“…Una
grande alleanza da Macron a Tsipras”, invoca Maurizio Martina, a margine
del vertice dei leaders del Pse a Strasburgo, “per battere l’asse
Orban, Salvini, Le Pen che vuole distruggere l’Europa”. La stessa
formula l’aveva già spesa, il giorno prima, sul “Dubbio” (non è uno
scherzo!) Gianni Pittella, per lungo tempo capogruppo del Pse al
Parlamento Europeo e ora senatore Pd, invocando “una grande lista con
sopra scritto Pse che si presenti alle Europee e che unisca da Macron a
Tsipras”. E persino Matteo Renzi si era lasciato andare con Barbara
Palombelli, su Rete 4, col suo solito tono, a preconizzare che “le
elezioni Europee le vincerà un fronte da Macron a Tsipras”. Nel marasma
che caratterizza il collasso psichico del Partito democratico è questo
il mantra che rimbalza di bocca in bocca.
Così,
d’istinto, senza stare tanto a pensarci su, sarei tentato di rispondere
come lo scrivano di Melville: “Preferirei di no”. Ma poi, dopo più
matura riflessione, devo confessare che risponderei nello stesso modo.
Terrei ben ferma la mantrica risposta di Bartelmy, persino rafforzata
nel suo carattere “a-grammaticale” dalla versione scelta per la
traduzione italiana da Gianni Celati: “Avrei preferenza di no“.
E questo per vari, ragionati motivi.
Il
primo motivo è di carattere rozzamente e sanguignamente personale, anzi
personalistico (d’altra parte non sono forse tutti gl’ invocatori corali
della Santa Alleanza, impenitenti fautori della personalizzazione in
politica?): fa un po’ disgusto e un po’ rabbia vedere tra gli evocatori
del nome di Tsipras quelli che tre anni fa – in occasione dell’ ordalia
del 14 luglio 2015 – non esitarono nemmeno un istante a sacrificarlo,
senza fare una piega, pur di restare sul carro dei vincitori (e dei
creditori) che stavano umiliando la Grecia per ammonire tutti gli altri a
non seguirne la via della dignità. Lo ricordiamo tutti Matteo Renzi,
saltellare come un tacchino intorno alla Merkel ostentando- come lo
studente secchione con la maestra severa – il proprio zelo a differenza
del reprobo dell’ultimo banco… Li ricordiamo i sorrisetti sarcastici di
Martin Schultz – allora presidente del parlamento europeo –
all’indirizzo del Capo del governo greco messo sotto dai falchi nordici e
dal perfido Schauble; o l’anatema lanciato da Sigmar Gabriel, allora
presidente dell’Spd e vice- cancelliere tedesco, subito dopo il
referendum greco, quando disse che così “Tsipras aveva tagliato i ponti
con l’Europa” e si schierò con l’ala dura del feroce bavarese che voleva
appunto la Grexit! Allo stesso modo abbiamo ancora negli occhi la
solitudine di Alexis Tsipras di fronte a quel Parlamento di Bruxelles
gelido, con il fronte del nord, Alda e Ppe a ranghi serrati,
dichiaratamente ostile e le socialdemocrazie europee, tutte, prone e
allineate e coperte in nome di un’austerità austera solo con i poveri e
prodiga con i ricchi…
Il che
ci porta al secondo dei “ragionati motivi”. Non più “personale”, questo,
ma di natura “generale”. Attinente non alle colpe individuali ma alle
identità collettive (supposto che oggi qualcuno o qualcosa possa vantare
una qualche identità). A quelle che un tempo si chiamavano “culture
politiche” (anche se oggi solo un eufemismo potrebbe giustificare
l’accostamento dei termini politica e cultura). Perché mai “famiglie
politiche” che hanno dimostrato al di fuori di ogni ragionevole dubbio
la propria identificazione con un modello sociale ed economico
devastante per ogni possibile forma di “società giusta” e incompatibile
con ogni possibile accezione del termine “giustizia sociale”,
dovrebbero essere un valido antidoto alla deriva “populista” in corso? A
un imbarbarimento politico e culturale che affonda le proprie radici
nella disgregazione sociale e nel degrado prodotto dalle politiche messe
in atto da quegli stessi “soggetti ” che oggi vorrebbero chiamare alla
“resistenza”?
L’ha
detto come meglio non si può Tomaso Montanari, quando liquidando l’idea
nata in area Pd di un “fronte repubblicano” anti giallo-verde, ha
ricordato che “la miccia non può diventare l’opposizione alla bomba”.
Esattamente come non lo può essere la causa rispetto all’effetto. E la
radice all’albero! L’attuale onda nera che minaccia di spazzare l’Europa
è il prodotto diretto di un quarto di secolo di politiche a-sociaii e
anti-sociali, che hanno frantumato le società, atomizzato gli aggregati
collettivi, indebolito fino all’estenuazione le organizzazioni di
rappresentanza del lavoro (i sindacati), abbattuto potere d’acquisto dei
salari e diritti del lavoro, accresciuto le diseguaglianze e fatto
esplodere le solitudini, prodotto rancore, frustrazione, aggressività,
competizione molecolare. Perché mai gli autori di quelle politiche
(liberali e social-democratici, fino a ieri alleati ai popolari a
baricentro tedesco) dovrebbero essere un argine contro le minacce che da
quelle società devastate salgono? Con quale legittimità potrebbero
pretendere un mandato popolare a “resistere”? Con quale credibilità
potrebbero immaginare di ottenere un consenso di massa?
Il
neo-liberismo che ha strutturato l’ordine europeo del nuovo secolo nella
forma hard dell’”ordo-liberismo” tedesco – è questo il terzo “ragionato
motivo” o, meglio, “ragionamento motivante” del NO – si è rivelato,
nell’atto del suo pieno compimento, come una gigantesca macchina di
riproduzione su scala allargata di sentimenti e comportamenti
“populisti”. Ha generato non solo le condizioni materiali della sindrome
populista (il senso di impoverimento, espropriazione, perdita di status
che ha pervaso la sfera esistenziale di gran parte del ceto medio
declassato e le conseguenti pulsioni di rivincita e di vendetta), ma
anche i presupposti mentali, i fondamenti antropologico-culturali, con
l’assolutizzazione dell’homo oeconomicus, iper-competitivo e
iper-egoistico, l’uomo autarchico incapace di condivisione se non sulla
base di un nudo calcolo di utilità o – non necessariamente in antitesi
con quello – di un delirio di potenza nella forma del nazionalismo o del
sovranismo. Il populismo che viene contemporaneamente dall’estremo
occidente atlantico (trumpismo) e dall’estremo est-europeo (Visegrad)
non è l’antitesi di quel paradigma a lungo egemone, ne è il figlio
legittimo ancorché ripudiato. Non risulta che né Macron, né gli
acciaccati dirigenti del Partito socialista europeo, ma nemmeno i Verdi,
abbiano rielaborato uno straccio di critica e di auto-critica rispetto a
quell’allucinazione che ne ha condizionato per almeno un paio di
decenni la linea politica e la visione sociale. Nemmeno nel momento
dell’appello disperato sulla patria (europea) in pericolo, filtra un
barlume di dubbio. Un cenno di resipiscenza. Quello continua a rimanere
l’unico mondo possibile: la loro resta, incontrastata e incontrastabile,
una “narrazione dell’ inevitabilità” (inevitabilità del rigore di
bilancio, dell’interdetto agli “aiuti di stato”, del controllo dei
flussi senza se e senza ma, della povertà concepita come colpa e
l’assistenza come azzardo morale, del primato dell’impresa sul lavoro e
del denaro sulla vita…).
D’altra
parte è stato lo stesso Tsipras a chiarire la propria collocazione nel
quadro del contrasto su scala europea all’onda nera del populismo di
destra radicale. In un intervento tenuto nel corso della riunione
preparatoria dell’assemblea del Pse a Salisburgo, in Austria, non ha
certo negato il pericolo e il più che giustificato allarme per la
crescita del fronte che vede convergere Orban, Salvini, Le Pen e in
generale un populismo d’impronta nazionalista e sovranista che minaccia
l’Europa nei suoi fondamenti primi, ma ha tracciato anche precise linee
di demarcazione, che impediscono una meccanica identificazione con le
politiche finora praticate dai socialisti europei: in particolare la
necessità di una netta, non equivoca demarcazione da quelle destre non
populiste, conservatrici e reazionarie, che hanno assunto tuttavia nella
propria piattaforma posizioni da destra radicale soprattutto in tema di
migranti; e una altrettanto esplicita volontà di opposizione al
liberismo. Massima convergenza, dunque, contro un fascismo risorgente,
la sua xenofobia, il suo razzismo e la sua intolleranza, ma nessuna
identificazione con posizioni che rimangano nell’ambiguità sulle
questioni dell’austerità e del neoliberismo che “l’alimentano”.
Tsipras
è stato considerato a lungo un reietto dalle grandi famiglie politiche
europee, socialdemocratici e liberali in testa, finché la Grecia
sembrava annaspare sul pelo dell’acqua. Ora che ha vinto la propria
battaglia, che il Paese dato per morto è uscito dal Memorandum e dal
commissariamento della troika, diventa un ospite gradito, anzi
desiderato. Addirittura quello che potrebbe rianimare le esauste energie
di una socialdemocrazia in declino se non in bancarotta. E’ un buon
segnale per la Grecia, riconosciuta nei suoi meriti. Non è detto che sia
un invito allettante. O promettente. La crisi delle sinistre riformiste
europee è così grave, il loro bagaglio di promesse non mantenute, di
fallimenti e di abbandoni dei propri rispettivi popoli così logorante,
che non basterà un ritocco con fotoshop alla fotografia di famiglia, o
un party elettorale con un ospite d’onore in più (anche se molto
onorevole) a risollevarne le sorti. E’ piuttosto possibile che con la
sua zavorra tiri giù anche la parte sana della sinistra europea. Un
naufragio elettorale di un fronte tanto ampio quanto generico e ambiguo
sarebbe letale, e aprirebbe la strada, quello sì, a un dominio della
destra senza opposizioni.
A pochi
mesi dalle elezioni che potrebbero cambiare la geografia politica del
Parlamento Europeo, le chiacchiere e gli slogans così cari alla nostra
sinistra sbandata stanno a zero. Servono idee e atti non equivoci, di
cui dai menu delle cene mancate e dai tweet dei leader imbolsiti non si
vede traccia. Altrimenti al chiacchiericcio insensato che viene dal
Palazzo non può che rispondere la reiterazione infinita del “copista” di
Melville, con la sua potenza disarticolante di ogni linguaggio
estenuato. O meglio – come ha scritto Derrida – con la sua capacità di
“far oscillare il linguaggio nel silenzio”.
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