Il sovranismo non rimuove quelle caratteristiche di fondo della globalizzazione. Non è dell’euro la responsabilità della crisi. Intervista a Marco Bertorello
Ma è una trappola l’Europa, nel senso di Ue? E’ possibile democratizzare l’Unione? Si può uscire dall’euro? Mi pongo questa domanda nelle ore convulse della trattativa per il governo “giallo-verde” con Bruxelles che lancia segnali di “preoccupazione”.
Per il Washington Post, l’alleanza Salvini-Di Maio creerebbe una combinazione “di elementi di euroscetticismo e protezionismo di estrema destra”. Anche il Financial Times titola sul “duo anti-establishment testerà l’armonia della Ue” e argomenta circa il “risultato più destabilizzante per l’Eurozona”. Riemerge la parola spread, la misura di affidabilità di un’economia affidata al differenziale di rendimento tra i titoli di stato italiani e tedeschi, quel valore che ha contribuito a costruire la narrazione della crisi del 2011 e l’imposizione dell’austerità. «E’ vero che da 125 ha raggiunto quota 160, ma nulla di paragonabile al record di 574 punti registrato nel novembre di sette anni fa», mi spiega Marco Bertorello, genovese, studioso di economia, autore fra l’altro di “Non c’è euro che tenga”, sottotitolo “Per non piegarsi alla moneta unica non serve uscirne” (edizioni Alegre).
La sua opinione è che la coalizione che si appresta a governare l’Italia dopo le elezioni di marzo non sia percepita in modo così destabilizzante dai mercati finanziari. «Dopo le manfrine iniziali – dice – la convergenza tra Lega e M5s sembra essersi compiuta sulla flat-tax (peraltro nella versione leghista più drastica di quella forzista) che è assolutamente compatibile con le dinamiche globaliste.
Ma con Bertorello, che lavora con altri ricercatori per una nuova finanza pubblica e sociale, Left vorrebbe mettere a fuoco la questione dell’euro e della sovranità monetaria. Quindi riprendiamo la domanda iniziale: è una trappola l’Unione europea? «Sì, nella misura in cui lo è la competizione globale – risponde Bertorello – fondata sulla compressione dei salari, dei diritti ambientali e sulla rincorsa fiscale per attrarre capitali. Il caso irlandese è indicativo: le ricadute della presenza di tutte le multinazionali attratte dalla bassa tassazione sono minime per la popolazione locale. La crescita non produce più necessariamente una ridistribuzione della ricchezza. Anzi, questo tipo di sfida globale produce anche una sottrazione di welfare nei paesi dove le multinazionali hanno i siti produttivi ma non i libri contabili. L’economia globale conta sempre di più dei fattori interni. Non è solo un problema dei paesi periferici, è solo una questione di intensità e gradazione di quei problemi. La riduzione dell’intervento pubblico, la precarizzazione del lavoro, la destrutturazione del welfare sono problemi che si pongono anche nella potente Germania».
Esiste certamente un problema di scompensi in Europa dovuti alla costruzione dell’euro e le vittime della globalizzazione non sono solo i lavoratori ma anche le imprese che si rivolgono ai mercati interni dove i consumi si comprimono. Ma se uscire dall’euro non è la risposta allora la sovranità monetaria, altro concetto evocato anche a sinistra, è uno dei miti da sfatare? Bertorello – che tuttavia non rimuove il problema di uno slittamento della sovranità, ormai compiuto, tira in ballo Wim Duisenberg che, prima di essere il primo governatore della Bce, era stato a capo della Nederlandsche Bank, la banca centrale olandese. Duisenberg era solito raccontare che, quando Bonn (e poi Berlino) decideva di svalutare il marco, lui aveva un quarto d’ora per adeguare il Fiorino alla nuova situazione. Diceva che quei 15 minuti erano la sua sovranità monetaria e, per questo, venne soprannominato “Signor Quindici Minuti”. «Eppure si trattava dell’Olanda, un paese florido, mica un’economia dollarizzata come quella argentina», sottolinea l’interlocutore di Left. Insomma, anche prima della moneta unica la sovranità monetaria era «apparente più che reale. Il sovranismo non rimuove quelle caratteristiche di fondo della globalizzazione. Era vero anche all’epoca della lira». La sovranità monetaria, come dimostra anche la parabola italiana del dopoguerra, non corrisponde a una sovranità reale.
L’ultima svalutazione competitiva della lira, infatti, risale al 1992 quando, parallelamente a quella manovra venne firmato uno dei peggiori accordi sindacali, fu abolita la scala mobile, prima, e un anno dopo, imposta la concertazione con un altro accordo capestro, la rinuncia a ottenere aumenti salariali superiori all’inflazione programmata. «Segno che la svalutazione da sola non era sufficiente a rimettere in sesto l’economia. Inoltre, quando si svalutava, l’impresa si accomodava per alcuni anni, non avendo molto interesse a rendere più efficiente il sistema produttivo a sue spese. Ci aveva già pensato il governo», insiste Bertorello smontando uno dei principali argomenti degli assertori dell’uscita dall’euro. «Dunque uscire dall’euro non è sufficiente?», domando. «E soprattutto non è necessario», mi sento rispondere. «L’origine di tutti i mali non è la moneta. Non è la moneta in sé a determinare l’economia di un paese. Altra cosa è capire il ruolo in generale della moneta, delle banche centrali in questa fase». Intuisco che il mio interlocutore voglia spiegare il quantitative easing, alla lettera “alleggerimento quantitativo”, ossia l’acquisto da parte della Bce (come la Fed prima ancora) di titoli di stato e di altro tipo dalle banche per immettere nuovo denaro nell’economia europea, incentivare i prestiti bancari verso le imprese e far crescere l’inflazione quando si rischia il suo contrario, la deflazione. «Questo succede perché l’economia reale non è autosufficiente – spiega Bertorello – ma le politiche espansive, in questo contesto, non garantiscono più che si compia il circuito virtuoso spesa-consumi-fisco. Per questo le banche centrali procedono al loro disimpegno con cautela. L’intervento pubblico, in tempi globali, invece dovrebbe servire a uscire dalla cornice dell’economia di mercato, non a tentare di salvarla». Ma è una questione di rapporti di forza, conveniamo entrambi. Non è sperando nell’euroscetticismo supposto del prossimo governo, come fa qualcuno anche a sinistra, che ci salveremo. «In ultima istanza è la capacità dei soggetti in carne e ossa, dei movimenti sociali, a poter incidere su quei meccanismi che richiamavo all’inizio della nostra conversazione. Il problema è tutto politico: come si riduce il tasso di competitività, possiamo pensare alla cooperazione come a un elemento che riduca almeno in parte l’incidenza del “mercato”, quale la funzione per una sfera pubblica, nel senso più pieno, che corrisponda ai bisogni collettivi?». Anche l’euro a due velocità, “benedetto” da Grillo alla vigilia del gabinetto giallo-verde, non appare a Bertorello come una soluzione praticabile: «L’Ue non è un blocco omogeneo, vive di competizione interna. Il 60% dell’export tedesco è verso i paesi dell’eurozona. Se la Germania non deve essere competitiva solo fuori dal continente, perché dovrebbe accettare un “euro 2” che faccia concorrenza al primo e nemmeno è in grado di garantire il debito che emette? Il problema è sempre quello delle regole globali sulla competizione». Anche uscendo dall’euro, insiste Bertorello, il campo di battaglia resterebbe il medesimo ma «andremmo in guerra con un esercito più piccolo. Per reggere lo scontro ci sarebbe bisogno di maggiore disciplina: vuol dire maggiore dose di nazionalismo, l’astratta coincidenza di interessi di tutti in quello nazionale».
«Però una via d’uscita ci vuole!», esclama il cronista a questo punto del dialogo. «Non credo che passare da un governo della Commissione europea a una Europa più parlamentare cambi il quadro sostanzialmente. Il Parlamento europeo è eletto dagli stessi elettori che eleggono i rispettivi governi. L’unica conflittualità possibile avviene quando si frappongono i soggetti sociali, quando si mobilitano i movimenti. Cambiare i Trattati è un obiettivo corretto, infatti era la parola d’ordine di Tsipras all’inizio del suo governo – spiega ancora Bertorello che era a Salonicco, nel 2015, proprio nei giorni del referendum sul III memorandum – Tsipras ha poi rinunciato a portare fino in fondo quella battaglia (sarebbe stato certo un passaggio difficile, non banale) ma cambiare i trattati vuol dire intervenire sul meccanismo austeritario su cui si fonda l’Europa adesso». I giallo-verdi hanno già fatto un vistoso dietrofront sul debito, faccio notare a Bertorello che è anche uno dei fondatori del Cadtm Italia, il comitato per l’audit sul debito. «Un’idea interessante potrebbe essere quella di un annullamento selettivo del debito – conclude – annullare una quota di quel debito (che in gran parte è illegittimo e odioso), tutelando gli investitori più deboli. Sarebbe una sorta di patrimoniale a monte, non devi inseguire il denaro ma ne restituisci un po’ meno. D’altra parte il debito è sempre frutto di una negoziazione, una questione politica come tutte le altre».
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