La BCE suggerisce che le retribuzioni nominali
del lavoro debbano crescere in linea con la produttività dei
lavoratori, e non oltre questa. I Paesi “viziosi” che non rispettano
questa regola perdono progressivamente competitività. Questa è la
“regola di piombo” per la distribuzione del reddito, contrapposta alla
“regola d’oro” che lascia invariate le quote distributive tra lavoro e
capitale. La “regola di piombo” significa svalutazioni competitive
interne, a carico del lavoro e del reddito dei lavoratori, ed una
distribuzione del reddito sempre più diseguale.
Ritorniamo a commentare la tesi presentata da Mario Draghi,
governatore della Bce, all’ultimo Consiglio europeo del 14-15 marzo
2013, su cui ci siamo intrattenuti pochi giorni fa in merito al falso trade-off tra
produttività del lavoro e flessibilità del lavoro (contrattazione sul
salario e regolamentazioni del mercato del lavoro) [1].
Lo dobbiamo fare in quanto, fatte salve rare eccezioni (Andrew Watt sul Social Europe Journal [2] e Andrea Baranes su Sbilanciamoci.info [3]),
pochi hanno commentato e valutato le implicazioni distributive del
reddito che quelle tesi sottintendono. Come Andrew Watt ha fatto
osservare nel suo secondo intervento sul Social Europe Journal (link),
la “svista” del Governatore rende esplicito il pensiero della Banca
centrale europea. Comparare l’andamento delle retribuzioni nominali con quello della produttività reale del lavoro, distinguendo tra Paesi “virtuosi” e Paesi “viziosi” è più che un esercizio contabile errato.
Esso esplicita un indirizzo di politica economica ben definito, quando
si afferma che le retribuzioni nominali del lavoro hanno ecceduto la
crescita della produttività nei Paesi viziosi, e da lì vengono i loro
mali, mentre i Paesi virtuosi si son ben guardati dal fare tale errore e
hanno governato la dinamica delle retribuzioni nominali, mantenendola
al di sotto della produttività del lavoro. Da questo segue una ricetta
politica: la cura del male sarebbe quella di spostare la determinazione
delle retribuzioni a livello d’impresa, e lì far crescere i valori
nominali entro la soglia massima stabilita dalla crescita della
produttività reale dei lavoratori, così che questi siano pagati in linea
con i loro meriti e sforzi produttivi.
Noi chiamiamo questa ricetta, la “regola di piombo” delle
retribuzioni, contrapposta alla “regola d’oro” che lega il salario reale
alla produttività reale. E spieghiamo perché.
1. Salari nominali e produttività reale
Partiamo dai dati Oecd (Link),
esaminando un periodo che ha inizio 5 anni prima l’introduzione
dell’euro, dal 1995 al 2011. Consideriamo i tassi di crescita delle
retribuzioni nominali del lavoro in relazione a quelli della
produttività del lavoro. Lo facciamo per un insieme ampio di Paesi
europei (sulla base dei dati disponibili), facenti parte della Eurozona
ed esterni a questa, a cui aggiungiamo alcuni Paesi di ormai antica
industrializzazione, quali Stati Uniti, Giappone, Canada.
Il grafico 1 illustra, in termini più generali, il fatto stilizzato
richiamato da Mario Draghi: salve rare eccezioni la dinamica del salario
nominale ha ecceduto quella della produttività del lavoro, invece di
stare in linea con questa. Fanno eccezione ben pochi Paesi che si
collocano vicino o sotto la bisettrice: Giappone e Germania in
particolare (indicati nel grafico), che comunque non brillano quanto a
produttività (altri fanno meglio di questi): il Giappone evidenzia una
crescita della produttività oraria sotto l’1% annuo, e la Germania sopra
di poco l’1,5% annuo, inferiore ad Irlanda, Svezia, Stati Uniti e
Grecia (grafico 2).
Da questo deriva l’andamento del costo nominale del lavoro per unità
di prodotto (Grafico 3), che è il rapporto tra crescita delle
retribuzioni nominali e produttività del lavoro. I Paesi virtuosi sono
pochi: ai due indicati in precedenza, Giappone e Germania, si aggiungono
Austria ed anche Svezia, che è fuori dall’Euro. Mentre all’opposto si
distinguono i Paesi molto “viziosi”: Grecia (di cui molto sappiamo) e
Norvegia (che ricordiamo sta fuori dall’Unione Europea oltre che
dall’Euro).
In mezzo ci sono, con gradi diversi di “vizio”, molti Paesi, dalla
Francia al Portogallo. Alcuni sono nell’Euro, altri sono fuori, altri
ancora fuori dall’Europa. Quelli della zona euro sono particolarmente
viziosi in quanto, benché la loro competitività non la possano più
giocare sulla svalutazione della moneta, rimangono fuori dalla “regola
di piombo”, per cui perdono progressivamente competitività: Spagna,
Irlanda, Italia, Olanda, Belgio, oltre a Portogallo e Francia. L’Italia
sta nel mezzo, tra i “viziosi”, penalizzata dalla produttività (ultima
nella lista) più che dalle retribuzioni nominali (sotto la media). Sono
soprattutto questi i Paesi che si devono aggiustare, per rientrare entro
la “regola di piombo”.
2. Salari reali e produttività reale
Se guardiamo alla “regola d’oro” abbiamo una differente rappresentazione. La regola d’oro suggerisce che siano le retribuzioni reali del
lavoro a dover tenere il passo della produttività fisica del lavoro. In
tal caso le quote distributive rimarrebbero invariate. Risultato questo
difficile da realizzare, in economia aperta, in particolare sotto i
vincoli della moneta unica che non consente svalutazioni monetarie tra
Paesi aderenti. Il grafico 4 illustra la situazione per gli stessi Paesi
nello stesso periodo. Fatte rare eccezioni (Norvegia, Gran Bretagna,
Danimarca), tutti i Paesi passano da sopra a sotto la bisettrice,
indicando che il salario reale è cresciuto meno della produttività del
lavoro.
Questo non allineamento del salario reale alla produttività è ciò che
conduce al cambiamento della quota distributiva del lavoro sul reddito.
Il grafico 5 mostra chi perde e chi guadagna. Tutti i Paesi perdono (o
meglio i lavoratori di tutti i Paesi), fatta eccezione per la Norvegia
che, fuori dall’Euro e fuori dall’Unione Europea, si può permettere
salari nominali che crescono ben più della produttività, ma anche salari
reali che crescono ben più della produttività, con una dinamica dei
prezzi in linea con quella degli altri paesi (2% su base annua, non
molto diverso dall’1,9% indicato dalla Bce per i Paesi dell’area euro).
Si noti che peggio del Giappone (caratterizzato da dinamica negativa
delle retribuzioni) fa solo la Germania, prima tra i Paesi dell’Eurozona
ad evidenziare una dinamica della quota distributiva a sfavore del
lavoro, con ungap di più di 1 punto percentuale su base annua
tra retribuzioni reali e produttività, che porta ad una significativa
diminuzione della quota del lavoro sul reddito. Si noti anche la Francia
che da Paese “vizioso” con salari nominali in ampio eccesso rispetto
alla produttività, in termini reali evidenzia un gap distributivo nullo.
Questo è lo scenario effettivo nel periodo 1995-2011.
3. Salari reali e produttività reale secondo la “regola di piombo”: un esercizio
Ma torniamo ora alla “regola di piombo” richiesta dalla Bce. E chiediamoci, con valore di semplice esercizio ex post, quale sarebbe stato il gap tra
salario reale e produttività se tutti i Paesi avessero seguito la
ricetta della Bce, di far crescere le retribuzioni nominali in linea con
la crescita della produttività reale di ciascun Paese. Il grafico 6
fornisce la risposta. Solo il Giappone si sarebbe salvato dalla “regola
di piombo”, quel Giappone che evidenzia una crescita molto bassa della
produttività nel periodo, ed un tasso di inflazione pari a zero. Per
tutti gli altri Paesi il gap tra retribuzioni reali e
produttività si sarebbe allargato (in proporzione della inflazione
interna), determinando un crollo generalizzato della quota del lavoro
sul reddito. Come dire, una svalutazione competitiva interna per la
quale tutti (i lavoratori) ci avrebbero perso, alcuni più di altri, ma
nel complesso penalizzando il lavoro ovunque, a favore del capitale.
Chiamiamo questo lo scenario di svalutazione del lavoro della “regola di
piombo” Bce.
A questo esercizio si potrebbe obiettare che sarebbe proprio la
dinamica dei salari frenata dalla “regola di piombo” a consentire di
ridurre la crescita dei prezzi e quindi l’inflazione, spingendo così i
salari stessi a recuperare potere d’acquisto. Osservazione corretta, se
solo si aggiungesse che si dovrebbero avere mercati concorrenziali
affinché la frenata salariale si traducesse in diminuzione dei prezzi, e
non in aumento dei margini di profitto; ma è proprio ciò che non
prevede il modello teorico di riferimento di determinazione dei salari e
dei prezzi in concorrenza imperfetta, che indica come tale meccanismo
di riequilibrio non sia affatto scontato. In secondo luogo, non
dimentichiamo che le condizioni di domanda di beni sono pure rilevanti,
per cui essendo i salari anche una delle componenti cardine che spiegano
la domanda interna, una loro frenata se non contrazione, ovvero la loro
scarsa dinamica, pone un vincolo alla stessa crescita della
produttività che non è affatto un parametro tecnico, ma dipende da
quanto il reddito reale cresce rispetto al volume di occupazione [4].
Non rimarrebbe allora che affidarsi alla componente estera della
domanda, se non fosse che qui il rischio è che si prospetti un gioco a
somma zero tra le politiche di svalutazione competitiva dei salari. In
altri termini, il rischio è che la “regola di piombo” della Bce freni
così tanto i salari da avere effetti negativi sulla domanda interna, e
quindi sulla produttività stessa, alimentando quel circolo vizioso al
ribasso tra salari e produttività che è un effetto collaterale della
regola stessa. Una sorta di cura peggiore del male.
In verità, l’adozione della “regola di piombo”, se confrontata con lo
scenario effettivo, non rende i Paesi (ed i lavoratori) tutti
ugualmente colpiti dalla adozione di tale regola Bce. Infatti, se
confrontiamo gli scostamenti dei gap tra salari reali e
produttività nei due scenari, quello effettivo e quello ipotetico
“regola di piombo” Bce (Grafico 7), vediamo senza sorprenderci che solo
la Germania si distingue da tutti gli altri, evidenziando uno
scostamento minimo tra i duegap, effettivo ed ipotetico. In
altri termini, potremmo dire che la Germania, unico tra i Paesi
esaminati, ed unico tra i Paesi della zona euro, ha già adottato la
“regola di piombo” della Bce, conseguendo il risultato che gli altri
Paesi devono invece conseguire. Potremmo anche pensare che la regola di
piombo della Bce è concepita ex post come “regola germanica” della svalutazione del lavoro.
Facciamo anche osservare che essa non sembra basarsi più di tanto su una incredibile crescita
della produttività del lavoro, che dal 1995 non differisce poi più di
tanto da quella della media dei Paesi considerati (1,62 vs. 1,40),
quanto su un contenimento delle retribuzioni nominali (1,92 vs. 3,25) e
soprattutto reali (0,41 vs. 1,14), che ha consentito alla Germania di
contenere l’inflazione ben sotto il 2% (1,5% circa), come da regola Bce,
e di realizzare surplus commerciali crescenti mediante l’accresciuta
competitività di prezzo dei propri prodotti.
Non vi è dubbio che la Germania abbia conseguito tale performance in
virtù di una crescita della produttività spiegata dalle politiche di
innovazione e formazione tipici del suo modello di capitalismo, in cui
le relazioni industriali partecipative costituiscono un asse portante.
Al contempo è evidente come le stesse relazioni industriali abbiano
consentito di realizzare dagli anni novanta un contenimento dei salari
unico nell’area dell’euro, e che questa svalutazione interna salariale
sia associata ad un valore del marco ombra a tutto vantaggio di questo
Paese, come attestano i differenziali nei tassi di interesse della zona
euro. Il coniugare politica dell’innovazione con contenimento salariale è
stata la chiave del successo germanico, in presenza di un euro debole
per loro, e troppo forte per altri.
4. Conclusioni
In conclusione, la “regola di piombo” della Bce sembra più una regola ex post
fissata quando “i buoi sono usciti dal recinto”. Ora viene riproposta
per indicare che la via maestra da seguire per i Paesi “viziosi” (il cui
numero cresce ogni mese, dopo Cipro, la Slovenia, oppure ancora
l’Italia, tra i PIIGS, e perché non anche la Francia e pure l’Olanda) è
quella della svalutazione competitiva interna basata sul contenimento
delle retribuzioni nominali e reali del lavoro, sulla maggiore
flessibilità del mercato del lavoro, e sulla riduzione della quota del
lavoro sul reddito. Non sono novità. Sono anni che vengono non solo
proposte ma soprattutto realizzate queste ricette, con esiti che tutti
noi conosciamo: minore crescita, maggiore disoccupazione, maggiori
disuguaglianze, il tutto condito più di recente dalla salsa indigesta
dell’”austerità espansiva”.
Forse sarebbe stato meglio adottare la “regola d’oro” per tutti ex ante,
una regola che non consentisse di agire con svalutazioni competitive
salariali interne, puntando invece tutti assieme su politiche di
crescita e piena occupazione centrati su quei temi che pure non erano
certo estranei all’Agenda della Unione europea, l’Agenda di Lisbona con
la quale si indicavano le priorità strategiche: economia della conoscenza e crescita sostenibile.
Quelli erano tempi in cui sarebbero dovuti prevalere gli Stati Uniti
d’Europa, mentre invece hanno prevalso gli Stati disuniti
intergovernativi d’Europa, che si sono (dis)integrati negli anni
dell’euro.
______________
note
[1] Paolo Pini, Produttività e regimi di protezione del lavoro (link)
[2] Andrew Watt, Mario Draghi’s Economic Ideology Revealed? (link).
[3] Andrea Baranes, Se la Troika ascoltasse la Troika (link).
[4] Sappiamo però che questa deriva “keynesiana” alla questione non rientra tra le condizioni contemplate dal modello.
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