In
fondo, la ricetta si è rivelata geniale. Slavoj Zizek deve il proprio
successo alla riproposizione di qualcosa che potrebbe apparire
inesorabilmente datato e demodé, ossia il marxismo, nella sua
declinazione leninista. A quel punto, il pericolo poteva essere quello
di essere scambiato per un adepto di Lotta Comunista o di qualche altro
gruppuscolo residuale. E allora perché non impacchettare il tutto in una
cornice lacaniana, con tanto di reiterati riferimenti al Reale,
all’Osceno, alla Forclusione o all’Altro (rigorosamente con la
maiuscola) e spingere sull’acceleratore della contaminazione con la
cultura pop? L’impatto è stato notevole, e planetario, accreditando
Zizek come il punto di riferimento per un pensiero critico
controcorrente rispetto ai canoni ormai consolidati del minimalismo
teorico e del narcisismo delle piccole differenze. La produzione del
filosofo e psicoanalista sloveno, nel frattempo, si è fatta quasi
compulsiva. Se i testi più direttamente teorici, spesso e volentieri
assai massicci per numero di pagine, possono risultare ripetitivi e
ridondanti, più interessanti risultano in genere i volumi più agili
scritti, a cadenze quasi fisse, a ridosso dell’attualità. Come la
nottola di minerva hegeliana, Zizek si interroga alla fine dell’anno sul
senso politico e filosofico dei dodici mesi appena trascorsi. Così
avviene in Un anno sognato pericolosamente, dedicato al 2011,
considerato “l’anno del risveglio della politica radicale di
emancipazione in tutto il mondo”. Il bilancio, tuttavia, non è affatto
trionfalistico, si parla immediatamente di “fragilità e spossatezza di
quel risveglio”, con le rivoluzioni arabe che hanno aperto la strada a
fratelli musulmani di vario tipo quando non a devastanti guerre civili e
i vari Occupy consegnati a una inesorabile perdita di vigore. E
tuttavia, per Zizek, i fatti del 2011 sono portatori di segni che
parlano al futuro, e a un presente “perforato da tensioni crescenti che
annunciano nuove esplosioni”. A patto che si sappia operare un salto di
qualità. Al Reale capitalistico, e alla sua universalità, infatti,
sarebbe necessario opporre un’universalità di segno opposto, incentrata
sul partito, la lotta di classe, la dittatura del proletariato. Al di là
del tono compiaciuto con il quale Zizek invoca, contro lo spirito del
tempo, formule divenute tabù, si deve riconoscere che quei significanti
alludono a problemi reali (con la minuscola) e imprescindibili: come
organizzare le lotte? Come riattivare il conflitto di classe? Quali
istituzioni immaginare per dare sostanza politica alle controcondotte
dei movimenti? In sintesi, Zizek, come sempre, appare assai lucido nel
sottolineare i limiti di un senso comune radical improntato al
culturalismo, al dogma consolatorio della resistenza al potere e a una
versione “colta” dell’antipolitica, anche se si può nutrire più di una
riserva sul fatto che l’antidoto a tutto ciò possa essere costituito
dall’atto di enunciare il lessico del marxismo-leninismo.
Fonte:
book detector
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