Premessa:
una “geopolitica delle lotte” in prospettiva anticapitalista suona come
un ossimoro suscitando sufficienza o fastidio. E invece la geopolitica –
un tempo si diceva Weltpolitik o imperialismo – è lotta di classe in
altra forma, non riconosciuta come tale. Lo aveva capito un grande
reazionario: “La storia del mondo è storia di lotte di potenze marinare
contro potenze di terra” , mimando e stravolgendo il vecchio adagio
comunista…
* * * * *
Gli ultimi mesi hanno segnalato un
intreccio, un po’ disorientante, tra relativa impasse della situazione
economica e smottamenti significativi a livello geopolitico. La crisi
globale tutt’altro che superata non precipita grazie a bolle finanziarie
sempre più grosse alimentate da politiche monetarie ultraccomodanti
(“neo-keynesiane”). Sull’altro versante è sotto gli occhi di tutti il
ritorno aggressivo dell’iniziativa internazionale degli Stati Uniti – a
tutto tondo: dall’Ucraina al Medio Oriente all’Est asiatico. Tutto ciò
sembra a prima vista inquadrarsi bene in quelle analisi che leggono
l’oggi e ancor più il domani del capitalismo alla luce della
contrapposizione tra la geopolitica del caos Usa, egemone globale in
difficoltà se non in declino, e il trend inarrestabile verso un’economia
globale di tipo multipolare incentrata su grandi poli e aree regionali.
Questo tema, geopolitico e geoeconomico, è
chiaramente cruciale in senso analitico e politico e fa da sfondo, per
lo più implicito, o dovrebbe fare da sfondo a ogni seria discussione
sulla crisi in corso. Il modo migliore, anche se indiretto, per
affrontarlo in prima battuta non è di tracciare astratte previsioni, ma
discutere i termini della questione, esplicitarne i nodi anche teorici e
le implicazioni politiche. Qui mi soffermo su due aspetti, e
altrettanti rischi, delle rappresentazioni correnti: il rischio di una
lettura eccessivamente lineare dei trend in atto con esiti da fascinazione multipolarista; il rischio di fascinazioni geopolitiche… senza lotta di classe.
Status quaestionis
Se volessimo fotografare con una battuta l’attuale situazione geopolitica potremmo forse parlare di una compresenza sempre più sofferta di due situazioni potenzialmente contraddittorie. Da un lato, l’insofferenza
di attori forti e/o rilevanti del sistema internazionale (Cina, Russia,
Germania, gli altri Brics) verso il caos prodotto dagli Usa.
Dall’altro, i timori nelle élites di questi stessi attori in rottura o
frizione con gli Stati Uniti per il possibile caos senza e contro l’egemone a stelle e strisce.
L’intera situazione internazionale si muove
tra questi due poli contraddittori. E si tratterà di vedere come vengono
a inserirsi in questo le soggettività potenzialmente antagoniste.
Insofferenze…
Dunque, un quadro di insofferenza sempre più ampia di importanti
attori nazionali verso il prelievo che gli Stati Uniti operano sulle
catene del valore globale.
Si tratta di un prelievo innanzitutto finanziario
basato sul dollaro come mezzo di pagamento e di riserva internazionale –
prelievo rafforzato dopo lo sganciamento dollaro-oro di Nixon e il
passaggio al Treasury-bill Standard – e sui prestiti e sui
mille altri dispositivi speculativi, nonché nella globalizzazione su
quella tassa sui servizi commerciali essenziali che le economie
soprattutto emergenti devono pagare per poter accedere ai mercati
mondiali (di cui hanno comunque usufruito in questi decenni). Si tratta
poi del quasi monopolio o comunque della leadership nei settori a
tecnologia avanzata, strettamente intrecciati alla ricerca e produzione
di guerra, dall’informatica alle tecnologie della comunicazione, alla
industria della salute e dell’agro-industriale, ai brevetti e diritti di
proprietà intellettuale. Sono elementi che i “declinisti” (ovvero i
teorici e/o sponsor del declino statunitense) spesso e volentieri
dimenticano – anche al di là di una metafora naturalistica già di per sé
discutibile.
A fronte di questo prelievo i paesi emergenti e la capofila Cina, sia
economicamente che politicamente, insieme con la Russia, vanno
muovendosi verso una sempre maggiore autonomia. Non perché in assoluto
non vogliano più pagarlo, però. Tanto meno perché ci sia in gioco una
qualche istanza “antimperialista” di vecchio tipo, come fu per le lotte
anticoloniali o ancora negli anni Settanta con il tentativo di un Nuovo
Ordine Economico (terzomondismo). Rispetto a quelle fasi, la distanza è
enorme: il percorso della Cina e degli altri paesi emergenti è
determinato dalla volontà di proseguire “semplicemente” sul tracciato di
uno sviluppo capitalistico “normale”, senza incorrere
in un prelievo troppo esoso e soprattutto nel caos prodotto da
Washington. Ora, proprio questa volontà di “semplice” sviluppo – che è
comunque cosa differente dal growth del modello anglosassone,
sia per oggettive differenze di percorso sia per la chiara percezione
delle conseguenze potenzialmente devastanti della finanziarizzazione,
con importanti implicazioni anche dal punto di vista del posizionamento
delle classi lavoratrici – questa spinta dei poli non occidentali si fa
forte non solo dei tassi ancora notevoli di accumulazione ma anche della
crescente tessitura di trame commerciali e di investimento che
bypassano i circuiti occidentali. È questa la novità, basta guardare
alle intese sponsorizzate da Mosca e Pechino per aggirare l’uso del
dollaro negli interscambi commerciali reciproci e con altri paesi, allo
storico contratto di maggio per la vendita a Pechino del gas della
Siberia orientale , agli accordi dello scorso luglio per la creazione di
una banca dei paesi Brics e di ottobre per una Banca Asiatica per le
Infrastrutture incentrata su Pechino, tutti passaggi che inquietano
moltissimo Washington – come il recente vertice pechinese dell’Apec ha
messo in evidenza.
È all’interno di questo quadro che opera il trend di una possibile rottura dell’asse transatlantico da parte della Germania
(plausibilmente ma senza poterlo approfondire qui: l’Europa o è
accentrata su Berlino o non è). I segnali oramai ci sono e vanno
accumulandosi: dallo scontro sull’euro e sulle diverse, fino a un certo
punto, strategie delle Banche Centrali, all’affare Snowden (rilevante
anche per gli umori della popolazione tedesca), dagli interventi in
Libia e Siria alla questione dell’Ucraina (dove comunque la posizione
tedesca non appiattita su quella americana non è certamente pulita verso
Mosca). In gioco è la proiezione a Oriente della
Germania e quindi dell’Europa. Che è quello che gli Stati Uniti vogliono
e debbono bloccare.
Per Washington la Cina deve restare un produttore a
basso costo sul margine inferiore del valore aggiunto, la cui gran
parte deve da un lato andare alle multinazionali e dall’altro venir
riciclato attraverso il dollaro vuoi come valuta di riserva di fatto
obbligatoria vuoi come acquisto dei buoni del tesoro statunitensi così
da sostenere l’indebitamento e i consumi statunitensi. È quello che è
stato definito Bretton WoodsII, che peraltro ha
permesso alla Cina negli ultimi decenni di accedere al mercato Usa e
mondiale. Per la Germania, oggi, inizia ad aprirsi una divergente
prospettiva rispetto alla Cina, quella di contribuire con la propria
tecnologia produttiva, con i propri capitali, e quindi con un prelievo
imperialista in proprio, sia chiaro, al salto economico cercato dalla
dirigenza cinese verso produzioni più avanzate, il lancio delle “nuove
vie della seta” e un parziale ribilanciamento da un modello incentrato
sull’export a uno basato su consumi interni e urbanizzazione “armoniosa”
(riforma dell’hukou e nuove norme sulla proprietà della terra).
Ma gli Stati Uniti non possono accettare un’economia cinese che risale
la catena del valore in direzione di una maggiore autonomia e
protagonismo sui mercati globali: è questo che temono e non il tanto
strombazzato, se pure, superamento in termini di Pil a parità
d’acquisto. Non possono accettare neanche un ordine regionale asiatico a
dominante cinese in senso geopolitico tradizionale. Di qui i tentativi
di nuovo contenimento anti-cinese attraverso il rafforzamento delle
alleanze bilaterali storiche (strategia del Pivot to Asia) e il tentativo economico della Trans-Pacific Partnership (Tpp).
Mente Berlino può, ma siamo sempre nell’ordine delle possibilità, mettere in campo un’opzione differente.
… e timori sistemici
E però attenzione a letture eccessivamente lineari di questi trend.
Non è solo né tanto che la Germania – per restare al tema di un
possibile punto di rottura transatlantico – ha comunque i suoi
interessi. Nei confronti della Russia questo è palese sia nella vicenda
ucraina sia sulla questione energetica (le imprese russe non debbono
entrare come competitor nella distribuzione del gas in Europa ma solo
fornire la materia prima). Berlino, certo, è stata scavalcata
dall’incursione di Washington a Kiev, ma punta di suo a tornare a un
rapporto con una Russia indebolita cui imporre il proprio di prelievo
imperialista. Persiste poi una fortissima rete di legami
politico-diplomatico-militari, nonché economici, con gli Usa che al
tempo stesso possono giocare sulle periferie europee filoatlantiche (Est
Europa e Italia). Inoltre, la popolazione tedesca per quanto in parte
dagli umori sempre meno filoatlantici sarebbe impreparata a una vera
rottura.
Ma il vero punto è un altro, e attiene a una considerazione
sistemica. Gli Stati Uniti, comunque la si voglia vedere, continuano a
tutt’oggi a ricoprire un ruolo sistemico imperiale, per
quanto producendo sempre più caos e di rimando insofferenze ai quattro
angoli del globo. Un ruolo sia geopolitico in senso stretto – la
schiacciante superiorità militare – sia e forse soprattutto di ordine
globale. Dovesse scoppiare un moto rivoluzionario destabilizzante,
ovunque si desse, Washington sarebbe l’unico attore in grado di
soffocarlo. Qualche segnale lo abbiamo già avuto con piazza Tahrir, dove
Obama è intervenuto a detournare la sollevazione araba, a partire dall’intervento in Libia per poi passare al tentativo di regime change in Siria fino alle recenti manovre intorno al fantomatico “califfato” .
Analogamente, sul piano economico, gli Stati Uniti sono a tutt’oggi
il perno del sistema di riciclo della liquidità internazionale e dei
surplus commerciali di Cina e Germania oltre che della rendita
petrolifera, cioè quell’elemento del sistema che finora ha per così dire
chiuso il cerchio dei circuiti globali rispetto ai quali non si torna
impunemente indietro se non con sconquassi e disconnessioni che nessuno
ovviamente al momento vuole.
Insomma, la funzione imperiale è scossa, in alcune parti inceppata, anche gravemente inceppata come negli States e, di rimando, in Europa, ma non è facilmente sostituibile,
per lo meno sul breve e medio periodo, anche per gli altri grandi
attori capitalistici. Sia oggettivamente, perché non è facile mutare le
relazioni strutturali tra i perni della globalizzazione; sia
soggettivamente per le reazioni statunitensi, come già si può largamente
vedere, anche tenuto conto dei costi sociali interni che un cambiamento
internazionale profondo avrebbe negli States. Certo, è una
funzione pagata sempre più caramente in cambio di un prelievo sempre più
esoso e percepito sempre più come tale. Ma nessun competitor globale
anti-Usa è in vista. Ed è proprio su questa “rendita di posizione
sistemica”, poggiante su un apparato finanziario e cognitivo ancora
ineguagliato, che Washington può permettersi di fare ciò che il suo
indebitamento vieterebbe a qualunque altra potenza.
Se è così, sono evidenti tutti i limiti, e la fascinazione, delle letture lineari incentrate sul multipolarismo
e sulla creazione di grandi aree economiche regionali intorno a poli di
riferimento egemonici. Sia nelle varianti armonicistiche: possibilità
di un accomodamento generale se solo gli Usa riconoscono il proprio
declino relativo e/o la complessità del mondo attuale (senza che entrino
in gioco fattori di classe se non nei termini del “buon governo” delle
popolazioni). Sia nelle varianti conflittuali: per esempio, quando si
ragiona su un diverso ruolo possibile dell’Europa, su spinta “dal
basso”, in un futuribile mondo multipolare senza mettere in conto
sconquassi geopolitici.
Per concludere su questa prima parte, abbiamo allora una concreta
possibilità di sconvolgimento degli assetti geopolitici ed economici
internazionali, ma al tempo stesso trend niente affatto lineari. Né va
escluso un ricompattamento, almeno provvisorio, del blocco occidentale
comprensivo anche di una Germania neo-bismarckiana .
In una battuta: con gli Usa la globalizzazione rischia di incasinarsi profondamente, senza gli Usa di rompersi…
e ci perderebbero “tutti”. Conseguenza: sempre più caos, oggettivo e
prodotto dall’egemone , con lo “scongelamento” dei fronti geopolitici e
la destrutturazione di intere entità statali, dal Medio Oriente ai
confini cinesi, mentre non sono previsti spazi di effettiva autonomia
per nessun attore regionale.
Il che ci lascia con due grosse questioni, entrambe non facilmente inquadrabili all’interno di un approccio estrattivista che fatica a render conto delle dinamiche inter-capitalistiche nonché a tematizzare il rapporto tra sfruttamento ed espropriazione. La prima: un ordine internazionale “non americano”, o anche solo “meno americano”, dipende anche se non soprattutto dall’interrogativo se sia possibile all’altezza dell’attuale rapporto di capitale una diversa articolazione tra produzione industriale e finanza come base di un rinnovato “sviluppo”, e relative geometrie sociali, non completamente sussunto alla finanziarizzazione (il rebalancing cinese si gioca anche intorno a questo nodo). La seconda domanda è se l’attuale situazione ibrida fra configurazione imperiale e dinamica inter-capitalistica non possa in prospettiva aprire a un vero e proprio sfrangiamento, a una disarticolazione del sistema internazionale nel suo insieme , facendo definitivamente saltare non solo la dinamica delle successioni egemoniche che il capitalismo storico ha tracciato fino a metà Novecento ma anche qualsivoglia prospettiva di transizione relativamente tranquilla a un mondo multipolare.
Il che ci lascia con due grosse questioni, entrambe non facilmente inquadrabili all’interno di un approccio estrattivista che fatica a render conto delle dinamiche inter-capitalistiche nonché a tematizzare il rapporto tra sfruttamento ed espropriazione. La prima: un ordine internazionale “non americano”, o anche solo “meno americano”, dipende anche se non soprattutto dall’interrogativo se sia possibile all’altezza dell’attuale rapporto di capitale una diversa articolazione tra produzione industriale e finanza come base di un rinnovato “sviluppo”, e relative geometrie sociali, non completamente sussunto alla finanziarizzazione (il rebalancing cinese si gioca anche intorno a questo nodo). La seconda domanda è se l’attuale situazione ibrida fra configurazione imperiale e dinamica inter-capitalistica non possa in prospettiva aprire a un vero e proprio sfrangiamento, a una disarticolazione del sistema internazionale nel suo insieme , facendo definitivamente saltare non solo la dinamica delle successioni egemoniche che il capitalismo storico ha tracciato fino a metà Novecento ma anche qualsivoglia prospettiva di transizione relativamente tranquilla a un mondo multipolare.
Rotture a freddo?!
Se fin qui abbiamo provato a mettere sotto esame le fascinazioni
multipolariste, passiamo ora al versante delle fascinazioni geopolitiche senza lotta di classe.
Oggi si inizia a parlare qui e là di una possibile Europa “tedesca”
in tendenziale rottura rispetto all’asse transatlantico così come di
un’effettiva alleanza Mosca-Pechino. Ma il punto è che, qualunque sia il
trend che si considera più probabile, quello che possiamo escludere è
che assisteremo a rotture a freddo. Che cosa significa a
freddo? Significa che non è possibile nessuna seria accelerazione delle
dinamiche di rottura inter-capitalistiche che pure si vanno delineando
senza una decisa attivizzazione proletaria e più in
generale sociale. Questo è il punto cruciale di una “geopolitica delle
lotte”. Che di per sé non ci dà però una soluzione antagonistica del
problema perché quell’attivizzazione può anche rimanere interna al
sistema e veicolo di una sua rivitalizzazione.
Al momento assistiamo, nelle relazioni tra grandi attori, a rotture e
poi compromessi, minacce di guerra e promesse di pace, guerre
sotterranee per procura e poi tregue momentanee, insomma finora ci si è
fermati sempre sul limite dell’abisso: il ritorno al major war.
Questo perché senza una decisa attivizzazione sociale contro le
ricadute della crisi economica o, fuori Occidente, per un’inversione
delle diseguaglianze, senza che dal basso si passi dunque a chiedere per
davvero il conto alle proprie èlites, queste non si vedranno
costrette a recuperare margini di agibilità rispetto alle attuali
geometrie internazionali fino a cambiare radicalmente alleanze o ad
alzare il livello dello scontro. In questo senso solo l’apertura di
significative dinamiche di lotta di classe può, per fermarci ai punti di
frizione più importanti, portare la Germania e l’Europa alla rottura
dell’asse transatlantico o Cina e Russia alla formazione di un’alleanza
di controbilanciamento anti-americana.
Ciò comporta altresì un problema scabroso che si può
così formulare: a quali condizioni il precipitare dello scontro
inter-capitalistico determinato dal riattivizzarsi del proletariato può
evitare che quello scontro precipiti in guerra aperta e aprire invece a
un’alternativa di sistema? Oggi questo nesso lo possiamo vedere per così
dire in negativo: la difficoltà di reagire dal basso alla crisi, almeno
in Occidente, è anche determinata dalla percezione sotto traccia che
una risposta potrebbe appunto incasinare tutto il quadro e di questo si
ha paura anche in basso. In altri termini, mentre si inizia ad avvertire
che non si può più vivere come prima, ancora si vorrebbe vivere come
prima. È una contraddizione oggettiva che si tratta di mettere a fuoco
nelle diverse situazioni. Perché è evidente che davanti a noi avremo
situazioni di ripresa di mobilitazioni sociali in cui si tratterà di
tenere insieme la risposta alla crisi, il no alla guerra – nelle diverse
forme in cui questa si darà o, come dice Bergoglio, già si sta dando – e
un programma sociale e politico anticapitalistico, non ideologico ma
espressione del movimento reale.
Allora la domanda diventa: su quali terreni può darsi la
riattivizzazione proletaria per chiedere il conto della crisi, con quali
dinamiche e composizioni di tipo nuovo per condizionare il quadro
geopolitico in una determinata direzione piuttosto che in un’altra?
Insomma, come irrompe la lotta di classe dentro la geopolitica
imperialista (e come può romperla)? Tutto un lavoro, di ricerca e
politico, da fare (si potrebbe parlare di “inchiesta geopolitica”).
Finora abbiamo avuto solo il laboratorio latinoamericano (ovviamente non
generalizzabile) e, con esiti al momento non felicissimi, quello
nordafricano; mentre dinamiche di classe contraddittorie si sono
affacciate in Ucraina . Per non parlare, tema ancora più insidioso,
delle rivestiture “sociali” che tensioni geopolitiche e risposte
nazionalistiche assumono o assumeranno nella Russia putiniana o nella
Cina attuale.
Qui accenniamo a tre nodi, con un focus orientato prevalentemente sul nostro quadrante ma dalla portata forse più generale.
Primo. Il percorso classico delle socialdemocrazie (o, cum grano salis, della “sinistra”) sembra a tutti gli effetti concluso, senza
che ciò significhi che sono finite le istanze neoriformiste dal basso
le quali anzi riemergono dislocandosi su nuovi (o vecchi) terreni, lungo
linee nazionali (e neo-nazionaliste), indipendentiste, subnazionali,
territoriali, e altro o peggio ancora (v. opposizione all’euro). O per
altri versi su terreni più consoni a una ripresa potenzialmente
anti-sistema ma che non ci danno di per sé la soluzione, come il
cittadinismo degli indignados. Abbiamo e avremo a che fare con
situazioni, percorsi, composizioni e programmi assai spuri.
Secondo. Se si acuiscono le tensioni transatlantiche, dovremo aspettarci una ripresa decisa dell’antiamericanismo
trasversalmente alle diverse classi? In tal caso, come attraversarlo in
avanti da un punto di vista antagonistico senza regalarlo a
nazionalismi o, su un altro versante, a nostalgie gauchiste? Del resto
il tema è già aperto sul terreno delle politiche economiche
“anti-crisi”: basta guardare al nodo della lotta all’austerity dove
finora per la sinistra la risposta alla linea rigorista di Bruxelles e
Berlino dovrebbe essere quella espansiva di una Bce che faccia “come la
Fed” senza che sorga il minimo dubbio che dietro al “keynesismo
monetario” ci sia la strategia egemonica statunitense.
Terzo. Il nodo Europa e europeismo. Ci sono tre rischi ma spesso e volentieri se ne vede solo uno: il rischio sovranista,
anti-euro, ecc. Contrastarlo è essenziale per fare dell’Europa un
terreno più generale di conflitto. Ma andrebbe anche detto che finora
coniugare il “dentro” e il “contro” l’Europa si è rivelato assai
difficile. E allora è bene tener presente altri due rischi: quello giacobino per cui chi non si presenta da subito su un terreno a priori europeista è reazionario o va lasciato perdere; e il rischio europeismo a prescindere
per cui ci si lega le mani rispetto a un quadro contraddittorio che non
garantisce che l’internazionalizzazione possibile del conflitto passi
per forza di cose per il livello europeo.
Questi e altri temi possono forse servire a riaprire il discorso sulla soggettività
(anche quella che non ci piace…) all’altezza della situazione. Più si
scende nei gironi della crisi e più si accorcia infatti la distanza tra
questioni di classe e dimensioni geopolitiche. Ciò può indurre impotenza
nella sinistra anti-sistemica, al momento fuori dai grandi giochi. Ma
questa impotenza non si supererà se non si inizia a mettere a fuoco il
nesso tra lotte immediate, necessariamente “spurie”, e spunti di
“programma” che non dall’esterno ma da quelle condizioni e dinamiche
sociali possono emergere. Il nodo di fondo -inaggirabile con escamotage
organizzativi- è l’ambivalenza di una domanda ineludibile di desideri e
potenzialità individuali che però, anche quando si dà attraverso
un’azione collettiva, si ferma al di qua di una costruzione antagonista
al mercato perché ritiene sufficienti le piattaforme di socializzazione offerte dal capitalismo che si tratterebbe “solo” di depurare e democratizzare. Potente affermazione di autonomia… senza classe,
dell’esserci e decidere contro le mediazioni sociali e politiche, al
contempo incapace di affrontare il problema del potere costituito. È un
dato tutt’altro che ideologico, rimanda a quelle trasformazioni
strutturali del capitalismo degli ultimi decenni che hanno
paradossalmente coniugato astrattizzazione del lavoro e
autoattivizzazione dei soggetti nella forma di una meritocrazia
dell’intelligenza e delle capacità come capitale umano, facendo così
apparire la crescente espropriazione come appropriazione potenziale.
Ambivalenze della democrazia come terreno comune alla
rivoluzione e alla conservazione all’incrocio tra l’estensione
incredibile della condizione proletaria sussumibile alla finanza e le
istanze di riappropriazione della propria vita…
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