giovedì 27 agosto 2015

Ministero buffo e i dati veri del Jobs Act

Jobs Act. Il problema di fondo non è solo algebrico, ma anche politico. In Italia si persevera nell’idea che le informazioni statistiche siano un giocattolo ad uso e consumo dei governi e non invece il mezzo di sintesi che per eccellenza ci restituisce nitidamente i fatti
Il Mini­stero del Lavoro si era sba­gliato, facendo lie­vi­tare di 1.195.681 il numero di con­tratti avviati al netto delle ces­sa­zioni tra gen­naio e luglio di quest’anno. Un errore cla­mo­roso, che non può essere giu­sti­fi­cato come svi­sta nei cal­coli data la sua entità e che lo staff di Poletti cor­regge solo nel pome­rig­gio di ieri, eli­mi­nando dal sito le infor­ma­zioni con­te­nenti gli errori, così come se nulla fosse.
Nella mat­ti­nata invece rila­scia­vano una dichia­ra­zione su Repub­blica in cui l’errore di com­pren­sione e ela­bo­ra­zione dei dati era a carico degli stessi gior­na­li­sti che chie­de­vano chia­ri­mento. Insomma un modo inso­lito di rico­no­scere il merito in chi fa dav­vero il pro­prio lavoro.
Il pro­blema di fondo non è solo alge­brico, ma anche poli­tico. In Ita­lia si per­se­vera nell’idea che le infor­ma­zioni sta­ti­sti­che siano un gio­cat­tolo ad uso e con­sumo dei governi e non invece il mezzo di sin­tesi che per eccel­lenza ci resti­tui­sce niti­da­mente i fatti. Per­ché come già Paolo Sylos Labini nel suo sag­gio sulle classi sociali negli anni 80 “Un’analisi della strut­tura sociale che non fac­cia rife­ri­mento alle quan­tità si risolve in una pura fabu­la­zione” ed è quindi mano­vra­bile. Ma i dati non bastano serve anche l’onestà intel­let­tuale nella nar­ra­zione che segue l’analisi delle infor­ma­zioni sta­ti­sti­che, la stessa che dovrebbe gui­dare i governi e i pro­pri entou­rage, tec­nici o meno, pur sem­pre politici.
Dalle pagine di que­sto gior­nale ci si inter­ro­gava ieri sulla discre­panza dei dati pub­bli­cati nella tabella rie­pi­lo­ga­tiva del Mini­stero e quelli che era pos­si­bile rico­struire attra­verso le note men­sili, notando come già solo per i rap­porti di lavoro a tempo inde­ter­mi­nato, al netto delle ces­sa­zioni, si riscon­trava una dif­fe­renza di circa 303 mila contratti.
tabella Ministero Errata
Tabella Manifesto MF
A guar­dare la nuova tabella pub­bli­cata ieri si evince che al netto di alcune revi­sioni, ave­vamo for­nito una stima cor­retta dell’errore e quindi un cal­colo della situa­zione con­si­stente con la realtà. I con­tratti netti a tempo inde­ter­mi­nato tra gen­naio e luglio di quest’anno sono 117498 (non oltre i 420 mila come pub­bli­cato ieri). Guar­dando il totale rela­tivo a tutte le tipo­lo­gie con­trat­tuali si nota che i nuovi rap­porti netti di lavoro sono 1.136.172 e non 2.331.853. L’errore stava dun­que nei cal­coli, non nelle ope­ra­zioni di revi­sione (che sepa­rano lie­ve­mente le stime for­nite ieri su Il Mani­fe­sto ieri dai dati effet­tivi).
Secondo la com­po­si­zione per tipo­lo­gia si nota che solo il 10% dei con­tratti sono a tempo inde­ter­mi­nato, l’87.3% a ter­mine, l’apprendistato e i con­tratti clas­si­fi­cati come “altro” rap­pre­sen­tano rispet­ti­va­mente il 3.4% e il 2.2% dei con­tratti. Il giu­di­zio sulle riforme del governo rimane stabile.
tabella Ministero corretta
(clicca per ingrandire)
La noti­zia quindi sta nell’errore con­si­de­re­vole com­messo dallo staff del Mini­stero del Lavoro pub­bli­cando una tabella com­ple­ta­mente errata. Distra­zioni ed errori di cal­colo sono pos­si­bili, ma è inam­mis­si­bile che un uffi­cio sta­ti­stico non con­trolli prima di dare noti­zie in pasto alla stampa. L’entità dell’errore avrebbe dovuto far sob­bal­zare chiun­que in que­sti mesi abbia seguito le dina­mi­che del mer­cato del lavoro, tec­nici del mini­stero o gior­na­li­sti che siano.
Nel frat­tempo, se è vero che l’ufficio stampa del Mini­stero ha inviato nel pome­rig­gio di ieri un’agenzia alle reda­zioni alle­gando la tabella cor­retta, è altret­tanto vero che ini­zial­mente la giu­sti­fi­ca­zione a tali discre­panze, for­nita sulle pagine di Repub­blica in un arti­colo a firma di Valen­tina Conte, è stata del tutto ina­de­guata. Ini­zial­mente il dato non è stato smen­tito ma giu­sti­fi­cato in base al fatto che le infor­ma­zioni con­te­nute nel sistema ven­gono costan­te­mente aggiornate.
Ma le revi­sioni non pos­sono certo stra­vol­gere i dati sep­pure prov­vi­sori for­niti a venti e qua­ranta giorni dalla chiu­sura del mese di rife­ri­mento, altri­menti signi­fi­che­rebbe che le imprese pos­sono comu­ni­care avvia­menti e ces­sa­zioni di rap­porti di lavoro con dila­zioni tem­po­rali che non per­met­tono nes­suna valu­ta­zione dell’andamento del mer­cato di breve periodo e quindi delle riforme, ren­dendo il sistema sta­ti­stico sem­pli­ce­mente inutile.
Nella stessa dichia­ra­zione non emerge mai il bene­fi­cio del dub­bio: «Fa così anche l’Istat, ma nes­suno obietta mai», la dif­fi­coltà a capire i dati da parte dei cit­ta­dini è “il prezzo da pagare, spiega ancora il mini­stero, «per aver voluto dif­fon­dere gli aggior­na­menti una volta al mese, anzi­ché ogni tri­me­stre»”. Falso! L’Istat pub­blica ogni mese i dati e si pre­mura di for­nire il mese suc­ces­sivo le even­tuali revi­sioni. Il mini­stero del Lavoro potrebbe pren­dere esem­pio dal metodo Istat, senza lamen­tarsi della fre­quente pub­bli­ca­zione dei dati, che ser­vono ai cit­ta­dini pro­prio per dira­mare, oltre gli errori ingiu­sti­fi­ca­bili di cal­colo, la neb­bia pro­vo­cata da mesi di propaganda.

Berlusconismo o cosa? Ecco i veri motivi per cui l’Italia ha perso gli ultimi vent’anni di Paolo Ferrero

Renzi ha detto che il Paese ha perso vent’anni nella diatriba tra berlusconiani e antiberlusconiani. Si capisce perché Renzi affermi questo: volendo gestire dal Pd il progetto politico di Berlusconi, non può certo dichiararsi erede dell’antiberlusconismo. Contro queste affermazioni di Renzi, si levano nel centro sinistra, voci contrarie che ripropongono nella sostanza la divisione tra berlusconismo e antiberlusconismo e fanno ricadere sul primo l’intera responsabilità della crisi italiana. Questa discussione mi pare la classica discussione in cui tutte le posizioni sono sbagliate e prive di fondamento. 

La mia tesi è che il cancro del Paese, quello che ha impedito all’Italia di svilupparsi in questi ultimi vent’anni, che ha imbarbarito il Paese a livelli impensabili, è la Seconda Repubblica, di cui Berlusconi è solo un attore, non il regista. E’ la Seconda Repubblica, nata nei primissimi anni ’90 a mettere le basi per il disastro. Indubbiamente che Berlusconi e il berlusconismo sono state un cancro per il Paese ma che l’antiberlusconismo non è mai stata la soluzione a questa malattia ma semplicemente l’altra faccia della stessa medaglia. Non a caso il berlusconismo si è chiuso con i governi di unità nazionale in cui tutti insieme appassionatamente Pd e Pdl stanno distruggendo la Costituzione, il welfare e il diritto della classe lavoratrice per organizzarsi e far valere i propri diritti.
Vediamo quali erano le caratteristiche della Seconda Repubblica che hanno macinato il Paese.
In primo luogo la distruzione del potere e dei diritti della classe lavoratrice e l’esaltazione della centralità dell’impresa. La Seconda Repubblica nasce con l’abolizione della scala mobile (Amato ’92) e la concertazione (Ciampi ’93). In secondo luogo la scelta del sistema elettorale maggioritario che ha distrutto il sistema Costituzionale di democrazia parlamentare per introdurre in modo strisciante il sistema presidenziale. La Seconda repubblica nasce con l’abolizione del sistema elettorale proporzionale. Berlusconi e Renzi, in generale la riduzione della politica a rappresentazione teatrale, non sono altro che il frutto marcio delle politiche istituzionali impostate negli anni 90. In terzo luogo la scelta usare il debito pubblico per spostare soldi dalle tasche dei cittadini ai ricchi, agli speculatori, alle banche, raccontando ai cittadini che “non ci sono i soldi”. E’ dal 1992 (stangate di Amato) che il bilancio dello Stato italiano è in avanzo primario e cioè che regolarmente, ogni anno, il bilancio dello Stato per il complesso della spesa pubblica (dalla sanità alle pensioni arrivando fino alle armi e alle mazzette) è in attivo: cioè che gli italiani pagano più tasse di quanto lo stato spenda per il loro benessere e per finanziare le ruberie di politici ed imprenditori. Da 23 anni lo Stato italiano è in attivo – come nessuno in Europa – ma finisce in perdita solo a causa degli interessi da usura che paghiamo sul debito. E’ da 23 anni che ci sentiamo dire che lo Stato spende troppo quando lo Stato spende troppo poco e nel mentre regaliamo – legalmente e attraverso la separazione tra Banca centrale e governo – i soldi agli speculatori.
I vent’anni persi dall’Italia sono il frutto di queste tre scelte di fondo. La riduzione dei salari ha aperto la strada ad imprese che invece di investire innovare e aumentare la produttività del lavoro hanno vissuto parassitariamente sullo sfruttamento brutale della classe lavoratrice. I morti di fatica nei campi pugliesi sono il prodotto di questa idea demente di rilanciare il Paese attraverso lo sfruttamento selvaggio dei lavoratori e delle lavoratrici.
L’avanzo primario (siamo ad oltre 600 miliardi avanzo primario realizzato dal ’92 ad oggi) che viene presentato come un fatto positivo e virtuoso – si tratta in fin dei conti del fatto che lo Stato spende meno di quanto incassa – è al contrario il principale motivo per l’economia italiana è cresciuta in questi vent’anni meno della media europea. L’avanzo primario infatti ha determinato una situazione folle in cui ogni anno (fatto salvo il 2009) lo Stato toglie dall’economia italiana 2 o 3 punti di Pil (siamo arrivati fino al 6,5% di avanzo) e li regala agli speculatori nazionali ed internazionali attraverso gli interessi sul debito pubblico. Sono 20/40 miliardi di tasse che vengono sottratti all’economia italiana in quanto non rientrano in circolo attraverso la spesa pubblica. Se Keynes riteneva necessario per poter far funzionare l’economia avere una spesa aggiuntiva da parte della Stato, in Italia da vent’anni funzioniamo a rovescio: lo Stato toglie ogni anno decine di migliaia di miliardi dall’economia reale del Paese. In queste condizioni è impossibile che l’economia italiana cresca perché l’avanzo primario è una misura fisiologicamente recessiva.
Potrei proseguire ma mi fermo qui. Se l’Italia non funziona è perché i valori di fondo, l’idea della democrazia e le politiche economiche e sociali che contraddistinguono berlusconiani ed antiberlusconiani sono pressoché identiche e sono sbagliate. Renzi, che è la sintesi tra queste due tendenze, è un errore al quadrato. Salvini grufola nel liquame prodotto da queste politiche e Grillo sovente parla d’altro. Per questo serve una sinistra antiliberista alternativa al Pd.

Tutto succede e nulla accade di Alberto Burgio

Italia. La politica come amministrazione toglie ossigeno all’analisi. Il paradosso dell’era renziana
 
gelatoPos­sono suc­ce­dere cose senza che nulla di nuovo accada? Si direbbe un para­dosso, ma è la cifra dell’Italia al tempo del ren­zi­smo.
Avve­ni­menti si suc­ce­dono, per un verso, senza posa. Que­sto governo licen­zia leggi aber­ranti a raf­fica
(il Jobs act, il super­por­cel­lum detto Ita­li­cum, la «buona scuola»). Lavora ala­cre­mente a deva­stare la Costi­tu­zione, a sman­tel­lare il wel­fare, a pol­ve­riz­zare il sin­da­cato. Non perde occa­sione per radi­ca­liz­zare il mix di auste­rity anti­so­ciale e libe­ri­smo fiscale, e fa strame ogni giorno dei rego­la­menti par­la­men­tari rie­su­mando i fasti del tra­sfor­mi­smo e della «mala­vita». Eppure, con tutto ciò, non accade nulla che modi­fi­chi anche in pic­cola parte il quadro.
Per cui manca la mate­ria per un’analisi che accom­pa­gni il pro­dursi degli eventi svi­sce­ran­done via via signi­fi­cati impli­citi e ripo­sti. Con la com­pren­sione del con­no­tato restau­ra­tore del governo Renzi si è colto l’essenziale e risolto al tempo stesso ogni dilemma inter­pre­ta­tivo. La cro­naca non pro­duce alcuna novità sostan­ziale e ogni ana­lisi tende fatal­mente a ripe­tere se stessa.
Sap­piamo ormai da tempo chi è que­sto pre­teso cam­pione del cam­bia­mento: l’esecutore spre­giu­di­cato – rozzo ed effi­cace, effi­cace per­ché rozzo – del pro­gramma di nor­ma­liz­za­zione neo­li­be­rale del paese; il dele­gato deter­mi­nato e zelante del capi­tale pri­vato inca­ri­cato di garan­tire l’osservanza dei det­tami dell’eurozona senza al tempo stesso mini­ma­mente inter­fe­rire nelle due più vistose pecu­lia­rità ita­liote: l’arretratezza tec­no­lo­gica e il diva­rio tra Centro-Nord e Mezzogiorno.
 
Il che signi­fica in sol­doni oli­gar­chia, disoc­cu­pa­zione di massa e spe­re­qua­zioni cre­scenti. Detto que­sto, quanto pur rapi­da­mente accade sem­bra inscri­versi ordi­na­ta­mente nello schema, limi­tarsi a pro­iet­tare la siste­ma­tica rea­liz­za­zione del piano. L’incalzare degli avve­ni­menti pare risol­versi in un’esibizione di sur­place, in un falso movi­mento. Susci­tando l’impressione di vivere come al ral­len­ta­tore, in una zona di sab­bie mobili. E di assi­stere, tor­pidi e impo­tenti, al pro­prio affon­da­mento in assenza di con­trad­di­zioni, di con­flitti, di quelle con­vul­sioni che in altri fran­genti accom­pa­gne­reb­bero lo svol­gersi dei pro­cessi.
È così? Si tratta di un’impressione fon­data? E se sì, come spie­garla? Azzar­diamo due ipo­tesi,
restando in dub­bio su quale rite­nere più plausibile.
 
La prima chiama in causa la regres­sione della poli­tica ad ammi­ni­stra­zione, corol­la­rio della scom­parsa di qual­siasi oppo­si­zione. Cioè il fon­da­mento stesso della Costi­tu­zione mate­riale della Seconda Repub­blica. La poli­tica nella moder­nità vive del con­fronto tra diverse idee di società, tra diverse cul­ture, tavole di valori e di fina­lità. C’è stata poli­tica in Ita­lia sino al tempo della Guerra fredda e fin­ché il socia­li­smo è apparso una con­creta pos­si­bi­lità, auspi­cata o ese­crata. Dac­ché si è estinta l’idea di una pos­si­bile alter­na­tiva di società, la poli­tica è tra­mon­tata. Il con­fronto verte esclu­si­va­mente su aspetti tec­nici e sulle costel­la­zioni di inte­ressi da pri­vi­le­giare o discriminare.
Così que­sta ipo­tesi spiega il ridursi, sino a dile­guare, dello spa­zio dell’analisi poli­tica. Il venir meno del con­fronto poli­tico toglie ossi­geno al lavoro ana­li­tico. Lascia soprav­vi­vere solo la cro­naca, che si dispone disci­pli­na­ta­mente nel qua­dro ege­mone, uni­voco e inva­riante. Se que­sto è vero, l’Italia di Renzi non è affatto un ine­dito. La situa­zione è que­sta, in realtà, già da 15 o 20 anni. Ciò che carat­te­rizza l’oggi è il grado di evi­denza rag­giunto dal pro­cesso, il suo imporsi final­mente come un dato di fatto acqui­sito e non controvertibile.
 
C’è un’altra spie­ga­zione pos­si­bile, che rove­scia radi­cal­mente la pro­spet­tiva adot­tata. Si può infatti negare che non vi sia più mate­ria per ana­lisi che nel regi­strare il pro­dursi degli avve­ni­menti e lo svol­gi­mento dei pro­cessi ne indi­vi­duino tra­sfor­ma­zioni essen­ziali. Tutto dipende, stando a quest’altra ipo­tesi, dalle cate­go­rie d’indagine. Che vanno final­mente rin­no­vate di sana pianta per­ché i muta­menti veri­fi­ca­tisi nella poli­tica glo­bale sono stati pro­fondi, tale da infi­ciare cri­teri e rife­ri­menti ormai obso­leti. In effetti non lo si può esclu­dere. Il punto è che a ben vedere que­sta seconda ipo­tesi con­verge nella prima e non fa che riba­dirla.
Se cer­chiamo di cir­co­stan­ziare le ragioni dell’inattualità dei vec­chi stru­menti di ana­lisi per muo­vere verso la costru­zione di una nuova «cas­setta di attrezzi», la prima cosa che ci tro­viamo a dover ride­fi­nire è pro­prio l’idea di poli­tica. Che si può inten­dere in tanti modi e che nulla impone di ricon­durre al tema fon­da­men­tale dell’alternativa e della trasformazione.
Non è ine­vi­ta­bile assu­mere la pola­rità politica/amministrazione come si è fatto in pre­ce­denza. Men­tre si può benis­simo con­si­de­rare poli­tica a pieno titolo anche la mate­ria del con­fronto tra demo­cra­tici e repub­bli­cani negli Stati uniti, tra labu­ri­sti e con­ser­va­tori in Gran Bre­ta­gna, tra social­de­mo­cra­tici e demo­cri­stiani in Ger­ma­nia. Que­sto dice del resto oggi il senso comune, figlio della dot­trina that­che­riana dell’inesistenza di alter­na­tive al capi­ta­li­smo. Ma in que­sto modo non si fa che rico­no­scere che si è final­mente com­piuto anche in Ita­lia un muta­mento pro­fondo – forse epo­cale – rispetto al mondo sor­tito dalle guerre mon­diali.
Che gli uni sosten­gano che la poli­tica è morta, ormai sosti­tuita dall’amministrazione, dalla tec­nica di gestione dell’esistente, e gli altri repli­chino che essa si è sol­tanto tra­sfor­mata, che al tempo della mon­dia­liz­za­zione neo­li­be­rale la poli­tica coin­cide con la gover­nance e la gover­na­men­ta­lità, poco cam­bia. Comun­que si evoca un pro­cesso di nor­ma­liz­za­zione e l’instaurarsi di una pro­spet­tiva natu­ra­li­stica che, deru­bri­cato il tema della tra­sfor­ma­zione, dismette l’attitudine com­pa­ra­tiva con altre pos­si­bi­lità siste­mi­che. Di tale muta­mento è indi­spen­sa­bile pren­dere atto se si intende pre­ser­vare un inte­resse cri­tico. Se si tratti o meno di un muta­mento irre­ver­si­bile è dif­fi­cile a dirsi. Di certo lo sarà se non se ne è nem­meno consapevoli.

mercoledì 26 agosto 2015

"Il mal cinese si chiama capitalismo". Intervento di Domenico Moro

La crisi borsistica della Cina e dei cosiddetti emergenti sta destando grande preoccupazione in Europa e negli Usa. Non si tratta di una crisi puramente finanziaria. Dietro il crollo delle borse c’è il calo maggiore in sei anni e mezzo dell’indice della produzione manifatturiera, il crollo dell’export del -7,3% nei primi sette mesi del 2015 rispetto all’anno scorso, e il drastico rallentamento della crescita del Pil della Cina, ormai la seconda economia del mondo di cui negli ultimi anni è stata la vera locomotiva.

Insomma, quella che si profila non è soltanto una possibile crisi della Cina, del Brasile e degli altri emergenti. Si sta profilando un rallentamento, se non una crisi, della globalizzazione e il rischio che si verifichi un secondo e più devastante secondo tempo della crisi iniziata nel 2007-2008, con lo scoppio della bolla dei mutui, che ebbe come epicentro gli Usa. Gli effetti della crisi dei mutui si estesero a tutto il centro più sviluppato dell’economia mondiale, oltre agli Usa, all’Europa occidentale e al Giappone. A distanza di otto anni non si è ancora verificata alcuna completa “recovery” in questa parte dell’economia mondiale. Nonostante i reiterati Quantitative easing, cioè l’immissione di massicce dosi di liquidità da parte delle banche centrali, nei casi migliori il tasso di crescita del Pil è ancora al di sotto di quello potenziale, e nei casi peggiori (in Italia e nella maggior parte dell’area euro) la crescita è nulla e il Pil reale rimane ancora al di sotto del livello del 2007.

Se l’economia mondiale è cresciuta (poco) in questo periodo, e soprattutto se le multinazionali occidentali hanno potuto garantirsi un saggio di profitto elevato è stato principalmente grazie ai paesi emergenti e in particolare alla Cina. L’economia mondiale tra 2001 e 2007 è cresciuta mediamente per anno del +3,2%, ma le economie sviluppate solo del +2,3%, mentre i paesi emergenti sono cresciuti del +6%, e la Cina del +10,8%. Dopo lo scoppio della crisi dei mutui il contributo alla crescita mondiale degli emergenti e in particolare della Cina è stato ancora maggiore: tra 2008 e 2013 la crescita media annua mondiale è stata del +1,8%, ma quella dei paesi avanzati si è ridotta di un quinto al +0,5%, mentre quella dei paesi in via di sviluppo è stata registrata al +5,1% e quella della Cina al +9%.

La crescita mondiale, almeno negli ultimi 15 anni, si è basata su due pilastri: la speculazione finanziaria, fondata sul denaro a buon mercato e sull’espansione abnorme dell’edilizia, e l’integrazione sempre più forte di Paesi periferici nell’economia mondiale. Nei Paesi avanzati le economie manifestano da decenni una sovraccumulazione di capitale sotto forma di un eccesso di mezzi di produzione cui si accompagna una tendenziale caduta del saggio di profitto, le cui conseguenze si sono manifestate in forma finanziaria e mistificata con la crisi dei mutui. L’eccesso di investimento nei Paesi avanzati è stato risolto con l’esportazione sempre più massiccia di capitali verso i paesi emergenti e soprattutto verso la Cina.

La ragione è semplice: nei paesi periferici il saggio di profitto è più alto, grazie a salari più bassi e a condizioni di accumulazione meno sviluppate. Inoltre, i paesi periferici sono stati lo sbocco necessario alla sovrapproduzione di merci, conseguenza della sovrapproduzione di capitale, e hanno alimentato le tendenze neomercantilistiche di cui la Germania si fa promotrice. Ad esempio, per la Volkswagen da anni il primo mercato non è Germania bensì è proprio la Cina.
Di conseguenza, l’andamento degli investimenti fissi ha avuto un andamento del tutto divergente tra centro e periferia dell’economia mondiale. Tra 2001 e 2007 gli investimenti fissi lordi nei paesi in via di sviluppo sono cresciuti mediamente per anno del +8,6% contro il +2,3% delle economie sviluppate. Ancora più grande il divario registrato successivamente allo scoppio della crisi. Tra 2008 e 2012 i paesi sviluppati hanno visto un decremento annuo degli investimenti fissi lordi del -1,9% mentre i Paesi in via di sviluppo sono aumentati del +7,3%. La quota degli investimenti fissi mondiali localizzati nei paesi emergenti passa dal 22% al 40% tra 2000 e 2012. Una parte consistente di questi investimenti viene dall’estero, da imprese multinazionali e transnazionali occidentali e giapponesi.

Quanto la Cina sia stata centrale per le imprese multinazionali estere e per il mantenimento di un elevato saggio di profitto è dimostrato da dati provenienti dall’istituto di statica cinese (Press release del 29 agosto 2014). Tra gennaio e luglio 2014 le imprese industriali di Stato cinesi hanno realizzato una crescita dei profitti del +6,3%, quelle collettive del +2,3%, mentre le joint stock enterprises hanno realizzato una crescita del +10,6%, le imprese private del +13% e le imprese straniere del +16,1%. In questi anni, l’economia cinese si è integrata fortemente con l’economia mondiale e soprattutto con quella dei paesi avanzati, entrando a far parte delle catene del valore mondiale, cioè inserendosi nelle divisione internazionale del lavoro. In questo modo l’economia cinese si è modificata nella sua struttura diventando sempre più incentrata sulle imprese private. La stesso diverso grado di crescita dei profitti, che denota una diversa velocità di accumulazione dei settori privato e pubblico, rappresenta la base della tendenza alla riduzione dello spazio economico occupato dalle imprese statali e cooperative. Sempre tra gennaio e giugno 2014 i privati e le imprese straniere hanno realizzato 1.900 miliardi di yuan di profitti, le joint stock enterprises 2.214 miliardi, mentre le imprese statali e cooperative solo 900 miliardi.

Probabilmente quella a cui assistiamo oggi è la manifestazione delle inevitabili conseguenze di una sovraccumulazione di capitale che si presenta anche in Cina dopo anni di forti investimenti fissi sostenuti da alti profitti. Ciò non meraviglia, dal momento che la Cina è parte del mercato mondiale e integrata nella divisione internazionale del lavoro e soprattutto dal momento che in Cina l’industria privata e quella a base straniera hanno acquisito una importanza rilevante sull’economia generale. È ancora presto per definire la gravità di quello che sta accadendo e per capire quanto e quanto rapidamente la Cina riuscirà a recuperare.
Sicuramente se prima era eccessivo vedere la Cina come nuovo leader economico mondiale scevro da fragilità e contraddizioni, oggi non bisogna cadere nell’eccesso opposto di considerarla come ormai esaurita.
Rimane il fatto che l’integrazione con il mercato mondiale e con le economie capitalistiche espongono qualsiasi Paese quantomeno a contraccolpi e a squilibri che sono tipici e immanenti alla natura stessa dell’economia capitalistica. Questo vale anche per la Cina che, a dispetto delle dimensioni, presenta forti fragilità e squilibri interni tra città e campagna e a livello demografico.

In ogni caso anche il solo rallentamento della Cina mette in difficoltà il modo di produzione capitalistico mondiale e il suo centro, per il quale la Cina e, in misura minore il resto degli emergenti, aveva rappresentato una valvola di sfogo importante non solo per le esportazioni di capitale e di merci ma anche per la possibilità di avere beni di consumo a basso prezzo e così mantenere stabili o ridurre i salari dei lavoratori salariati nei paesi avanzati. Nel caso in cui il rallentamento dell’economia reale della Cina e degli altri emergenti fosse confermato o, a maggior ragione, se si aggravasse a fronte di un’area euro in evidenti difficoltà e agli Usa, che vanno avanti a furia di Quantitive easing, l’economia mondiale e quella dei paesi avanzati potrebbe andare incontro ad una nuova recessione. Non è un caso che il crollo della borsa di Shangai si sia immediatamente ripercosso sulle borse di tutto il mondo avanzato. Il vero problema non è la Cina, ma un modo di produzione capitalistico che non riesce più ad andare avanti.

Va rilevato, infine, che, di fronte alla difficoltà cinesi, gli occidentali si stanno rivelando estremamente generosi in consigli, visti i loro successi economici. Anche alla Cina viene raccomandato un Quantitative easing, che del resto il governo sta già attuando, ma soprattutto viene raccomandato di andare avanti nelle “riforme”. Le riforme di struttura, come in Europa e in Grecia, anche in Cina assurgono al ruolo di formula magica in grado di risolvere ogni problema. Quindi, come suggerisce Napoletano, il direttore del Sole24ore, il governo cinese deve liberarsi definitivamente delle tendenze programmatorie e proseguire massicciamente con le privatizzazioni e con le liberalizzazioni. Il punto invece è esattamente l’opposto. La Cina, col comprensibile obiettivo di sviluppare le forze produttive e uscire dal sottosviluppo, si è aperta al mercato mondiale e agli investimenti esteri e privati.

Tale “apertura”, accanto a evidenti vantaggi sta però mostrando alla lunga l’altra faccia della medaglia, rappresentata da uno sviluppo squilibrato che rischia di essere senza controllo. La quasi concomitanza dei due eventi è un caso, ma è comunque significativo delle problematiche connesse con questo tipo di sviluppo il pressoché contemporaneo verificarsi del disastro di Tianjin e del crollo borsistico cinese. La Cina ha bisogno non di più capitalismo, ma, semmai di più socialismo.

Il dibattito sulle scelte di Tsipras di Alfonso Gianni


TSIPRAS

Capita purtroppo di rado di leggere delle critiche non faziose né infantili alle scelte operate da Tsipras in queste settimane. Quindi, quando questo avviene, non va persa la discussione per approfondire il dibattito. Nella fattispecie mi riferisco al post di Giacomo Russo Spena, postato nel suo blog, che insieme a Matteo Pucciarelli è stato tra i primi a scrivere in modo approfondito dell'avventura di Alexis Tsipras e di Syriza.
Le critiche di Russo Spena, possono essere così sinteticamente riassunte: Tsipras avrebbe sottovalutato i rapporti di forza sfavorevoli alla Grecia; non ha compreso il ruolo del Pse, della socialdemocrazia europea, riponendo quindi speranze del tutto infondate in quest'ultima, in Hollande e persino in Renzi; non avrebbe preparato il famoso piano B tanto reclamato da Varoufakis; ha eluso il programma elettorale originario, quello di Salonicco; infine ha ridotto in frantumi Syriza, costruita con tanta fatica.
Sono critiche precise che nessuno può eludere. Non ho l'ambizione di sciogliere d'incanto questi nodi, ma semplicemente di avanzare qualche osservazione. L'argomentazione della sottovalutazione dei rapporti di forza e del ruolo negativo della socialdemocrazia non può essere rovesciata su Tsipras. Chiama in causa le responsabilità di quest'ultima. È stata proprio la vicenda greca che ha messo a nudo la totale sottomissione della socialdemocrazia europea, o quantomeno della parte più rilevante della medesima, alle politiche di austerity e di inflessibilità nei confronti della Grecia.
Si poteva dire che era proprio tutto così anche prima? Certo a pensare male ci si prende sempre, come diceva un celebre personaggio della prima Repubblica italiana. Ma in questo modo si nega, o quantomeno si sottovaluta - qui sì - il peso che hanno i processi reali sulla maturazione delle posizioni delle forze politiche. Non si sarebbe potuto dire che Sigmar Gabriel si potesse collocare addirittura a destra della Merkel, se il governo greco non avesse costretto ognuno a scoprire le carte. Magra consolazione? Forse. Ma se, come è accaduto in altre circostanze e fasi storiche, la valutazione sui rapporti di forza sfavorevoli avesse inibito fin dall'inizio qualunque resistenza e reazione da parte del governo greco, oggi la situazione politica in Europa, e non solo, sarebbe molto più grigia e più piatta.
Non si sarebbero aperte le falle vistose che oggi vediamo: il Fmi che dice apertamente ciò che i greci hanno sempre sostenuto, ovvero che il debito di quel paese - e non solo - non è sostenibile senza un taglio del suo valore nominale; Olanda e Finlandia che hanno preso una posizione finalmente non identica a quella tedesca; la stessa riapertura di un dibattito dentro e fuori la Germania sulla intransigenza della Merkel.
A questo va aggiunto un punto essenziale. In autunno si andrà a una discussione sulla ristrutturazione/riduzione del debito greco. Ma la questione non riguarda solo quest'ultimo, ma il debito sovrano dei paesi europei nel loro complesso. Non è il remake della Conferenza di Londra chiesta nel programma di Salonicco, ma è un punto di novità che non ci sarebbe stato senza l'insistenza dei greci. Naturalmente la partita è apertissima e difficilissima su questo fronte, ma, appunto, si è aperta una nuova fase. Come sarà difficilissimo evitare che gli aspetti più odiosi di un "accordo" in sé brutto vengano elusi. Qui c'è un'altra novità che non deve sfuggire. Il governo greco non ha mai presentato l'accordo come una vittoria. Non ha nascosto la sua negatività e i suoi caratteri recessivi. Ma ha chiarito che non esiste solo il testo ma anche il contesto, ovvero ciò che si è movimentato in Europa. E quest'ultimo non è il quadro che i creditori presentavano prima del referendum.
Era possibile un piano B? A parte il fatto che per molti quello avrebbe dovuto essere il piano A (l'uscita da l'euro), ogni piano di riserva sconta la debolezza intrinseca di non potere essere sperimentato. Lo stesso Varoufakis ha detto che se ne è parlato, ma al dunque non vi erano le condizioni per attuarlo. Qui non si tratta di capire in quanto tempo di poteva stampare valuta alternativa o tornare alla dracma - in fondo dettagli, anche se importanti - ma di come bloccare la fuoriuscita dei capitali in tempo reale, di come indicizzare i salari per reggere l'inevitabile rimbalzo inflazionistico, di come salvaguardare il piccolo risparmio e altro ancora. Concordo che una riflessione maggiore su queste tematiche avrebbe permesso al governo greco e al gruppo dirigente di Syriza di trovarsi con una via di uscita che non fosse cadere nelle braccia di Schauble, cioè della Grexit pura e semplice. Ma questa è una critica che dobbiamo rivolgere in primo luogo al complesso della sinistra antagonista europea, prigioniera di un dibattito euro - non euro che non porta da nessuna parte. Il limite o gli errori di Tsipras in questo campo vanno quindi molto suddivisi e contestualizzati pur sapendo che mal comune non fa mezzo gaudio.
Proprio la distanza fra il programma di Salonicco e la situazione attuale motiva fortemente la scelta delle elezioni anticipate. Si tratta di chiedere un mandato su un programma diverso, anche se non opposto, come invece dicono gli scissionisti di Syriza e i loro estimatori. Questa scelta porta alla frantumazione Syriza? Anche qui non sottovalutiamo le responsabilità di chi la scissione - tutt'altro che inevitabile - la promuove, altrimenti facciamo di Tsipras un deus ex machina in assoluto.
Qui arriviamo a un punto rimasto in ombra nella discussione. Ovvero la decisione di andare alle elezioni anticipate doveva passare prima attraverso un congresso di Syriza? La mia risposta è: non necessariamente. Non solo perché la democrazia in un paese è cosa più importante di quella in un partito. Neppure per una questione di tempi. Ma perché è bene che Syriza si tenga fuori dalla idea, che tanto male ha fatto nella storia del movimento operaio, del partito-stato o, nella versione attuale, del partito-governo. Non è Syriza che prende le decisioni per la Grecia, ma il governo eletto in libere elezioni - che Syriza ha contribuito a vincere in modo determinante - e quando questo non è in grado di farlo perché ritiene il suo mandato esaurito o superato, sono ancora libere elezioni a doversi assumere la responsabilità di tracciare la direzione per il Paese. Non è forse questa un'applicazione concreta di quel mix tra democrazia delegata e democrazia diretta che a livello teorico siamo in molti ad auspicare?
Quanto a Varoufakis. Ho molto apprezzato la sua recente intervista a Le Monde. Mi pare che voglia tirarsi fuori dalla immediatezza delle vicende greche e lavorare di più in uno scenario europeo, per creare un movimento d'opinione che disveli i segreti di trattati capestro come il TTIP. Da qui il suo apprezzamento della figura di Julian Assange e la riproposizione delle ricette per superare la crisi dell'euro elaborate da lui stesso nel 2010 assieme a Stuart Holland e James Galbraith. Meno convincente è che tutto ciò che la Germania fa lo faccia per punire la Francia. Mi pare che i francesi si mortifichino da soli e al di là di qualche dichiarazione il loro allineamento alla Merkel in tutta questa vicenda sia stata la scelta prevalente.
Ciò che ha in mente l'elite tedesca è piuttosto quello di ridurre l'Europa a un protettorato tedesco, rinunciando alla presenza dei paesi che non accettano questa logica e di giocarsi così la sfida della globalizzazione. In parte già avviene con i paesi nordici. Dove si vede che la questione della moneta conta relativamente. La Polonia ha il suo zloty, ma è un pezzo del sistema produttivo allargato tedesco. Uscire dall'euro, per finire in pasto ai mercati finanziari internazionali o essere un ingranaggio ancora più bloccato nella catena di produzione del valore tedesco non è una grande scelta. Ma mi rendo conto che qui la discussione richiede ben altri approfondimenti che lo spazio non concede.

La sinistra rinasce solo dalla coscienza sociale di Marco Sferini


Red flag ridGli appelli che si sono succeduti in questi anni in favore dell’unità delle forze della sinistra avevano come nobile scopo quello di riunire in una sintesi politico – programmatico – organizzativa gran parte della diaspora di varie culture progressiste che si è formata in Italia da qualche decennio a quasta parte.
Sento dire, da più parti, che tutti questi esperimenti sono falliti per tendenze settaristiche, per l’autoconservazione dei gruppi dirigenti e per fattori anche, ovviamente, esterni alle diatribe che sono nate negli anni tra i partiti e le forze politiche e sociali  della sinistra.
Io ritengo che questo fallimento sia anche da attribuire al mutamento sociale e culturale del Paese: dopo craxismo e berlusconismo, si è fatta avanti una incultura del leader e un personalismo esasperato in ogni settore della società.
La pubblicità delle idee è passata non più attraverso la conquista di valori provenienti dalle coscienze, bensì dalla comunicazione diretta, visiva e che ha scavalcato la capacità critica di ciascuno, trovando terreno fertile dell’approssimazione, nel pressapochismo, nel brodo di coltura più elementare: la facilità rispetto allo sforzo.
Ha favorito questo processo di alienazione dai valori sociali e dalla coscienza critica individuale, una gestione della cosa pubblica che ha mostrato quanto i politici siano profondamente umani da non riuscire ad elevarsi al livello dei platonici governanti della Repubblica, quanto a dimostrare che tutti i vizi e i desideri personali sno stati appagati con lo sfruttamento della delega, del potere.
E così, per proprietà transitiva, il “politico” è diventato sinonimo di “ladro”. E un sinonimo non conosce eccezioni: è un sinonimo per quella parola sempre. Quindi nella descrizione quotidiana della politica, il furto, l’abuso di potere, la ruberia ai danni del popolo, manifesta e manifestatasi ampiamente in questi decenni, è diventata il regime costante della vita sociale e istituzionale di una Repubblica già molto maltrattata nei lustri precedenti.
E se il “politico” è “ladro” per antonomasia, i “partiti” sono il luogo dove nascono, crescono e si formano i “ladri”.
Tutto torna e qualcuno ha sapientemente creato un partito, che si chiama Movimento 5 Stelle, proprio su questo impianto filosofico – politico.
Le parole d’ordine per entrare negli ingranaggi del potere senza essere confusi con esso dalla massa da strumentalizzare sono state: “Vaffanculo”, “Casta”, “Loro”, “I politici”, “I partiti”.
Una unicità di concetti che esclude, ovviamente, soltanto il purissimo movimento diretto da Grillo e Casaleggio che intercettato una protesta sacrosanta usando un metodo peloso, tutt’altro che vergine e candido.
La sinistra socialista assorbita e annichilita nell’operazione veltroniana prima e renziana poi del Partito Democratico; la sinistra comunista e di alternativa prosciugata da una attrazione dei consensi verso i pentastellati e la Lega Nord e, ancora di più, nell’inerte regno del “non voto”, del disprezzo completo.
Fino a pochi giorni fa ci auguravamo che Syriza fosse d’esempio per tutti noi e ci indicasse, sia programmaticamente che organizzativamente, una via da mutuare anche in Italia.
Le trattative tra Atene e Bruxelles sui prestiti necessari per evitare il disastro greco a tutto tondo sono state un’arma vincente per la Troika. Hanno saputo logorare tanto il governo Tsipras quanto Syriza.
La mossa del ricorso al voto può avere un valore di ripresa di lotta se ne nascerà un governo esclusivamente di sinistra: Syriza e Unità popolare potrebbero essere le forze pronte a guidare un nuovo esecutivo che gestisca la fase di applicazione degli accordi cercando di spostare l’asse degli interventi a favore dei ceti più deboli, di quel proletariato che altrimenti sarebbe intercettato dai neonazisti di Alba Dorata.
Ma il punto rimane: Syriza oggi è divisa in tre tronconi. Per ora la partita la vince il capitale, la vince la Troika e Mario Draghi può tranquillamente affermare di aver difeso la moneta unica europea da un tracollo che a cascata avrebbe avuto conseguenze in Portogallo, Spagna, Irlanda.
E ora, la domanda che mi sento di rivolgermi e di rivolgervi è questa: se il partito di sinistra antiliberista e radicale più forte che c’era in Europa non è stato capace di forzare gli eventi anche col sostegno del referendum popolare, del famoso “OXI” barrato sulle schede dal 60% dei greci; se Syriza non è stata in grado di evitare la firma di un memorandum che impone alla Grecia, in cambio di altri prestiti, una serie di privatizzazioni in campo pubblico, una revisione dei contratti nazionali di lavoro, una nuova introduzione di precarietà dilagante, portanto Tsipras ad ammettere che il programma originario di Syriza non ha trovato applicazione; se tutto questo è successo, come potranno altre forze di sinistra radicale o presunte tali, come Podemos in Spagna, come il Sìnn Fein in Irlada, il Front de Gauche in Francia, la Linke in Germania, sperare di raccogliere consensi promettendo una lotta senza quartiere con le istituzioni bancarie e politiche europee?
Se alla fine vince il capitale, quale è il senso della lotta? E, soprattutto, ha un senso fatta per nazioni separate, senza un Partito della Sinistra Europea che sia l’unico interlocutore nei confronti delle istituzioni europee?
In poche parole, condivido il pensiero di chi mi dice: abbiamo tutti lasciato da sola Syriza in questa battaglia. La Sinistra Europea non ha sostenuto come doveva essere fatto questo partito greco coraggioso che oggi rischia di essere consumato da una contrapposizione troppo grande rispetto al generoso impegno di milioni di greche e greci.
E, se questo è il contesto complessivo che ci si presenta nel prossimo futuro, che speranze hanno i propositi italici di riunire la sinistra di alternativa in un soggetto politico unitario?
Non ho una risposta. E non è la prima volta che mi capita in questi mesi. Posso formulare degli auspici basati su una mia idea tutta politica e anche organizzativa.
Senza un contesto sociale e culturale nuovo non c’è assemblamento anche possente che possa tenere. Serve una rielaborazione di categorie di interpretazione dei problemi sociali; serve una rinascita di un protagonismo di massa che oggi viene abilmente diretto solo dal Movimento 5 Stelle.
Senza una “domanda di sinistra” non può nascere nulla. Siamo sicuri che la creazione della “domanda di sinistra” possa essere indotta invece che essere ispiratrice di un nuovo patto anticapistalista?
La questione culturale non riguarda soltanto le persone, i cittadini, i lavoratori e le lavoratrici, gli studenti…
La questione culturale è ideologica quando riguarda la rinascita della sinistra.
Una sinistra che sia soltanto “radicale” e che si ponga in alternativa a PD e alle destre tutte è certo un ottimo paso, ma è insufficiente risetto al quadro politico e sociale che ci troviamo davanti.
Io ammiro i compagni e le compagne che si propongono la ricostituzione in Italia del Partito Comunista. Li ammiro politicamente, ma penso che commettano un errore di fondo: il partito si ricostruisce non da una idea di pochi, ma da una esigenza delle masse, dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati.
In questo frangente noi possiamo almeno augurarci che la ricerca dell’unità a sinistra svolga due compiti: rappresentanza elettorale unitaria e ben chiara in tutta Italia sotto un simbolo riconoscibile e non achiviato dopo pochi mesi; autonomia dei soggetti proponenti in merito ad una politica esercitata tra le persone che faccia doppia “propaganda”: culturale e sociale.
Torniamo a spiegare le ragioni dello sfruttamento, perché si vive, anzi si “sopravvive”, in questo misero modo, in questa quotidianità fatta di invibile futuro. Parimenti esercitiamo questa critica per dimostrare che nessun altro propone una alternativa dirompente come la nostra e che solo sovvertendo l’attuale stato di cose è possibile ricongiungere forze sindacali, politiche e sociali in una unica lotta per il lavoro, la scuola pubblica, le pensioni, la salute, l’ambiente. Ma tutto questo deve servire ad un obiettivo molto più lontano.
Solo con la consapevolezza del desiderio di voler vivere in una società rovesciata rispetto a quella attuale, solo così si potrà far rinascere il partito dei comunisti nella sinistra di alternativa italiana, dando forse un contributo concreto ad una sinistra europea che, ad oggi, è troppo impercettibile.

martedì 25 agosto 2015

C’era un cinese in coma: la barzelletta delle borse Di ilsimplicissimus


Cinese in comaChe qualcosa non funzioni nelle narrazioni ufficiali lo dimostra il fatto che il crollo delle borse asiatiche e in particolare cinesi avviene perché gli investitori (leggi grandi banche e istituti finanziari che controllano il risparmio mondiale) fanno finta di essere spaventati dai dati economici di Pechino e in particolare dal rallentamento dell’industria: quest’anno il pil cinese aumenterà appena del  7 e qualcosa per cento. Vale a dire tre volte di più rispetto ai dati ufficiali e ahimè pesantemente taroccati in eccesso degli Usa, cinque o sei volte più della Germania e 35 volte più dell’Italia che pure sta attraversando quel popò di miracolo renziano come ogni giorno i media maistream  e i “semplici cittadini” milionari ci fanno sapere.
Questo significa che al di là delle apparenze le borse non hanno più alcuna attinenza con l’economia reale e perciò stesso con le persone: i listini, le aziende quotate, i prezzi delle materie prime non sono che una sorta di segnaposto come quelli in uso nei casinò, sono i prestanome di un’economia che produce denaro dal denaro. Del resto già l’anno scorso era uscito uno studio che dimostrava come gli aumenti azionari delle aziende statunitensi volati verso le stelle dopo la prima botta della crisi, erano di molte volte superiori all’aumento delle redditività che anzi a causa della domanda declinante facevano segnare solo aumenti nominali e diminuzioni reali. Tutto questo viene alimentato dal denaro a costo zero (naturalmente per le banche e le aziende, mica per i semplici cittadini che sono anzi spremuti senza pietà) sia in Usa che in Europa e negli ultimi anni anche in Asia: un  flusso di denaro necessario a mantenere in vita una bolla simile  a un buco nero, dove le leggi del mondo normale non valgono più. A un’impresa di una certa dimensione ormai conviene usare il denaro non per investirlo in produzione e servizi, ma per per comprare le proprie azioni sul mercato, farle crescere, realizzare un utile che poi viene riutilizzato in nuove operazioni dello stesso genere.
Quindi non stiamo parlando di una bolla particolare, ma semplicemente del fatto che le borse stesse sono divenute la bolla nella quale respira il capitalismo finanziario, la placenta nella quale si nutre. Ma per crescere ha bisogno del nutrimento fornito dai quantitative easing, cioè del denaro  che alla fine saranno i cittadini a dover pagare sotto varie forme, compresa la crisi della democrazia e l’aumento dei profitti che ciò permette. Per questo assisteremo nelle prossime settimane a una volatilità senza precedenti, alle montagne russe: i grandi decisori hanno preso il pretesto del presunto declino cinese, del resto simmetrico al calo della domanda occidentale, per creare un’incertezza che eviti la fine del quantative easing della federal reserve, ossia l’aumento dei tassi da tempo annunciato per settembre che fatalmente trascinerebbe analoghe decisioni della Bce.
Non è ancora tempo di un ritorno all’economia reale, quello avverrà quando verrà al pettine l’enorme massa dei derivati, ossia il peso delle scommesse più azzardate che hanno ipotecato il futuro per parecchi decenni visto che assommano a diverse decine di volte il pil mondiale. Tanto per dare un’idea la sola Deutsche Bank ne detiene per oltre 50 mila miliardi di euro, vale a dire il valore del pil tedesco per vent’anni. Adesso siamo solo alla messinscena del possibile crollo (testimoniato dagli strani rimbalzi e cadute nel giro di poche ore) per evitare quello vero.

“Perugina: evitare l’ennesimo disastro industriale in Umbria”


Perugina, si prepara un autunno caldo: «Stanchi del silenzio Nestlé, pronti a sciopero»

Assemblea dei lavoratori a San Sisto: dichiarato lo stato di agitazione. Rsu: «Crollano i volumi e l'azienda non fa nulla». Greco (Cgil): «Così si rischia di arrivare a licenziamenti»
Perugina, si prepara un autunno caldo: «Stanchi del silenzio Nestlé, pronti a sciopero»
Gli operai in presidio a San Sisto (foto Archivio Umbria24)
di Ivano Porfiri
Si annuncia un autunno caldo dalle parti di San Sisto. A un anno dalla firma del contratto di solidarietà tra Nestlé e sindacati i volumi produttivi continuano a calare, gli stipendi sono dimagriti, ma non arriva nessun segnale concreto di rilancio da parte dell’azienda. Eccezion fatta per gli impegni a esportare il Bacio verso nuovi mercati, giunti dall’Expo di Milano, è il piano industriale a latitare. E così la clessidra va colmando la misura della pazienza e potrebbe portare allo scontro.
Assemblea Sindacati e Rsu, lunedì 24 agosto, hanno convocato i lavoratori per fare il punto della situazione, in coincidenza con l’inizio della cosiddetta “curva alta” della produzione. «Una curva – spiega a Umbria24 Michele Greco della Flai Cgil – che tanto alta non è quest’anno, se si considera che dall’anno scorso abbiamo perso oltre 3 mila tonnellate. I lavoratori sono stanchi, vogliono lavorare, hanno già pagato il mantenimento degli impegni con la riduzione degli stipendi dovuta alla solidarietà. Mentre dall’altra parte, il silenzio assoluto: niente piano industriale, niente diversificazione produttiva. Se si continua così, gli esuberi diventeranno licenziamenti e noi non possiamo permetterlo».
I numeri Un anno fa, Nestlé dichiarò 210 esuberi tra i mille lavoratori di San Sisto a fronte di una produzione superiore alle 26 mila tonnellate. I licenziamenti vennero scongiurati per 24 mesi con la firma del contratto di solidarietà. A marzo scorso, però, in un incontro con i sindacati a Milano l’azienda ha prospettato investimenti che permetteranno nel 2015 di arrivare ben sotto le 25 mila tonnellate. Si parla addirittura di 23 mila. «Sono proiezioni di budget dichiarato – precisa Greco – quindi non è neppure detto che ci si arrivi». Ed è chiaro che, se fra 12 mesi (alla scadenza del contratto di solidarietà) i livelli continueranno a essere questi, i 210 potrebbero addirittura aumentare.
Rilancio o ridimensionamento? «Il conto sugli esuberi è complesso – spiegano i coordinatori delle Rsu Turcheria, Mezzasoma e Rosini- e chi spara numeri su possibili licenziamenti non dice la verità perché l’azienda potrebbe far pagare il conto con modalità diverse, anche con riduzione di ore. Il problema vero è che non si sta rispondendo alla domanda di fondo che vorremmo porre a Nestlé e cioè: finita la solidarietà si pensa a un rilancio a una un ridimensionamento? Il silenzio su questo è inquietante nella fabbrica che si dichiarava su cartelli appesi all’interno che doveva diventare la più importante al mondo per il cioccolato».
Il Bacio non basta Secondo le Rsu «pensare che San Sisto si possano mantenere mille lavoratori solo col Bacio Perugina è utopia. Il periodo di fermo fisiologico della fabbrica si è allargato ormai a 4-5 mesi. L’unica strada che si può imboccare è quella di intraprendere una produzione contro-stagionale o ex novo oppure, come proponiamo da tempo, investendo su caramelle e biscotti, cose che in Perugina sappiamo fare molto bene».
Il conto ai lavoratori In questa situazione, in verità, c’è già chi ha cominciato a pagare il conto. Oltre agli stipendi ridotti del 30% per la solidarietà, la riduzione dei volumi colpisce in modo diretto, intanto, i lavoratori stagionali (un bacino tra i 200 e i 250), che quest’anno hanno perso un mese di lavoro, secondo i sindacati. E anche i part-time sono stati richiamati in ritardo rispetto al solito.
Stato di agitazione Nel corso dell’assemblea, è stata quindi presentata e approvata una linea di inasprimento della vertenza con tanto di dichiarazione dello “stato di agitazione”. «Abbiamo deciso un cambio di marcia netto – afferma Greco -. Abbiamo inviato la lettera che avevamo annunciato per chiedere formalmente un tavolo ministeriale sulla vertenza. Se nel giro di qualche settimana non avremo risposta o il ministero ci comunicherà che l’azienda non vuole incontrarci, partiremo con una serie di azioni di lotta, coinvolgendo tutti i soggetti interessati, cioè l’intera città di Perugia e la Regione Umbria, perché toccare la Perugina significa colpire Perugia e l’Umbria. Sia chiaro che siamo pronti anche allo sciopero, anche se ci auguriamo di non arrivarci».
Istituzioni coinvolte Lavoratori e sindacati si augurano di avere al proprio fianco le istituzioni, cittadine e regionali. «Dalla presidente Marini abbiamo avuto un impegno durante la campagna elettorale, che ora chiediamo di rendere concreto portando le nostre istanze a livello nazionale – chiarisce Greco – perché Nestlé non può continuare a far finta di niente».
Prc con i lavoratori Rifondazione comunista dell’Umbria esprime il «pieno sostegno a lavoratori e sindacati della Perugina. La situazione che si sta determinando – sottolinea il segretario regionale Enrico Flamini – è davvero preoccupante, Occorre evitare l’ennesimo disastro industriale in Umbria. Tra cassa integrazione e contratti di solidarietà, le lavoratrici e i lavoratori hanno fatto sacrifici enormi per rilanciare la produzione. L’incertezza sulle volontà della proprietà è molto pesante, così come il silenzio sul piano di rilancio. Elementi quest’ultimi purtroppo già ampiamente evidenti dal mancato rientro di centinaia di lavoratori stagionali. Lo ribadiamo: la Perugina è un valore assoluto per Perugia e per tutta l’economia regionale. Ora le elezioni sono passate. Bene fa il sindacato a ricordare gli impegni presi dalla presidente Marini in campagna elettorale. Ora si tratta di agire e non di continuare ad essere completamente subalterni a Renzi. Non è tollerabile continuare sostanzialmente a far finta di niente. Per questo appoggiamo e appoggeremo tutte le iniziative di lotta che le lavoratrici e i lavoratori intenderanno intraprendere»

Flamini/Prc: “Perugina: evitare l’ennesimo disastro industriale in Umbria”

Rifondazione comunista dell’Umbria intende esprimere il pieno sostegno a lavoratori e sindacati della Perugina. La situazione che si sta determinando è davvero preoccupante,  Occorre evitare l’ennesimo disastro industriale in Umbria. Tra cassa integrazione e contratti di solidarietà, le lavoratrici e i lavoratori hanno fatto sacrifici enormi per rilanciare la produzione. L’incertezza sulle volontà della proprietà è molto pesante, così come il silenzio sul piano di rilancio. Elementi quest’ultimi purtroppo già ampiamente evidenti dal mancato rientro di centinaia di lavoratori stagionali. Lo ribadiamo: la Perugina è un valore assoluto per Perugia e per tutta l’economia regionale. Ora le elezioni sono passate. Bene fa il sindacato a ricordare gli impegni presi dalla Presidente Marini in campagna elettorale. Ora si tratta di agire e non di continuare ad essere completamente subalterni a Renzi. Non è tollerabile continuare sostanzialmente a far finta di niente. Per questo appoggiamo e appoggeremo tutte le iniziative di lotta che le lavoratrici e i lavoratori intenderanno intraprendere.
Enrico Flamini
Segretario Regionale Prc Umbria

La bolla cinese di Andrea Baranes, Sbilanciamoci.info


Una crisi che nasce da una guerra monetaria, in cui ogni Paese svaluta nel tentativo di aumentare l'export per migliorare il proprio bilancio pubblico; una conseguente guerra commerciale e una concorrenza esasperata tra nazioni per esportare più del vicino; un inevitabile rallentamento del gigante asiatico, dopo anni di crescita in doppia cifra. Sono diverse le spiegazioni che si leggono negli ultimi giorni, dopo il crollo delle Borse cinesi e il conseguente contagio ai principali mercati finanziari. Diverse spiegazioni che contengono sicuramente elementi di verità, ma che trascurano probabilmente l'aspetto determinante. Le Borse cinesi venivano da tre anni consecutivi di rialzi praticamente senza interruzione. Più che rialzi, anni di esplosione irrefrenabile. Per quella di Shenzen parliamo di circa + 150% in 12 mesi, poco meno per quella di Shanghai.
Era davvero così imprevedibile pensare che un tale aumento fosse insostenibile, che si trattasse di una bolla? E' davvero possibile oggi sorprendersi per un repentino crollo di fronte all'ennesima, evidente manifestazione del (mal)funzionamento della finanza? E' possibile imputare tale scoppio a una crescita che potrebbe fermarsi al 6 o 7% del PIL invece dell'8% previsto? Il problema è in un 1% in meno di PIL o nel 150% in più di valore degli attivi finanziari?
Per capire cosa stia succedendo in Cina, si può tornare indietro di qualche anno. Il Paese ha intrapreso una profonda trasformazione della propria economia, cercando di passare dall'essere la “fabbrica del mondo” con una produzione prevalentemente orientata all'export, a un sistema maggiormente rivolto ai consumi e alla domanda interna. Una trasformazione che ha subito una forte accelerazione dopo lo scoppio della bolla dei subprime nel 2007, quando le esportazioni hanno subito un brusco rallentamento a seguito della crisi delle principali potenze occidentali.
Per rilanciare la domanda interna il governo ha messo in piedi enormi investimenti in infrastrutture, mentre in parallelo si assiste a un aumento degli stipendi e quindi del potere d'acquisto. Prima ancora, però, è stato chiuso un occhio – se non incentivato – il ricorso all'indebitamento da parte dei privati. Sia quello bancario, sia soprattutto tramite canali informali e paralleli, una sorta di sistema finanziario ombra fatto di prestiti personali, di società più o meno autorizzate dai trust ai fondi strutturati ai più diversi canali. La speranza era di sostenere la crescita tramite una domanda interna fondata sull'indebitamento.
Il problema di fondo è però che sempre più persone sono ricorse a tali strumenti non per finanziare i propri consumi o l'acquisto della casa, ma per acquistare azioni e titoli finanziari, attratte dagli aumenti degli indici di Borsa. L'arrivo massiccio di capitali spingeva al rialzo i titoli, il che attirava nuovi investitori, spingendo ulteriormente al rialzo i titoli, in una spirale che si auto-alimenta. Un numero incredibile di persone si sono lanciate in questa apparente corsa all'oro. Secondo un articolo di luglio del New York Times, c'erano 112 milioni di conti aperti alla Borsa di Shanghai e 142 a quella di Shenzen. Circa 20 milioni di nuove posizioni sono state aperte nella sola primavera del 2015. In massima parte, parliamo di piccoli risparmiatori totalmente a digiuno di finanza, e che si sono lanciati non solo impiegando i propri risparmi, ma spesso indebitandosi.
Capitali a cui si sono sommati quelli in arrivo dall'Europa, dagli USA e dagli investitori di tutto il mondo, attratti dall'Eldorado delle Borse cinesi a fronte di un ristagno dell'economia in patria. In altre parole, l'ennesima bolla che testimonia l'intrinseca instabilità della finanza. Alla base della teoria dei mercati efficienti che domina l'attuale visione economica, c'è il fatto che domanda e offerta formano il prezzo, e il libero mercato ha quindi un meccanismo per l'appunto incredibilmente efficiente di auto-regolamentazione: se aumenta la domanda di un prodotto tende ad aumentare il prezzo, ma questo porta a una diminuzione della domanda, e quindi a un nuovo equilibrio. Peccato che il mercato più centrale e importante del capitalismo moderno, il mercato dei soldi, ovvero la finanza, funzioni in maniera diametralmente opposta: la domanda di un titolo ne fa salire il prezzo, e questo, all'opposto della teoria dei mercati efficienti, porta a un ulteriore aumento della domanda, il che spinge al rialzo il prezzo, e così via, fino all'inevitabile formazione di una bolla.
All'inizio dell'estate gran parte delle quotazioni azionarie era al di fuori di qualsiasi fondamentale economico. Uno dei principali indicatori del valore di un'azione è il rapporto P/E (Price / Earnings). Semplificando, il rapporto tra la quotazione di un titolo e gli utili che genera. Si stima solitamente che un valore “corretto” del P/E sia intorno a 15 (chiaramente il dato dipende da diversi fattori). A fine giugno il valore medio a Wall Street era 21,2, quello sulle Borse cinesi un incredibile 85. Eppure sempre più persone continuavano a comprare, fino a che la bolla, come sempre avviene, non è scoppiata.
Ci si può adesso interrogare sui motivi, ma probabilmente poco importa sapere quale sia stato il classico battito d'ali di farfalla che ha scatenato la tempesta, se una mossa sbagliata di una banca centrale, una stima leggermente rivista al ribasso di crescita del PIL o altro. Semmai nel dibattito attuale colpisce vedere come molti riescano a dare le responsabilità del panico che ha colpito i mercati di tutto il mondo all'incapacità del governo cinese di porre un freno al crollo delle Borse. Spesso gli stessi che invocano l'efficienza del libero mercato finché le cose vanno bene sono poi in prima fila per implorare il sostegno pubblico quando il giocattolo si rompe.
Difficile invocare l'aiuto del pubblico solo per raccogliere i cocci. Difficile imputare la situazione attuale a questioni monetarie o commerciali, che sono al più la scintilla che ha scatenato l'incendio. L'incendio, per l'ennesima volta, è una finanza ipertrofica, autoreferenziale e intrinsecamente instabile. Ma se non si parte da questa evidenza, la bolla cinese sarà unicamente l'ennesimo – ma non l'ultimo – episodio di una lunghissima serie.

Liquidità, droga e maledizione di Dante Barontini, Contropiano.org

Liquidità, droga e maledizione
 
Di fronte alla “grande correzione” partita sui mercati finanziari globali, la reazione più ridicola è quella dei “consigliori” che, sui principali media specializzati, cercano di individuare i comparti “sicuri” verso cui indirizzare i risparmiatori. Come se, nel 2015, potessero ancora esistere isole di attività economica al riparo della tempesta generale. Quel poco che finora si è salvato, infatti, esploderà in un attimo non appena la massa di capitali in fuga verso la "sicurezza" si riverserà al suo interno. Nel panico che spinge a vendere c'è persino qualcuno che prova a dire che la “correzione è una buona cosa” perché, come prima conseguenza, riporta le quotazioni azionarie a livelli più realistici.
Quel che sfugge, in queste reazioni elementari, è che stavolta non è saltata una bolla qualsiasi – la net economy nel 2000 o i mutui subprime nel 2007 – ma lo strumento di governo che aveva tenuto sotto controllo i mercati da sette anni a questa parte. Parliamo della politica monetaria espansiva adottata da tutte le banche centrali, con più o meno convinzione e rapidità, a partire dal crollo di Lehmann Brothers, nel 2008; l'evento traumatico che aveva a sua volta messo fine ai tentativi di salvataggio di banche e assicurazioni a forza di soldi pubblici nazionali.
Le banche centrali hanno assicurato per sei anni liquidità senza limiti sostanziali, azzerando in senso letterale i tassi di interesse base, ovvero il costo del denaro per gli intermediatori finanziari professionali. Le banche insomma. E quando anche questo si è rivelato insufficiente hanno fatto ricorso a misure non convenzionali, come le iniezioni di liquidità realizzante mediante l'acquisto diretto di titoli (di stato o emessi da privati, ovvero degli stessi intermediatori finanziari), senza star troppo a sottilizzare sulla qualità di quei titoli. L'abbiamo definita a suo tempo una gigantesca lavatrice, un vero e proprio riciclaggio, che assorbiva soprattutto titoli tossici senza più valore dando in cambio denaro spendibile. Creato dal nulla, banalmente stampato, ma con la garanzia fornita da un paese o una comunità potente.
La speranza esplicita dei banchieri centrali era che questa massa di liquidità consegnata nelle mani degli intermediatori finanziari (gli unici ad avere accesso diretto a quel tipo di prestiti) si riversasse nell'economia reale, sotto forma di prestiti a imprese e famiglie, facendo così ripartire l'economia globale.
Che invece è rimasta appesa per almeno sette anni soltanto alla capacità cinese – e di alcune economie emergenti meno ciclopiche - di crescere a tassi impensabili.
Ma che fine ha fatto quella liquidità senza limiti distribuita dalle banche centrali, prima fra tutte la Federal Reserve statunitense? In una quota importante è servita ad aggiustare i bilanci delle banche d'affari, compromessi da operazioni azzardate degli anni precedenti. Per la maggior parte, però, è stata riversata sui mercati azionari, inizialmente depressi per la grande crisi del 2007-2008, facendo crescere le quotazioni e generando infondato ottimismo sullo stato delle economie. Che infatti non crescevano, se non in misura impercettibile (Cina a parte, si diceva). Nessuna trasmissione dello stimolo monetario, dunque.
Il prodotto interno lordo reale dei principali paesi industrializzati è rimasto infatti sostanzialmente fermo – i migliori, come la Germania, hanno recuperato poco più di quanto avevano perso nella fase iniziale della crisi; altri, come Italia e in genere i Piigs, neanche quello – mentre le attività finanziarie galoppavano fornendo l'impressione che il ciclo stesse per ripartire (negli Usa e in Gran Bretagna, sedi delle più importanti piazze globali, questa dinamica aveva persino un riflesso deviato in termini di Pil, che faceva parlare di “ripresa” come di un fatto certo, addirittura da prendere ad esempio).
La ragione non è difficile da capire. La deflazione generalizzata abbassa le previsioni di vendita, dunque le aziende investono meno o nulla, per non rischiare altre perdite. Licenziano e ristrutturano per aumentare i margini di profitto per unità di prodotto, abbassano i salari e aumentano i ritmi per la mandopera residua; ma così facendo comprimono il proprio stesso mercato di sbocco, anche se si tratta di multinazionali (se tutti fanno lo stesso gioco, tutti si ritrovano nella stessa situazione).
Per anni, insomma, è cresciuto l'ennesimo, classico, castello di carte che nascondeva lo stallo delle economie avanzate, che continuavano invece a perdere quote di produzione grazie alle delocalizzazioni. L'ingolfamento cinese, espresso non a caso da una irrazionale euforia delle borse più legate all'economia nazionale (Shangai e Shenzen), arrivate a guadagnare oltre il 150% in poco più di un anno e mezzo, è diventato lo spillo giusto per bucare il pallone gonfiato globale. In poco meno di due mesi Shangai ha perso quasi il 50% del valore nominale, tornando dunque al punto di partenza.
Tutti i mercati hanno dovuto così prendere atto che una “correzione” era in atto. E proprio mentre aspettavano di capire con quanta rapidità la Federal Reserve avrebbe iniziato a rialzare i tassi di interesse, mettendo in moto a sua volta una "correzione controllata".
Solo che tutti sperano che a perdere, vendendo, siano gli altri. E tanto più il panico si diffonde se gran parte delle decisioni di vendita o acquisto sono generate da algo-trader, ovvero da programmi pensati per reagire in nanosecondi, molto più velocemente di qualsiasi operatore umano. Il panic selling trasforma in un attimo la “correzione” in disastro, rivelando che la bolla speculativa generata dalla politica monetaria espansiva delle banche centrali era molto più grande dell'immaginato.
Fin qui saremmo ancora nella normalità, tutto sommato. Anche se bisogna capire molto bene quanto il meccanismo sia deteriorato e dunque infernale: se si allarga la liquidità, non c'è alcun effetto sensibile nell'economia reale, se invece “si brucia” massa monetario-finanziaria l'effetto sulle aziende quotate in borsa, quindi sull'economia reale, è immediato. Perdono valorizzazione, rastrellano meno liquidità sul mercato e dunque rallentano i già scarsi investimenti o addirittura entrano in crisi (se pesanetemente indebitate).
L'anormale – segnalato in qualche occasione da Mario Draghi, presidente della Bce – è che nel corso di questi anni le principali banche centrali avevano assunto un ruolo guida per i mercati mondiali. Pur disponendo, però, di un solo strumento. La politica monetaria, appunto.
Una volta che “i mercati” - ovvero gli stessi intermediatori finanziari in concorrenza tra di loro – hanno preso atto che i valori azionari non avevano più alcun rapporto attedibile con le attività reali (i profitti attesi), una intera fase è finita. In un attimo.
Ora non ci sono più “guide attendibili”. E altre, nel breve periodo, non se ne possono creare. Fanno quasi tenerezza, per esempio, quelli che oggi invitano le autorità cinesi a fare di corsa un quantitative easing all'americana e “riforme strutturali” all'europea. Come se gli unici – fin qui – che si erano salvati dalla crisi avessero qualcosa da imparare da quelli che l'hanno creata e moltiplicata, gonfiando una super-bolla che ora sta esplodendo. Quel “fate come noi, presto!”, "dateci un'altro oceano di liquidità a buon mercato", suona disperato quanto l'invocazione di un tossico per l'ultima dose.
Nel vuoto di certezze, come in quello di potere (in fondo è la stessa cosa), prosperano le forze più avventuristiche. Allacciate le cinture.