venerdì 18 maggio 2018

Il contratto? Una cagata pazzesca…di Salvatore Prinzi da Contropiano.org


 
Sono notoriamente una persona misurata ma chi scrive che questo contratto di governo Lega/5 Stelle “non è male”, “ha una parte interessante”, “è contro l’austerità”, “dice quello che dovrebbe dire la sinistra”, o è in cattiva fede o si è rincoglionito. Per due motivi – taglio con l’accetta:
1. Letto da un punto di vista di classe, questo contratto non è l’espressione degli interessi proletari e nemmeno dei “ceti medi impoveriti”, ma di un pezzo del padronato italiano, della piccola e media borghesia (con qualche concessione alla grande), che vuole cooptare alcuni segmenti di proletariato dandogli le briciole.
Questa frazione della borghesia, in Italia storicamente egemone, ha fatto profitto per decenni non sulla capacità di competere, sull’innovazione etc, ma su evasione fiscale, condoni, inquinamento, cementificazione, facendo lavorare a nero e sfruttando manodopera (per lo più meridionale e immigrata) sottocosto.
 
Ovviamente con la crisi del 2008 i nodi sono venuti al pettine, questo modello di “sviluppo” italiano non ha retto alla rapida ristrutturazione degli altri capitalismi europei, e siamo stati più esposti a speculazioni (vedi seconda crisi del 2011) e a “cure” massicce (Fiscal compact, Fornero, Jobs Act etc).
Questo chiaramente ha prodotto malessere sociale diffuso, a cui si poteva rispondere in due modi: o da sinistra, con politiche di redistribuzione della ricchezza e intervento pubblico nell’economia, o da destra, attraverso un populismo che non è altro che una sorta di ritorno al passato – un po’ vecchia DC, un po’ Berlusconi e un po’ di “caro fascismo”.
Siccome la vecchia sinistra (PD-LEU) era fatta da quelli che hanno prodotto le infami “riforme”, e la Nuova Sinistra (quella di Potere al Popolo e dei movimenti sociali) nonostante la generosità è ancora giovane, piccola, disorganizzata e sconosciuta, il malessere non poteva che essere interpretato dai 5 Stelle e dalla Lega, che peraltro potevano beneficiare del senso comune di destra ,egemone da decenni nel paese.
Così, invece del capitalismo che parla inglese ci becchiamo quello cafone, ma nella sostanza per noi cambia ben poco. Il nemico del mio nemico NON è mio amico.
 
Il contratto Lega/5S infatti non attacca il vero problema del paese, ovvero la concentrazione della ricchezza in poche mani, la mancanza di una politica industriale etc, ma anzi fa una flat tax per i ricchi e dà giusto qualche briciola ai poveri (niente abolizione Fornero, un reddito di cittadinanza che è poco più di un sussidio di disoccupazione). L’unica libertà che rivendicano contro l’UE è quella di fare deficit, ovvero indebitarsi, con la stessa strategia di corto respiro che si ebbe negli anni ’80 o con Berlusconi. E non mi pare che all’epoca c’era chi diceva che Berlusconi andava “incalzato”, “apprezzato”, “sostenuto”… Il 14 dicembre 2010 fu chiarissimo in questo senso: basta ambiguità, in quel Parlamento abbiamo solo nemici.
 
2. La parte “sociale” del contratto non è separabile da quella penale e repressiva, che fomenta la guerra fra poveri, dà la caccia agli occupanti casa e mira a distruggere le forze sociali. I due interventi sono complementari. E’ una mossa tipicamente fascista: do qualcosina ad alcuni settori di lavoratori italiani per farli stare buoni, mentre tolgo un bel po’ agli altri e blindo la dinamica sociale. Poi si ritorna anche sugli italiani…
 
Ci sarebbero altre milioni di cose da dire ma mi fermo. L’unica consolazione in questa valle di lacrime è che la risposta che Lega e 5 Stelle danno alla crisi italiana ha il fiato corto. Stanno mettendo le basi per la loro fine.
A noi si pongono quindi due compiti:
1. resistere e fare vera opposizione, lottando ovunque e spingendo sulle domande sociali e istanze redistributive;
2. evitare che dal capitalismo cafone si ritorni a quello “politicamente corretto” di PD e soci.
Quando questi buffoni si sgonfieranno, cerchiamo di far trovare al nostro popolo un’alternativa vera.
 
PS per chiunque voglia resistere e preparare l’offensiva: ci vediamo il 26-27 maggio all’assemblea nazionale di Potere al Popolo a Napoli!

Questione palestinese e colonialismo ebraico: si può tollerare ciò che sta accadendo a Gaza? di Angelo D'Orsi

 
Non esiste più una “questione ebraica”, quella di cui parlava Karl Marx, a metà degli anni Quaranta, del secolo XIX. Ed è riduttivo parlare oggi di una “questione palestinese”, alludendo a una situazione che va chiamata col suo nome: l’ultimo esempio di oppressione coloniale, praticata, al di fuori di ogni legalità, da un avamposto euro-americano in Medio Oriente. Ed è ora di dire, a gran voce, basta!
Basta al ricatto dell’antisemitismo, l’accusa sfoderata ad ogni occasione dagli israeliani e dalle loro infinite estensioni mondiali, a cominciare dalle Comunità ebraiche sono ormai compiuta espressione, megafoni dei governi di Israele. È ora di smentire la narrazione corrente che vede lo Stato nato ai danni dei palestinesi nel maggio 1948, come un riflesso della Shoah, ossia un risarcimento allo sterminio di milioni di ebrei da parte dei nazisti. È ora, piuttosto, di fare un ripasso di storia, invece che un bagno di lacrime, che possono essere false e capziose, come aveva accusato Norman Finkelstein rivolta ad una studentessa che si era messa a piagnucolare mentre lui denunciava la politica israeliana: lui, ebreo, con i familiari sterminati in un lager, sul quale, in modo scientifico, è ricaduta l’accusa di “ebreo antisemita”, appena ha cominciato a denunciare “l’industria dell’olocausto”.
 
Ebbene il ripasso di storia ci dice che il sionismo precede la Shoah, ci dice che il destino dei palestinesi fu deciso nel 1916-17, dalla Gran Bretagna, prima con gli accordi segreti con la Francia, detti di Sykes-Picott, quando le due potenze imperialistiche si spartirono l’intera regione mediorientale, prendendosi il Regno Unito, appunto, la Palestina, la Francia, per esempio, la Siria (donde l’attenzione che da Sarkozy a Hollande fino al bellimbusto Macron, dedicano a quella nazione, per tenerla sotto controllo). L’anno successivo, il terribile e grandioso 1917, vide la famosa Dichiarazione Balfour, dal nome del ministro degli Esteri di Sua Maestà Britannica, nella quale, anche sulla base della fortunata predicazione sionistica precedente, veniva riconosciuto il principio di una “jewish home” in Palestina: “un focolare ebraico”. Nella dichiarazione si alludeva comunque alla necessità di salvaguardare i diritti delle popolazioni arabe preesistenti. Quei diritti finirono invece immediatamente nel dimenticatoio grazie a Hitler, e alla “soluzione finale”. La persecuzione nazista ha trasformato un intero popolo in vittima sacrificale, e questo, nel complice silenzio del mondo, negli anni della guerra mondiale, ha prodotto l’agghiacciante esito di trasformare quelle vittime in carnefici.
 
Con troppa facilità le Nazioni Unite, Urss compresa, riconobbero nel 1948 lo Stato di Israele, dopo una campagna di terrore portata avanti da gruppi ebraici in Palestina, alcuni inquadrati nelle forze armate britanniche, compresa quella “Brigata ebraica” che da qualche tempo si ridesta il XXV Aprile, pretendendo di partecipare alle manifestazioni, millantando un proprio ruolo determinante nella guerra di liberazione. Una Brigata che fu poi tra i protagonisti di quel sistematico tentativo di “pulizia etnica” ai danni dei palestinesi, come ha documentato, inoppugnabilmente, un altro intellettuale ebreo, israeliano, Ilan Pappe, costretto poi a lasciare la sua università (Haifa) e a trasferirsi in Gran Bretagna, dopo che intorno a lui – “ebreo antisemita”, naturalmente – si era fatta terra bruciata.
 
Da allora, da quel maggio 1948, Israele ha compiuto una costante politica di allargamento dei propri confini semplicemente con la forza del proprio esercito, e con l’aiuto decisivo degli Usa, sia delle amministrazioni sia delle lobbies ebraiche, determinanti nelle campagne elettorali statunitensi, in specie in quelle presidenziali. Davanti a loro, un mondo arabo frantumato, disorganizzato, con mezzi militari modesti e male gestiti, al quale peraltro della causa del popolo palestinese poco o nulla importa.
 
Alla fine lo spazio territoriale odierno israeliano è il doppio di quello di settant’anni or sono. Uno spazio acquisito illegalmente, dopo la prima acquisizione ottenuta con la violenza. Ma non è bastato. Mentre si facevano entrare ebrei di ogni parte del mondo, secondo un inquietante criterio etnico-religioso, per cercare di rafforzare una popolazione dai modesti tassi di natalità, si procedeva agli insediamenti di molti di costoro nelle zone, sempre più esigue, concesse ai palestinesi, che a un ceto punto furono violentate dalla costruzione del muro della vergogna, altra azione (e opera) illegale, ma tollerata dalle Nazioni Unite che pure ne hanno “deplorato” l’edificazione. Le oltre 70 risoluzioni dell’Onu contro atti dei governi israeliani non hanno sortito alcun effetto, e i governanti di Tel Aviv non si prendono neppure la briga di replicare ormai, giudicando, non a torto, quello delle Nazioni Unite, un rituale privo di valore.
 
La stessa politica messa in atto davanti alle condanne che sono seguite regolarmente agli attacchi micidiali, con bombardamenti a tappeto, perlopiù missilistici, contro Gaza, divenuta ormai, da tempo, un gigantesco campo di concentramento o come è stata definita “la più grande prigione a cielo aperto del mondo”. Nei territori palestinesi, come in Libano e in altri paesi limitrofi, esistono i “campi” del resto, dove sono stati rinchiusi i palestinesi della diaspora, che vivono in condizioni quasi sempre disumane, vivono in una situazione di “morte lenta”, come documentò in un suo reportage Edward Said. Proprio questo grande intellettuale palestinese-americano parlò anni fa del “vicolo cieco di Israele”, condannatasi per la propria protervia a combattere una guerra incessante, nel vano tentativo di sottomettere, soggiogare i popoli confinanti, condannata a dominare, nell’esacerbato timore di essere dominata, probabilmente dal fattore biologico, la natalità araba.
L’operazione “Margine protettivo” dell’estate 2014 è già quasi dimenticata, ma non dagli abitanti di Gaza, che hanno pagato un prezzo altissimo, in termini di vite, di sofferenza, di distruzione. Quali conseguenze ebbe quell’efferata azione durata tre settimane ai danni di Gaza? Nessuna. Israele si sta occupando della “ricostruzione”, arrivando, col massimo del cinismo, a lucrare anche sulle morti e sulle devastazioni da essa procurate.
 
E ora da settimane la protesta palestinese nella marcia del ritorno, che è culminata, dopo uno stillicidio di morti e di mutilati tra i giovani e giovanissimi (per ammissione di un generale israeliano i cecchini hanno l’ordine di sparare alle gambe, per far sì che i ragazzi perdano la possibilità di esser offensivi, e sono decine ormai coloro che hanno perso uno o entrambi gli arti inferiori), siamo giunti all’Armageddon: Trump e famiglia si recano a Gerusalemme, per sancire in una giornata dichiarata di festa, il trasferimento dell’ambasciata da Tel Aviv, mentre l’esercito “più morale del mondo” spara ad alzo zero: donne ragazzi bambini, vecchi; gente pacifica e militanti che gridano il loro diritto al ritorno. Fotografi e giornalisti, anche occidentali, sono stati colpiti. La fondazione di Israele non poteva trovare migliore sanzione. Uno Stato nato dalla violenza estrema, si autocelebra con la medesima violenza, moltiplicata; e due carnefici, Trump e Netanhyahu gongolano.
 
Il trasferimento dell’Ambasciata è un atto illegale che accetta e santifica un altro atto illegale: la dichiarazione di Gerusalemme “capitale unica eterna e indivisibile di Israele”. E il mondo cristiano si lascia scippare così una città sacra? E tutti i paesi arabi e islamici, a loro volta? Gli ebrei israeliani dettano legge, con l’orso americano alle spalle, e tutti piegano la testa. Ma chiediamoci se si possa ancora tollerare tutto questo.
 
Si può tollerare quello che sta accadendo? Si può tollerare che uno degli eserciti più potenti del mondo compia, indisturbato, un terribile massacro di gente inerme o armata forse di fionde e copertoni incendiati? Si può tollerare che un popolo, quello palestinese, privato della terra, dei beni, della memoria, della libertà, venga non solo schiacciato e oppresso, ma sterminato? Si può tollerare che i resistenti palestinesi che vogliono ritornare sulle terre a loro sottratte con la violenza e l’inganno, vengano bollati come “terroristi” e schiacciati come scarafaggi (espressione ricorrente fra gli ebrei israeliani che si riferiscono ai palestinesi di Gaza)? Si può tollerare che Israele violi ogni legge internazionale, che usi armi proibite agli altri Stati, che sfrutti l’Olocausto per legittimare il lento sterminio di un altro popolo? Si può tollerare che chi denuncia tutto questo venga chiamato “antisemita” e minacciato di sanzioni anche penali, in tutta Europa?
Si può tollerare il silenzio della “comunità internazionale”, davanti all’ultima spaventosa ondata di morti e feriti e mutilati, è diventato, infine, un timoroso belato di pseudo-protesta? Si può tollerare che i governanti di Israele, sostenuti dall’Amministrazione Usa, in un sfacciato gioco delle parti tra Netanhyau e Trump, sfidino il resto del mondo? Si può tollerare tutto questo carico di infamia, d’ingiustizia, di prepotenza contro il popolo oggi martire per antonomasia, quello palestinese? Quanti morti, quanti mutilati, quanti derubati dei loro beni e delle loro case, quanti internati in campi di concentramento dobbiamo ancora accettare, tra i palestinesi, quanti ulivi sradicati, quante case rase al suolo dai caterpillar, per dar vita a una azione internazionale, di popoli e di nazioni, contro Israele? Un’azione che non dovrebbe “rinunciare a nessuna opzione”, come amano dire i governanti israeliani, quando enunciano il proprio diritto/dovere di “difendere Israele”, in tutto il mondo, anche contro tutto il mondo. Ma il mondo, che fa? Non è tempo, infine, che gridi il suo “Basta!”?
 
* da “Alganews”

martedì 15 maggio 2018

Il ricatto dell’IVA di coniarerivolta.wordpress.com

ok ricatto
Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito, in materia fiscale, ad una tendenza univoca molto chiara: lo spostamento del carico fiscale dai più ricchi ai più poveri e dai redditi di capitale ai redditi da lavoro. Questa tendenza è stata accompagnata da una sempre più sofisticata capacità di evasione ed elusione fiscale da parte dei redditi da capitale, in particolare i grandi capitali che possono essere esportati, legalmente o illegalmente, all’estero. In estrema sintesi: i lavoratori e i soggetti meno abbienti pagano sempre più imposte, i capitali e i soggetti più ricchi ne pagano sempre meno. Un dibattito politico ed economico fortemente impoverito, tuttavia, colpevolmente ignora questi aspetti: ad essere oppressi dal carico fiscale sarebbero esclusivamente solerti imprenditori, scoraggiati dal “fare impresa” e generare ricchezza per tutti da uno Stato oppressore e sanguisuga.

Proviamo a fare chiarezza ed un po’ di pulizia. Tra i temi più evocati nel dibattito politico e giornalistico di questi giorni un posto d’onore spetta senza dubbio all’IVA, l’imposta sul valore aggiunto. Se ne paventa un aumento a decorrere dal 2019 e i partiti politici si affannano a capire come poter scongiurare questo evento, previsto dalla clausola di salvaguardia presente nella legge di bilancio dall’ormai lontano luglio 2011. Secondo tale clausola, l’aumento dell’IVA scatta automaticamente nel momento in cui non si sono raggiunti gli obiettivi di contenimento del deficit previsti dalla Commissione europea. Ma procediamo per gradi.
Il carico fiscale, in generale, è quella quota del reddito nazionale di cui lo Stato si appropria attraverso tributi di vario genere. La percezione comune e la trattazione mediatica dell’argomento inducono a pensare che le imposte siano tutte uguali. La confusione è aumentata dal fatto che spesso si paventa l’aumento delle imposte, senza ulteriori qualificazioni, o se ne rivendica la loro riduzione in generale. Questo, però, offre un’immagine distorta. Se si adotta questa chiave di lettura, sembrano emergere solamente due posizioni possibili in tema fiscale: chi è a favore di più imposte per tutti e chi invece ne vuole di meno, per tutti. Così facendo, però, si perde completamente di vista l’impatto che la tassazione può avere sulla distribuzione del reddito: le imposte sono profondamente diverse, perché ciascuna di esse colpisce in maniera proporzionalmente diversa, più o meno accentuata, un segmento diverso della popolazione.
Per quanto riguarda l’IVA, quest’ultima gioca un ruolo dominante nella determinazione del carico tributario indiretto. Prima di spiegarne il significato specifico è opportuno richiamare brevemente la differenza tra un’imposta diretta e indiretta.
Un’imposta diretta colpisce direttamente la capacità contributiva del soggetto in questione. Ovvero l’individuo paga l’imposta sulla base delle sue entrate effettive e quindi della sua capacità personale di contribuire alle entrate dello Stato e al finanziamento della spesa pubblica. Per questo motivo l’imposta diretta colpisce il reddito, o al limite il patrimonio, in quanto si tratta di immediati indicatori del benessere dell’individuo e della sua possibilità di contribuire ai bisogni della collettività.
Un’imposta indiretta, invece, colpisce una manifestazione mediata di capacità contributiva degli individui. L’esempio più tipico sono i consumi. Vediamo meglio cosa implica un’imposta sui consumi con un banale esempio. Il signor X consuma un caffè il cui prezzo, al netto delle imposte, è pari a 1 euro. Il bene di consumo caffè, tuttavia, è gravato di un’imposta del 20%, cosicché il prezzo finale diviene 1,20 euro. Il consumatore nel momento dell’acquisto del caffè sta pagando una percentuale del suo prezzo, 20 centesimi, allo Stato. Viene quindi colpito dall’imposta non sulla base del suo livello di benessere economico, reddito o ricchezza, ma solo in quanto sta consumando un bene. Su quello stesso caffè, chiunque, anche un soggetto che ha un reddito di 100 volte superiore a quello del primo soggetto, pagherà sempre e comunque 20 centesimi di imposta. Un’imposta indiretta, insomma, non tiene conto in alcun modo della situazione economica del contribuente e colpisce a pioggia tutti, ricchi e poveri, alla stessa maniera. Come dicevamo, le imposte non sono tutte uguali. L’IVA è meno uguale delle altre.
In tempi di austerità, la ricetta imposta dalla Commissione europea a tutti i paesi membri è sempre la solita: riduzione del debito e del deficit da praticare tramite il conseguimento di avanzi primari di bilancio. Le entrate dello Stato devono eccedere le uscite per poter così drenare risorse per ridurre il debito e allo stesso tempo non creare nuovi deficit annuali. In concreto questo significa taglio della spesa e aumento delle imposte, con conseguenze restrittive sulla domanda e recessive sul prodotto nazionale.
L’austerità, tuttavia, non ha solamente finalità recessive. Ha anche una chiara direzione redistributiva immediata, che si manifesta a seconda di dove lo Stato decide di far ricadere l’onere degli aggiustamenti di finanza pubblica. Non sorprendentemente, l’austerità è stata consistentemente declinata in maniera tale da colpire in maniera sproporzionata il mondo del lavoro e le fasce di reddito più basse. Per i governi che applicano l’austerità, non è evidentemente sufficiente disciplinare la forza lavoro creando disoccupazione.
Non è insomma un caso se tutti i governi degli ultimi anni hanno contribuito a ridurre le imposte sui più ricchi e allo stesso tempo a spostare in modo graduale il carico dalle imposte dirette a quelle indirette. Tra queste ultime il primo imputato è proprio l’IVA. Nel corso degli ultimi trent’anni, a fronte di una riduzione progressiva delle aliquote IRPEF gravanti sui redditi più elevati e di una riduzione delle imposte sui redditi delle società di capitale (IRES), si è invece assistito ad un progressivo e inesorabile aumento dell’imposta sui consumi.
I due grafici che seguono mostrano inequivocabilmente quanto accaduto dagli anni ’80 in poi. Si riportano l’aumento dell’aliquota percentuale IVA dal 1973, quando ammontava al 12%, ad oggi e fino al previsto aumento al 25% nel 2021. Subito sotto si riporta invece il calo continuo dell’aliquota superiore IRPEF, che colpisce i redditi più elevati, scesa nello stesso lasso temporale dal 72% al 43% (senza tenere conto peraltro della drastica riduzione della distanza tra le fasce di reddito colpite dalle diverse aliquote).
grafico 1
grafico 2
Le imposte indirette, e tra queste l’IVA, negano a priori la possibilità di praticare il precetto costituzionale della progressività (art. 53 Cost.) in quanto, come dimostrato, ricadono a pioggia sull’intera platea dei contribuenti, indipendentemente dalla loro capacità contributiva. Ma c’è di più. È facile dimostrare che l’IVA non solo è palesemente non progressiva ma è persino manifestamente regressiva, ovvero colpisce i poveri in maniera maggiore dei ricchi, ovvero sottrae ai più poveri una percentuale di reddito maggiore di quella sottratta ai più ricchi. Il motivo è semplicissimo. Un soggetto che ha un reddito basso ne consuma per definizione una percentuale elevatissima. Dovrà infatti soddisfare i suoi bisogni primari e non avrà risorse aggiuntive, se non esigue, per alimentare i suoi risparmi. Al contrario, un soggetto abbiente avrà una propensione percentuale al consumo molto più bassa poiché una volta soddisfatti numerosi bisogni, dai più essenziali ai più superflui, continuerà ad avere soldi che deciderà di risparmiare. E così il più povero vedrà una quota consistente, prossima alla totalità del proprio reddito per i molto poveri, tassata dall’IVA, il più ricco invece solo la quota parte destinata ai consumi, mentre ciò che risparmia sarà esente da quell’imposta.
Ecco svelato il mistero dell’accanimento da parte dei commissari dell’austerità liberista sulla necessità di continui aumenti dell’IVA in tutti i paesi europei e in particolare in quelli maggiormente soggetti alla pressione di Bruxelles.
Torniamo all’Italia. Nel 2011 il governo Berlusconi, messo alle strette dalla Commissione europea, inserì nella legge di bilancio una clausola di salvaguardia, tale per cui il non conseguimento degli obiettivi sulla riduzione del deficit annuo avrebbe automaticamente fatto scattare aumenti progressivi dell’IVA. E così dal 20% l’IVA è scattata al 21% a gennaio 2013 e poi al 22% a ottobre dello stesso anno. Gli aumenti successivi sono stati congelati per quattro anni. Ma adesso la clausola è pronta a scattare. I nuovi aumenti previsti porterebbero l’IVA al 24,2% nel 2019 e al 25% nel 2021. Aumenterebbe anche l’aliquota per particolari tipi di beni di carattere artistico e culturale o legati a incentivi al risparmio energetico, che dal 10% passerebbe al 13% nel 2021. Incrementi fortissimi, in tempi molto ristretti, che non potranno che avere evidenti effetti regressivi sulla distribuzione del reddito e recessivi nel causare un calo dei consumi.
L’idea di dare luogo a massicci travasi di gettito dalle imposte dirette a quelle indirette è del resto un punto programmatico essenziale della visione liberista dell’economia, secondo cui le imposte dirette altererebbero le scelte dell’agente economico, disincentivando lavoro e investimenti e penalizzando la buona attitudine del ricco al risparmio virtuoso; mentre quelle indirette, se estese a tutti i beni e servizi, non sarebbero distorsive. Non è un caso che i più accaniti sostenitori dell’austerità liberista abbiano ufficialmente difeso un riequilibrio delle entrate dall’imposta sul reddito a quella sui consumi. Lo espresse a chiare lettere il governo Monti e ne ha fatto una bandiera programmatica il partito +Europa di Emma Bonino.
Proprio in questi giorni si discute di come poter bloccare l’operatività delle clausole di salvaguardia. Dentro la cornice dei vincoli europei attuali, cui l’Italia è volutamente legata mani e piedi, l’unica soluzione sarebbe recuperare altrove il gettito garantito dall’aumento dell’IVA. Si tratta di cifre consistenti: 12,5 miliardi per il 2019 e 20 miliardi nel 2020.
L’Unione Europea ha di fatto fissato un aut-aut dal sapore squisitamente liberista e austero: o si aumenta l’IVA o si tagliano le spese, che significa taglio alla spesa sociale in prima battuta. La barzelletta del taglio dei cosiddetti sprechi, oltre a non cambiare nulla in merito al significato recessivo delle prescrizioni di bilancio, viene usata come specchietto per le allodole per camuffare dosi da cavallo di tagli a pioggia alle componenti di spesa sociale più aggredibili, come avviene ininterrottamente da ormai molti anni (dalla sanità all’istruzione alle pensioni).
Le forze politiche oggi sull’arena discutono su come dimenarsi tra il taglio della spesa sociale e l’aumento di una delle imposte più inique del sistema fiscale italiano. Misure entrambe fortemente recessive, che comporterebbero un ulteriore calo della domanda e del prodotto, e gravemente inique, che andrebbero a palese detrimento delle classi subalterne.
La soluzione, a ben vedere, è molto più semplice anche se politicamente più impegnativa: rifiutare l’alternativa tra la padella e la brace e respingere i diktat sul pareggio di bilancio che stanno asfissiando le economie europee e incrementando disoccupazione, miseria e disuguaglianza.

lunedì 14 maggio 2018

La decapitazione di Tommaso Biondi e harakiri dei 5 Stelle di Spoleto

Il populismo giustizialista è un mostro che  mangia anche i propri figli.
Come spiegare altrimenti il harakiri dei 5 stelle a Spoleto.
Ricordo, all’apparire dei 5 stelle sulla scena parlamentare un Grillo comiziante a Bologna che faceva l’elenco dei parlamentari da cacciare, colpevoli perché condannati dalla legge. Me lo ricordo elencare come si fa con la spesa al supermercato i parlamentari che avevano leso “sua maestà” la legge, mettendo assieme il politico mafioso e quello (Farina del Centro sociale Leoncavallo) che era stato colpito dalla “giustizia” per essersi difeso da una aggressione fascista.
Il giustizialismo populista è qualcosa di terribilmente reazionario e lo posso dire con cognizione di causa  avendo una conoscenza scientifica di un fenomeno politico ch ho studiato a fondo, fin dalla mia tesi di laurea sul peronismo, 38 anni fa.
Quando viene meno la cultura politica, rimane solo l’idea dell’ordine e dello stato di polizia.
Eppure sono secoli che coloro che hanno analizzato concretamente la realtà politica hanno reso palese che la legge non è la verità ma solo uno strumento di governo delle classi dominanti. Pensate al povero Giuseppe Mazzini, oggi ricordato in tutte le piazze del paese, morto in clandestinità a Pisa perché per lo Stato italiano era un terrorista.
La vicenda di Tommaso Biondi ha qualcosa di tragicomico. Di tragico ha l’aspetto tracotante dei censori grillini che eliminano il loro candidato a sindaco di Spoleto e con esso tutti i candidati 5 stelle della città perché colpevole del “delitto” di satira. Di comico c’è che il partito creato dal comico genovese e dalla Casaleggio associati che con la satira e l’attacco feroce ha ingrassato il portafoglio del fondatore e ha fatto le fortune politiche del “Movimento”, manda al patibolo il comico (nel senso dell’arte della comicità) Tommaso Biondi.
Come il Conte Ugolino che mangia i suoi cuccioli, i probiviri “romani” si sono mangiati Tommaso Biondi e tutti i cucciolotti spoletini.
Eppure Tommaso Biondi che è anche uomo d’arte, doveva conoscere la canzone di De Gregori la dove dice: “cercava la giustizia e incontrò la legge”, la legge grillina naturalmente.
La legge grillina però non è uguale per tutti, mentre manda a “morte” Tommaso Biondi,  assolve Salvatore Caiata parlamentare 5 stelle, padrone del Potenza calcio, accusato di riciclaggio, come perdona Dessì Emanuele, frequentatore degli Spada di Ostia, “picchiatore” di rumeni  e affittuario di casa popolare a 7 euro al mese. Lo stesso M5 stelle che oggi di fronte alla riabilitazione di Berlusconi è più muto di un abitante di Cinisi, cissà perché, chissà perché.
Aurelio Fabiani
Associazione culturale CASA ROSSA Spoleto

giovedì 10 maggio 2018

“Ci sarebbe da circondare il Parlamento. È necessaria una rivoluzione” di Moni Ovadia


intervista a Moni Ovadia di Giacomo Russo Spena
“Il Paese è sotto ricatto dei politici, delle loro smanie personali. Ci sarebbe da circondare subito il Parlamento e urlare: fuori dai coglioni, tutti!”. Moni Ovadia è sconcertato, desolato e raggelato. Ma anche preoccupato. “La gente non si rende conto della gravità della situazione - spiega - Una volta i nostri politici erano nani sulle spalle di giganti, ora abbiamo omuncoli sulle spalle di ominicchi”. Una classe dirigente, secondo lui, da azzerare, dove nessuno ha una visione di società: “Passano il tempo a starnazzare nei talk show o a cercare accordi di potere, in questo teatrino nessuno ha più un progetto di società per rilanciare il Paese”.
La sentiamo alquanto alterato. Ma con chi ce l'ha?
Con tutti. Alle prossime elezioni non voto, rifiuto la scheda. Che cosa vuoi più votare? E lo dico io che ho sempre creduto nei valori costituzionali e che in 72 anni di vita mi sono sempre recato alle urne!
Lei è sempre stato un artista impegnato e un uomo vicino alla sinistra... è diventato un disilluso?
Per niente, però di certo non credo che la sinistra possa rinascere dal Pd. Sentivo Renzi in televisione, ancora che pontifica e dà lezioni. Come se non avesse imparato la lezione, dopo le varie batoste prese: ha quasi dimezzato il consenso del suo partito. In fondo, se ci pensiamo bene, il suo progetto era quello.
In che senso, scusi? Renzi perché mai dovrebbe giocare a perdere?È un uomo culturalmente di destra, oltre ad essere assetato di potere. Il suo modello è Macron. Di cosa siamo parlando? Il Pd renziano ha tagliato completamente le radici con la storia della sinistra e del movimento operaio. Il suo scopo era distruggere ciò che esisteva di sinistra nel Paese. Ci è riuscito.Ce l'ha con la terza via blairiana? Con quel modello di socialdemocrazia che ha abbandonato le ragioni di giustizia sociale abbracciando privatizzazioni, deregulation ed austerity?
Quella stagione è finita. Ha causato solo disastri. Ma almeno in Inghilterra è arrivato un vecchietto, Corbyn, che sta raddrizzando le cose. Da noi non c'è nulla.
Alle scorse elezioni aveva espresso simpatia per Potere al Popolo, ha cambiato idea?
Almeno lì c'è freschezza umana, voglia di ritornare sui territori abbandonati, di sperimentare pratiche di mutualismo. Ma sono ben cosciente che parliamo di un progetto ultra minoritario e marginale.
Qual è il suo giudizio sul M5S? Non è l'unico che sta provando a contrastare la vecchia politica?
Ma ci si può fidare del M5S?
Me lo dica lei...
Guardavo con attenzione e rispetto al M5S, per la loro volontà di contrastare l'establishment e le rendite politiche. Ma si sta giocando malissimo la partita: Di Maio non ha dimostrato di incarnare il “nuovo che avanza” rispetto agli altri né di essere refrattario ai giochini di potere. Con la politica dei due forni il M5S mi ha ricordato in qualche modo la vecchia Dc.
Non aveva i numeri per governare da solo. Cos'altro doveva fare il M5S?
Dovevano smascherare il bluff delle varie nomenklature e invece si sono messi a trattare con lo status quo finendo per essere inglobati dal Sistema e dalle sue logiche. Di Maio doveva mantenere il punto sui temi programmatici, focalizzandosi su alcuni nodi come corruzione, evasione fiscale, reddito di cittadinanza ed Europa.
Ripeto, non avevano i numeri...
E allora, data l'indisponibilità degli altri partiti, si cambiava legge elettorale e poi subito al voto. E invece Di Maio si è prestato al peggior teatrino politico dimostrando di soffrire di bulimia da governo.

Intanto mentre il presidente Mattarella era orientato ad un governo “neutrale” che portasse il Paese verso nuove elezioni, M5S e Lega hanno chiesto altre 24 ore per trovare un'intesa. Lo crede possibile?
Sarà un disastro. La catastrofe. Il M5S perderà la sua credibilità. Ma poi al governo per fare cosa? Mica si capisce. Tra l'altro, è il modo migliore per riabilitare Renzi.Moni Ovadia, come se ne esce da questo stallo politico?
Va trasformata la gente, ripensata la società. Ci vuole una rivoluzione antropologica. Bisogna ribaltare le logiche ultra liberiste, quelle che portano alla devastazione del pianeta e all'arricchimento di pochi a danno dei molti. I tempi saranno pure lunghi, non vedo però scorciatoie.
Cambiamo discorso. Ha attaccato il Giro d'Italia per aver deciso di fare la prima tappa, simbolicamente, in Israele. Lei ha parlato di “Italietta che si è prestata a questa ulteriore e ingiusta sceneggiata”. Non crede di esagerare?
E' da 70 anni che Israele perpetua ingiustizie nei confronti dei palestinesi e quello che più mi indigna è l'impunità internazionale. Può fare qualsiasi azione che viene sempre difesa e legittimata dalla comunità internazionale: siamo di fronte a gravi responsabilità degli Usa e alla pavidità dell'Europa. Per non parlare dell'Onu che sembra una banda di vigliacchi.

Secondo lei, Israele si sta trasformando in uno Stato confessionale?

Questo vorrebbero gli ultranazionalisti e i fanatici religiosi. Prendo in prestito le parole del giornalista ed intellettuale Gideon Levy il quale ritiene che, a parte la parentesi degli accordi di Oslo, Israele non vuole, né ha mai voluto, la pace in Medioriente. Non hanno mai riconosciuto la dignità e i diritti dei palestinesi. Sperano spariscano nel nulla.
Cosa ne pensa, invece, dei venti di guerra tra Israele e Iran alla luce della rottura dell'accordo sul nucleare iraniano da parte di Trump?
Non credo si arriverà mai ad una guerra. Piuttosto sono pretesti per giustificare la tensione bellicista e per garantirsi il controllo dei Territori occupati. Nella West Bank vivono ormai 700mila coloni: è impossibile, ormai, realizzare il sogno dei due popoli e due Stati. Infine, posso dire un'ultima cosa sulla vicenda?
Prego...
Trovo indegno catalogare per antisemiti tutti coloro che osano criticare le politiche di Israele. Come trovo insopportabile e immorale l'uso propagandistico della Shoah. Sono ebreo e antifascista, so cosa ha rappresentato per noi la Shoah e, nello stesso momento, sono consapevole che Israele sta marginalizzando e perseguitando i palestinesi nell'indifferenza della comunità internazionale. Fanno quel che vogliono senza che nessuno intervenga.

mercoledì 9 maggio 2018

Schiacciare poveri e classi medie


Schiacciare poveri e classi medie
di  Francesco Gesualdi
 
La Corte dei Conti ha certificato che nel 2016 la spesa complessiva dello stato italiano ha totalizzato 829 miliardi coperti per l’86,5 per cento da entrate fiscali, ossia ricchezza prelevata ai cittadini, e per il restante 13,5 per cento da altre entrate come affitti, concessioni, vendite di immobili, indebitamento. 
Le entrate fiscali comprendono tre grandi categorie: i contributi sociali, le imposte dirette e le imposte indirette.
 
I contributi sociali sono prelievi sulla produzione, in parte a carico dei lavoratori, in parte dei datori di lavoro, e sono utilizzati per pensioni e altre provvidenze di carattere sociale. Le imposte dirette sono prelievi sugli introiti dei cittadini. Le imposte indirette sono prelievi sugli acquisti per beni e servizi.
L’analisi dei dati rivela che oggi i tre settori contribuiscono al gettito fiscale in misura quasi paritaria. Più precisamente nel 2016 i contributi sociali hanno rappresentato il 31 per cento del gettito fiscale, le imposte dirette il 35 per cento, quelle indirette il 34 per cento. Situazione piuttosto diversa da quella del 1982 quando i contributi sociali rappresentavano il 40 per cento di tutte le entrate fiscali, le imposte dirette il 35 per cento, quelle indirette il 25 per cento. Ma per capire come sia cambiata la politica fiscale in Italia, più che concentrarci sulla composizione del gettito fiscale, conviene focalizzarci sulla pressione fiscale, il valore che indica la porzione di prodotto nazionale assorbita dal prelievo. 
 
Nel 2016 la quota complessiva prelevata dalla pubblica amministrazione è stata pari al 42,9 per cento del Pil, il 10,5 per cento in più di quella prelevata nel 1982 quando era al 32,4 per cento. Ma l’aumento non è stato omogeneo per i tre canali. Per la verità la pressione fiscale dei contributi sociali è rimasta pressoché stabile nel tempo al 13 per cento del Pil. Il vero balzo in avanti l’hanno fatto le imposte indirette che dal 1982 al 2016 hanno visto aumentare la propria pressione del 6,1 per cento, passando dall’8,1 per cento al 14,4 per cento del Pil. Quanto alle imposte dirette, nello stesso periodo la loro pressione è aumentata solo del 3,6 per cento passando dall’11,2 al 14,8 per cento del Pil. Il lotto e il gioco d’azzardo ci hanno messo del loro per fare crescere il gettito delle imposte indirette, ma il ruolo principale l’ha svolto l’Iva, l’imposta sui consumi che rappresenta il 60 per cento dell’intero gettito indiretto. Lo dimostra l’andamento dell’aliquota ordinaria che è passata dal 18 per cento nel 1982 al 22 per cento nel 2016.

Un aumento odioso pagato principalmente dalle categorie più povere che per definizione consumano tutto ciò che guadagnano. Uno schiaffo che brucia ancora di più se consideriamo che sulle imposte dirette è stata operata una certa regressività a vantaggio dei redditi più alti. 
Si prenda come esempio l’IRPEF, l’imposta sul reddito delle persone fisiche che rappresenta il 73 per cento dell’intero gettito diretto. Quando venne introdotta, nel 1974, era formata da 32 scaglioni, il più alto dei quali al 72 per cento oltre 252mila euro. Una grande parcellizzazione dovuta non alla bizzarria dei parlamentari, ma al rispetto dell’articolo 53 della Costituzione che espressamente recita: “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. 
 
Purtroppo non passò molto tempo e già si cominciò a picconare la progressività riducendo gli scaglioni e le aliquote sui redditi più alti. E se nel 1983 gli scaglioni erano già diventati 9, col più alto al 65 per cento oltre 258mila euro, nel 2016 li troviamo a 5 col più alto al 43 per cento oltre 75mila euro.
 
Il risultato è che se nel 1983 su un imponibile di 252mila euro, non da lavoro dipendente, si pagavano 143mila euro di IRPEF, oggi se ne pagano 104 mila, praticamente 40mila euro in meno. Al contrario chi guadagnava 13mila euro nel 1983, 3mila euro pagava allora e 3mila euro paga oggi.
Stante la situazione non deve sorprendere se l’82 per cento dell’intero gettito IRPEF è pagato da lavoratori dipendenti e pensionati. I ricchi sono stati favoriti non solo grazie all’accorpamento e all’abbattimento delle aliquote, ma anche perché non tutti i redditi concorrono al reddito complessivo su cui si calcola l’IRPEF. Un esempio è rappresentato dagli affitti su cui si può scegliere di pagare una cedolare secca del 21 per cento. Altri esempi sono gli interessi bancari o i dividendi obbligazionari, su cui si applica un prelievo secco del 26 per cento. 
 
E se è impossibile calcolare la perdita per le casse pubbliche di questa serie di favori accordati alle classi più agiate, di sicuro si può dire che contribuiscono ad aggravare le disuguaglianze perché favoriscono l’accumulo di ricchezza nelle mani di una minoranza. Basti dire che l’1 per cento più ricco degli italiani possiede il 21,5 per cento del patrimonio privato, mentre il 60 per cento più povero non arriva al 15 per cento. 
 
E poiché lo scandalo si fa sempre più grave, perfino l’OCSE invita a considerare l’introduzione di un’imposta progressiva sul patrimonio. In particolare sostiene che «ci potrebbe essere lo spazio per una tassa patrimoniale nei Paesi in cui la tassazione sul reddito da capitale è bassa e dove non ci sono tasse di successione». Un’esortazione che sembra diretta in maniera particolare all’Italia dal momento che non sono previsti cumuli, né per i redditi da capitale né per i valori patrimoniali, mentre l’imposta di successione è quasi inesistente. Se seguissimo il consiglio dell’OCSE, renderemmo un servizio non solo all’equità, ma anche alla sostenibilità dei conti pubblici da tutti invocata in nome del debito pubblico. Finalmente dalla parte dei cittadini più deboli come prescrive la Costituzione.