domenica 11 novembre 2018

Il popolo non esiste di Michele Filippini da Jacobin Italia


populismo 990x361È ormai difficile negare che l’Italia si trovi in un “momento populista”, caratterizzato dall’emergere di forze politiche nuove, nuovi discorsi politici e nuova costruzione di senso comune. Si tratta di una fase che, in altri tempi e con altra sensibilità, Antonio Gramsci aveva chiamato «guerra di movimento», un «interregno», una fase di passaggio verso la successiva stabilizzazione egemonica di un ordine. La rapida ascesa di partiti e personalità nuove (M5S, Salvini), l’altrettanto rapida caduta di altre (Monti, Renzi), l’elevata mobilità elettorale (il M5S che in pochi anni balza al 32,7% o la Lega che passa dal 4% al 32% dei sondaggi odierni) e la politicizzazione estrema di alcuni temi (Europa, migranti, sicurezza) sono tutti segnali di una fase di intensa ridefinizione dello spazio politico, dei soggetti in campo e delle loro parole d’ordine.
In un contesto come questo sembra perdere di significato la contrapposizione che aveva sostenuto quasi tutte le battaglie contro il neoliberismo degli ultimi anni: quella tra un discorso radicale-democratico di attivazione e contestazione del potere, e uno istituzionale governamentale di contenimento attraverso la spoliticizzazione. Al contrario, oggi più che mai il discorso del potere è un discorso populista e radicale, mentre la sua contestazione sembra relegata al piano della critica morale e paternalista. La crisi del neoliberismo ha riattivato le “faglie politiche” sulle quali si costruiscono i soggetti collettivi, e la destra razzista e i qualunquisti nostrani hanno compreso meglio di chiunque altro le opportunità di quest’apertura.

Il populismo razzista e quello democratico
È stata la crisi del 2008 a creare le condizioni per l’esplosione degli assetti politici che si erano consolidati negli anni Novanta e a far emergere lo spazio per nuovi discorsi e nuove formazioni. Non si tratta certo di un fenomeno solamente italiano, anche se da noi il successo della sua declinazione qualunquista (M5S) e poi razzista (Lega) ha raggiunto intensità e forza maggiori. Nel campo dei soggetti radicali e democratici, invece (cercherò quanto più possibile di evitare la connotazione “di sinistra”, ormai preda di un immaginario compromesso), si è avuta una prima ondata populista-democratica, tanto negli Usa quanto in Europa: ne sono protagonisti Podemos in Spagna, Bernie Sanders negli Usa e il Labour di Jeremy Corbyn in Gran Bretagna, a cui sembra stia seguendo una seconda ondata populista-sovranista, rinvenibile in alcune correnti de La France Insoumise, nella Aufstehen di Sahra Wagenknecht in Germania e in alcuni sparuti epigoni italiani.
Oltre ad essere molto più deboli dei cugini francesi e tedeschi, i politici e intellettuali sovranisti italiani “di sinistra” (e qui è d’obbligo l’uso del termine) hanno due caratteristiche peculiari: 
la prima è che sembrano formulare la loro proposta politica non in contrapposizione al populismo di destra (come fa Melenchon per esempio, pur contendendogli l’elettorato) ma alle altre declinazioni della sinistra, finendo così per sostenere una parte dei programmi e delle politiche dell’avversario; 
la seconda è di presentarsi con quelle stesse facce che fino a qualche mese fa facevano parte, seppur criticamente, di quei partiti e di quei circoli intellettuali che hanno applicato o giustificato le ricette neoliberali degli ultimi vent’anni. Insomma, nessuno con la storia e la credibilità di un Sanders o di un Corbyn, piuttosto la solita vecchia storia dell’amante deluso che si trasforma in detrattore. 
Non sarebbero quindi degni di nota, o di critica, se non rischiassero di inficiare una causa ben più importante, quella del populismo democratico-radicale della “prima ondata”, che ha radicalmente innovato lo scenario politico europeo e creato le condizioni per dare filo da torcere al populismo razzista dilagante.
In Italia quell’onda non è mai arrivata, e nell’ultimo decennio in molti si sono chiesti come fosse possibile che proprio il paese che aveva avuto il più grande partito comunista e la più lunga stagione di mobilitazione d’occidente potesse rimanere inerte davanti a una tale rinascita internazionale di forze radicali e democratiche. La risposta sta forse proprio nella saturazione della memoria che queste esperienze hanno lasciato, provocando due effetti opposti ma speculari nei mille gruppuscoli della “diaspora”: da una parte, come eredità del Pci, la nostalgia passatista del Soggetto politico (maiuscolo), la sua mitizzazione, ossificazione e sostanziale riproposizione come schema oggi vuoto di significato; dall’altra, come eredità della contestazione “da sinistra” al Pci, la paura della sintesi politica, l’incapacità di considerare lo Stato come un campo di forze invece che come un mero strumento repressivo, la ritrosia a invadere il campo avversario per paura di essere “contagiati”. Ma la storia procede anche per salti e cosa ne sarà della formazione politica delle nuove generazioni nessuno può saperlo. Per questo, se da una parte occorre difendere la causa del populismo democratico dal populismo razzista e qualunquista, dall’altra occorre contrastare la sua appropriazione da parte dei sovranisti nostrani “di sinistra”. Quello che ci occorre, in breve, è un populismo democratico non sovranista.

Tre insegnamenti di Laclau
In questo compito può essere utile rileggere Ernesto Laclau, filosofo argentino scomparso recentemente e unanimemente considerato il teorico del populismo democratico. La fortuna di Laclau è molto cresciuta nell’ultimo decennio, tanto da diventare un solido riferimento per molti intellettuali e dirigenti politici della prima ondata populista. Dalle pagine dei suoi libri possiamo recuperare almeno tre insegnamenti utili per salvare il populismo democratico dalla deriva sovranista.

Il primo è proprio che… il popolo non esiste. Non esiste come dato biologico, non esiste come espressione di un’“omogeneità culturale”, non esiste nemmeno come entità sociologicamente definibile. Esiste invece il popolo come costruzione politica (e polemica), composto da gruppi e individui diversi che si articolano, cioè si legano e si organizzano sulla base di un discorso comune. Così concepito, il popolo non annulla affatto le differenze al suo interno, ma riesce comunque a presentarsi come un soggetto politico unitario perché ciò che tiene insieme le sue parti è la comune avversione a un nemico politico. È abbastanza chiaro come questa definizione implichi la possibile esistenza di diversi popoli, anche all’interno della stessa platea, definiti sulla base del tipo di articolazione (solidaristica o securitaria ad esempio) e del tipo di nemico scelto (l’1% più ricco o i migranti). Se quindi il popolo evocato dal fronte razzista e qualunquista è omogeneo, spaventato, razzista, il popolo del populismo democratico può e deve essere plurale, vitale, inclusivo. Non è questione di buoni sentimenti, ma di mettere in campo una diversa interpellazione degli stessi soggetti, un meccanismo di unità che ricomponga un blocco sociale attorno a diverse parole d’ordine e che identifichi nemici diversi. Al contrario, i “sovranisti” di sinistra sembrano aver assunto dall’avversario la falsa contrapposizione tra un popolo rozzo, preda di bassi istinti, e un’élite intellettuale e sofisticata, lontana dai supposti “bisogni” di questo soggetto omogeneo. Chi accetta questa visione, chi si rassegna a fare la politica di queste paure, è subalterno al discorso dell’avversario, ma soprattutto sarà sempre politicamente perdente di fronte alla proposta originale.

Il secondo insegnamento che possiamo trarre della teoria del populismo di Laclau riguarda il ruolo dello Stato e del discorso nazionalista. Su questo tema si può dire che il sovranismo cambi ragione sociale al populismo democratico: si passa infatti da una critica di classe (espressa tramite la contrapposizione tra alto e basso) ai meccanismi antidemocratici, neoliberali ed elitisti della costruzione europea, alla difesa dello stato nazionale contro le ingerenze esterne. Non più quindi la critica all’Europa neoliberale come strumento per la lotta di classe internazionale, ma la critica all’Europa tout court tramite la costruzione di un’identità nazionale, il tutto condito con un bel po’ di nostalgia per l’epoca fordista a cui corrispondeva uno Stato tanto protettivo quanto disciplinare. È così che la domanda per una democrazia radicale, che al fondo significa possibilità di influire sulle decisioni attraverso una lotta per l’emancipazione di chi sta in basso, si è trasformata in sovranismo, rivendicazione ultima dello spazio nazionale come difesa dalle invasioni straniere, tanto quelle dei flussi del capitale globale quanto quelle dei migranti. È in questo scivolamento che la ragione sociale è cambiata, il discorso di classe abbandonato, la giusta rivendicazione di uno spazio di decisione democratica trasformato in un discorso subalterno a quello dell’avversario. Anche su questo punto – il ruolo dello Stato in una politica populista democratico-radicale – Laclau può venirci in aiuto. Benché spesso si presupponga che il filosofo argentino postuli un unico spazio politico a disposizione, quello statale-nazionale, caratterizzato da solidi confini (territoriali, istituzionali, culturali) e piena sovranità (politica, economica), in realtà questi elementi non vengono mai esplicitati come precondizioni dell’emersione di una logica populista. Al contrario. Scrive Laclau: «Quando diciamo “Stato” ci riferiamo a un concetto che indica una funzione ordinatrice all’interno di una formazione sociale. Può essere lo Stato-nazione, ma non necessariamente solo questo, può anche riguardare uno Stato sovranazionale, oppure una serie di funzioni ordinatrici che non hanno nulla a che vedere con la dimensione pubblica nel senso stretto del termine». Ecco allora un secondo insegnamento da tenere presente: non è la forma di questa azione ordinatrice che conta (Stato-nazione, Stato sovranazionale o una configurazione comune oltre il pubblico e il privato), ma il fatto che essa si crei, come si crei e in che direzione si crei a determinare l’importanza dell’azione populista. Rimettere il populismo democratico sui suoi piedi significa anche non fare dei mezzi contingenti di una battaglia tattica (la critica all’Europa neoliberale) lo scopo ultimo dell’azione populista (la difesa della sovranità nazionale).

Un terzo insegnamento che possiamo trarre da Laclau è che nessuna configurazione politica è stabile, soprattutto all’interno di quel momento populista dove le identità si modificano di continuo e la loro articolazione non è affatto definitiva. Questo non è “un paese di destra”, come ieri ci dicevano i complici delle riforme neoliberali e oggi ci ripetono i compagni demotivati. Nel linguaggio un po’ formalistico di Laclau: perché si manifesti un nuovo popolo non serve che «tutti gli elementi di una configurazione emergente debbano essere radicalmente nuovi», serve invece che emerga un «punto d’articolazione» nuovo, attorno al quale tutti gli altri possano ricomporsi diversamente, formando un’inedita configurazione popolare. In breve, serve un discorso di nuova emancipazione e un soggetto credibile che la incarni. Ancora una volta, su questo aspetto specifico, la declinazione sovranista del populismo democratico dimostra di essere subalterna al discorso dell’avversario, dando per consolidati e stabili il panorama politico, il tipo di articolazione raggiunta dai gruppi sociali e le richieste che questi formulano. Il momento populista è invece caratterizzato da movimenti continui, scomposizioni e ricomposizioni di forze, creazione rapida di nuove identità e bisogni. Questo non vuol dire che non ci sarà in futuro una fase di stabilizzazione, ma che gli assetti su cui questa fase si stabilizzerà vengono decisi ora, nel momento populista, da chi riesce a costruire i soggetti più credibili, da chi sa politicizzare le faglie giuste, da chi ha più immaginazione e coraggio politico, perché non c’è cosa più sbagliata e codarda di fare il populismo con il popolo degli altri.

*Michele Filippini si occupa di teoria politica, operaismo, populismo. Ha scritto Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società.

mercoledì 31 ottobre 2018

M5S e la metafora della rana bollita di Elena Fattori, Vice presidente commissione Agricoltura Senato

Alessandro Di Battista nei suoi comizi raccontava una interessante metafora:
"Immaginate una pentola di acqua bollente. Una rana non ci entrerebbe mai e se qualcuno ce la buttasse dentro, darebbe un colpo di zampa e si salverebbe. Ora immaginate la stessa rana in una pentola di acqua fredda. Il fuoco è acceso e l'acqua si scalda poco a poco. La rana non si preoccupa. Ma la temperatura sale ancora, l'acqua inizia a scottare. La rana ormai è debole, non ha più forza di reagire. Prova a sopportare. Poi non ce la fa più e muore bollita. Abituarsi è deleterio. Sono gli 'abituati' i cittadini più amati dal Governo. Io credo che siamo ancora in tempo a dare quel colpo di zampa prima di finire bolliti. Dipende soltanto da noi. A riveder le stelle!".
Ecco, ora immaginate se in uno dei tanti comizi e convegni appena qualche mese fa avessi raccontato questo:
"Il Movimento 5 stelle non fa alleanze, ma noi cambieremo il termine, ci alleeremo con la Lega e chiameremo questa alleanza "Contratto". Ricordate la bella presentazione dei ministri 5 stelle che vi avevamo chiesto di votare? Perché il Movimento presenta la sua squadra prima delle elezioni così il popolo può scegliere i suoi ministri. Ecco, non c'entra niente con la squadra di governo che verrà, ma voi non ci farete troppo caso. Avremo un presidente del Consiglio non eletto dal popolo a voi totalmente sconosciuto, come ministro dell'Interno Matteo Salvini, e un ministro della Famiglia "tradizionale" forse un po' omofobo, ma pazienza. Poi diremo sì alla Tap, si all'Ilva, valuteremo costi/benefici per decidere sulla Tav e anche sul Ceta ci ragioneremo. Faremo un condono fiscale e uno edilizio. Ed eleggeremo come presidente del Senato una berlusconiana doc.
Per quanto riguarda il tema migranti scordatevi il saggio piano 5 stelle di accordi con i paesi di provenienza, lo smantellamento dei grandi e orribili centri di accoglienza che generano conflitti sociali e disagi per i cittadini. Scordatevi la gestione pubblica dell'accoglienza diffusa, i tempi rapidi per le domande di asilo che consentano di rimpatriare chi non ha diritto ed accogliere con dignità i rifugiati. Toglieremo la gestione di migranti ai Comuni e la affideremo ai privati senza gara di evidenza pubblica raddoppiando i tempi di permanenza da nove a diciotto mesi, favorendo così il business dell'immigrazione. Doneremo 150.000 nuovi clandestini alla criminalità organizzata per il lavoro nero e lo spaccio. Chi invocherà il rispetto del programma 5 stelle rischierà sanzioni e persino di essere espulso per non contrariare l'alleato Salvini".
Mi avrebbero preso per folle o per lo meno mi avrebbero rincorso con torce e forconi. Ma si sa, le rane saltano solo se le butti nell'acqua bollente. Se accendi il fuoco nel pentolone e la temperatura sale piano piano...

giovedì 18 ottobre 2018

La sinistra europea sta morendo: e se lo merita di Aldo Giannuli



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Di fronte al processo di globalizzazione neo liberista la sinistra europea (limitiamoci a questa area) si è divisa in tre aree:


a. la sinistra “riformista” (o, se volete, socialdemocratica) che ha accettato supinamente la rivoluzione neo liberista, non opponendo alcuna resistenza e cercando maldestramente di ritagliarsi uno spazio di sinistra interna al sistema. In questo processo di omologazione, questa sinistra ha cessato di essere socialdemocratica (e lo ha dimostrato accettando la demolizione un pezzo alla volta del welfare) per diventare semplicemente liberale, pur se con vaghissime aspirazioni socialeggianti.
La cosa è andata avanti per un quindicennio, sinché la creazione di denaro bancario ha dato la sensazione di un sostitutivo del welfare state, poi è arrivata la grande crisi e, con essa, la stretta che ha frantumato il ceto medio, spinto sotto la soglia di povertà gran parte delle classi lavoratrici e precarizzato tutta la forza lavoro giovanile. Ed in breve è stato evidente che nell’ordinamento neo liberista non c’è spazio per una sinistra riformista. I vari partiti dell’Internazionale “Socialista”, per salvare il sistema, hanno abbracciato senza fiatare le politiche di austerity che hanno massacrato la loro base sociale che, a lungo andare, li hanno abbandonati riducendoli sotto il 15% (e talvolta sotto il 10%) in Grecia, Austria, Francia Spagna e, fra non molto, Italia.
Il deflusso è andato ad alimentare la rivolta “populista” che accomuna cose molo diverse fra loro. Di fatto, l’unica sinistra possibile in questa fase storica è la sinistra antisistema: se vuoi sostenere decenti politiche sociali, non puoi accettare questo ordinamento e devi predisporti alla battaglia fontale contro l’ipercapitalismo finanziario, magari sperando di poterci arrivare con i mezzi usuali della lotta politica.

b. la seconda area è stata quella semi radicale (Rifondazione Comunista, Linke, Izquierda Unida, Siryza ecc.) che ha ritenuto non ci fossero le forza per una scontro frontale con il sistema ed ha scelto una linea di “guerra di posizione”, cercando di cedere meno terreno possibile e, a questo scopo, ponendosi come “gruppo di pressione” verso la sinistra riformista, con la quale tentare una qualche alleanza.
Schema non meno sbagliato del precedente: in primo luogo perché noi siamo una fase di guerra di movimento, nella quale non ci sono trincee nelle quali resistere. In secondo luogo perché non comprendeva la natura sociale e politica della ex sinistra socialista diventata ormai liberale ed interna al sistema liberista. Il risultato è stato che la sinistra semiradicale non ha fatto alcuna alleanza con quella “riformista” ma ha fatto solo da sgabello ad essa (basti citare l’esperienza del governo Prodi, costata la pelle a Rifondazione Comunista che prosegue in una inutile esistenza senza riuscire neanche a chiedersi dove ha sbagliato e perché). Soprattutto, l’errore bi base è stata la mancata comprensione delle caratteristiche di questo nuovo capitalismo, che, a sua volta ha determinato la totale incomprensione della crisi, verso la quale questa area non ha saputo proporre alcuna politica. E lo dimostra il fatto che la protesta montante ha premiato le nuove formazioni “populiste” e non questa sinistra semi radicale che non interessa nessuno. In Italia è ridotta a brandelli insignificanti, in Spagna e in Germania vivacchia.
Il caso più clamoroso è quello della Grecia, dove la formazione semi radicale è giunta al governo, promettendo il superamento dell’austerity salvo vendersi anima e corpo ed eseguire fedelmente i diktat della Troika, per non aver avuto il coraggio di andare allo scontro. E la conseguenza di questa disfatta morale prima ancora che politica è stata l’infelice esperienza della lista Tsipras varata in Italia, della cui esistenza non abbiamo avuto modo di accorgerci in questi quasi cinque anni per la totale assenza di ogni iniziativa.

c. la terza area è stata quella che definiamo “sinistra radicale” (centri sociali, gruppuscoli di radice maoista o trotskjista, vecchi Pc come quello portoghese o quello greco, pezzi di sindacato ecc.) che hanno assunto una posizione dichiaratamente antisistema, ma, haimè, puramente verbale e declamatoria. Non sono mancati sporadici movimenti di protesta, rivendicativi o territoriali (vedi il movimento No Tav o singole ondate di protesta salariale in Francia ecc.) ma tutto questo non fa una politica. E’ la riproposizione del vecchio “basismo” sessantottino, tentativo generoso ma votato alla sconfitta. Ed anche questa area, come la precedente, deve chiedersi perché la protesta ha premiato i “populisti” e non ha riversato neppure un rivolo di consensi in questa direzione.
Di fatto questa area non si dimostra in grado di uscire da un disperato minoritarismo e di darsi una cultura politica degna di questo nome.

Tutte tre queste aree pagano il prezzo di aver cessato qualsivoglia lavoro teorico: ma senza teoria non c’è cultura politica e, senza cultura, non c’è né analisi né progetto. I “riformisti” hanno sostituito il pensiero politico con le serate nei salotti della finanza o frequentando i Think Tank del potere (come l’Aspen, la Trilateral o i loro più modesti succedanei nazionali). La sinistra semi radicale si occupa solo di formazione di liste, di organigrammi e di distribuzione delle sempre più magre risorse. La sinistra radicale ha conati in questo senso ma che si spengono subito per l’incapacità di interloquire con chi non faccia parte della ristrettissima cerchia di ciascun gruppo.
Qualche novità positiva non manca: Corbyn in Inghilterra, Melenchon in Francia ad esempio, ma speriamo non rifacciano gli errori di chi li ha preceduti. Ne riparleremo, per ora le espressioni conosciute della sinistra, chi per un motivo e chi per un altro, possono tranquillamente dichiarare bancarotta.

A loro insaputa


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        La “manina” che strozza l’accordo Lega-M5S
                            di Alessandro Avvisato   

Che il governo a tre presentasse problemi di tenuta fin dall’inizio, ci era abbastanza chiaro. Mettere insieme blocchi di interessi sociali diversi (Lega e M5S), entrambi posti sotto tutele contabile da parte dell’Unione Europea (Tria, Mattarella, Moavero Milanesi), significava disporsi a camminare sul filo mentre soffia tramontana.


Però che il bubbone sarebbe esploso così presto, effettivamente, era un po’ difficile da prevedere, anche per il più speranzoso dei “gufi”.
Ieri sera il vicepremier e ministro Luigi Di Maio ha utilizzato il megafono tardo-democristiano di Bruno Vespa per buttare lì una bomba politica di prima grandezza: «Non è possibile che vada al Quirinale un testo manipolato» che riguarda la pace fiscale. «Domani sarà depositata una denuncia alla procura della Repubblica».
Stiamo parlando della più importante legge dello Stato – quella di “stabilità”, che regola entrate e uscite per il prossimo anno – su cui già ora la Commissione Europea ha anticipato il veto, aprendo quindi un contenzioso dalle incerte conseguenze (è la prima volta che accade, nella Ue). Una legge che, garantisce il Quirinale, non è neppure ancora arrivata sul tavolo del presidente della Repubblica, come se in due giorni il “camminatore” non fosse riuscito a coprire i 500 metri che separano Palazzo Chigi dal Colle. Una legge che – una volta approvata dal Consiglio dei ministri – nessuno può azzardarsi a modificare senza aprire un confronto politico nel governo.
I problemi sono parecchi, ma di due tipi, fondamentalmente.
Il merito della “manipolazione”. Su questo Di Maio è stato chiaro. «Nel testo che è arrivato al Quirinale c’è lo scudo fiscale per i capitali all’estero. E c’è la non punibilità per chi evade. Noi non scudiamo capitali di corrotti e di mafiosi. E non era questo il testo uscito dal Cdm. Io questo testo non lo firmo e non andrà al Parlamento. Questo è un condono fiscale come quello che faceva Renzi, io questo non lo faccio votare. Non abbiamo mai chiesto né parlato di scudare capitali all’estero e tanto meno di prevedere l’impunità per gli evasori. Non abbiamo mai discusso di questi temi e soprattutto mai pensato a dare l’impunità per il reato di riciclaggio».
Si tratta di temi contro cui i Cinque Stelle hanno costruito gran parte della loro fortuna politica, quindi impossibili da avallare senza perdere automaticamente l’aura di “onestà” che li ha portati a diventare il primo partito nel paese.
La “manina” che avrebbe apportato le modifiche è certamente competente, sia in in materia economico-legale, sia in equilibri politici.
Secondo la denuncia (solo politica, per ora) di Di Maio la possibilità di “pace fiscale” (pagando il 20% del dovuto, senza sanzioni e interessi) sarebbe stata in modo fraudolento estesa a due imposte che riguardano proprietà e attività fiscali extra-confine (Ivie e Ivafe), che riguardano gli immobili all’estero e l’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero. Insomma, una specie di “scudo fiscale” per i capitali oltre confine.
Proprio come quello varato a suo tempo – con dettagli leggermente diversi – da Berlusconi-Tremonti, Renzi-Padoan, ecc. Come “governo del cambiamento” non c’è male…
In questi ultimi anni, quelli renziani, si chiamava voluntary disclosure, anzi è ora persino più benevola (la vecchia voluntary prevedeva il pagamento di tutto il dovuto, mentre ora gli evasori pagherebbero solo il 20%; bello sconto, vero?).
Ma c’è ovviamente di peggio, visto che la stessa “manina avrebbe” autorizzato anche uno scudo penale per chi presenterà la dichiarazione integrativa. Se, come c’è scritto nel testo “taroccato”, non c’è punibilità per “dichiarazione infedele, omesso versamento di ritenute e omesso versamento di Iva”, questa “facilitazione” varrebbe automaticamente anche in caso di riciclaggio o impiego di proventi illeciti. Un po’ troppo sfacciati, dài…
Altri argomenti spinosi già non mancavano, visto che la formula usata per delimitare la sanatoria di fatto esclude gli “evasori per necessità” (di cui si riempiono la bocca tutti i leghisti ospitati nei talk show), mentre ci rientrerebbero gli evasori totali, quelli che non vogliono pagare nemmeno davanti a una pistola puntata. Lo sconto sulle imposte si applica infatti sul “maggior reddito dichiarato” (nascosto al fisco), ma non a chi ha dichiarato tutto e poi non ha versato le imposte perché non aveva i soldi.
Il secondo ordine di problemi è tutto politico, invece.
Se c’è stata davvero una “manina” competente che ha provato a far passare condoni non concordati tra i “tre governi in uno”, si tratta di scoprire a chi appartiene. Non è una indagine complessa, perché può essere stato solo un ministro o un vice, o il sottosegretario alla presidenza del consiglio (il leghista Giorgetti).
Se invece era già tutto scritto così come si legge oggi, allora i ministri grillini – e tutto il loro staff, Giuseppe Conte compreso – semplicemente non avevano capito che cosa stavano elaborando di concerto con la Lega e Tria.
In entrambi i casi, però, questo governo sta insieme con lo sputo. Perché nel primo caso i leghisti sarebbero i nuovi berlusconiani, interessati soprattutto a fare gli interessi delle imprese, qualsiasi cosa facciano (evasione fiscale compresa); disposti a tutto, anche a taroccare la prima legge dello Stato infilandoci nottetempo frasi opportunamente scelte. Nel secondo, perché i grillini sarebbero degli incompetenti totali che poi buttano per aria il tavolo quando si accorgono di essere stati presi per il naso.
Sia chiaro. Queste cose accadono nella normale dialettica politica di qualsiasi governo in qualsiasi paese, ma hanno altrove un esito obbligato: lo scioglimento dell’alleanza di governo e la formazione di uno nuovo, oppure elezioni anticipate. L’unica alternativa in mano al ministro o partito che si ritiene truffato è infatti una sola: tacere e dunque cercare di rifarsi in un’altra occasione (a parti invertite), oppure denunciare davvero tutto e far saltare l’alleanza.
L’unica cosa che non si può fare è proprio quella provata fin qui da Di Maio: denunciare e continuare ad andare avanti come prima.
Ci sembra perciò altamente utile il sarcasmo del commento di Giorgio Cremaschi alla vicenda.


E ADESSO POVER'UOMO? di Giorgio Cremaschi 


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Questa davvero è un cambiamento, robe così non risultano agli archivi. Di Maio annuncia che denuncerà alla Procura della Repubblica la manipolazione del suo decreto fiscale del suo governo. Egli stesso ammette che quel testo contiene uno scandaloso condono, e anche una salvaguardia sul piano penale, per chi ha riciclato all’estero capitali sporchi. Mafie, corruttori e corrotti vari ringraziano.
Di Maio annuncia solennemente in TV che tutto questo è avvenuto a sua insaputa e che per questo andrà dal giudice. Ma chi denuncerà il vice presidente del consiglio? Salvini che conferma integralmente il provvedimento? Conte che come al solito non sa nulla? Tria che complotta nel buio? Castelli che non ha controllato i testi? O sé stesso per manifesta incapacità? Non lo sa Di Maio cosa approva? Non ha dei collaboratori che leggano i testi per lui? Non lo sa, il pover’uomo, che condono chiama condono? Che questa sanatoria sempre più vergognosa non riguarda solo l’evasione fiscale, ma anche quella dell’IVA e dei contributi previdenziali?
E siccome il testo non è ancora pubblico, finora neppure è arrivato al Quirinale, chissà quante altre porcherie contiene, come il decreto Genova nel quale una manina a cinquestelle – così dichiara Salvini – ha inserito la sanatoria per le case abusive di Ischia.
Che scambio di gelide manine tra Di Maio e Salvini: io metto una cosa a te, tu metti una cosa a me.
Ora però Di Maio annuncia, il che vuol dire che non è proprio detto che lo faccia, una denuncia in Procura.
Pover’uomo o ci fa o ci è, se fosse un concorrente de La Corrida a questo punto sarebbe travolto dai campanacci, ma come vicecapo del governo gode ancora del residuo credito che gli deriva dal discredito dei suoi predecessori. Di Maio deve tutto a Renzi, che come lui aveva inizialmente maturato un grande consenso, ma questa eredità si sta consumando rapidamente.
A sua insaputa.