venerdì 31 luglio 2015

L'inganno del lavoro



La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse possibile...
di Francesco Gesualdi, 
Il Fondo Monetario Internazionale ha sentenziato che l'Italia avrà bisogno di 20 anni per tornare ai livelli occupazionali pre-crisi. Ma ci sta prendendo in giro perché sa bene che di lavoro questo sistema non ne creerà più. Semplicemente perché non è il suo obiettivo, non è la sua missione come piace dire a chi vive l'economia come una religione.
La missione di questo sistema è garantire profitto alle imprese e ai suoi azionisti. Quanto al lavoro è solo un costo da contenere e poco importa se dietro al così detto mercato del lavoro ci sono persone in carne e ossa, con una dignità, una vita, dei diritti da salvaguardare. Per il mondo degli affari il lavoro è solo una merce, è del tempo da comprare al prezzo più basso possibile. E poiché la legge di mercato sancisce che il prezzo scende quando c'è più offerta che domanda , per fare scendere il prezzo del lavoro bisogna creare più offerenti lavoro di quanto siano i posti disponibili.
Il capitalismo può essere raccontato come la storia di un sistema che si è organizzato per creare disoccupazione e assicurarsi costantemente lavoro a buon mercato. Fra le strategie utilizzate, c'è prima stata l'estromissione dei contadini dalle terre comuni, poi la sostituzione degli umani con le macchine, infine la globalizzazione. Strategie in continuo cambiamento per ottenere un numero crescente di persone in sovrappiù che tengano basso il prezzo del lavoro. Un progetto definito da Papa Francesco come l"economia dello scarto", e se fino a ieri gli scartati eravamo abituati a vederli nel Sud del mondo, oggi li troviamo sempre più nelle nostre case, a giudicare dalla crescita dei poveri e dei disoccupati.
Fosse onesto, il sistema ci racconterebbe apertamente che l'esclusione fa parte della sua natura. Invece tenta di farci credere che lui, poverino, vorrebbe tanto dare un lavoro a tutti, ma per riuscirci ha bisogno di crescita, perché che volete, il lavoro lo creano le aziende e le aziende assumono solo se vendono di più. Peccato che ogni volta che si creano nuove opportunità di lavoro le aziende preferiscano le macchine alle persone e al tempo della globalizzazione, oltre ad assistere alla guerra fra lavoratori da un capo all'altro del pianeta, si assiste anche alla guerra dei robot contro gli umani. Lo stanno sperimentando anche cinesi da che hanno osato alzare la testa per chiedere migliori condizioni di lavoro.
Ma la bugia più grave rispetto alla crescita è che ormai non è più compatibile con lo stato comatoso raggiunto dal pianeta. E mentre geologi, agronomi, climatologi ci informano che le risorse si stanno riducendo al lumicino e che i rifiuti ci stanno sommergendo facendo cambiare equilibri millenari come il clima, succede che industriali, politici, sindacalisti ed economisti, tutti insieme acclamino la crescita come l'unica via per tirarci fuori dai guai. E noi ci crediamo. Presi da quell'impellente bisogno di lavoro, anche noi corriamo dietro alla leggenda, finendo per sdoppiare la nostra personalità: pro sobrietà in nome dell'ambiente, pro crescita in nome del lavoro.
Prima o poi scopriremo che la schizofrenia non ci porta lontano e che la sobrietà è l'unica strada per garantirci un futuro. Ma la buona notizia è che sobrietà non è sinonimo di vita di stenti né di disoccupazione dilagante. Al contrario è occasione di libertà, sovranità e inclusione. L'importante è convincerci che il lavoro è un falso problema. Nella storia dell'umanità, l'obiettivo non è mai stato il lavoro. L'obiettivo è stato vivere bene nel senso di avere di che mangiare, vestirsi, viaggiare, istruirsi, curarsi. Solo noi, figli del mercato, abbiamo trasformato il lavoro in idolo e non perché siamo impazziti, ma perché viviamo in un sistema che ci offre l'acquisto come unica via per soddisfare i nostri bisogni e ci offre il lavoro salariato come unica via per accedere al denaro utile agli acquisti. Per questo il lavoro è diventato una questione di vita o di morte e in suo nome siamo tutti diventati partigiani della crescita. L'unico modo per uscirne è smettere di concentrarci sul lavoro e concentrarci sulle sicurezze.
La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando il meno possibile. La strada è ridurre la dipendenza dal lavoro salariato, in modo da interrompe la schiavitù dalla crescita delle vendite. In altre parole l'alternativa è l'autoproduzione in ambito individuale, per i piccoli bisogni personali e familiari, e in ambito collettivo per i beni e servizi fondamentali che richiedono strutture produttive organizzate.
Quando ciò che ci serve lo potremo ottenere senza denaro grazie al lavoro non retribuito nostro e degli altri, in quel momento il lavoro smetterà di essere un costo e si trasformerà in ricchezza. In quel momento non ci sarà più interesse ad escludere, ma a ottenere la collaborazione di tutti. E se dovesse risultare che siamo troppi, potremo sempre dare una bella sforbiciata all'orario di lavoro con somma soddisfazione di tutti perché con meno lavoro potremo avere lo stesso livello di sicurezze.
Capito che l'inclusione passa attraverso il ridimensionamento del mercato e il rafforzamento della solidarietà collettiva, la prima cosa da fare è arrestare la demolizione di ciò che ci è rimasto di pubblico. 
Basta con la politica delle privatizzazioni. 
Basta con il taglio alle spese sociali. 
Basta con una politica di bilancio che dà priorità al servizio del debito. 
Sì, invece, a una seria lotta all'evasione e ai paradisi fiscali. 
Sì a una tassazione progressiva dei redditi e in particolare delle rendite finanziarie. 
Sì a una ristrutturazione del debito. S
ì a una sovranità monetaria al servizio dell'occupazione in ambito pubblico. 
C'è bisogno di politica nuova, ma potremo trovarla solo se saremo capaci di gettare il pensiero oltre il muro del sistema imperante.

giovedì 30 luglio 2015

Un’alternativa europea in ogni singolo paese di Paolo Ferrero



C’è vita a sinistra. Si tratta di fare i conti con la crisi della politica: non ci serve un partito tradizionale. La sinistra unitaria di cui abbiamo bisogno deve essere costruita dal basso, a “bassa soglia di ingresso”, darsi una nuova classe dirigente.
Con­di­vido molto l’appello di Marco Revelli e Argi­ris Pana­go­pou­los nel mani­fe­sto del 29 luglio nel con­te­sto del dibat­tito sulla sini­stra. Costruire «un sog­getto poli­tico dichia­ra­ta­mente anti­li­be­ri­sta dotato della forza per com­pe­tere per il governo del paese in con­cor­renza con gli altri poli poli­tici» oggi non solo è neces­sa­rio ma possibile.
Rifon­da­zione Comu­ni­sta da tempo avanza que­sta pro­po­sta poli­tica: par­tiamo subito, noi ci siamo.
I punti di rife­ri­mento di que­sto sog­getto mi paiono ben deli­neati da Marco e Argi­ris: l’Unione Euro­pea è una gab­bia d’acciaio neo­li­be­ri­sta, costruita sull’austerità attorno agli inte­ressi domi­nanti tede­schi. Que­sta Europa è stata costruita insieme da popo­lari, libe­rali e socia­li­sti: a tutti costoro, alle loro poli­ti­che, al blocco di potere e di inte­ressi che rap­pre­sen­tano, dob­biamo costruire un’alternativa. Si tratta di un punto fon­da­men­tale in quanto la sini­stra in que­sti ultimi vent’anni si è sem­pre divisa sui rap­porti con il PD e il par­tito socia­li­sta europeo.
Oggi, dopo il ver­go­gnoso com­por­ta­mento dei par­titi socia­li­sti nella vicenda greca, la que­stione mi pare chiara: i “socia­li­sti” e non solo il PD ren­ziano sono parte del pro­blema e non della solu­zione. La sini­stra deve costruire un’alternativa anche alle loro poli­ti­che e non porsi in posi­zione emen­da­tiva, cioè subalterna.
Un’alternativa euro­pea – che non lasci solo il governo greco – ed in ogni sin­golo paese. La vicenda Greca ci parla chia­ra­mente della durezza dello scon­tro. Le classi domi­nanti euro­pee non accet­tano una dia­let­tica demo­cra­tica tra pro­po­ste alter­na­tive: sono por­ta­trici di una ideo­lo­gia ed una pra­tica tota­li­ta­ria che ha messo fuori gioco com­ple­ta­mente ogni ipo­tesi riformista.
Il socia­li­smo euro­peo è fal­lito con l’attiva accet­ta­zione del neo­li­be­ri­smo, così come i par­titi socia­li­sti euro­pei nau­fra­ga­rono cento anni fa di fronte alla prima guerra mon­diale: occorre costruire una alter­na­tiva da sini­stra a que­sto fal­li­mento e al nazio­na­li­smo raz­zi­sta che esso alimenta.
Per que­sto serve una sini­stra anti­li­be­ri­sta di governo – ita­liana ed euro­pea — che sap­pia avan­zare pro­po­ste con­crete su cui otte­nere il con­senso popo­lare, rove­sciando l’impostazione dell’Unione Euro­pea che favo­ri­sce il capi­tale distrug­gendo diritti e democrazia.
Den­tro que­sta crisi del capi­ta­li­smo, occorre uscire dal para­digma della scar­sità, impo­sto attra­verso l’austerità, al fine di aumen­tare pro­fitti e guerre tra i poveri. Tema­tiz­zare la redi­stri­bu­zione della ric­chezza, del lavoro, del potere. Pra­ti­care la ricon­ver­sione ambien­tale e sociale dell’economia, aprendo un per­corso di coo­pe­ra­zione medi­ter­ra­nea. Serve un nuovo pro­getto euro­peo che sap­pia scon­fig­gere l’incubo che è diven­tata l’Unione Europea.
Su que­sto pro­getto lavo­rano da tempo il Gruppo Uni­ta­rio della Sini­stra nel Par­la­mento Euro­peo e il Par­tito della Sini­stra Euro­pea: credo sia neces­sa­rio raf­for­zare que­ste espe­rienze per dare corpo alla nostra pro­spet­tiva in Ita­lia. Se il governo greco ha dovuto subire il dik­tat della UE, que­sto è dovuto alla nostra debo­lezza, alla debo­lezza della sini­stra in Europa. Dob­biamo col­mare que­sto gap e paral­le­la­mente costruire un pro­getto sul piano nazio­nale per il diritto al lavoro, i diritti sociali e civili, la democrazia.
Oggi la forza di Renzi non sta nel con­senso di cui godono le sue pro­po­ste e nem­meno nell’assenza di sin­gole pro­po­ste alter­na­tive. La sua forza sta nell’assenza di una forza di sini­stra, civile e cre­di­bile, in grado di pro­porre un cam­bia­mento com­ples­sivo e di agire la spe­ranza nel vivo del con­flitto sociale.
Per que­sto serve un sog­getto uni­ta­rio della sini­stra: non due o tre in con­cor­renza elet­to­rale tra di loro.
L’unità è la con­di­zione per dar vita ad un pro­cesso aperto, demo­cra­tico, par­te­ci­pato che sia rivolto a tutti e tutte coloro che vogliono costruire una alter­na­tiva al PD e al resto del qua­dro politico.
Non si tratta solo di met­tere insieme i par­titi. Si tratta di costruire uno spa­zio poli­tico ove gli uomini e le donne, i com­pa­gni e le com­pa­gne che ope­rano a sini­stra, nei sin­da­cati, nelle asso­cia­zioni, nei movi­menti, nei comi­tati, pos­sano rico­no­scersi e rico­min­ciare a “fare politica”.
Si tratta di fare i conti con la crisi della poli­tica: non ci serve un par­tito tra­di­zio­nale. La sini­stra uni­ta­ria di cui abbiamo biso­gno deve essere costruita dal basso, a “bassa soglia di ingresso”, darsi una nuova classe dirigente.
Un sog­getto poli­tico che a par­tire da un pro­getto poli­tico chiaro e con­di­viso sia in grado di essere il punto di rife­ri­mento per tutti e tutte coloro che sono impe­gnati nella tra­sfor­ma­zione sociale, valo­riz­zando le diverse forme di mili­tanza, le diverse idee, i diversi per­corsi, scon­fig­gendo il set­ta­ri­smo che non rico­no­sce l’altro impe­dendo il dia­logo e la costru­zione di un comune pro­getto politico.
Per que­sto serve un grande pro­cesso demo­cra­tico e di par­te­ci­pa­zione — una testa un voto – evi­tando i limiti di pre­ce­denti espe­rienze basate su una logica pat­ti­zia di vertice.
Indi­vi­duiamo subito un per­corso pos­si­bile di assem­blee ter­ri­to­riali che pre­pari un primo momento nazio­nale in autunno. Defi­niamo una carta di intenti e alcune sem­plici regole che per met­tano di orga­niz­zare un per­corso demo­cra­tico per comin­ciare a discu­tere. Noi comu­ni­sti e comu­ni­ste di Rifon­da­zione rite­niamo que­sto per­corso neces­sa­rio. Vedia­moci subito!

Tra Italcementi e il porto della mafia di Claudio Conti

Tra Italcementi e il porto della mafia

Un pezzo dopo l'altro, l'Italia se ne va... Parafrasando Luigi Tenco, c'è un sentore di entropia nella vendita di Italcementi ai tedeschi del gruppo Heidelberg, come se si fosse fatta l'abitudine a perdere autonomia produttiva.
Qui – conviene dirlo subito – non c'è alcuna nostalgia per le “grandi famiglie” del capitalismo italiano, semmai preoccupazione sulla situazione che si potrebbe trovare davanti un soggetto politico della trasformazione sociale. Ovvero un paese pieno di gente ma povero di caacità di produrre quel che serve a mantenerla dignitosamente in vita, se non addirittura a farle vivere uno sviluppo non orientato dal profitto.
Italcementi, punta di lancia del gruppo guidato da Giampiero Pesenti, fondata nel 1864 e attualmente quinto produttore mondiale di cemento, non è soltanto il principale fornitore dei “palazzinari” italici, ma una vera e propria multinazionale con forte specializzazione. La lista delle sue partecipazioni di controllo è infatti non solo molto lunga, ma copre di fatto tutti e cinque i continenti.
La famiglia Pesenti è da sempre una delle protagoniste del “salotto buono” della borghesia nazionale, tanto da partecipare da altrettanto tempo al controllo del Corriere della sera. La sua fuoriuscita segna dunque un salto di qualità di questa manciata di imprenditori verso il livello superiore della “borghesia europea” - anche se al momento non sono note le partecipazioni che otterrà in altre multinazionali in cambio della cessine della maggioranza di controllo dell'Italcementi – e contemporaneamente una rinuncia a svolgere un ruolo anche “nazionale”.
Non per caso, un profondo conoscitore delle dinamiche del “salotto buono”, come il vicedirettore del Corsera, Dario Di Vico, si sofferma oggi con molti interrogativi sul “muteamento geometrico” del capitalismo italiano, dalla “piramide” al “trapezio”. Sorvoliamo sulle manchevolezz dell'analogia – in questo modo si perde anche la terza dimensione, passando da un solido a una figura piana – e concentriamoci, se ci riusciamo, sulla più evidente “perdita della punta” nella stratificazione imprenditoriale di questo paese.
L'elenco delle grandi imprese nazionali passate di mano, acquisite da multinazionali con base in altri paesi e continenti, non è infinito solo perché di grandi imprese private, qui, non ce ne sono mai state tante. Ma l'elenco è comunqie significativo, da Loro Piana a Indesit, da Pirelli a Parmalat, per non ricordare l'esito delle “privatizzazioni” di grandi imprese nate sotto proprietà pubblica (Alitalia, Telecom, Ansaldo Breda, fino alla lenta agonia dell'Ilva ex Italsider).
Un esodo dei proprietari che testimonia dell'incapacità-impossibilità di diventare centri aggregatori di gruppi multinazionali più grandi – Fiat marchionnesca a parte, ma che di fatto è un'americanizzazione, non certo una “conquista dell'America” - e che quindi si consegna alle dinamiche di concentrazione dei capitali tipica di una lunga fase di crisi in cui chi non cresce è destinato a scomparire.
Le multinazionali italiane vere, insomma, sono già state quasi tutte assorbite (i gruppi più grandi ancora in campo sono peraltro due banche, Unicredit e IntesaSanPaolo), e nella parte alta del “trapezio” rimangono delle “multinazionali tascabili” (Ferrero, Lavazza, Luxottica, ecc) il cui destino non sembra molto diverso.
In questo processo di integrazione c'è non solo “perdita”, ma anche ascesa di alcuni soggetti – manageriali, più che proprietari – verso l'integraziuone in quel management multinazionale che si profila ormai come qualcosa di ben più complesso, impersonale, potente della nozione stessa di “borghesia”. Nozione inevitabilmente legata a una stratificazione sociale generata da attività con forte base “nazionale”, anche se perennemente votata alla conquista di altri mercati di sbocco o produzione.
Il capitalismo multinazionale è un'altra cosa, i suoi protagonisti vivono da un'altra parte, in ogni caso all'interno di un'altra logica e con una visione che prescinde totalmente dai confini. Anche se sta prendendo progressivamente atto che la “seconda globalizzazione” è finita e dunque deve fare i conti con nuovi e solidi confini, continentali o quasi continentali, stavolta, anziché novecentescamente “nazionali” (a meno di non essere stati Uniti, Cina o Russia, ovviamente).
E comunque questa fuga della “punta” capitalistica nazionale verso un altrove che non ci viene neanche comunicato ha effetti pesanti sulla struttura del potere sul territorio dove continuano a vivere 60 milioni di abitanti. I grandi imprenditori se ne vanno e, per usare un'immagine di questi giorni, emergono come “manager di rincalzo” le associazioni mafiose, i gruppi clientelari a ridosso della (sempre calante) spesa pubblica. Gruppi di “occupanti di posti”, esperti in interdizione di progetti e sottrazione di risorse, non certo portatori di “visione strategica” di ampio respiro.
Per fare un esempio: com'è possibile che la gestione del Porto turistico della capitale – un hub naturale per il turismo anche di medio-alto livello (avendo in mente i costi di gestione di una barca) – sia finito nelle mani di un bancarottiere impastoiato nei giri di Mafia Capitale? Quali interessi mai possono aver armato di benzina e innesco i piromani in azione ai bordi delle piste di Fiumicino? Per una volta, vista la storia degli incendi estivi di questo paese, non si potrà indicare la speculazione edilizia, quindi?
Quale borghesia nazionale europea ha mai permesso una così evidente rottura della credibilità internazionale dello Stato? Di certo non quella inglese, francese o tedesca. Ma neanche quella spagnola e portoghese hanno abbandonato in modo così evidente il controllo degli snodi strategici (infrastutturali, per colmo di ironia).
La vendita di Italcementi, insomma, conferma una tendenza alla distruzione degli assetti sociali e di potere, produttivi e finanziari, della “tenuta” complessiva di questo paese.
Non c'è nostalgia da coltivare, ripetiamo. C'è da prendere atto, e anche le misure, di un contesto parecchio diverso, di un terreno di battaglia per molti versi ignoto e ancora in via di strutturazione. Che interroga chi, come noi, non si rassegna a subire passivamente le scelte del capitale multinazionale e ambisce a creare una alternativa vivibile, concreta, migliore.

Lezioni dalla Grecia (e dall’Europa) di Paolo Ciofi

Tre sono le parole maggiormente in voga dopo l’accordo accettato da Tsipras e imposto dai creditori, che ha evitato l’espulsione della Grecia dalla moneta unica e in pari tempo ha messo definitivamente in chiaro che questa non è l’Europa dei popoli e dei lavoratori delineata nel manifesto di Ventotene, cui pure ancora oggi molti europeisti con la coda di paglia continuano a richiamarsi. Germania, debito, euro: tre parole nel tentativo di chiarire le ragioni della crisi ormai evidente di una forma di unificazione che penalizza il lavoro, spinge ai margini i paesi più deboli e si blinda nelle sue mura respingendo i disperati che fuggono dalla fame e dallo sfruttamento, mentre ai confini si moltiplicano le guerre.

Sono parole espressive di problemi reali, non adeguate però a inquadrare il tema di fondo: che riguarda le modalità con cui il capitale finanziario globale esercita in Europa il suo dominio, piegando a questo scopo la politica e le istituzioni europee. Tuttavia, se non si spostano su questo terreno l’analisi, la proposta e la lotta democratica di massa, l’idea di un’altra Europa è destinata a restare nel regno dei cieli, cioè nel mondo delle irrealizzabili utopie. La vicenda della Grecia dimostra che dentro la camicia di forza dell’Europa costruita a misura del dominio dei mercati, un paese che voglia percorrere un’altra strada da solo non può farcela. E la solidarietà, al di là delle manifestazioni più o meno generose, per essere efficace ha bisogno di un progetto comune che fondi nel Vecchio Continente un nuovo internazionalismo del lavoro, come lo ha chiamato Emiliano Brancaccio.

La Germania. Ha le sue responsabilità, più che evidenti. Ma quale Germania? Quella della Merkel e di Schäuble, garanti degli equilibri di dominio del capitale finanziario. Con la socialdemocrazia a far da rincalzo, non più portatrice del compromesso tra capitale e lavoro, ma reclutata all’arte con cui sottomettere in forme nuove il lavoro al capitale e l’intera società alla cultura d’impresa. Una Germania che usa gli incrementi di produttività, il contenimento dei salari e la precarietà programmata dei minijobs, oltre che il vantaggio ottenuto con il tasso di cambio dell’euro rispetto al marco, per conquistare i mercati esteri e spingere i consumi negli altri paesi europei mediante l’indebitamento, realizzando forti attivi nella bilancia dei pagamenti e accentuando così gli squilibri nel cuore d’Europa.
Un indirizzo che alimenta nazionalismi e spinte fascistiche, e che finirà per penalizzare la stessa Germania. Al quale, però, una giusta strategia politica non contrappone la coalizione antitedesca dei paesi più deboli, che finirebbe per rafforzare i conflitti e le tendenze involutive, ma un’ampia alleanza di lavoratori e di lavoratrici, degli sfruttati di tutti i paesi compresi i lavoratori tedeschi, volta a contrastare il dominio del capitale nell’intero continente. Ciò richiede un’aggiornata analisi di classe e un’iniziativa comuni, di cui oggi non dispongono i subalterni, e che non sembrano nelle corde delle diverse sinistre operanti in Europa. Diversamente dai gruppi dirigenti del capitale finanziario, illuminati non solo dall’istinto classista ma anche da un’evidente egemonia culturale.

Il debito. Non è solo il mezzo per alimentare i consumi privati in regime di bassi salari. È diventato lo strumento attraverso il quale i cosiddetti mercati realizzano oggi una nuova forma di accumulazione del capitale, paragonabile all’accumulazione primitiva della fase nascente del capitalismo. Il bilancio degli Stati nazionali infatti cambia natura. Non solo perché il debito privato delle banche è stato convertito con i salvataggi in debito pubblico. Ma soprattutto perché, attraverso il pagamento degli interessi ai detentori del debito, da strumento di redistribuzione del reddito attraverso la fornitura di beni e servizi reali, si trasforma in fornitore di ricchezza e di stabilità per il capitale finanziario. In altre parole, il debito pubblico diventa un problema quando gli investitori istituzionali se ne impossessano per ricavarne una rendita.
In Italia, dopo il «divorzio» della Banca d’Italia dal Tesoro, gli interessi pagati dallo Stato sono stati incassati nell’arco di 27 anni per il 92%, pari a 1.599 miliardi, dalle istituzioni finanziarie e dal 10% più ricco della popolazione. E per l’8%, pari a 141 miliardi, dal restante 90% degli italiani. Se si considera che le entrate dello Stato provengono per oltre l’80% dai lavoratori dipendenti e pensionati, ci si rende conto di quale gigantesca operazione classista si sia compiuta redistribuendo la ricchezza dai più poveri ai più ricchi e alimentando il parassitismo dei tagliatori di cedole. In Grecia, dopo l’esplosione della crisi, gli “aiuti” della troika non sono stati destinati alla popolazione sofferente per mancanza di lavoro e di reddito, ma alle banche detentrici del debito, soprattutto tedesche e francesi. Secondo il criterio barbaro che regna sovrano come una legge di natura: prima la remunerazione del capitale finanziario, poi tutto il resto, compresa la vita delle persone. Ma un’Europa costruita su questa priorità non è sostenibile e non ha avvenire. E non si vede perché, se non in ragione dei rapporti di forza, per ridurre il debito non si abbatte la spesa per interessi invece di tagliare la spesa sociale.

L’euro. Alla stregua di ogni altra moneta, è espressione di determinati rapporti economico-sociali. Ed è funzionale agli interessi che rappresenta. Come ha notato di recente Gianni Ferrara, «conta il soggetto che […] ne fissa le modalità dell’impiego e ne impone la destinazione». Ed «è il contesto istituzionale nel quale può operare che ne statuisce la funzione e ne determina gli effetti». Essendo strumento operativo di una Banca che non ha come obiettivo la massima occupazione e la riduzione delle disuguaglianze tra le classi, tra i generi e tra le nazioni, ma la stabilità finanziaria dei mercati in competizione con il dollaro e con il renmibi cinese mediante la fornitura di liquidità agli investitori istituzionali privati, ed essendo l’attuale Unione europea costruita sul principio del dominio totalitario del mercato sancito dal Trattato sul funzionamento dell’Unione medesima, non c’è da sorprendersi se l’euro oggi si qualifica come espressione monetaria della massima valorizzazione del capitale finanziario a fronte della massima svalorizzazione del lavoro.
Non per caso Draghi, a cominciare dal 2011 in coppia con Trichet, ha sempre suggerito «riforme strutturali» volte a ridurre i costi e i diritti del lavoro. E non per caso il Jobs Act di Renzi è perfettamente in linea con questa impostazione. Si è creata una condizione per la quale, in regime di cambi fissi, la deflazione salariale ha finito per sostituire la svalutazione della moneta nella competizione intercapitalistica. Ma da questa condizione non si esce positivamente proclamando la fuoriuscita unilaterale dall’euro per ritornare al passato, in regime di monete nazionali, nella illusione che fuori dall’euro la sinistra possa riconquistare la sua funzione storica, come auspica Fassina. La via d’uscita dalla crisi dell’Unione non si trova nel ripiegamento di ogni singolo Stato verso la propria peculiare identità e tanto meno nella rincorsa verso tante piccole patrie dai confini incerti, in una prospettiva che moltiplicherebbe i conflitti a danno soprattutto delle classi sfruttate e dei ceti più deboli.
Al contrario, il problema del momento consiste nell’impostare una piattaforma di lotta, in Europa e in ogni singolo paese, per cambiare le condizioni politiche e istituzionali che fanno dell’euro lo strumento e la figura simbolica dell’oppressione e dell’ingiustizia, modificando i rapporti di forza, smantellando il potere delle tecnoburocrazie al servizio del capitale e aprendo le porte a nuove forme di democrazia. In modo da trasformare la moneta in uno strumento al servizio dell’Europa dei popoli e dei lavoratori. Dunque, non l’uscita dall’euro, ma la rimozione delle condizioni che lo hanno generato nella forma attuale. Per questo è necessario spostare l’attenzione sulle forze da mettere in campo per cambiare i trattati esistenti, il ruolo e la funzione della Bce. Un’operazione che non si può compiere se non si comincia col mettere sotto controllo i mercati.

A tutti dovrebbe essere però chiaro che questo passo avanti decisivo non avrà esito se le lavoratrici e i lavoratori, oggi divisi, disgregati e ridotti a pura merce come foraggio per il bue, non si coalizzano in Europa politicamente per cambiare l’ordine delle cose insieme a tutti coloro che sono stati colpiti dalla crisi. E’ il passaggio obbligato, sempre più stringente, che non si può eludere. Ed è la posta in gioco che sta di fronte alla sinistra. La costruzione di una sinistra nuova in Italia, di classe, popolare e di massa, ha senso e avrà un futuro solo se si pone a questa altezza, definendo preliminarmente un’unica piattaforma per l’Italia e per l’Europa, senza tatticismi e chiusure provinciali.

Un progetto di cambiamento per l’Italia, che abbia come riferimento i principi della Costituzione, può nascere solo dalle concrete condizioni storico-politiche del paese, ma non avrebbe prospettiva se non diventasse parte organica di un progetto di cambiamento dell’intera Europa. Il richiamo a una generica ripresa, allentando qualche vincolo dell’austerità non basta. Occorre rovesciare le priorità imposte dal dominio dei mercati, cioè dal capitale nella sua forma postmoderna e massimamente parassitaria, che ormai produce malessere, disuguaglianze e povertà: prima gli esseri umani, ovvero tutti coloro che per vivere devono lavorare, la stragrande maggioranza del genere umano, al centro di una diversa qualità sociale e ambientale; poi il capitale e l’impresa, secondo il principio che la proprietà deve assolvere a una funzione sociale. Con tutto ciò che questo comporta in termini di remunerazione del lavoro, di occupazione, di standard comuni di welfare. È una questione di fondo, certo di portata storica, che ormai bussa insistentemente alle nostre porte.

mercoledì 29 luglio 2015

Sinistra/e - Fare subito ciò che si deve fare


Fare subito ciò che si deve fare


Argiris Panagopoulos, Marco Revelli

Mai come oggi la situa­zione — nazio­nale e inter­na­zio­nale – è stata così gra­vida di peri­coli e in così rapido muta­mento. Mai come oggi sen­tiamo la paura di per­dere del tutto il “nostro mondo”. Al tempo stesso, le evi­denti con­trad­di­zioni aprono straor­di­na­rie oppor­tu­nità di cam­bia­mento, se solo la sini­stra sapesse ritro­vare il senso del pro­prio esi­stere, come ha invi­tato a fare mar­tedì Norma Ran­geri sul mani­fe­sto del 28 luglio.
Lo sce­na­rio euro­peo in par­ti­co­lare – dal quale dipen­dono buona parte dei nostri destini e che non può non costi­tuire il rife­ri­mento prin­ci­pale del nostro agire – va rive­lando dram­ma­tici punti di caduta che met­tono in discus­sione la soprav­vi­venza dell’idea stessa di Europa. E che comun­que rive­lano che così com’è essa non può soprav­vi­vere. Che l’Europa o cam­bia o muore.
L’iniziativa poli­tica corag­giosa del governo greco e del suo popolo ha avuto il grande merito di mostrarlo a tutti, con­fer­mando la por­tata dav­vero sto­rica dello scon­tro che si sta svol­gendo nello spa­zio euro­peo. Il fatto che in que­sti giorni cru­ciali la Gre­cia sia rima­sta sola, denun­cia tutto il ritardo e l’inadeguatezza della sini­stra euro­pea a svol­gere il pro­prio ruolo in que­sto nuovo spa­zio poli­tico e sociale.
Il mer­can­ti­li­smo libe­ri­sta dei Trat­tati, defi­niti a misura dell’interesse nazio­nale tede­sco, è inso­ste­ni­bile. Porta l’eurozona al nau­fra­gio. E d’altra parte, non pos­siamo nascon­der­celo, è debole oggi il con­senso, non solo al livello dei governi, per la radi­cale cor­re­zione di rotta neces­sa­ria alla soprav­vi­venza eco­no­mica e demo­cra­tica dell’eurozona. L’ostacolo immenso lungo la strada non è solo la debo­lezza delle lea­der­ship poli­ti­che ma il defi­cit, morale e cul­tu­rale, dei popoli pri­gio­nieri dei diver­genti inte­ressi nazio­nali. Dob­biamo con urgenza defi­nire insieme come uscire da una trap­pola che svuota di senso sto­rico e poli­tico la sinistra.
Non sono, que­sti, gli unici segnali deva­stanti che ci arri­vano da Bru­xel­les, Fran­co­forte e Berlino.
Vi si aggiunge l’ostentazione di “disu­ma­nità sovrana” mostrata nella que­stione dei migranti, la vera emer­genza uma­ni­ta­ria del nostro tempo affron­tata come fasti­diosa que­stione di sicurezza.
La crisi delle cul­ture poli­ti­che demo­cra­ti­che tra­di­zio­nali, a comin­ciare da quella socia­li­sta, tra­volta dalla subal­ter­nità cul­tu­rale al libe­ri­smo delle social-democrazie occi­den­tali, e il sim­me­trico rie­mer­gere di popu­li­smi xeno­fobi e raz­zi­sti, non dis­si­mili da quelli che carat­te­riz­za­rono la cata­strofe euro­pea degli anni trenta.
La pra­tica costante di chie­dere ai governi mem­bri – a comin­ciare dal nostro, e da quelli spa­gnolo, por­to­ghese e irlan­dese oltre che, natu­ral­mente, a quello greco — di “far male” ai pro­pri popoli, impo­nendo loro sacri­fici dan­nosi e par­ti­co­lar­mente dolo­rosi per gli strati più deboli, come prova di fedeltà a un patto mai siglato da quei popoli e dive­nuto insop­por­ta­bile eco­no­mi­ca­mente, social­mente e moralmente.
In que­sto qua­dro il governo ita­liano è total­mente subal­terno a quella impo­si­zione e a quei dogmi, non solo inca­pace di modi­fi­carne quan­to­meno gli aspetti più pena­liz­zanti ma, anzi, impe­gnato a por­tare a com­pi­mento con zelo il man­dato rice­vuto dall’oligarchia che dirige l’Europa.
Vanno in que­sta dire­zione la mano­mis­sione del nostro ordi­na­mento demo­cra­tico costi­tu­zio­nale; la ten­den­ziale liqui­da­zione della nostra demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva in nome di una forma di governo bru­tal­mente sbi­lan­ciata sul potere ese­cu­tivo (una “demo­cra­zia ese­cu­tiva” o “ese­cu­to­ria”); l’imposizione di una legge-truffa desti­nata a defor­mare gra­ve­mente le volontà dell’elettorato e di con­se­gnare al dema­gogo di turno un potere senza più con­trap­pesi né anti­corpi; la volontà di can­cel­lare le rap­pre­sen­tanze sociali (in primo luogo quelle sin­da­cali) e l’umiliazione del mondo del lavoro con la can­cel­la­zione dei suoi diritti; l’aggressione vol­gare al mondo della cul­tura e della scuola, con l’umiliazione del sapere in nome di cri­teri gerar­chici azien­dali; la ridu­zione a merce di ciò che rimane del nostro patri­mo­nio ter­ri­to­riale e dei nostri beni comuni…
Quella che si con­fi­gura con il governo Renzi è una vera “emer­genza demo­cra­tica”. L’azione svolta finora e quella che si pre­para a por­tare a com­pi­mento defi­ni­scono il pro­filo di un muta­mento di sistema che richiede, per essere con­tra­stato, un’innovazione poli­tica e orga­niz­za­tiva all’altezza della sfida.
Come mostra la vicenda greca in tutta la sua dram­ma­ti­cità, oltre al con­flitto tra Stati e inte­ressi nazio­nali , si pro­fila all’orizzonte un con­flitto poli­tico e sociale di tipo nuovo, tra demo­cra­zia e oli­gar­chie finan­zia­rie e buro­cra­ti­che trans­na­zio­nali; tra domi­nio tota­liz­zante della forma denaro e affer­ma­zione dei prin­ci­pii fon­da­men­tali di giu­sti­zia sociale, egua­glianza e soli­da­rietà; tra governo dall’alto di società sem­pre più ingiu­ste e par­te­ci­pa­zione con­sa­pe­vole e dif­fusa alle scelte col­let­tive, com­bat­tuto non più solo nell’angusto spa­zio nazio­nale ma in campo euro­peo, in cui sarà fon­da­men­tale la capa­cità di dar vita a for­ma­zioni di grandi dimen­sioni, cre­di­bili, forti, auto­re­voli, capaci di supe­rare le distin­zioni di nazio­na­lità e le altret­tanto asfit­ti­che fram­men­ta­zioni identitarie.
Per que­sta ragione noi oggi rite­niamo non più rin­via­bile l’impegno di tutte le forze che si pon­gono in alter­na­tiva a que­sto qua­dro dram­ma­tico e che ancora si richia­mano ai valori di egua­glianza, auto­no­mia e libertà che furono della migliore sini­stra a porre in campo anche in Ita­lia, nei tempi brevi impo­sti dalla gra­vità della situa­zione, una forza uni­ta­ria, inno­va­tiva nello stile poli­tico e cre­di­bile nel pro­prio pro­gramma, non mino­ri­ta­ria né chiusa in ste­rili pra­ti­che testi­mo­niali ma capace, come già è avve­nuto in Gre­cia e in Spa­gna, di costi­tuire un’alternativa di governo e di para­digma allo stato di cose pre­sente. Un sog­getto poli­tico dichia­ra­ta­mente anti­li­be­ri­sta, dotato della forza per com­pe­tere per il governo del paese in con­cor­renza con gli altri poli politici.
Tutte le ultime tor­nate elet­to­rali hanno rive­lato che senza un pro­getto uni­ta­rio a sini­stra, capace di supe­rare l’attuale fram­men­ta­zione, non c’è spe­ranza di soprav­vi­venza per nes­suno. Non pos­siamo con­ti­nuare a ripe­tere che il tempo è ora. Biso­gna dare, da subito, un segnale chiaro. Che si è pronti. E che c’è biso­gno di tutte e tutti. Non solo di chi, in que­sti mesi, nell’area poli­tica alla sini­stra del PD, ha avviato un fitto dia­logo in vista dell’apertura di un “pro­cesso costi­tuente”, ma soprat­tutto degli altri, che nei “luo­ghi della vita” con­ti­nuano a tes­sere resi­stenza, soli­da­rietà, azioni civili, coe­sione sociale. A com­bat­tere l’imbarbarimento e a spe­ri­men­tare il bien vivir. Quelli che aspet­tano che qual­cosa si muova, e che sia cre­di­bile, nuovo, diverso, forte.
Dovranno essere soprat­tutto loro i pro­ta­go­ni­sti della grande “casa comune” che di deve ini­ziare a costruire.
Fac­ciamo sì che sia da subito un “per­corso del fare”. Indi­vi­duiamo fin d’ora nell’iniziativa refe­ren­da­ria sui temi più vicini alla vita delle per­sone un ter­reno su cui impe­gnarsi qui ed ora. Impe­gnia­moci a costruire su ogni tema la più larga rete di sog­getti, che già ci sono, e già sono attivi.
Si lanci, ancor prima della pausa estiva, un mes­sag­gio chiaro e forte: che ci siamo. Che par­tiamo. Che pos­siamo far­cela. Lo dob­biamo ai tanti che aspet­tano da troppo tempo.

Il Senato salva Azzollini. Pd e Forza Italia compatti...

Il Senato salva Azzollini. Pd e Forza Italia compatti...
Ricordate quelli che solo due anni fa ancora vi intimidivano con l'indice alzato ("vota Pd, sennò vince Berlusconi")? Ricordate i girotondi?
Beh, il risultato è questo: il Senato ha votato a stragrande maggioranza il "no" all'arresto di Antonio Azzollini, ex presidente della Commissione bilancio di Palazzo Madama. Arresti domiciliari, peraltro, nenahce in carcere, richiesti dalla Procyra di Trani per  la vicenda della casa di cura Divina Provvidenza.
Dopo una valutazione molto più "terrena", la Commissione per le immunità aveva autorevolmente espresso il suo parere: sì all'arresto.
Ma - dopo aver opportunamente chiesto il voto segreto - la maggioranza assoluta (due terzi, non si mettono insieme nenanche per le riforme costituzionali...) formata da Pd, alfaniani, berlusconiani e verdiniani ha stabilito che "basta, i magistrati la devono finire di mandarci in galera". Sono unti dal signore, mica ladruncoli di perfieria (per quelli "la pena di morte, ci vuole").
189 no, 96 sì e 17 astenuti, tutela ti dal segreto. Ufficiamente a favore dell'arresto si nono espressi soltanto il Movimento 5 Stelle (36 senatori) e Sel (7).
Solo dei complici abituati a trarsi d'impiccio col puro potere possono fare una cosa del genere. E applaudire il risultato dell'oscena votazione...

Italcementi: adesso vendono anche i Pesenti. Outlet Italia di Sandro Catani


La famiglia Pesenti vende la maggioranza di Italcementi Group ai tedeschi di Heidelberg per 1,7 miliardi di euro. Non è una notizia che ci turberebbe se non venisse dopo quella di Pirelli ai cinesi (sia pure con altre modalità), di Indesit agli americani, di Telecom passato al controllo dei francesi Vivendi, di Parmalat ai francesi di Lactalis, per non parlare dello shopping fatto nel made in Italy: Loro Piana, Pomellato, Poltrona Frau, Bulgari, per citare solo alcune recenti.
L’imprenditoria italiana sembra aver perduto l’iniziativa a intraprendere, si ritira dalle scene o assume un ruolo defilato. Bisogna riconoscere un dettaglio non trascurabile nelle valutazioni delle dinastie interessate: lo fanno rastrellando quantità significative di denaro. Ma era questo l’obiettivo delle prime generazioni fondatrici? E pensando in termini collettivi, fa bene all’Italia il progressivo sganciamento dall’attività industriale? In questo caso perdiamo il controllo di un’impresa storica che ha accompagnato la storia d’Italia e il suo processo di industrializzazione nel dopoguerra.
Nata nel 1864 con la società bergamasca per la fabbricazione del cemento e della calce idraulica, nel lontano 1906 la famiglia Pesenti ne prese il controllo. Da allora, attraverso una serie di abili fusioni e acquisizioni, l’ha trasformato in un gruppo internazionale che annovera attività in 22 Paesi, 46 cementerie in 4 continenti, 18000 dipendenti, ricavi per oltre 4 miliardi di euro. Adesso, la sua sesta generazione vende alla tedesca Heidelberg, una società molto più grande, che lanciando un’Opa ingoierà Italcementi. Probabilmente la fusione tra gli altri grandi operatori del settore la francese Holcim e Lafarge ha mosso un risiko nel settore e spiega una simile mossa dei tedeschi per mantenere la leadership a livello mondiale.
A noi comuni cittadini dovrebbe preoccupare il futuro perché cosa possa accadere è prevedibile: la creazione di valore di cui si parla nelle dichiarazioni delle parti passa attraverso razionalizzazioni e ristrutturazioni. Come in altri casi potremmo perdere occupazione, l’accumulazione di know-how e tecnologie come nel caso in oggetto, il controllo dei mercati serviti.
Sarà mica che la crisi economica italiana sia anche la crisi di quella che Ernesto Rossi nel suo libro straordinario chiamava i Padroni del vapore, mettendo sotto accusa l’imprenditoria italiana e la Confindustria? Se il dubbio fosse fondato, non basterebbe abbassare le imposte sul profitto di cui parla il primo ministro.

Sanità pubblica: il Senato ne sancisce la fine di Paolo Becchi

 Sanità pubblica: il Senato ne sancisce la fine
C’è un bel film di Michael Moore, “Sicko”, che racconta e descrive il viaggio nella sanità americana. Il sistema della sanità negli Usa è dominato dalle compagnie assicuratrici che sono le padrone della vita e della salute dei cittadini americani. Da quelle parti è il censo a fare la differenza tra la vita e la morte, a decidere in quale gradino della società si può sedere e a cosa si ha diritto in base al proprio reddito. I poveri perciò hanno pochi diritti, non è raro che non siano in grado di permettersi un’assicurazione sanitaria e il sistema li scarica sul marciapiede perché spogliati del biglietto d’ingresso per accedere al livello superiore, e quindi destinati all’estinzione proprio come il darwinismo sociale gli impone.
Da queste parti la sanità italiana è sempre stata pubblica proprio perché la nostra società non era fondata sulla legge del più forte, non era il censo a costituire un requisito essenziale per avere il diritto inalienabile delle cure gratuite e accessibili a tutti. La coniugazione al passato non è un errore perché da ieri è iniziata la fine della sanità pubblica italiana per come l’avevamo conosciuta nell’ultimo mezzo secolo. Le giornate di fine luglio e dei primi giorni di agosto, sono quelle migliori per piazzare qualche colpo di mano mentre gli italiani distratti sotto l’ombrellone cercano un po’ di tregua dal caldo. Il Senato ieri ha approvato la conversione in legge del decreto sugli enti locali, che contiene tagli alla sanità pari a 2,3 miliardi di euro all’anno a decorrere dal 2015. Questa volta purtroppo il numero legale non manca e per evitare sgambetti il governo impone la fiducia sul provvedimento. Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, per spiegare la portata della riforma ha coniato la singolare espressione di “efficientamento” che “porterà risparmi da investire nel settore”.
Forse siamo duri di comprendonio, ma dalle nostre parti un taglio è ancora un taglio, e significa meno risorse al servizio sanitario nazionale, riduzione della capacità di acquisto dei farmaci e peggioramento delle prestazioni sanitarie. Niente paura, quelle che noi consideravamo visite e cure indispensabili, da ieri sono “inutili” e gravano sul bilancio per ben 13 miliardi che vanno pertanto risparmiati. Chi avrà il compito di stabilire se un esame o una prescrizione medica è utile o viceversa? A questo dovrebbe pensare il medico che si crede, abbia le capacità per poter valutare se un esame sia necessario, ma in questo caso sarà forse il ministro Lorenzin a prendere questa decisione, oppure Yoram Gutgeld, l’eminenza grigia di Renzi, autore e deus ex machina della politica economica del governo, che qualcuno ha definito “Renzinomics”, utilizzando una declinazione inglese per rendere più trendy un derivato dell’austerità più feroce.
Prima di passare alle valutazioni sull’incostituzionalità di questo decreto, fermiamoci un attimo sui livelli di spesa in relazione al Pil della sanità italiana. Se si segue il filo della narrazione europeista, quella di “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”, dovremmo tacere e soffrire le giuste pene degli sprechi degli anni passati. Preferiamo mettere da parte il senso di colpa e la retorica dell’etica calvinista che descrive la gente italica come inaffidabile e infida, e quella del Nord Europa come modello di virtù e rettitudine.
Se si analizzano i dati dell’Ocse, emerge che la spesa sanitaria italiana è circa il 9,2% del Pil, al di sotto della media dei paesi Ocse pari al 9,3% del Pil e superata persino dalla martoriata Grecia che spende il 9,3%. I paesi che spendono di più in spesa sanitaria in Europa sono proprio quelli del Nord Europa che si piazzano ai primi posti, con i Paesi Bassi che spendono l’11,8% del Pil, la Francia l’11,6% e la Germania l’11,3%. Non è certo un demerito, ma smentisce le affermazioni che l’Italia spenda troppo in spesa sanitaria, e a questo punto se volessimo seguire la logica del “vincolo esterno” dovremmo aumentare la spesa in sanità per raggiungere quei Paesi più virtuosi, ma quando si parla di bilancio è solo in termini di suo contenimento e mai di sua espansione.
E la spesa farmaceutica? Anche sotto quest’aspetto il Belpaese si distanzia nettamente dalla media Ocse in termini negativi: dal 2009 al 2012 l’Italia ha ridotto del 15% la spesa in farmaci a fronte di un taglio dell’0,2% dei paesi Ocse. Se dunque sono state fatte già consistenti riduzioni negli anni passati, il sistema va incontro ad un’altra mutazione, ovvero la sua progressiva privatizzazione che di fatto lo consegnerebbe nelle mani delle lobby sanitarie e farmaceutiche.
E’ possibile conciliare il principio dell’art. 32 della Costituzione che prevede la somministrazione delle cure gratuite agli indigenti con questi nuovi criteri di contenimento della spesa? No, il decreto approvato va nella direzione esattamente opposta, dal momento che nega la facoltà di avere diritto a delle prestazioni che invece il servizio sanitario deve garantire a tutti i cittadini. Se un esame o una prestazione ieri considerata indispensabile, diviene oggi superflua è chiaro che i cittadini per avere diritto a quella prestazione saranno costretti a rivolgersi al settore privato, che non è gratuito e perciò rischia di negare le cure agli indigenti. E’ la faccia più crudele del darwinismo sociale che sta calpestando i principi di solidarietà della Costituzione e si macchia dell’ennesima violazione della Carta.
 

martedì 28 luglio 2015

E’ ora di dire basta, la pazienza dei pazienti è finita di Ivan Cavicchi


E’ ora di dire basta, la pazienza dei pazienti è finita
Spending review. Da Lorenzin e Gutgeld rassicurazioni mendaci e scelte ingannevoli, che colpiranno soprattutto i poveri e gli anziani. E’ ora che cittadini e medici dicano basta a questo scempio
 
Quelli del governo (Lorenzin-Gutgeld) dicono che i 10 miliardi che vogliono rica­vare dalla sanità per finan­ziare la ridu­zione delle tasse non è un taglio lineare ma è spen­ding review, quindi rispar­mio. Assi­cu­ra­zioni men­daci e ingan­ne­voli per due ragioni:
  1. distin­guere tagli da risparmi nelle poli­ti­che del governo Renzi è tempo perso, finora la sanità ha avuto solo tagli;
  2. l’operazione che si vuole fare è tagliare la spesa sup­po­nendo non di «fare risparmi» ma di «indurre risparmi», cioè tagliare a monte, quindi tagliare indi­pen­den­te­mente dai risparmi.
Il governo Renzi sulla sanità ha idee ine­qui­vo­ca­bili e tutte hanno il senso della con­tro­ri­forma e della pri­va­tiz­za­zione del sistema.
Nell’ultimo Def è pre­vi­sto un defi­nan­zia­mento pro­gram­mato per la sanità in ragione del quale la spesa sani­ta­ria dovrà costan­te­mente ridursi in rap­porto al Pil intanto fino al 2020 (qui e qui). Più recen­te­mente (2 luglio) il governo ha tagliato il fondo sani­ta­rio nazio­nale di ben 2,352 miliardi taglio imme­dia­ta­mente ese­cu­tivo a dir poco cri­mi­nale per­ché inter­viene a metà dell’esercizio finan­zia­rio in corso.
Con que­sto taglio il governo ha can­cel­lato l’impegno sot­to­scritto con il «patto per la salute» di inver­tire il trend reces­sivo dei finan­zia­menti alla sanità. Quel «patto» noi lo defi­nimmo anzi­tempo su que­sto gior­nale un «pacco» e al tri­pu­dio della Loren­zin e delle Regioni che ci dice­vano che il fondo nazio­nale sanità sarebbe aumen­tato del 2,3% rispetto all’anno pre­ce­dente e che ci sareb­bero state «garan­zie per aumen­tarlo anche per gli anni 2015 e 2016». Non ci abbiamo mai cre­duto. E a quanto pare abbiamo fatto bene.
Ora spun­tano i 10 miliardi (una cifra paz­ze­sca per come è ridotta ora la sanità) che saranno sicu­ra­mente tagli e non risparmi. Per la gente malata sarà una bella botta, soprat­tutto per gli anziani.
Quello che dice Gut­geld — attuale com­mis­sa­rio alla revi­sione della spesa — che in sanità esi­stono spre­chi, dise­co­no­mie, è vero come è vero che tutta que­sta robac­cia pro­duce costi superflui.
Anche qui abbiamo valu­tato che almeno un quarto della spesa sani­ta­ria com­ples­siva potrebbe essere sot­to­po­sta a una seria spen­ding review. Quello che Gut­geld non dice è: che in sanità la spen­ding review impli­che­rebbe non tanto una blanda razio­na­liz­za­zione dei costi ma un pen­siero rifor­ma­tore per­ché la spesa è un epi­fe­no­meno di un sistema ormai regres­sivo da tanti punti di vista e che il governo que­sto pen­siero non ce l’ha; che per fare la spen­ding review ci vuole tempo, un coin­vol­gi­mento degli ope­ra­tori, una accu­rata ana­lisi dei pro­cessi che pro­du­cono spesa ma soprat­tutto una dra­stica mora­liz­za­zione dei com­por­ta­menti soprat­tutto della poli­tica che di sanità con­ti­nua a nutrirsi fino all’indecenza.
Due ultime brevi considerazioni.
Con molta disin­vol­tura si cor­re­lano i tagli al diritto alla salute delle per­sone (per­ché di que­sto si tratta) con la ridu­zione della pres­sione fiscale, come se un obiet­tivo fiscale per quanto nobile potesse giu­sti­fi­care la distru­zione di un diritto. L’idea a mio giu­di­zio orri­bile è met­tere in con­flitto due generi di equità, due generi di soli­da­rietà, due generi di valori, ma solo per­ché que­sto governo non è capace né di fare una buona sanità né di garan­tire una certa giu­sti­zia fiscale.
Alla base del sistema sani­ta­rio vi è un par­ti­co­lare tipo di fisca­liz­za­zione sul quale pog­gia il nostro uni­ver­sa­li­smo, con­ti­nuare a tagliare la sanità crea le con­di­zioni per distrug­gerlo nel senso che chi ha i mezzi è incen­ti­vato fiscal­mente ad andare verso il pri­vato e chi non ne ha è costretto ad accon­ten­tarsi con quello che rimane. Ridurre le tasse e incen­ti­vare a suon di tagli la defi­sca­liz­za­zione del sistema sani­ta­rio pub­blico è un pes­simo affare soprat­tutto per i più deboli, i più malati, i più poveri i più anziani.
Da ultimo mi chiedo cosa aspet­tano gli ope­ra­tori della sanità, i sin­da­cati di que­sto set­tore, le rap­pre­sen­tanze dei cit­ta­dini, a scen­dere in piazza. Gli ope­ra­tori della sanità ormai non hanno occhi per pian­gere e pur tut­ta­via è in atto da tempo tra di loro una guerra sul niente. I cit­ta­dini giorno dopo giorno sono espro­priati di tutele e sem­pre meno sono le Regioni che le garantiscono.
Io credo che sulla sanità biso­gna darsi dav­vero una sve­gliata.
Un governo che con­fonde tagli con risparmi e con­tro­ri­forme con riforme meri­te­rebbe una bella tira­tina di orecchi.

Bolla cinese e Fed: la tempesta è planetaria di Claudio Conti, Contropiano.org

Bolla cinese e Fed: la tempesta è planetaria
 
In un mondo competitivo ma iperconnesso – sul piano economico, prima ancora che comunicativo – ogni miglioramento di un soggetto implica il peggioramento di qualcun altro. Un mors tua, vita mea che non viene strombazzato nelle dichiarazioni ufficiali, ma che orienta le decisioni politiche a ogni livello.
Non sarebbe così in un mondo iperconnesso e cooperativo, in cui le difficoltà di un soggetto vengono alleviate e compensate dall'intervento di molti altri, con reciproco vantaggio nel medio-lungo periodo. Ma è inutile parlare di razionalità in ambito capitalistico. Qui l'unico imperativo resta il profitto, com'è noto. Anzi, il mio profitto, e che gli altri falliscano pure.
Salvo accorgersi – in genere quando è troppo tardi e la crisi travolge tutti – che “gli altri” non sono soltanto concorrenti (o materie prime da sfruttare al massimo, come i lavoratori dipendenti), ma anche “partner”, clienti, consumatori dei propri prodotti, fornitori, ecc. E che la loro rovina trascina con sé anche il mio profitto.
Scusate la lunga premessa, ma è quel che sta accadendo sui mitici “mercati” in questo periodo.
 
La crisi esplosa nel 2007-08 ha messo fine alla globalizzazione. In che senso? Ha chiuso la breve epoca della crescita globale seguita al crollo del "socialismo reale" e quindi alla riunificazione del pianeta dentro il modo di produzione capitalistico. E' finita dunque quell'epoca in cui l'espansione dei mercati ricadeva come pioggia benefica su tutti i continenti, pur con fortissime asimmetrie. Nel 2007 il petrolio era arrivato a costare 147 dollari al barile, proprio per l'enorme domanda trainata dai paesi “emergenti”, Cina in testa, che si andava ad aggiungere a quella sempre crescente, ma più moderata, dei paesi avanzati.
Con lo choc sistemico che ha avuto il suo epicentro nel fallimento di Lehmann Brothers, quarta banca d'affari del pianeta, si è chiusa l'era della World Trade Organization (Wto), dei defatiganti trattati miranti a disciplinare il commercio globale. Di lì in poi ognun per sé. O meglio. Ogni area continentale, o quasi, per proprio conto.
La crescita, nel frattempo, si era completamente arrestata nei paesi avanzati (nei casi migliori è stata recuperata la perdita subita nel momento apicale, in altri – come l'Italia e i Piigs europei – nenanche quello). Il ruolo di locomotiva passava agli emergenti,che avevano ancora ampi margini per completare il proprio sviluppo industriale. La “manifattura del mondo” si era del resto spostata negli anni precedenti dal centro alle periferie e non poteva certo tornare indietro alla velocità dei flussi finanziari.
Questa espansione poteva d'altro canto contare sul “credito facile” garantito dai tassi di interesse zero e poi dalle immissioni di liquidità promosse dalle principali banche centrali del pianeta (Federal Reserve statunitense, Banca d'Inghilterra, del Giappone, infine anche la Bce). Liquidità che non entrava in circolo nell'economia reale dei paesi “maturi”, ma alimentava il boom borsistico globale e, in misura minore ma molto rilevante, gli investimenti produttivi tra gli “emergenti”.
Un esempio settoriale per capirci. Le materie prime non riproducibili (petrolio, minerali di ogni genere, “terre rare”, ecc), dopo un rapido ma tutto sommato breve crollo dei prezzi in piena crisi, tornavano su livelli elevati e stimolavano quindi l'investimento a debito per aumentare l'offerta. Negli Usa partiva il business dello shale oil e gas, con la costosa (anche in senso ambientale) tecnica del fracking; nelle aree ricche di materie prime (Africa, Sudamerica, Australia, Russia, ecc) le società hanno investito e moltiplicato l'offerta.
Ma niente è per sempre, in questo mondo drogato. L'Arabia Saudita, oltre un anno e mezzo fa, ha dato il via alla superproduzione di greggio per far cadere il prezzo e far fuori, con una sola mossa, sia il business dello shale oil (che presenta costi di produzione alti, in media intorno ai 60 dollari al barile) che la Russia. La crescita di influenza di un “polo islamico” a guida saudita, in competizione con gli antichi alleati e con i vecchi nemici, entrava a gamba tesa in un quadro dagli equilibri già molto fragili, anche per l'evidente perdita di egemonia complessiva da parte statunitense.
Ma la stessa situazione, per ragioni differenti, si veniva a creare anche in tutti gli altri comparti (il ferro australiano, il rame cileno, ecc), delineando un quadro altamente rischioso: eccesso di produzione, calo dei prezzi e debito privato altissimo.
Il cortocircuito potenziale è evidente: hai investito per allargare la produzione e sei costretto a vendere anche sottocosto pur di ripagare i debiti e mantenere aperta l'attività. Ma questo fa scendere ancora di più il prezzo.
 
Due condizioni hanno fin qui impedito l'esplosione: i tassi di interesse a zero (quindi un “servizio del debito” quasi irrisorio) e la tenuta della parossistica crescita cinese.
Il crollo delle borse cinesi ha messo in forte dubbio la seconda condizione. È vero che l'industria cinese è poco finanziarizzata (non dipende cioé dall'emissione di corporate bond e buona parte dell'azionariato è in varia misura controllato dallo Stato), com'è vero che la crescita del Pil prosegue attualmente al ritmo del 7% annuo (un sogno utopistico per qualsiasi altro paese), che rappresenta da sola la metà della crescita globale. Ma è impossibile che lo scoppio della “bolla” borsistica non abbia conseguenze. Se non immediatamente sulla produzione, certamente sui consumi di lusso di quella borghesia urbana che ha alimentato la “bolla” stessa, magari indebitandosi per comprare azioni.
Una notizia pessima per le esportazioni europee, per esempio. Ma anche per le esportazioni di molti paesi emergenti, che hanno nella Cina il primo cliente, per materie prime e non solo.
 
Ma anche la prima condizione – i bassi tassi di interesse – sta per scomparire. La Federal Reserve, dopo mesi di comunicati attendisti, ha infine chiarito che alzerà i tassi entro quest'anno. Dopo dieci anni di movimento opposto o stazionario intorno allo zero. E' un altro cambio d'epoca.
Prima conseguenza immediata: la rivalutazione del dollaro e l'aumento dei flussi di capitale verso il bond statunitensi, che torneranno presto a dare rendimenti interessanti.
Una notizia tragica per chi si è indebitato in dollari, naturalmente, quindi a partire dai “paesi emergenti” (Cina esclusa), perché si ritroverà con un debito aumentato e quindi più difficilmente ripagabile. E non si deve neanche leggere questa decisione come una “occhiuta manovra statunitense” per colpire i propri potenziali concorrenti (c'è anche questo, ovviamente...), perché gli istituti che hanno concesso i maggiori crediti in dollari sono quasi sempre banche Usa. Le quali vedranno quindi aumentare “le sofferenze”, i “crediti incagliati” oppure – orrore! - non restituibili.
Fare previsioni dettagliate, in questo quadro, è impossibile anche per istituti di ricerca con centinaia di dipendenti, figuriamoci per un singolo osservatore alle prese con macrotendenze di cui rintraccia con difficoltà un numero di dati assolutamente insufficiente. Ma una cosa appare chiara anche a uno sguardo superficiale: di “crescita” globale non ne sentiremo parlare tanto presto. Di competizione invece sì. Ma non sarà un bello spettacolo.