L’esplosione
della povertà nel ricco Occidente costringe a ripensare un fenomeno
che sembrava relegato in gran parte ai confini del passato e alle
periferie del mondo. A parte rare eccezioni, hanno dominato finora
sconcerto, sdegno, rassegnazione. Ed è risuonato il messaggio: «la
povertà rende liberi»[1]. Quasi che al filosofo, o al teologo,
non restasse, di fronte alla povertà altrui, che condividerla
indicandola a stile di vita. C’è da chiedersi se stia nascendo, o sia
già nato, un neopauperismo.
Certo si comprende l’esigenza che la vita pubblica non umili
ulteriormente chi è nel bisogno. La ricchezza sfacciata ha di questi
tempi un aspetto lugubre. E si comprende anche l’urgenza, avvertita da
molti, di sottrarsi all’iperconsumo imposto dalla crescita infinita[2].
Ma la stessa regola di Francesco d’Assisi era il progetto di abdicare
alla proprietà per una forma di vita comune fondata sull’uso[3].
Appare perciò dubbio il tentativo di anestetizzare con un concetto
elevato di povertà il dolore dell’indigenza. Chi è povero subisce una
privazione che non può essere in alcun modo giustificata – né come
volere divino, né come calamità naturale, né tanto meno come inevitabile
esito della storia. Proprio perché non può essere giustificata,
reclama giustizia.
La povertà ha a che fare con la schiavitù, non con la libertà. Ed è
dunque tra i mali peggiori. Perché il povero è oppresso dalla mancanza,
prigioniero del debito. È lo schiavo. Non occorre risalire
all’antichità. Le nuove forme di schiavitù – a cominciare
dall’indebitamento incoraggiato dal sistema economico – sono sotto gli
occhi di tutti.
Che il debito sia stato contratto o, più spesso, ereditato, e non
voluto, i nuovi schiavi sono schiacciati dal fardello del passato che
non permette di intravedere il futuro.
Non stupisce, perciò, che la povertà sia sempre stata vista non solo
come privazione dei beni materiali. Il povero, soffocato dalla
ristrettezza, vive nell’angustia e nell’angoscia. E questa condizione
esistenziale va di pari passo anche con l’esclusione sociale. Il povero è
isolato, rinviato a se stesso, estromesso dalla condivisione non solo
della proprietà, ma anche della dignità. Ecco perché nella Bibbia è
paragonato allo straniero, avvicinato, per la sua debolezza, all’orfano e
alla vedova. Di qui l’ingiunzione: «e se un tuo fratello impoverirà e
le sue forze vacilleranno presso di te, tu dovrai sostenerlo, sia anche
un forestiero o un avventizio, sicché possa vivere presso di te»[4].
Alla base di questo versetto vi è l’idea – dimenticata in molte
epoche e occultata nel capitalismo – che la povertà non sia un evento
naturale e ineluttabile. Povertà e ricchezza sono condizioni
provvisorie, dovute a un processo che con il tempo si fa iniquo e che
perciò deve essere interrotto. Non c’è una equità intrinseca al mercato.
Chi lavora duramente viene premiato. Ma non sempre. E chi si affatica,
può sperimentare l’inutilità dei propri sforzi. Nel corso degli anni
le traversie personali, le disgrazie familiari, i rovesci finanziari,
decretano la povertà di molti, la ricchezza di pochi. Dall’andamento dei
rapporti economici non emerge una giusta ripartizione. E se è così,
sarebbe semmai un furto mutare il possesso temporaneo in appropriazione
definitiva.
Il povero non è colpevole. Porta il peso del debito, non quello della
colpa. Non ha bisogno che altri condividano la sua condizione in un
ideale di rinuncia. Quel che il povero, con la sua stessa presenza,
richiede è che venga spezzato il circolo vizioso della povertà.
In nessun modo, dunque, il povero può essere stigmatizzato. È la
posizione di Marx che, com’è noto, radicalizza la prospettiva: dove da
un canto c’è accumulazione di capitale, dall’altro c’è accumulazione di
povertà, tormento lavorativo, schiavitù. La ricchezza, nella produzione
capitalistica, è fondata sulla povertà. Non si tratta allora né di
disprezzare, ma neppure di esaltare la povertà – prendendo la strada di
un pauperismo egualitarista. Piuttosto occorre recuperare ricchezza e
povertà, fuori e oltre l’economia politica, nei loro valori umani. Ricco
è chi ha bisogno dell’umanità dell’altro, chi nella povertà avverte
quel vincolo passivo che «fa sentire all’uomo il bisogno della ricchezza
più grande, dell’altro uomo»[5].
Se oggi si tende a giudicare l’economia non più solo in termini
economici, è perché non è possibile ignorare quanto il capitalismo abbia
deteriorato nel profondo le relazioni interpersonali. Non c’è economia
che non debba rispondere della giustizia sociale e della dignità
umana. Ha assunto così un nuovo rilievo la domanda sulla povertà che
non va misurata solo sul reddito. Sono in molti – da Amarya Sen a
Martha Nussbaum – ad aver introdotto criteri ulteriori che tengono
conto dell’essere umano nella sua complessità. Così la povertà non si
limita solo ai bisogni materiali della sussistenza, ma si amplia alla
istruzione, alla partecipazione, alla libertà personale, al rispetto
della dignità, alla condivisione dei beni pubblici. Sotto quest’ultimo
aspetto è chiamata in causa la comunità. In breve, essere poveri vuol
dire non poter attuare le proprie capacità[6].
D’altronde già il Talmud distingue tra ciò di cui il povero «ha bisogno» e ciò che «gli mancherà»[7].
Cibo, alloggio, arredi indispensabili costituiscono quel bisogno
materiale che riguarda tutti. Non si tralascia però una povertà
ulteriore, più difficilmente definibile, anche perché varia da caso a
caso: è l’assenza di quel che si aveva prima e che viene a mancare.
Questa povertà provoca umiliazione, incrina il rispetto di sé, toglie la
dignità. E asservisce – nei modi più subdoli.
I nuovi poveri di oggi, che d’improvviso restano senza ciò che prima
avevano, a cominciare dal lavoro e dalla casa, sono colpiti da questa
“mancanza”. Colpevolizzati nel fallimento, mentre sono rinviati
all’aiuto altrui, vengono paradossalmente estromessi dai legami sociali.
La carità non basta. Perché non muta i rapporti esistenti. Pur
alleviandone lì per lì le sofferenze, lascia il povero nella povertà. Ma
l’aiuto non può essere occasionale. E il sostegno è obbligo
costitutivo della comunità. Qui chi è rimasto nell’indigenza deve
essere reintrodotto per ritrovare la sua libertà. L’atto supremo di
giustizia sociale è offrire un posto di lavoro.
Spezzare il circolo della privazione vuol dire restituire al povero la possibilità di dare.
C’è infatti una dignità umana del dare che si traduce nella comune
responsabilità per un terzo. Prima ancora che dalla condivisione della
proprietà, nessuno può essere escluso dalla condivisione di questa
dignità.
NOTE
[1] Cfr. ad esempio l’articolo di B. Forte, La povertà che rende liberi, “il Sole 24 ore”, 31 marzo 2013.
[2] Cfr. S. Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, trad. it. di F. Grillenzoni, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 30-31.
[3] Cfr. G. Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Neri Pozza, Vicenza 2011, pp. 151 sgg.
[4] Levitico 25, 35.
[5] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in id., Opere filosofiche giovanili, trad. it. di G. Della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 234.
[6] Cfr. M. Nussbaum, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, trad. it. di R. Falcioni, Il Mulino, Bologna 2012.
[7] Talmud, bKetubot, 67b.
Donatella
Di Cesare è professore ordinario di Filosofia
teoretica alla Sapienza di Roma. Ha insegnato presso numerose
università straniere ed è stata Distinguished Visiting Professor of
Arts and Humanities alla Pennsylvania State University. Gli ultimi
volumi pubblicati sono: Utopia of Understanding. Between Babel and
Auschwitz, Suny Press, Albany 2012; La giustizia deve essere di questo
modo. Paesaggi dell’etica ebraica, Fazi, Roma 2012; Se Auschwitz è
nulla. Contro il negazionismo, Il melangolo, Genova 2012; Grammatica dei
tempi messianici, Giuntina, Firenze 2011.
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