C'era una volta una Russia debole, uscita mutilata, economicamente a
pezzi, con una grave crisi d'identità, dal crollo dell'Unione Sovietica.
Era una Russia costretta, volente o nolente, ad accettare le decisioni
che gli USA, i vincitori della Guerra Fredda, prendevano per il mondo.
Era la Russia che cedette sull'allargamento a est della NATO, sui due
attacchi all'Iraq, sullo smembramento della Jugoslavia, sulle basi
statunitensi in Asia Centrale, sulle sanzioni all'Iran, sulle
"rivoluzioni colorate" nello spazio post-sovietico e via dicendo, fino
all'ultimo episodio dell'attacco arabo-occidentale alla Libia. Era una
Russia che ingoiò tanti rospi da farne indigestione.
Oggi c'è una Russia diversa: decisa a cambiar dieta e finalmente capace di farlo perché, malgrado i perduranti problemi strutturali,
la sua potenza ha senz'altro recuperato. E mentre quella statunitense,
provata dalle difficili avventure in Afghanistan e Iraq, dalla crisi
economica, dalla perdita di consenso internazionale, sta spostando la
sua attenzione sull'Asia-Pacifico, lasciando spazi vuoti che Mosca è ansiosa di rioccupare.
La prima avvisaglia del mutato atteggiamento russo fu la breve guerra con la Georgia
nel 2008. Quando il presidente georgiano (e filo-occidentale)
Saakashvili tentò di occupare con un colpo di mano le due regioni
separatiste di Abchazija e Ossezia del Sud - confinanti con la Russia,
abitate in prevalenza da persone con passaporto russo, e garantite dalla
presenza di "truppe di pace" russe - Mosca reagì con un blitzkrieg che
avrebbe potuto facilmente arrivare a Tblisi, ma che si limitò a
garantire l'indipendenza delle due regioni (oggi di fatto Stati
satelliti di Mosca).
Negli ultimi mesi il Cremlino ha riguadagnato terreno anche nel mondo
arabo, il quale dagli anni '80 almeno sembrava saldamente soggetto
all'egemonia degli USA. Le rivolte arabe,
che pure inizialmente parevano favorite da e favorevoli a Washington,
nonché sgradevoli per la Russia sensibilissima alla questione dell'Islam
Politico; le rivolte arabe, si diceva, stanno risultando in un
avanzamento dell'influenza di Mosca. La Siria, che ospita l'unica base
navale mediterranea di Mosca, ha resistito all'assedio congiunto
dell'Occidente, della Turchia e degli altri Arabi: è certo un paese a
pezzi, letteralmente (Curdi e ribelli sunniti controllano ciascuno una
propria porzione di territorio), ma in compenso più legato alla Russia
cui il regime del Ba'th deve la vita. In Egitto, la reazione
anti-Fratelli Musulmani ha soppresso la democrazia e riportato al potere
un generale, che strizza platealmente l'occhio a Mosca, la quale dà
maggiori garanzie di non ingerenza e di "anti-islamismo" rispetto a
Washington.
Sulla Siria, poi, nell'estate scorsa Putin ha conseguito una evidente
vittoria diplomatica. L'intervento militare minacciato da USA, Gran
Bretagna e Francia (il medesimo terzetto artefice della guerra libica)
si è disciolto come neve al sole di fronte, certo, alle forti titubanze e
ostilità incontrate all'interno, ma pure a un'opposizione
internazionale di cui Putin è stato il capofila indiscusso. In realtà
Obama ha ottenuto al minimo costo (senza intervenire direttamente nel
caos siriano) un risultato importante (lo smantellamento dell'arsenale
d'armi chimiche di Assad), che ipoteticamente in futuro potrà anche
agevolare un intervento militare di Washington nel paese (l'invasione
irachena del 2003 fu successiva a un decennio di disarmo del paese). Ma
l'ha ottenuto facendo mostra di irresolutezza, di incapacità a gestire a
proprio vantaggio lo scenario siriano, mentre gli alleati si sono
defilati uno ad uno appoggiando anzi, in molti casi, l'opzione avversa
avanzata da Putin.
A pochi mesi da quegli eventi, l'Ucraina ci conferma che il vento è
cambiato. Nel 2005 gli USA appoggiarono (secondo alcuni orchestrarono)
la "rivoluzione arancione" che, tramite la ripetizione del voto
popolare, condusse al potere la fazione filo-occidentale. In quel caso
Mosca non reagì, ma lavorò ai fianchi il nuovo governo che si sfaldò
velocemente per le proprie contraddizioni interne. Nel 2010, così, la
fazione non ostile alla Russia (dire "filo-russa" è eccessivo, perché in
realtà fino a novembre 2013 la linea ufficiale dell'amministrazione Janukovič era entrare almeno nell'UE) è ritornata al potere, sempre tramite un regolare voto popolare.
Oggi l'Occidente ha rialzato la posta, appoggiando compatto (e si può supporre non solo moralmente) la controversa rivolta di piazza
che ha portato all'occupazione del potere da parte di una fazione ben
più radicale di quella protagonista della "rivoluzione arancione".
Significativamente, il primo atto del nuovo regime (oltre alla
deposizione del Presidente eletto) è stata una norma discriminatoria
verso le minoranze linguistiche: qualcosa che nell'UE non sarebbe mai
accettato come legittimo, e che nell'Ucraina è tanto più virulento
perché la minoranza russofona rappresenta un cittadino su tre, e si
tramute in maggioranza in molte regioni orientali. E ciò considerando
unicamente i madrelingua, perché gli ucraini che parlano anche il russo
sono molti di più.
Com'era prevedibile, il Cremlino ha lasciato passare l'evento
olimpico di Soči e poi ha reagito. Ma l'ha fatto in una maniera ben più
assertiva del 2005 - anche perché in questo caso il governo ostile di
Kiev non è legittimato dal voto ed è assai meno presentabile
internazionalmente. Entriamo qui nella cronaca, che è inutile
ripercorrere: basti notare che oggi il vessillo russo svetta sui palazzi
di governo di mezza Ucraina e che la penisola di Crimea è ormai
completamente in mano alle forze russe e ai fiancheggiatori locali.
Tanto per non lasciare nessuna ambiguità, il Parlamento russo ha già
accordato il via libera a Putin per un intervento militare in Ucraina e sta lavorando a una legge per rendere possibile e rapida l'annessione di nuovi territori.
Allo stato attuale, pare improbabile che la Crimea possa tornare in
mano ucraina. Essa si è resa indipendente di fatto in pochi giorni (le
truppe ucraine di stanza nella penisola hanno disertato in massa) e
avrebbe buoni argomenti per diventarlo anche de jure o persino
per unirsi alla Federazione Russa (la Crimea fu infatti parte della
Russia fino al 1954, quando il presidente sovietico, e ucraino, Chuščëv
decise di "regalarla" all'Ucraina). È più difficile capire se Mosca
punti invece alla preda grossa, ossia ad annettersi (o costituire a
Stato satellite) tutta l'Ucraina Orientale. Anche qui troverebbe un
consenso probabilmente maggioritario da parte della popolazione, ma non
plebiscitario come in Crimea (laddove l'opposizione viene quasi
esclusivamente dalla minoranza tatara),
e soprattutto Kiev non potrebbe chiudere gli occhi, poiché la linea di
separazione presumibile passa per il Dnepr - ossia proprio per Kiev e
per il centro industriale di Dnepropetrov'sk (roccaforte elettorale di
Julia Timošenko). L'Ucraina Occidentale, privata del resto del paese,
rimarrebbe un moncone senza sbocco sul mare, senza industria
manifatturiera, senza grande rilievo demografico.
In tutto questo, che farà l'Occidente? Arduo immaginare che qualcuno sia disposto a una guerra con la Russia per salvare l'integrità territoriale dell'Ucraina,
sebbene sia fuor di dubbio che la NATO, l'UE e molti paesi europei (in
primis la Germania, che dopo la riunificazione ha ripreso il Drang nach Osten
suo tradizionale) appoggeranno per quanto possibile Kiev. Di certo, gli
apprendisti stregoni occidentali avranno molto su cui meditare nel
futuro prossimo. Hanno suscitato la rivolta in Libia, e oggi il paese
nordafricano appare fuori controllo. Hanno salutato la sollevazione di
piazza in Egitto, salvo poi scaricare il governo democratico perché
ideologicamente non gradito e tollerare così una reazione militare.
Hanno appoggiato la rivolta in Siria per poi scoprire che Assad è laico
mentre molti ribelli sono radicali religiosi, come se l'Afghanistan
degli anni '80 non avesse insegnato nulla. Ora hanno appoggiato ed
esaltato il coup ucraino, salvo trovarsi di fronte a una
possibile guerra civile e a un intervento russo che è già realtà, coi
loro beniamini di Kiev che invocano la NATO per una terza guerra
mondiale contro Mosca.
E l'imbarazzato Obama, che "minaccia" di boicottare il G8 a Soči, è
l'emblema di una diplomazia occidentale che non ha più il senso della
misura e la capacità di pensare alle conseguenze delle proprie azioni
oltre le 24 ore successive alla loro messa in atto.
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