L’alternativa a Eurokaputt per la prospettiva di classe e indipendente dell’area mediterranea.
1. La crisi finanziaria nell’Europolo (o Eurozona) sta mettendo in
evidenza i gravi limiti strutturali del progetto neoliberale dell’Unione
monetaria (UEM).
La difficoltà di riattivare un nuovo e profittevole modello di
accumulazione rende questa crisi unica, mettendo in seria discussione lo
stesso modo di produzione capitalistico, quindi è di carattere
sistemico.
E’ evidente che con le privatizzazioni, con l’attacco al costo del
lavoro, al sistema del Welfare, ai diritti, con la finanziarizzazione
dell’economia, hanno cercato di fuoriuscire o almeno di coprire la crisi
internazionale del capitale che si porta dietro il carattere della
strutturalità e sistemicità. Così si fa più aspra e diretta la
competizione globale alla ricerca della centralizzazione della ricchezza
in poche mani,con scenari sempre più frequenti di guerra economica-
finanziaria,guerra commerciale , guerra sociale verso le classi
subalterne e guerra militare espansionista per la conquista e il dominio
sulle risorse energetiche sempre più scarse per sostenere i ritmi del
processo di accumulazione internazionale .
Dopo lo scoppio della crisi finanziaria internazionale nell’estate
del 2007, i tassi di interesse del debito a lungo termine dei paesi
europei hanno cominciato a divergere. Però sarà nel 2009 con l’abbandono
delle politiche di incentivazione alla crescita e all’occupazione e con
la focalizzazione delle politiche europee di aggiustamento fiscale del
2010 che le differenze cominceranno ad essere maggiori.
I grandi paesi, come Spagna e Italia, che nel 2010 pagavano circa il
4% per il debito a lungo termine, due anni dopo hanno iniziato a pagare
il 6%. Comunque altri paesi hanno sperimentato la caduta degli
interessi: nello stesso periodo, la Germania è passata da un pagamento
del 3% all’1,3%, nel mese di maggio. La Gran Bretagna dal 4% all’1,8%.
La Francia mantiene una posizione intermedia anche se ancora favorevole,
poiché il suo debito è passato dal costarle circa il 3.5% all’inizio
del 2010, a 2.8% in questa fase.
Però tra il 2010 e il 2011 la Spagna ha ridotto il suo debito estero
totale a 85 mila milioni. L’Italia ha diminuito il debito estero totale a
85 mila milioni e la Francia a 64 mila milioni. Al contrario, in questi
due anni, la Germania ha aumentato il suo debito estero a 283 mila
milioni di euro e la Gran Bretagna a 496 mila milioni; gli Stati Uniti,
dall’altra parte dell’Atlantico, hanno ridotto i loro tassi di interessi
a causa dell’aumento del debito estero fino a 980 mila milioni di euro
in due anni.
Il debito pubblico della Gran Bretagna è aumentato da 346 mila
milioni a 533 mila milioni negli ultimi due anni, però, visto che i
“mercati” gli hanno ridotto il costo dell’indebitamento, prima pagava 14
mila milioni di interessi e ora meno di 11 mila milioni.
All’inizio del 2010, i 998 mila milioni di debito pubblico del
governo e della banca centrale della Germania includevano 31 mila
milioni di euro di pagamenti di interessi. Però 1.3 bilioni di debito
estero pubblico della fine del 2011 gli sono costati solo 25 mila
milioni di interessi annuali. Al contrario, la Spagna, il cui debito
estero governativo e della Banca di Spagna è passato da 374 mila milioni
a 455 mila milioni, doveva trovare 15 mila milioni di euro per pagare
gli interessi e ora necessita circa di 26 mila milioni per far fronte a
questi pagamenti del debito. Gli interessi che deve pagare la Spagna per
il suo debito pubblico estero sono gli stessi che paga la Germania per
un debito tre volte maggiore. Ossia, in percentuali: la Germania ha
aumentato il debito pubblico estero del 32% e gli interessi sono scesi
del 20%. La Gran Bretagna ha aumentato il debito di circa il 54% e i
pagamenti degli interessi sono caduti fino al 23%. La Spagna ha
aumentato il debito pubblico del 22% e gli interessi sono cresciuti del
75%. L’Italia ha diminuito il debito pubblico di circa lo 0.8% in questi
due anni, ma è stata condannata a pagare il 63% in più degli interessi.
Da parte sua, la Francia ha aumentato dell’11% il debito estero
pubblico, ma il pagamento degli interessi è aumentato solo del 2%.
Queste cifre sono sufficienti per farci rendere conto che c’è
qualcosa che non va: i paesi che riducono il loro indebitamento devono
pagare di più per i loro debiti, e quelli che aumentano il debito
vengono ricompensati con notevoli riduzioni dei tassi di interesse.
Forse ha qualcosa a che vedere con il fatto che le principali piazze
finanziarie dell’Atlantico del Nord sono proprio a New York, Londra e
Francoforte. È da lì che agiscono i cosiddetti “mercati” ossia le
principali banche internazionali e i fondi di investimenti
pensionistici, sovrani o speculativi.
2. Tutto quello che appare come qualcosa di nuovo, come il possibile
default degli Usa in realtà vede l’origine dal 1971 con la fine degli
Accordi di Bretton Woods. Da tale data gli Usa decidono in base al
potere politico e militare di imporre il proprio modello di sviluppo
basato sull’import attraverso l’indebitamento, facendo così pagare il
costo agli altri: debito privato, debito pubblico, e consumo sostenuto
dal mix tra debito interno ed esterno, avendo molto deboli i cosiddetti
fondamentali macroeconomici e una economia reale che già da allora
mostrava i caratteri della crisi strutturale e sistemica.
Già a partire dagli anni ‘80 si era verificato in Europa, anche se in
maniera diversificata nei differenti paesi, un vero e proprio intenso
processo di privatizzazione, con l’intento di ridimensionare la presenza
pubblica nell’intero sistema produttivo. Le azioni dei Governi di
questi anni confermano la volontà di attuare un programma completo di
dismissione delle aziende pubbliche, con la motivazione ufficiale di
risolvere i problemi produttivi ed economici.
Gli intensi processi di competizione globale dell’economia a livello
mondiale hanno portato, quindi, la Germania, con un asse privilegiato
verso la Francia, a cercare una ipotetica soluzione dei problemi della
concorrenza internazionale con la costruzione di un’area economica e
monetaria incentrata sull’esigenza esportatrice del modello tedesco, con
una nuova divisione internazionale del lavoro che va ad assegnare ai
paesi dell’eurozona mediterranea il ruolo di importatori ed erogatori di
servizi, delocalizzando il proprio sistema industriale verso i paesi
dell’Est europeo per risparmiare molto sul costo del lavoro, avendo al
contempo una manodopera specializzata.
Dietro questa apparente incongruenza finanziaria si nasconde una
asimmetria del potere politico. C’è un interesse deliberato da parte dei
paesi che controllano i mercati finanziari, soprattutto Stati Uniti e
Gran Bretagna, a far sì che la situazione si mantenga all’interno dei
piani stabiliti; in questo modo, alcuni pagano troppo interessi e i
creditori li utilizzano, a loro volta, per pagare un debito ancora più
alto. Le lacrime di coccodrillo della stampa britannica, dei
responsabili dell’amministrazione statunitense dei famosi economisti di
quel paese circa la situazione nell’Europolo, vogliono solo pretendere
di evitare uno squilibrio totale della situazione che potrebbe
pregiudicarli, in quanto maggiori debitori mondiali finanziati con tassi
di interessi vantaggiosi.
In nessun caso vogliono invertire la situazione che passerebbe
necessariamente a liquidare l’enorme e redditizio mercato finanziario
speculativo, che è il principale strumento per mantenere l’asimmetria
nei tassi di interesse del debito oltre le differenze economiche reali
tra i paesi. I mezzi di comunicazione anglosassoni e l’FMI invitano la
Germania a unirsi al gruppo dei pagani, per mezzo dell’emissione degli
eurobond, il cui prezzo dovrebbe essere una media degli attuali tassi di
interesse che pagano i paesi dell’euro-zona, oltre ad una indennizzo
dei rischi concessa dai mercati finanziari di Londra e New York.
Anche se la Germania non si fa prendere la mano, che interessi può
avere nel moltiplicare per due il volume degli interessi che deve pagare
per il suo debito?
3. Applicando la stessa moneta a paesi nei quali l’accumulazione del
capitale si basa sulle esportazioni e a paesi strutturalmente
importatori, la politica monetaria è incapace di conciliare le necessità
dei primi ( a cui necessita una moneta stabile per permettere
l’accumulazione a lungo termine basata sulle esportazioni) e agli altri
(che richiedono svalutazioni periodiche per facilitare l’aggiustamento
esterno). Alla fine, la politica applicata difenderà ovviamente gli
interessi dei più forti, in questo caso dei paesi esportatori
dell’Europa centrale, rispetto ai deboli paesi europei della periferia
mediterranea.
Forse qualcuno vorrà trovare una spiegazione economica ragionevole al
fatto che in tutti i paesi confinanti con la Germania i tassi di
interesse di riferimento per il debito estero si sono abbassati dal
2010, indipendentemente dall’appartenere all’Eurozona e che il debito
pubblico estero è diminuito negli ultimi anni, come in Belgio o Olanda, o
è aumentato, come in Germania, Francia, Austria, Repubblica
Ceca,Polonia, Svezia, Danimarca e Lussemburgo. E invece nel resto dei
paesi dell’Europolo, salvo Finlandia e Malta, i tassi di riferimento
sono aumentati, sia se il debito pubblico sale sia che scende. L’unica
spiegazione coerente è quella che punta su una gestione favorevole del
debito dei paesi confinanti da parte del capitale finanziario tedesco (o
tedesco-olandese) per evitare il pericolo di provocare onde sociali
vicino casa.
La diminuzione dell’occupazione e l’aumento dei costi hanno provocato
enormi deficit nei bilanci statali; la perdita di fiducia dei creditori
verso i paesi periferici ha fatto sì che la differenza dei rendimenti
tra i titoli tedeschi e i titoli di questi paesi periferici sia stato
sempre più alto.
I bassi tassi di interesse hanno avuto come conseguenza in questi
paesi la crescita molto alta dell’edilizia accompagnata da aumenti
salariali e dei prezzi; in Irlanda ad esempio negli anni 1998-2007 si è
avuto un aumento dei prezzi delle case di oltre il 180%; in Spagna si è
avuto un aumento simile; anche la produttività di questi paesi
periferici è cresciuta in alcuni casi anche più della Germania ma
essendo aumentati anche i salari nominali, si è persa competitività
rispetto alla Germania che registrava un aumento dei salari nominali
inferiore all’aumento della produttività.
Da ciò si capisce chiaramente perché la Germania controlli le
variabili del patto di stabilità, in quanto la sua crescita è incentrata
sull’export e perché necessita il deficit dei paesi europei dell’area
mediterranea, i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia ,
Spagna), compresa anche la Francia. Infatti l’acquisto da parte della
Germania dei titoli del debito pubblico di questi paesi rappresenta una
forma di investimento dell’eccedente tedesco accumulato. Insomma, il
surplus della bilancia commerciale tedesca è reso redditizio
dall’investimento del debito dei paesi europei con bilancia commerciale
in deficit. Ed è proprio il sistema bancario tedesco che gestisce tale
eccedente compreso quello di altri paesi del Nord Europa.
La diminuzione dell’occupazione e l’aumento dei costi hanno provocato
enormi deficit nei bilanci statali; la perdita di fiducia dei creditori
verso i paesi periferici ha fatto sì che la differenza dei rendimenti
tra i titoli tedeschi e i titoli di questi paesi periferici sia stato
sempre più alto.
I bassi tassi di interesse hanno avuto come conseguenza in questi
paesi la crescita molto alta dell’edilizia accompagnata da aumenti
salariali e dei prezzi; in Irlanda ad esempio negli anni 1998-2007 si è
avuto un aumento dei prezzi delle case di oltre il 180%; in Spagna si è
avuto un aumento simile; anche la produttività di questi paesi
periferici è cresciuta in alcuni casi anche più della Germania ma
essendo aumentati anche i salari nominali, si è persa competitività
rispetto alla Germania che registrava un aumento dei salari nominali
inferiore all’aumento della produttività.
4. La situazione di crollo economico imposta ai paesi della periferia
dell’Europolo è ancora più paradossale nel momento in cui le
istituzioni finanziarie internazionali riconoscono l’esistenza di altre
forme per gestire il debito, anche all’interno del sistema capitalista
internazionale.
Nel marzo 2012, l’FMI ha emesso una sua relazione sulla economia
dell’Islanda, e nel novembre del 2011 ha pubblicato sulla rivista
dell’FMI un articolo sulla particolare forma di lotta contro la crisi
messa in atto in quel paese. Si parla dell’autobomba del rigore
(“l’aiuto di 1.200 milioni di dollari è stato un fattore chiave per il
recupero” ecc.), però l’aspetto interessante è che questo organismo,
punta di diamante delle politiche neoliberali in America Latina e in
Africa negli anni ’80 (il decennio perduto a causa di quella che è stata
chiamata la crisi del debito), ha parole di elogio per la politica
applicata in Islanda, “L’applicazione della politica in Islanda dallo
scoppio della crisi è stata impressionante”, dice l’FMI, segnalando
anche che già nel 2011 l’economia cominciava a crescere dopo due anni di
recessione. La disoccupazione ha cominciato a diminuire e il governo si
è potuto finanziare nuovamente nei mercati internazionali. Quest’anno
il bilancio fiscale del governo raggiungerà circa 1 ½ per cento del PIL
di surplus, con la previsione di ottenere il 5% del PIL di surplus
primario (senza contare la spesa finanziaria per gli interessi); inoltre
il livello di indebitamento scenderà dal 100% del PIL alla fine del
2011, all’80% nel 2016. Le tre maggiori banche commerciali hanno
rafforzato i loro bilanci, la morosità del credito delle imprese e delle
famiglie si è ridotta di 17 punti in un anno, i depositi stanno
aumentando e la liquidità delle banche è alta.
Con un sistema bancario che aveva raggiunto dieci volte la portata
dell’economia islandese, quando è scoppiata la crisi il governo ha preso
una decisione fondamentale: possiamo perdere il sistema finanziario, ma
faremo sì che la popolazione non debba incaricarsi della
nazionalizzazione del debito privato.
Le politiche adottate includono: a) controlli dei capitali per
evitare l’uscita di massa dei capitali e una deprezzamento disordinato
del tipo di cambio; b) permettere che le banche falliscano e non
socializzare le perdite; c) non aggiustare la politica fiscale durante
il primo anno del programma in modo tale da contribuire alla protezione
dello Stato sociale del paese; d) rafforzare e utilizzare lo stato di
benessere per ridurre l’impatto della crisi sulle famiglie, indirizzando
i trasferimenti verso i gruppi con minore entrate, approfittando così
della crisi per ridurre le disuguaglianze del paese.
Nonostante gli avvisi catastrofici a proposito della decisione di non
accettare responsabilità collettive per le perdite delle banche
private, il fatto è che oggi i CDS (credit defaults swaps, una specie di
prodotti finanziari che assicurano i creditori contro il non pagamento
dei debiti internazionali e che vengono usati anche per speculare) sono
di meno che in Irlanda, dove lo Stato ha assunto la completa
responsabilità per le perdite delle banche, generando maggiore crisi
fiscale e economica sin dai tempi dell’indipendenza.
5. Si capisce chiaramente perché la campagna di terrorismo
massmediatico, sul debito pubblico trasformato in debito sovrano, ha
semplicemente un obiettivo politico che è ancora quello di indirizzare
contro lo Stato,contro l’economia pubblica, la critica feroce della
gente comune ,e allo stesso tempo salvare il sistema di impresa e
bancario con la socializzazione delle perdite, a carico dello Stato e
così via, liberalizzando, privatizzando, destrutturando e demolendo i
diritti in primis dei pubblici dipendenti, tagliando salari e Welfare, e
infliggendo un altro duro colpo al potere di acquisto di lavoratori e
pensionati.
Si pensi inoltre che vi è un’Europa debole e divisa, un’Unione
Monetaria che non è ancora né economica né politica, ed anzi tale
stretta sul debito degli Stati ha proprio come obiettivo quello di dar
giustificazione e concretezza alla costruzione dello Stato politico
sovranazionale europeo.
E’ evidente la diversificazione delle forme di debito e come nella
struttura del debito estero non sia certo la percentuale del debito
governativo o sovrano quella maggiormente preoccupante. Ciò che è in
atto è semplicemente lo spostamento dei debiti dai bilanci da alcuni
grandi mostri bancari, assicurativi, industriali e finanziari a quelli
pubblici.
Si insiste sulla necessità di tagliare la spesa sociale evocando il
falso problema che l’Europa in generale è un sistema in deficit, mentre
invece risulta chiaro l’opposto cioè l’assenza di un debito estero
europeo, anche se ciò è il risultato di partite compensatorie in cui il
creditore per eccellenza, cioè la Germania insieme a qualche paese del
Nord Europa, è il detentore dei titoli del debito dei PIIGS e di altri
paesi fortemente indebitati.
Ci troviamo di fronte alla nascita di una classe dirigente di stampo
sovranazionale europeo; l’Europa dell’Est prima ed ora dell’Ovest,
compresa anche l’Italia sono degradate ad un ruolo di secondo piano
rispetto alle “grandi” potenze rappresentate da Germania e Francia.
Considerando che gli Stati europei stanno via via perdendo la loro
autonomia a causa dei diktat dell’Unione Europea è sicuramente
contraddittorio pensare che il problema sia l’aumento del debito
pubblico e non invece la perdita completa della indipendenza di ogni
Stato, sapendo al contempo che nell’Europolo circa il 60% del debito è
di natura privata.
L’acutizzarsi della crisi del debito degli Stati dell’Unione Europea
ha fatto sì che si mettesse mano ai bilanci imponendo un continuo
attacco all’economia pubblica e ai salari e diritti dei pubblici
dipendenti, tagli alla spesa sociale allo scopo di sostenere le banche e
le speculazioni dei privati; la caratteristica di questa fase è quella
del trasferimento consistente di ricchezza da una parte all’altra
nelle società europee. Le tendenze che abbiamo individuato segnano
l’attuale fase del conflitto economico, sociale e del confronto politico
e militare nella competizione globale. Le forze del capitale sono
organizzate in modo transnazionale, con una borghesia che ha coscienza
delle sue funzioni e che si adopera per difendere i suoi interessi,
facendo pagare la sua agonia con guerre finanziarie, commerciali,
economiche, sociali, con repressione e guerre militari.
6. Che lezioni possiamo trarre? Alla fine dei conti, il problema
finanziario in Italia, Portogallo, Grecia o Spagna (non è così in
Irlanda) non è associato alla partecipazione nel casinò finanziario
globale delle banche di questi paesi, ma all’evoluzione incontrollata
dei prezzi del credito internazionale e alle disastrose conseguenze
fiscali delle politiche di aggiustamento applicate dal 2010.
Comunque, i paesi della euro-periferia mediterranea si trovano più
vicini all’Irlanda che all’Islanda, non solo per avere come moneta unica
l’euro, ma anche perché i governi nazionali – e i loro consiglieri a
Bruxelles – sono decisi ad impiegare le risorse pubbliche necessarie per
salvare le banche private dai loro errori e sono disposti ad
approfittare della congiuntura per smantellare i servizi pubblici e
farli diventare “opportunità di mercato” a discapito della qualità della
vita dei cittadini.
La lezione più importante che possiamo avere dal caso islandese è che
la migliore politica pubblica è quella che salvaguarda gli interessi
sociali collettivi. Nell’ordine delle priorità, le famiglie devono stare
davanti alle imprese e alle banche. La generazione di posti di lavoro
non è un obiettivo realizzabile domani dopo una riforma di un certo
impatto, ma al contrario deve essere realizzata oggi, perché il grande
spreco di soldi di un paese lo troviamo nella mancanza di utilizzazione
della capacità produttiva della popolazione. Proteggere la popolazione
dalle disuguaglianze brutali che genera il mercato soprattutto nei
periodi di crisi è la cosa più importante, è l’azione prioritaria di un
governo con senso civico e del sociale.
L'analisi di questo processo sociale ha come categoria centrale
quella del "lavoro" e quindi rimane centrale il conflitto
capitale-lavoro. La politica dell’austerità non è una soluzione, perché
come segnalano molti analisti, la riduzione degli investimenti riduce
l’accumulazione a lungo termine, e la riduzione del consumo pubblico
restringe la domanda globale e pertanto la crescita a breve termine, al
punto che l’aumento della disoccupazione e la chiusura delle imprese
riducono la base impositiva fiscale e il problema del deficit, lontano
dal correggersi, si aggrava. La politica di aggiustamento pertanto
persegue il solo scopo di risolvere il problema di liquidità nel quale è
caduta la Banca europea, mediante un trasferimento massiccio di redditi
dai lavoratori al capitale, per via diretta con l’attacco contro le
condizioni di lavoro e il salario, e per via indiretta con la riduzione
dei trasferimenti sociali.
Dopo circa tre decenni di distribuzione del valore sempre più a
favore del capitale e con criteri contabili imposti dagli Stati Uniti su
scala internazionale che obbligano a valutare le imprese in funzione
degli attivi realizzati attraverso i prezzi di mercato, la
determinazione e regolazione dell’economia capitalista sta ormai
lasciando di essere realizzata dallo Stato e dalle imprese produttive
favorendo invece sempre di più il capitale finanziario che concentra un
volume crescente di capitali in attesa di essere assegnati ad un uso
produttivo. A fronte delle richieste pressanti da parte del capitale
finanziario per sostenere e allargare il tasso di rendimento, il tasso
d’interesse predomina sempre di più sul tasso di profitto, portando
direttamente alla contrazione salariale per controbilanciare la perdita
di efficacia del capitale produttivo, sottomesso a basso tasso di
produttività e pertanto a rendimenti marginali sempre minori.
I mercati concorrenziali, guidati da un indissolubile intreccio tra
sistema politico, mondo degli affari e della finanza con protezioni e
favori reciproci coprono quotidiani fenomeni di “criminalità
finanziaria”.
Ed allora bisogna trovare politiche, sistemi di controllo in grado
effettivamente di snidare i grandi evasori fiscali, con un profitto e
una rendita che non siano di fatto esentati dalla contribuzione;
invertendo così la tendenza che vede ormai dal 1970 la quota dei
trasferimenti di reddito allo Stato sempre più aumentare a scapito delle
famiglie e a vantaggio delle imprese.
Va quindi posta come perno centrale delle politiche economiche una
lotta seria all’evasione ed elusione fiscale in modo da ampliare le
possibilità di intervento dello Stato sociale, abbandonando le politiche
di tassazione restrittive verso i redditi da capitale e da impresa, le
politiche neoliberiste dei tagli alla spesa sociale, della mobilita e
flessibilità, di un sistema dei diritti che si trasforma in benevola
“carità agli esclusi”. Piuttosto bisogna realizzare una incisiva
politica delle entrate che finalmente punti ad una vera riduzione
dell’evasione fiscale ed una seria tassazione di tutti i capitali.
E’ prioritario e immediato allora ristabilire il ruolo di mediazione
della politica, con un sistema sottoposto al controllo dell’autorità
pubblica, ma indipendente dalle logiche partitiche e del potere
economico.
Perché il patto per l’euro continua nell’ordine inverso in materia di
priorità, sacrificando le entrate delle persone a favore dei profitti, e
questi a favore delle rendite finanziarie? Probabilmente è una
questione politica: nonostante il loro grande peso, le banche globali
islandesi avevano poco potere politico, e quando è avvenuto il disastro
non sono riuscite ad evitare che la popolazione decidesse che non gli
spettava neanche un posto sulla scialuppa di salvataggio. Al contrario
nella UE e in particolare in Spagna e Gran Bretagna, il peso politico
della lobby dei banchieri è enorme, così grande che sono capaci di
cambiare Presidenti di governo come è avvenuto in Grecia e in Italia;
riescono ad avere l’appoggio degli intellettuali organici al fronte
delle riforme monetarie, finanziarie e perfino della riforma
universitaria; dichiarano, inoltre, che gli esperti scelti da loro sono
il non plus ultra della saggezza scientifica e morale in materia
economica – qualcosa che non si riesce a fare neanche negli Stati Uniti,
dove il dibattito sulle questioni economiche è molto più plurale
rispetto che in Europa.
7. Se il principale creditore nell’Eurozona è la Deutsche Bank, e
come è stato notato in più di una occasione, il suo presidente Josef
Ackermann scrive a volte i discorsi al Ministro dell’economia tedesco
Wolfgang Schäuble, si comprova che la politica europea riflette non solo
una collusione di interessi, ma direttamente l’egemonia del capitale
finanziario nella cultura economica, accademica e politica della
regione.
Il mercato non può disciplinare se stesso, necessita della mediazione
politica, di un intervento da parte dello Stato che realizzi la
trasparenza, l’efficienza, salvaguardando però l’interesse sociale
generale, garantendo condizioni di parità ai partecipanti e indirizzando
le risorse finanziarie a chi è in grado di coniugare redditività e
giustizia sociale e distributiva, creando ricchezza redistribuita
socialmente e lavoro vero a pieno salario e pieni diritti.
Da un punto di vista logico ed ideologico, esistono varie alternative
possibili alla attuale competizione globale e poi fino alla più
strategica determinazione del superamento del modo di produzione
capitalista, ognuna con distinti gradi di probabilità in funzione di
ragioni tecnico-economiche o politico-sociali. In ogni caso, qualsiasi
proposta attuabile dovrà “fare i conti”, in primo luogo nell’individuare
i soggetti, il blocco sociale, con i quali avanzare fino alla
costruzione di una alternativa non capitalista, e da subito con il
rapporto fra classe del lavoro e la tecnologia.
Anche questo fa parte del dibattito che dovrà inaugurarsi tra tutti i
lavoratori e gli intellettuali militanti e organici alla classe dei
lavoratori le società per orientarsi nel cambio tecnico in funzione del
progresso tecnico. E in tutto ciò necessita un progetto pianificato
centrale fiscale che sappia redistribuire indirizzando le risorse a
investimenti in tecnologie a forte compatibilità ambientale e sociale
per una dimensione socio-ecologica dello sviluppo a sostenibilità
qualitativa.
In secondo luogo, si dichiara la necessità di un cambiamento radicale
socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di
egemonia che modifichi il senso comune), che inverta le relazioni
causali tra l’economia e la politica, come già si sta sperimentando, ad
esempio nei paesi dell’area dell’ALBA, e in particolare in Bolivia dove i
movimenti sociali, di indios, i contadini, i minatori hanno determinato
nuove forme di economia plurale e solidale attraverso lo strumento
politico della democrazia partecipativa.
La politica è sempre stata al servizio dell’economia, quantomeno dal
XIX secolo. Il discorso politico occultava precedentemente questi
interessi nell’essenza dell’economia; ma nel XX secolo c’è stata una
svolta, il discorso politico è stato colonizzato dagli interessi
economici, al punto che oggi sembra che parlare di politica sia
esclusivamente parlare di economia, di spesa pubblica, di interessi, di
imposte, di marche legali, di legislazione del lavoro o legislazione
commerciale. Questo è logico in un sistema che subordina lo sviluppo
sociale agli interessi del profitto.
Per questo, una alternativa globale ridefinisce il discorso politico
nel terreno del sociale e subordina, a questo discorso politico sul
sociale, il discorso economico e il discorso politico sull’economia, a
partire dalla centralità della pianificazione socio-economica.
Costruire in maniera indipendente le proprie prospettive muovendosi
da subito nella piena autonomia da qualsiasi modello consociativo,
concertativo e di cogestione della crisi per riaffermare attraverso la
pianificazione socio-economica la volontà di autodeterminazione dei
popoli nella democrazia politica partecipativa. Solo così l’autonomia di
classe assume il vero connotato di indipendenza dai diversi modelli di
sviluppo voluti e imposti dalle varie forme di capitalismo, ma
soprattutto da sempre lo stesso sistema di sfruttamento imposto
dall’unico modo di produzione capitalistico;e quindi in tal senso il
movimento dei lavoratori non può e non deve essere elemento cogestore
della crisi ma trovare anche nella crisi gli elementi del rafforzamento
della sua soggettività tutta politica.
Subordinare l’economia alla politica sarebbe una alternativa alla mondializzazione capitalista realmente esistente.
8. Alla fine ciò che affermiamo da tempo in vari nostri libri e anche
ciò che dicono gli economisti più perspicaci come Lapavitsas è che
siamo di fronte ad una questione politica, di correlazione delle forze.
L’euro è stata una decisione di difesa destinata a facilitare la
continuità del mercato unico europeo nel contesto di una globalizzazione
finanziaria imposta dal potere istituzionale degli Stati Uniti. Le
politiche di aggiustamento sono la ricetta del capitale finanziario per
caricare tutto il costo della crisi sui debitori, a beneficio dei
creditori. Le privatizzazioni e i tagli nel settore pubblico, sono la
risposta alle domande del grande capitale produttivo che reclama nuove
fonti di ottenimento di plusvalore e profitto. I lavoratori, il cui
potere è diminuito dal periodo delle grandi lotte degli anni ’70, sono
quelli che pagano i costi della crisi, nella loro doppia condizione di
produttori di valore e consumatori di servizi pubblici.
In questo contesto, un programma per superare la crisi della Eurozona
a beneficio dei lavoratori può arrivare solo grazie ad una importante
accumulazione delle forze che doti di maggior potere il movimento di
classe dei lavoratori europei. Bisogna avere a disposizione una proposta
alternativa all’Unione Monetaria subordinata ad una globalizzazione
finanziaria imposta dal dominio mondiale del capitale statunitense. E
una proposta alternativa al mercato unico creato in funzione degli
interessi del capitale europeo. Per questa ragione, il dibattito
sull’euro sta discutendo la costruzione di una alternativa al caos
economico e sociale generato dalle politiche di gestione della crisi
dell’UE.
I Paesi della periferia europea necessitano di un sistema monetario e
finanziario alternativo all’euro e alla globalizzazione. Però non si
può concepire un sistema di questo tipo nell’ambito del mercato unico
neoliberista tale come è stato costruito nei Trattati europei. Le regole
di funzionamento di questo mercato impediscono una soluzione che
apporti stabilità al processo di accumulazione, almeno nel senso che
s’intende per “stabilità” sotto il sistema capitalista, cioè un periodo
relativamente lungo di crescita nel quale si susseguono cicli
successivi di espansione e di contrazione economica. Per tutto questo
l’alternativa monetaria e finanziaria deve inserirsi in una proposta di
integrazione economica e sociale del tutto differente da quella
perseguita dall’Unione Economica e Monetaria e dal mercato unico.
Se i Paesi della periferia europea desiderano ritornare al controllo
sull’attività produttiva questo lo possono realizzare soltanto in
maniera congiunta e mediante un processo di rottura con il modello della
finanza privata e dello spazio monetario asimmetrico vigente.
E’ altresì importante che il cambiamento del sistema monetario e
finanziario sia una risposta congiunta, poiché il peso della periferia
europea mediterranea è molto superiore a quello dei singoli paesi presi
separatamente, e la sua capacità di resistenza e negoziazione è molto
maggiore se realizzata congiuntamente, in particolare se ci si è
rafforzati strutturalmente con la nazionalizzazione delle banche e dei
settori strategici. La nazionalizzazione di tali settori dovrebbe
permettere di realizzare utilità verso usi sociali.
La nazionalizzazione delle banche è la parte più importante del
processo generale per uscire dalla finanziarizzazione dell’economia
globale, e finché non si sarà realizzato questo obiettivo continuerà il
deterioramento della qualità della vita e del lavoro al sol fine di
aumentare il tasso di profitto. Rompere la logica del capitale
finanziario significa nazionalizzare le decisioni d’investimento per
favorire le attività socialmente utili, sottoposte a un criterio di
rendimento sociale ed ecologico, che sono criteri di medio e lungo
termine.
Il controllo sociale degli investimenti è imprescindibile per
dinamicizzare l’attività produttiva, e per orientare il credito in
funzione di ottenere il massimo sviluppo dell’occupazione e dell’utilità
sociale, e tali funzioni sono fortemente differenti da quelle che
applica la banca privata che è orientata al criterio del massimo
profitto a breve termine.
La nazionalizzazione delle banche in una situazione di insolvenza e
di dipendenza dall’aiuto pubblico è anche un requisito per evitare la
fuga dei capitali e per eliminare la drammatica e storica tradizione
capitalistica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
Tutto ciò è quindi possibile solo con un serio governo di indirizzo
dello sviluppo che non può prescindere dal fondamentale ed efficiente
ruolo pubblico nei servizi essenziali e nei settori strategici
dell’economia.
Una parte del debito pubblico è il risultato dell’attuazione dei
governi per appoggiare capitali locali fortemente indebitati, in primo
luogo le banche però anche le imprese (a inizio del 2011 dei 4,7 mila
miliardi di euro di debito esterno di Portogallo, Spagna, Italia e
Grecia, circa il 32% era debito sovrano governativo, 4% delle autorità
monetarie, 38% delle banche, 17% di altri settori imprenditoriali e 8%
debiti generati all’interno dei gruppi multinazionali). Questo intento
fallito di stabilizzazione portato avanti dai governi con le risorse di
tutti i cittadini deve ottenere una compensazione.
La nazionalizzazione dei settori strategici delle comunicazioni,
energia e trasporti non solo può essere un prezzo giusto, ma allo stesso
tempo potrà portare le risorse per realizzare una strategia di rilancio
produttivo a breve termine che permetta di creare le condizioni
affinché milioni di disoccupati nei Paesi della periferia europea
mediterranea comincino a produrre ricchezza sociale nel minor tempo
possibile. Questi settori strategici sono le attività produttive che
stanno ottenendo maggiori benefici, come risultato della gestione delle
risorse naturali non rinnovabili sulla base di una intensa
socializzazione dei costi che non vengono imputati come costi interni (i
costi di inquinamento, la distruzione di risorse naturali ecc.), o
comunque tali settori stanno ottenendo forti risultati positivi perché
stanno beneficiando della privatizzazione di reti di comunicazione e
tecnologie la maggior parte delle quali si sviluppano con risorse
pubbliche.
9. È importante riflettere sulle possibilità di gestione di una
economia nazionale europea altamente indebitata con l’estero dopo
l’abbandono dell’euro (Che succede con i debiti in euro? Fino a quanto
si alzeranno i tassi di interesse nazionali e l’inflazione? Come
organizzare il neosistema finanziario nazionale e l’interazione con il
sistema europeo dei pagamenti?).
Però la risposta a questi interrogativi dipende da come viene gestita
la capacità politica di combattere gli interessi associati dei capitali
finanziari e produttivi europei e statunitensi. Alla fine, l’euro è una
questione politica.
Tutto ciò non è e non è stato in passato un mero esercizio teorico ma
ha avuto ed ha delle esperienze concrete che rendono tale ipotesi
realisticamente praticata e praticabile. Si pensi ad esempi storici dal
Kemala ieri, all’ALBA oggi. In tali esperienze, con tutte le possibili
diversità si sono affermati modelli di sviluppo autodeterminati ,
incentrati sulle risorse e le economie locali,l’autodeterminazione
valorizzando al contempo le proprie tradizioni culturali e produttive.
Si è anche dimostrato che sapendo valorizzare le proprie risorse si può
rinunciare a tante merci inutili importate e funzionali ad un sistema di
consumismo insostenibile.
Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture
produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa realizzabile,
che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le
istituzione comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un
nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di
pianificazione a compatibilità socio-economica con forme di investimento
sociale e di accumulazione favorevole ai lavoratori.
L’uscita dall’euro dovrebbe realizzarsi in forma concertata, in primo
luogo tra i paesi della periferia mediterranea con quattro momenti
intimamente relazionati senza i quali tale processo potrebbe risultare
un disastro per tutti.
I quattro momenti sono: a) La determinazione di una nuova moneta
comune (a titolo esemplificativo potremmo chiamare questa moneta
“LIBERA”, cioè una moneta appunto libera dai vincoli monetari imposti
nella costruzione dell’euro) all’Europa mediterranea; b) La
rideterminazione del debito nella nuova moneta dell’area periferica (a
titolo esemplificativo tale area la potremmo chiamare ALIAS – Area
Libera per l’Interscambio Alternativo Solidale) relazionata al cambio
ufficiale che si stabilisce; c) Il rifiuto e azzeramento almeno di una
parte consistente del debito, a partire da quello con le banche e le
istituzioni finanziarie, e l’imposizione di una rinegoziazione dello
stesso residuo; d) La nazionalizzazione delle banche e la stretta
regolazione (incluso la proibizione momentanea) della fuoriuscita dei
capitali dall’area stessa.
Tutti questi elementi si devono però realizzare simultaneamente, per
evitare la decapitalizzazione dell’intera regione periferica e per
assumere un controllo adeguato sulle risorse disponibili per gli
investimenti (una risposta simile a questa è quella difesa da Costas
Lapavitsas e dal gruppo di ricerca sulla moneta e sulla finanza il
“Eurozone Crisis: Beggar Thyself and Thi neighbour” marzo 2010 e in “The
eurozone between austerity and default” settembre 2010 consultabile su
www.researchonmoneyandfinance.org).
Sicuramente il capitalismo statunitense potrà restare ancora un
attore importante ma si realizzerà la fine di un ciclo politico in cui
gli USA non avranno una posizione dominante rispetto ad altri centri di
potere come l’Europa, la Russia, la Cina, l’India, il Brasile, che
imporranno, anche se in maniera diversificata, nuove forme di potere
politico del capitale, che così come per la natura economica della crisi
di cui si è detto in precedenza, entrerà in crisi soltanto se le forze
soggettive del movimento operaio e di classe sapranno trasformare la
crisi economica e politica in crollo e superamento del sistema di
produzione capitalista attraverso processi di costruzione di sistemi di
relazioni socialiste. Ma da subito è possibile contrapporsi ai i
meccanismi di potere dei centri-polo, delle aree del sistema di dominio
del modo di produzione capitalista, come sta tenacemente realizzando
l’alleanza alternativa dell’ALBA. E per le organizzazioni sindacali e i
movimenti sociali che agiscono in Europa si tratta di acutizzare le
contraddizioni contrapponendosi direttamente alle regole dei potentati
dell’Europolo.
Pertanto risulta imprescindibile per l’affermazione di una nuova
moneta e di una politica orientata in favore dei lavoratori, contare su
uno spazio produttivo nel quale si possa stabilire una nuova divisione
del lavoro basata sui principi di una pianificazione economica per uno
sviluppo sociale collettivo solidale e un benessere qualitativo per
l’insieme della popolazione della nuova area monetaria ALIAS.
10. Ciò che si è presentato in questa Prefazione del libro vuole
quindi essere una ipotesi di dibattito ma nello stesso tempo una
possibilità concreta per i Sud del mondo che possano trovare nei PIIGS ,
e in generale nei paesi dell’area mediterranea, l’esempio di un
percorso capace di sparigliare le carte dell’”azienda mondo”;
un’occasione per appassionarsi a creare in maniera autodeterminata una
opportunità che dimostri che si può vivere delle risorse e delle proprie
povertà che si contrappongono all’illusoria ricchezza della crescita
quantitativa imposta dai potenti del mondo coi disastri di miseria da
questa provocata. E allora la risposta alla crisi non può avere altro
carattere che quello del rafforzamento politico del conflitto sociale
internazionale, nelle sue diverse forme di rappresentazione politica.
Un’alternativa mondiale per la trasformazione socio-economica deve
essere un progetto che contenga un significato transnazionale, con da
subito una strategia che si muova in un orizzonte capace di determinare
processi politici che, anche nei momenti rivendicativi tattici, abbiano
sempre chiara la strategia politica per la critica radicale del modo di
produzione capitalista e di costruzione del socialismo possibile.
Le lotte sociali della fine degli anni ’90, nelle loro varianti e
diversità come in Europa nelle grandi manifestazioni contro la guerra e
contro il neoliberismo e quelle in America Latina che hanno portato al
potere Governi rivoluzionari e democratici come in Venezuela, Bolivia ,
Ecuador, Nicaragua, Salvador, Uruguay, Argentina, Brasile, tutti nelle
loro diverse modalità hanno animato un dibattito sul netto rifiuto del
neoliberismo ed anche sulla critica radicale allo stesso superamento
del sistema capitalista nei suoi fondamenti teorici e alternativi, che
già può vantare eccellenti apporti, anche provenienti soprattutto dal
paese con il capitalismo più sviluppato del pianeta.
La partecipazione o meno a queste lotte e al dibattito che si è
aperto sarà la linea di demarcazione della riorganizzazione dello spazio
politico tra le forze della sinistra radicale, e di quella di classe,
rispetto a quella con progetti inseriti ancora nella logica capitalista;
le nuove strutture sociopolitiche e organizzative alternativamente
proiettate rispetto al sistema vigente, continueranno i processi di
transizione socialista e le battaglie in chiave anticapitalista e
antimperialista.
[1] Frase di Lao Tsu (grande filosofo cinese del VII secolo D.C.).
Prefazione al libro di Costas Lapavistas "L'euro rapiro", edizioni Jaca Book
Prefazione al libro di Costas Lapavistas "L'euro rapiro", edizioni Jaca Book
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