati alla tecnologia informatica, in senso ampio, ma non creano posti di lavoro in quantità sufficiente ad assorbire i posti di lavoro diventati superflui negli altri settori, in quanto fin dall'inizio questi nuovi settori producono a partire dalla razionalità della microelettronica. 

Perciò, il neoliberismo non si presenta come una "uscita capitalistica dalla crisi", contrariamente a quanto afferma Hirsh, ma anzi può essere considerato, politicamente ed economicamente, come la sua forma obsoleta. La deregolamentazione e la progressiva dissoluzione degli spazi funzionalmente coerenti delle Economie Nazionali porta, nella realtà, alla nascita di settori largamente fondati sul lavoro salariato precario e sul lavoro para-salariato, così come su altre forme di lavoro miserabile. Sembra corretto affermare che mai come oggi tante persone, in tutto il mondo, devono esercitare un'attività sotto forma salariata; ma non per questo è stata eliminata dal mondo la crisi della società del lavoro e dell'accumulazione del capitale.
Qui, un fatto di ordine sociologico (la povertà) viene messo, senza alcun fondamento, in corto circuito con una funzione economica (l'accumulazione del capitale), così come determinate misure politiche (deregolamentazione, privatizzazioni, ecc.) vengono considerate di per sé come fattori della valorizzazione forzata del capitale, e ad essa subordinati. Anche i sociologhi ed i politologhi di sinistra ignorano il fatto che l'economia della società capitalistica del lavoro persegue una logica autonoma che non cede a fenomeni sociali o a forme di regolamentazione politica. La logica oggettiva della valorizzazione del valore non dipende dal fatto che le persone si ammazzano a lavorare e spendono la loro energia vitale; importa solo quanto "valore" economico viene prodotto per mezzo di questa energia. Il valore di una determinata merce, tuttavia, non si misura con il tempo che una determinata persona o una determinata impresa spendono per produrla; il suo standard è dato dal tempo di lavoro necessario alla produzione di tale merce al livello più elevato (e storicamente sempre crescente) delle condizioni di produzione economica imprenditoriale vigenti.
Se, ad esempio, una fabbrica tessile che disponga di processi di gestione microelettronica e di tecnologia laser produce alcune centinaia di camicie in un'ora, allora è questo lo "standard" con cui si deve misurare la camiciaia che lavora nel cortile di una baraccopoli di un qualche paese dell'America Latina, Se a lei servono due o tre ore per fare una camicia, allora il suo lavoro, puramente e semplicemente, non ha molto "valore". Per la sarta questo si traduce, in forma sensibile, nel fatto che ottiene per una camicia, che ad esempio fornisce ad un gruppo tessile internazionale, un prezzo minimo che non superi i costi di produzione della fabbrica tessile (con cui deve entrare in concorrenza diretta sul mercato mondiale), e che la farà sopravvivere male ed in condizioni miserabili.
Se, nella realtà, diversi milioni di persone lavorano in condizioni identiche a quelle di questa camiciaia questo è dovuto a due ordini di motivazioni. Dal punto di vista delle multinazionali che operano sul mercato mondiale e dal punto di vista delle molteplici imprese fornitrici subordinate, è del tutto indifferente in che modo vengano minimizzati i loro costi ed aumentati i loro profitti. Produzione "high-tech" o manodopera a basso costo "low-tech", sono per loro, puramente e semplicemente, opzioni che - secondo il calcolo degli investimenti necessari, della situazione del mercato, dei rischi, della situazione della concorrenza e di altre condizioni strutturali - si possono utilizzare e perfino combinare. Dal punto di vista dei lavoratori e delle lavoratrici della miseria, è la coercizione assoluta delle loro condizioni di vita che li costringe a vendere la loro forza lavoro nelle più crudeli e disumane condizioni. Dal momento che le condizioni materiali, sociali e culturali per l'esistenza di un'economia rurale di sussistenza sono state distrutte nella maggior parte del mondo (e soprattutto nei giganteschi agglomerati urbani con i loro quartieri di latta), come presupposto dell'introduzione del sistema capitalista di produzione di merci, a queste persone non rimane altro da fare che vendersi, letteralmente, a qualsiasi prezzo. I lavoratori sono stati così trasformati a forza in individui del mercato. Ma, in questo modo, viene loro negata la possibilità di avere una vita in qualche misura accettabile e, così, i salari miserabili devono essere integrati con varie forme di lavoro autonomo, con l'assistenza, con produzioni di sussistenza individuale (laddove sono ancora possibili), col lavoro informale, con la piccola criminalità, la prostituzione, il contrabbando, ecc..
Questo è un risultato del capitalismo ma non è, in sé stesso, un fattore di accumulazione del capitale. Ad una superficiale osservazione sociologica, le diverse forme di lavoro miserabile potrebbero apparire come la rinascita delle relazioni sociali proprie dell'inizio del capitalismo, nelle quali gli uomini tornano di nuovo a cercare di sopravvivere in condizioni precarie. Ma un tale punto di vista, assunto in molti studi sul settore dell'economia informale (vedi Komlosy ed altri), ignora una differenza essenziale. Il lavoro di massa all'inizio del capitalismo, nelle industrie artigiane e nelle fabbriche, che veniva spesso integrato con attività di sussistenza, era l'espressione di una produttività capitalista ancora molto poco sviluppata. Ciò significava che il valore delle merci prodotte superava solo in piccola parte il valore pagato ai lavoratori sotto forma di salario. Il plusvalore, rispetto alle ore di lavoro utilizzate, era relativamente piccolo. Il capitale (nella forma del proprietario della fabbrica o del commerciante) compensava tale piccolo margine obbligando al prolungamento dell'orario di lavoro nel mentre che riduceva ad un minimo assoluto le condizioni di sussistenza degli strati proletari: una capanna ammuffita, buia e sovraffollata insieme ad una razione quotidiana di patate, erano ovunque il paradigma per mezzo del quale si faceva sentire il "progresso della civiltà" moderna. Solo così si riusciva ad esprimere un "plusvalore" che garantiva una sufficiente valorizzazione del capitale. Marx ha chiamato questo periodo, quello della "produzione assoluta di plusvalore".
Dalla metà del 19° secolo, quest'estremo impoverimento è stato progressivamente sostituito da un'altra forma più intensiva di sfruttamento della forza lavoro. Nella stessa misura in cui la produttività tecnica ed organizzativa veniva aumentata in maniera efficace, anche il lavoro veniva progressivamente eliminato, rendendosi simultaneamente, nel senso dell'economia imprenditoriale, sempre più produttivo. Questo è stato, soprattutto, vantaggioso per la valorizzazione del capitale, per mezzo di una corrispondente espansione della produzione; ma allo stesso tempo è stato il presupposto economico per cui, nel corso delle violente lotte sociali e politiche, l'orario di lavoro potesse essere accorciato ed il livello di vita della maggior parte delle persone, quanto meno nei paesi del centro del capitalismo, potesse essere significativamente migliorato. Oggi, al contrario, la situazione è radicalmente differente da quella esistente all'inizio della rivoluzione industriale: in quanto la produttività economica imprenditoriale basata sulle condizioni tecnico-scientifiche derivanti dalla microelettronica è diventata gigantesca, lo sfruttamento estensivo e di massa del lavoro precario a buon mercato non è in alcun modo la base di una nuova accumulazione mondiale del capitale. Ma è piuttosto la forma in cui il lavoro, ed insieme ad esso il capitale, sono "svalorizzati".
 
In realtà, il lavoro ha ora sempre meno "valore", in due sensi. Non solo il prezzo della merce lavoro è tornato un'altra volta ad essere spremuto verso il minimo della sussistenza, ma anche i guadagni, resi ancora possibili dalle merci prodotte, vanno cadendo sempre più al sotto di un livello che possa permettere l'accumulazione di capitale. Dato che lo "standard" della creazione del valore è determinato dallo "standard" della produttività, per il capitale le molte ore di lavoro a buon mercato sono di scarsa utilità, anche perché, da un punto di vista economico, "valgono" pochi minuti, per non dire secondi, del tempo di lavoro della produzione "high-tech". E questa è una differenza decisiva, relativamente alla storia, fino ad oggi, della società capitalistica del lavoro.
Ora i salari possono benissimo scendere, e l'orario di lavoro aumentare - non ci sarà mai la possibilità di accumulazione di quantità di lavoro che possa convertirsi in valore, come nel capitalismo iniziale. E ancor meno può essere allargata la produzione di merci, in modo tale che, nelle condizioni della microelettronica, si possa raggiungere l'effetto dell'industria "fordista". Per fare questo sarebbe necessarrio riempire letteralmente gli oceani di Personal Computer, di telefoni cellulari e di Nintendo.
Così come la produzione di "plusvalore assoluto" ha segnato il brutale inizio del modo di produzione capitalista alla fine del 18° secolo ed agli inizi del 19°, oggi il lavoro precarizzato di massa segna il rapido declino di questo modo di produzione. E se il grado di sviluppo delle forze produttive della produzione fordista aveva generato le condizioni economiche necessarie, sia per la totalizzazione del capitalismo in quanto sistema, sia per il successo relativo del movimento operaio, anche il grado di sviluppo della produttività per mezzo della microelettronica tira via il tappeto sotto i piedi all'accumulazione del capitale ed agli interessi ad essa immanenti del lavoro salariato.
Dal punto di vista del capitale, la nuova miseria delle masse non è più produttiva. In realtà, non esiste nemmeno una "normalità" permanente del capitalismo, che sarebbe stata solamente interrotta, temporaneamente, dalla prosperità del "Welfare State"; quello che esiste è un processo di sviluppo storico del capitalismo, nel quale nessuno degli stadi precedenti può ripetersi. Se il lavoro a buon mercato, nei settori formali, o anche informali, dell'economia, ha contribuito, direttamente o indirettamente, alla formazione di valore del capitale, ora non è più un fattore decisivo, ma di un effetto di "trasporto", secondario e minimo, della crisi capitalista sul capitale stesso, senza che con questo sia possibile superare la crisi stessa. Ma, per la grande (e crescente) maggioranza, il fenomeno sociale della nuova povertà non consiste nel massiccio sovra-sfruttamento (come avveniva nel capitalismo iniziale), ma piuttosto nel fatto per cui le persone stanno diventando superflue a livello di massa, non potendo più venire assorbite dal processo produttivo del capitale, o al più potendo esserlo solo provvisoriamente e a margine del sistema. Questa è solo un'ulteriore prova che l'accumulazione del capitale ha raggiunto il suo limite storico.
Non si tratta di un impoverimento nel, ed attraverso il, lavoro, ma fuori dal lavoro, in quanto la società del lavoro stessa è stata spinta fino all'assurdo, continuando, nonostante tutto, il dominio della società da parte delle sue forme economiche. Al posto del lavoro, utilizzato economicamente nelle imprese, appaiono le "attività di miseria" degli esclusi. Al posto delle coltivazioni agricole di sussistenza, nella terra bruciata dell'economia di mercato, il contrabbando, la prostituzione infantile  vanno ad integrare la "sostanza del valore" nell'accumulazione del capitale. La forma monetaria, nella maggior parte di questi casi, non viene introdotta direttamente nella circolazione del capitale, ma emerge solamente nelle cerchie di secondo o terzo ordine da questo dipendenti, come quando un lavoratore precario contratta un alloggio in una baracca, o un turista sessuale affitta un ragazzino. Lo stesso avviene con una gran parte del settore informale in espansione nel centro del capitalismo: le attività ambulanti; le forma di "lavoro sociale", le truffe, la piccola criminalità, il lavoro forzato per le comunità locali, e così via. Se un disoccupato o un beneficiario dell'assistenza sociale di uno Stato oramai in demolizione venisse obbligato ad andare a vendere accendini per strada, l'erario pubblico ne sarebbe di fatto sollevato (il che è in realtà l'obiettivo di tali "misure"), ma l'accumulazione del capitale ne beneficerebbe quanto beneficerebbe dello scippo di una borsetta.
Si pone perciò il problema se la tesi di sinistra a proposito del superamento capitalista della crisi, della continuazione ininterrotta della società del lavoro e del presunto ritorno alla "normalità" (negativa), non sia in fondo brutalmente "interessata", quanto la medesima tesi del neoliberismo di segno (positivo) contrario. Manifestatamente, la sinistra ha altrettanto paura di guardare negli occhi, di quanto ne hanno i rappresentanti delle istituzioni del capitalismo, il fatto che la categoria centrale del moderno sistema di produzione di merci, il "lavoro" astratto, sia in rapida caduta - ed insieme a questo, anche la possibilità dei movimenti di riforma immanenti al sistema. Joachim Hirsh non riesce a portare avanti un solo argomento economico (sul piano della teoria dell'accumulazione del capitale) per sostenere la sua tesi, ma solamente argomenti di carattere "sociologico" e "politologico". L'analisi non si pone al livello del contesto del lavoro astratto, della forma del valore e dell'accumulazione del capitale, ma li presuppone ciecamente in anticipo. Così come il neoliberismo concepisce un ritorno alla "normalità capitalistica" per mezzo delle privatizzazioni, delle deregolamentazioni e dei bassi salari, anche la sinistra concepisce, proprio sul terreno di questa stessa "normalità", di poter tornare alle gloriose lotte per la regolamentazione, per l'intervento keynesiano dello Stato del benessere e per il miglioramento dei salari. Ricominciare tutto da capo - era tutto così bello, non è vero?
 
Un'uscita immanente dal circuito infernale della svalorizzazione del capitale e dell'impoverimento delle masse non è più possibile, in quanto il divario fra la produzione "high-tech" e l'economia di sopravvivenza diventa sempre più grande e e non potrà mai essere colmato da una qualche "strategia di sviluppo". E' anche questa una ragione per cui il lavoro precario si è necessariamente installato nel settore informale dell'economia e lì rimane. L'informalità è una zona grigia posta fra la produzione capitalista marginale e a buon mercato e le attività di miseria degli esclusi, e per questo è anche un'attività economica a margine della regolamentazione dello Stato o delle altre istituzioni (tutela del lavoro, contrattazione collettiva, oneri ambientali, sicurezza sociale, ecc.), ragion per cui, da un lato, sparisce la protezione e, dall'altro, smette praticamente di essere pagata qualsiasi tassa. In definitiva, questo significa naturalmente che lo Stato abbandona sempre più le sue funzioni tradizionali di garante di una società generale, scomparendo del tutto, in questo modo, il quadro politico indispensabile al funzionamento di un'economia di mercato. Anche la polizia passa la sua "funzione di sicurezza" a determinate bande (con cui non è raro che rimanga intimamente legata), e i sistemi di istruzione, sanità, sicurezza sociale entrano sempre più in collasso, così come le infrastrutture materiali. In tal modo si accelera la spirale di svalorizzazione e, alla fine, si perdono perfino le condizioni per una partecipazione al mercato, seppure estremamente improduttiva (come mercati, le regioni al collasso del Sud e dell'Est hanno smesso da molto tempo di svolgere una qualsiasi ruolo degno di essere riferito).
E' chiaro che, in queste zone, nella fase attuale del processo di crisi, le frontiere possono diventare fluide. Nel settore informale, possono anche esistere imprese e persone ben remunerate che probabilmente riescono a far fronte ai costi dell'economia formale; ma per la grande maggioranza non è così; in questo settore non viene generato il valore sufficiente a poter essere condiviso con lo Stato e con altre istituzioni. L'informalizzazione dell'economia, che consegue necessariamente dal processo di evaporazione della sostanza del lavoro e del valore, non può arginare questo processo. Mentre il capitalismo si pone come condizione generale di riproduzione della società e di sfruttamento del lavoro astratto, il poderoso aumento della produttività per mezzo della microelettronica, che avrebbe potuto rendere possibile per tutti una vita buona e facile, può portate solamente a nuove catastrofi sociali.
Nel quadro di questo processo di crisi si formano fenomeni socio-economici paradossali. Da un lato, la maggior parte della popolazione mondiale, che si trova già degradata ad individui del mercato, è del tutto superflua per questo stesso mercato. Ma, dall'altro lato, questa dubbia situazione di coscienza sociale, causata dal mercato e dal denaro, viene ulteriormente rafforzata ed allargata. In molti paesi del "Terzo Mondo" nei quali la società delle merci e del lavoro, fino agli 70 non era ancora riuscita ad installarsi veramente (quanto meno mentalmente e culturalmente), è stata proprio la crisi della "società del lavoro" ad aver dato un forte impulso nel senso della formazione di una società di mercato.
Purtroppo, non è avvenuto per puro desiderio ideologico che i neoliberisti affermano di aver scoperto i piccoli imprenditori nel settore informale. E' proprio la forza lavoro invendibile che si converte in una sorta di imprenditoria della miseria, nelle nicchie e nei settori secondari della circolazione del capitale (si pensi alla gigantesca massa di venditori ambulanti "autonomi"). Non sono stati soltanto i modi di esistenza materiale e sociale, ma anche le mentalità che sono cambiate secondo questo modello, anche nella forma puramente negativa della lotta per la sopravvivenza.
Nonostante tutte le espressioni di solidarietà di quartiere e di lavoro familiare (soprattutto femminile), senza le quali la sopravvivenza nel settore informale sarebbe impossibile, questo tipo di lavoro non costituisce una formazione economico-sociale autonoma, né un contro-modello dell'economia di mercato, ma, al contrario, si presenta come il suo stadio terminale, in cui l'economia di mercato, alla fine del suo percorso storico, appare in maniera ancora più ripugnante. La concorrenza universale degli individui del mercato non viene soppressa in alcun modo, ma viene riprodotta, a livello di miseria, in forma ancora più aggravata. In realtà, la prosperità o la rovina del settore informale, nella sua miseria, dipende dal fatto che il suo accesso ai flussi transnazionali delle merci e del denaro non sia completamente interrotto, sebbene la sua quota in questi flussi, misurata nell'insieme del prodotto mondiale, sia del tutto insignificante. Se questo legame venisse tagliato, in quanto spariscono perfino le condizioni minime di partecipazione al mercato mondiale o perché la sovrastruttura finanziaria del paese collassa (oppure le due cose insieme), la strada da percorrere, e che è già stata tracciata in anticipo, diventa quella di un'economia di guerra e di sangue dominata da bande, come già avviene in estese regioni del mondo.
 
Nei centri dell'Occidente, le relazioni precarizzate ed informali di vita e di lavoro, che anche qui crescono in maniera drammatica, si intrecciano con il segmento inferiore di quello che il discorso delle scienze sociali, tanto imprecisamente quanto eufemisticamente, chiama la "società della prestazione di servizi". Questo discorso, che ha avuto inizio nel decennio del 1960, pretende di suggerire che la crisi del lavoro potrebbe essere risolta per mezzo di un trasferimento decisivo dal settore della produzione a quello dei servizi. Superficialmente, da un punto di vista sociologico, gli sviluppi degli ultimi decenni sembrano confermare questa tesi. In tutti i paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti, dalla metà degli anni 70, il "settore terziario" ha guadagnato un peso enorme, assoluto e relativo. In parte si tratta di una distorsione statistica che nasce in virtù del fatto che, ad esempio, molte funzioni, quali la pulizia degli edifici, la contabiliutà, i trasporti o la tecnologia informatica non si trovano sviluppate all'interno delle imprese, ma fanno ricorso alle imprese esterne di "prestazioni di servizi" ("Outsourcing"), o alla manodopera che viene "affittata" dalle agenzie di lavoro temporaneo. In nessuno di questi casi nasce un nuovo settore di riproduzione del capitale autonomo dall'industria, ma non si tratta altro che di attività legate all'industria, presentate però secondo nuovi modelli. Se non si tiene conto di tutto questo, emerge una tendenza statistica di dislocazione verso il "settore terziario".
Ma proprio come nel caso dei bassi salari, la cui espansione si interseca con la "terziarizzazione", si pone qui anche la questione di sapere se l'espulsione di forza lavoro fuori dai settori industriali centrali della produzione mondiale, attraverso la crescita del settore della prestazione di servizi, possa essere realmente, dal punto di vista dell'accumulazione del capitale, compensatrice o perfino vantaggiosa. Una teorizzazione affrettata, sulla base dell'osservazione empirica, sembra dimostrarlo. E questo solo perché i nuovi posti di lavoro sorti, o il volume del tempo di lavoro, vengono semplicemente sommati, senza entrare nel merito di quale relazione intrattengano questi numeri con il processo sociale della valorizzazione del capitale nel suo complesso. Come è già stato dimostrato per la produzione industriale, la semplice espansione del tempo di lavoro (ed ammettendo che essa sia un fatto empirico) non significa che la produzione di valore aumenti automaticamente. Il problema nelle prestazioni di servizi è diverso da quello della sarta del cortile della baraccopoli. Il lavoro di quest'ultima è, nella realtà, direttamente produttivo, seppure rappresenti un quantum di valore assai piccolo in quanto, se comparato con quello della fabbrica tessile altamente meccanizzata, è estremamente improduttivo. Le altre prestazioni di servizio, al contrario, per la posizione in cui si trovano e per la funzione che svolgono nel contesto economico generale, non producono, per principio e per struttura, un qualche valore, anche se in esse viene speso tempo di lavoro. Esse servono, o per garantire le condizioni generali di funzionamento ed i presupposti della produzione di merci, oppure sono i loro meri accessori e, come tali, sono soggetti al processo di svalorizzazione, in quanto non possono sostenersi da sé sole.
Questo si applica in primo luogo e particolarmente all'infrastruttura sociale generale nel senso più ampio del termine: ossia, ai sistemi di trasporto, di comunicazione, di istruzione, di sicurezza sociale e sanitarie, di giustizia e di ricerca scientifica, alla polizia, alle forze armate, ecc.. Non è un caso che tutte queste funzioni siano in gran parte assunte direttamente dallo Stato, o da esso finanziate, poiché pur essendo indispensabili per il contesto generale del capitalismo, non possono - possono solo molto limitatamente - essere organizzate in maniera imprenditoriale "redditizia", a causa del loro grado di generalità e alla loro insuscettibilità di essere vendute sul mercato. Si tratta di "beni pubblici", che, in principio, devo essere a disposizione di ciascuno e di tutti, ed i cui costi devono per questo essere supportati da tutti sotto forma di tasse e di imposte. Il loro finanziamento avviene a costo dei salari e dei redditi, così come dei profitti, e pertanto rappresenta una diminuzione di massa del valore disponibile. Per tale ragione, ogni e qualsiasi impresa cerca di comprimersi agli occhi del fisco, mentre, dall'altro lato, utilizza l'infrastruttura pubblica.
Da un punto di vista economico globale, si tratta - nel caso dei "beni pubblici" - di consumo (principalmente di consumo statale o para-statale), in quanto la quota di valore che viene spesa per essi si rende indisponibile per gli investimenti economici imprenditoriali; e lo stesso accade con quello che nel linguaggio abituale viene designato come "investimenti pubblici". Dal momento che non creano profitti, ma sono solamente condizioni generali perché si "stabiliscano" eventuali nuove imprese ed utilizzino una mezza dozzina di lavoratori.
Se una "localizzazione" vuole sperare in una partecipazione al mercato mondiale, deve tenere in piedi una sua infrastruttura anche quando non si verifica più, del tutto o quasi, una valorizzazione del capitale (com'è stato amaramente sperimentato da molti municipi dell'est della Germania, che posseggono zone industriali approvate e con allacci alle autostrade, ma nessuna impresa che produca con sede in quelle zone).
Le cose avvengono in modo strutturalmente identico in tutte le prestazioni di servizi che si limitano a mantenere la circolazione del denaro e delle merci; ossia, attività di distribuzione e vendita, di amministrazione commerciale e di contabilità, nel settore bancario e finanziario, nelle assicurazioni, nelle attività forensi e simili. Anche queste attività sono indispensabili, come condizioni generali di funzionamento, affinché possa avvenire la valorizzazione del capitale, ma esse stesse non producono alcun valore, al contrario, devono essere finanziate a partire dalla massa di valore creata dall'industria. In tal senso, si tratta, in questo caso, di "costi morti" di manutenzione del sistema, anche se si situano sul piano funzionale dei "beni pubblici". Questa realtà viene solo nascosta per il fatto che le catene commerciali, le banche, gli uffici di avvocati, ecc., sono essi stessi gestiti come imprese private, identificando la loro partecipazione al valore del prodotto sociale come fatturato e profitto, come se avessero prodotto qualche cosa. Che quest'apparenza corrisponda poco alla realtà, viene dimostrato allorché una regione, un territorio, viene schiacciata dalla concorrenza e, insieme al collasso della sua produzione per il mercato mondiale, entrano naturalmente in collasso anche i servizi da essa dipendenti, nei settori di appoggio alla circolazione del capitale, nei settori giuridici, ecc.. In quel momento, non sono solo i lavoratori delle fabbriche, ma anche i commercianti e gli impiegati bancari che si trovano, letteralmente, in mezzo ad una strada. In maniera concomitante, le attività commerciali ed amministrative vengono ridotte, anche quelle che guadagnano sul mercato, in quanto anch'esse, come le attività della produzione industriale, sono coinvolte nella razionalizzazione conseguente alla microelettronica. Le imprese cercano di disfarsi del peso morto che grava sui loro profitti.
In questo modo, gli elementi principali del "settore terziario" sorti in passato vengono, nella realtà, dissolti dalla crisi e dalla razionalizzazione, invece di formare un nuovo settore autonomo di valorizzazione del capitale. Quel che rimane è il crescente segmento dei "servizi prestati alla persona", nei quali l'amministrazione neoliberista di crisi ripone particolari speranze: "se si riuscisse ad ottenere che una cinquantesima parte del auto-lavoro venisse trasformato in lavoro pagato, potrebbero essere creati 800,000 posti di lavoro" divinava la "Commissione per i problemi futuri delle città libere di Baviera e di Sassonia" (Kommission, 1997). Sfortunatamente, a questo si oppone "una marcata mentalità di auto-aiuto dei tedeschi" (ivi). Con ciò non si vuole dire che una maggioranza significativa della popolazione tedesca coltivi i suoi ortaggi nel suo piccolo orto urbani, ma che essa, con una frivola cocciutaggine, si ostina ad incartare i suoi propri acquisti e a soffiarsi da sé il naso, invece di contrattare queste cose con una prestazione di servizi retribuita.
Questo svergognato comportamento che impedisce il lavoro deve, secondo l'intendimento della "Commissione del Futuro", essere cambiato affinché un esercito di domestici malpagati e ridicoli siano portati a godere della felicità del lavoro.
Nella seguente argomentazione "psico-sociale" piuttosto trasparente si spiega che: "al di là del benessere materiale, i servizi domestici possono anche far crescere il benessere morale. Così, il benessere del cliente può aumentare quanto i prestatori di servizi lo liberano dall'auto-lavoro che lo sovraccarica. Allo stesso tempo, aumenta anche il benessere del prestatore di servizi domestici, insieme all'aumento della sua auto-stima (!)per mezzo di quest'attività. Esercitare una semplice attività di servizio domestico, per la psiche è meglio che essere disoccupato" (ivi). Così viene inequivocabilmente formulato il programma politico dell'amministrazione repressiva della crisi, ossia, trattamento duro nei confronti di coloro il cui benessere non aumenta attraverso l'ingrassaggio degli stivali altrui. Economicamente, però, si tratta puramente e semplicemente dell'ottimismo spericolato dell'ideologia del lavoro, poiché, come nel caso delle imparentate "attività di miseria" delle baraccopoli del terzo mondo, in questo modo non si riuscirà a far sorgere nessuna accumulazione autonoma di capitale.
Teoricamente, non c'è niente che impedisca che il trasporto di pacchi, la lucidatura delle scarpe o fare un massaggio rappresenti una produzione altrettanto reale della fabbricazione di una borsa o di un paio di scarpe, quello che è decisivo non è il fatto che il risultato del dispendio di energia umana astratta sia materiale piuttosto che immateriale. Ma i "servizi prestati alle persone", per loro propria natura, non possono essere - nella maggior parte dei casi, se non in condizioni molto particolari - sviluppati in modo da valorizzare il capitale (si pensi ad un gruppo economico di lucidatori di scarpe o di babysitter) e perciò non sono nemmeno suscettibili di scatenare una dinamica di accumulazione capitalista autonoma. Il lavoro del pulitore di scarpe, della cameriera, dei fornitori di cure personali, ecc., integra i consumi personali (la maggioranza dei quali non particolarmente opulenti) e non può quindi essere accumulato come "lavoro morto" e diventare il punto di partenza per utilizzare più lavoro.
Per tale ragione, queste prestazioni di servizi sono, in quanto produzione secondaria di merci, strutturalmente dipendenti dal funzionamento di una creazione industriale di valore, del cui prodotto si alimentino, in quanto non possono mantenersi da sé soli. Questo è dimostrato dalla domanda e dall'offerta: i "servizi prestati alle persone" non sostituiscono la produzione industriale, ma scompaiono insieme ad essa, in quanto viene a mancare una domanda che abbia una capacità di acquisto. Queste attività, per il loro carattere specifico, non funzionano come parte di un complesso informativo altamente socializzato, ma al contrario, di regola, funzionano come offerta da parte di individui che utilizzano poche attrezzature e, soprattutto, con scarse conoscenze. Perciò esse possono, al contrario della produzione industriale, smettere facilmente di far parte del lavoro di produzione formale di merci ed essere trasformate in "auto-lavoro" (cosa che avviene quando mi soffio il naso da solo) o perfino passare al settore "informale". E per questo è completamente assurdo pensare che il sistema della società del lavoro possa essere rinnovato in questa forma. I "servizi prestati alle persone" non sono il passaggio verso il Capitalismo di prestazioni di servizi, ma soltanto la forma in cui le relazioni precarizzate e le "attività della miseria" a margine o, soprattutto, fuori della società del lavoro e della valorizzazione del capitale, entrano in gioco nei centri occidentali del sistema di produzione di merci.
 
Quelli che possono apparire come due fenomeni differenti, ed insieme solo per caso, si trovano in realtà in un contesto di causalità interna. In grandissima parte del mondo, è diventato abituale incolpare i mercati finanziari usurai per il disastro socio-economico e di considerarli all'origine della crisi. Dal momento che praticano "margini liberi", questi settori fluttuanti hanno attratto la maggior parte del capitale-denaro globalmente disponibile, che in tal modo non ha potuto essere utilizzato nell'economia reale, in "investimenti di posti di lavoro" e/o per lo stimolo statale della domanda. Se questo capitale-denaro, al contrario, fosse stato inviato verso i giusti canali, e soprattutto utilizzato produttivamente, allora avrebbe potuto smettere, possibilmente, di esistere il problema della disoccupazione. Questo modello di analisi, è pericoloso non solo per le sue conseguenze ideologiche - in quanto, con la mobilitazione contro gli speculatori, resuscita (quanto meno surrettiziamente) i risentimenti antisemiti contro il "capitale finanziario giudaico" che presumibilmente dominerebbe il mondo - ma anche perché inverte la realtà della situazione economica.
Solo attraverso un'enorme massa di liquidità scoperta, creata nella sovrastruttura finanziaria a partire dagli anni settanta, è stato possibile - senza alcun utilizzo reale di forza lavoro produttrice di merci ed in particolare nei paesi occidentali - fermare in maniera provvisoria la crisi e concedere così alla società del lavoro ancora un periodo di grazia, pur non esistendo, in quantità sufficiente, lavoro creatore di valore. Questo meccanismo di rinvio della crisi, attraverso la formazione di credito e di speculazione, in sé non ha niente di nuovo. Già in passato aveva segnato l'evoluzione delle maggiori crisi ed era sempre finito con il "crollo" dei mercati finanziari. Questi "crolli" significavano che era terminato, in un sol colpo, il processo ritardato di svalorizzazione del capitale, con conseguenti fallimenti in massa di imprese e banche e con la conseguente esplosione della disoccupazione, ecc.. Quel che c'è di nuovo oggi è soltanto il fatto che la deregolamentazione ed il carattere transnazionale dei mercati finanziari, così come il già pienamente realizzato scollegamento del denaro dal valore-oro, hanno permesso una durata storicamente lunga di questo ritardo.
Inoltre, il rapido indebitamento degli Stati, che assorbe capitale, ha permesso di creare il terreno per una miracolosa riproduzione di denaro. In generale, il credito è stato immediatamente integrato nel circuito economico - e non da ultimo, nel costruire quei servizi diversificati e quelle infrastrutture statali che ai più sconsiderati sociologhi dell'economia è apparso come il primo focolaio di una "società dei servizi". In realtà, si trattava soltanto di consumo statale e non di valorizzazione del capitale; non si trattava, quindi, di una massa di valore in espansione reale, dei cui interessi e ammortamenti ci si poteva servire. Teoricamente, un credito costituisce un'anticipazione di una valorizzazione attesa per il futuro, ossia, un futuro utilizzo imprenditoriale della forza lavoro. Nel mentre che si attende che queste aspettative possano realizzarsi, il credito è il principio motore di un'accumulazione dinamica di capitale, in quanto il presente viene sicuramente e permanentemente sostituito dal futuro. Ma non è certo questo il caso del consumo statale finanziato dal credito. Mentre si usa la massa di valore prestata, da parte dei creditori si accumulano aspettative le quali, a loro volta, possono essere alimentate, come domanda, nel circuito economico. Avviene così che i crediti, a lungo frequentati dal consumo statale, possono condurre una vita apparente di capitale incubatore di denaro, fino a che non scoppia la bolla quando i bilanci statali si avvicinano allo stato di emergenza, il quale consiste nel fatto che le sue entrate reali provenienti dalle tasse devono essere spese solo per pagare gli interessi. E' stato precisamente quello che è avvenuto su scala mondiale a partire dall'inizio degli anni 80.
Nella stessa misura in cui l'indebitamento statale ha raggiunto il suo limite, la speculazione borsistica è diventata il motore principale della proroga della crisi. Anche qui funziona lo stesso duplice meccanismo della valorizzazione fittizia del capitale e della creazione virtuale di potere d'acquisto. Ma nella realtà i tassi astronomici della valorizzazione in borsa sono possibili solamente in quanto la massa di liquidità scoperta rimane a dare propulsione alla spirale; tuttavia, una parte non disprezzabile di questa massa finisce per infiltrarsi nell'economia reale e finisce per alimentare la domanda di merci e di servizi. E in questo modo la formazione di bolle relative ai pacchetti di azioni altamente speculativi è diventata uno dei principali supporti al consumo negli Stati Uniti. Un grossa fetta della popolazione compensa i suoi redditi in caduta per mezzo del credito, la cui unica copertura sono le valorizzazioni fittizie della borsa avvenute negli ultimi dieci anni. In questo modo artificioso, si può, simultaneamente, creare potere d'acquisto e continuare a partecipare alla "partita in corso", almeno finché funziona. Non meno importante è la "sovvenzione" dei bilanci delle imprese e delle banche attraverso i guadagni sul mercato finanziario, senza i quali molti settori produttivi sarebbero già falliti da tempo, soddisfacendo alla domanda per mezzo dell'espediente degli investimenti, e della distribuzione dei profitti e dei rendimenti. Alla fine, è lo stesso Stato che contribuisce, con un regime fiscale di imposte su tutte queste transazioni, direttamente ed indirettamente, alla manutenzione dell'ondata speculativa. Questo è il segreto peggio custodito dell'attuale surplus miracolo del bilancio americano e del molto ammirato boom dell'economia americana, che si basa da molto tempo sulla creazione virtuale di denaro nei mercati finanziari transnazionali.
Ed è stato proprio così che la speculazione - demonizzata dagli appassionati della "nobiltà del lavoro" - ha permesso, ancora una volta, da più di vent'anni, che nei centri del capitalismo fosse possibile simulare la continuazione del funzionamento regolare di una società del lavoro. Ma il periodo di grazia arriva alla fine. In quanto anche l'aumento speculativo delle azioni "capitalizza" naturalmente un'aspettativa nei confronti della futura creazione reale di valore. Ma così come, nelle condizioni della rivoluzione della microelettronica, il futuro non potrà mantenere quello che prometteva sulla carta, anche gli stessi mercati azionari ormai non possono più aspettare il rinvio della "svalorizzazione del valore". Dopo i crolli dell'America Latina, della Russia e del Sudest Asiatico, a breve toccherà anche ai mercati del Giappone, dell'Unione Europea e degli Stati Uniti, forzatamente "maturi". Si vedrà, con l'ondata di fallimenti che allora si scatenerà, qual è l'estensione che ha assunto la crisi della società del lavoro.
E' in questo contesto che i sogni ad occhi aperti della sinistra - che si infuria e pretende di controllare la crisi del capitalismo per mezzo della regolamentazione della speculazione e del controllo dei mercati finanziari - appaiono come particolarmente fantasiosi. Partono dal paradosso del voler fare "coscientemente", con i colori di un keynesismo di sinistra e socialdemocratico, quello che l'evoluzione autonoma del capitalismo ha ormai realizzato completamente in maniera incosciente: ossia, scaldare l'economia reale con il denaro libero della sovrastruttura finanziaria e simulare "posti di lavoro". Se questa strada venisse realmente tentata, sarebbe l'occasione per il crollo totale di tutto il castello di carte. L'ostinazione con cui vengono fatti questi conti del droghiere, anziché chiarirne la rilevanza pratica, finisce, al contrario, per testimoniare solamente la paura di fronte ad una critica categoriale del sistema di produzione di merci e della sua forma di attività "lavoro", che spiega anche la fede della Sinistra dell'amministrazione neoliberista della crisi.
In questa prospettiva, non si riesce a distinguere gli scongiuratori di sinistra della "normalità capitalista" dai padrini del "Nuovo Centro" difensori dell'imposta sulla speculazione finanziaria, i quali, con la loro fanatica retorica sul lavoro, sono stati arruolati nel governo.
Tuttavia, quello che stiamo per vedere non è la "società della prestazione di servizi", ma il definitivo collasso della società del lavoro, la quale, dopo un collasso finanziario occidentale, non potrà più svilupparsi sotto le forme dei bassi salari, del lavoro forzato e delle attività della miseria degli esclusi.
Ma già in questo momento, questa precarizzazione - così come la propaganda per il "lavoro civico", per il lavoro non remunerato e altri lavori del medesimo genere - ha smesso di far parte di una nuova accumulazione del capitale, ma è soltanto un insieme di strumenti di disciplina e di "moralizzazione", affinché non si possa affrontare seriamente la fine della società del lavoro, ed affinché il trattamento da riservare ai "superflui" possa essere ancora più duro.
Con la fiction ufficiale, secondo la quale chi vuole può "lavorare" (anche se in cambio soltanto di una pacca sulle spalle), si è ottenuta la legittimazione morale per una definizione di "parassitismo sociale", cui, nel nome della "nobiltà del lavoro", devono essere conferite le colorazioni più sordide, di modo che possa essere offerto come "oggetto di odio" sull'altare del panico crescente cui è ormai sottomessa la popolazione lavoratrice.
E chi può mai essere più adatto ad esercitare questa sottile forma britannica dell'amministrazione della crisi, se non il classico "Partito del Lavoro", magari insieme ad un giovane partito verde-oliva?
- Norbert Trenkle - Pubblicato il 31-12-1999 su Krisis -
fonte: Krisis