Le dinamiche dei rapporti transatlantici sono fondamentali per
tracciare il futuro della Ue. Partiamo dai nuovi scenari: dopo la
Brexit, cosa comporta l'avvento di Trump nel rapporto con l'Ue ‐ ed in
particolare con la Germania?
Partiamo da quest'ultima. È ancora presto per individuare la direzione
precisa che la dinamica Usa-Germania prenderà, se si aprirà cioè un vero
e proprio corso di collisione e dove porterà, ma per intanto è
importante che il rapporto si stia mostrando apertamente per quello che
è: sempre meno un rapporto, per quanto asimmetrico, tra alleati e sempre
più una relazione a rischio di esplosione tra portatori di interessi
divergenti, immediati e strategici. Trump sta facendo saltare il tavolo
dell'ipocrita "unità dell'Occidente" che nella sua lettura
nazional-populista è diventata troppo costosa se non insostenibile per
gli Usa, sul piano militare ed economico, e troppo conveniente per i
partner, in primo luogo per la Germania. Il perché di questa svolta
"imprevista" (per i più) abbiamo cercato di sondarlo nei mesi scorsi
analizzando le ragioni profonde del fenomeno Trump:
gli States sono decisamente in difficoltà sia sul piano geopolitico che
su quello economico e sociale interno nonostante la decantata "ripresa"
obamiana (ma l'hanno vista solo i circuiti finanziari e poco altro). La
risposta del neopresidente, che trova riscontri in una parte
dell'establishment e fa leva sui leftbehind della globalizzazione, non
può che comportare un profondo rimescolamento di carte nelle relazioni
economiche e geopolitiche internazionali.
Ricordando i trascorsi più recenti la politica aggressiva di
Washington verso Berlino e la Ue rappresenta tutt'altro che una
novità...
Non è una novità, è verissimo. Già con Obama
si sono avute non solo continue, puntuali frizioni tra Washington e
Berlino (e la Ue tutta) - che richiamavi nella domanda - ma la stessa
eurocrisi di qualche anno fa, con l'attacco combinato ai debiti sovrani
europei e alla moneta comune, non è stato altro a ben vedere che un
tentativo, solo parzialmente riuscito, di scaricare proprio sugli
"alleati" il grosso della crisi globale scoppiata nel 2007-8. È però
vero che oggi ci troviamo di fronte se non a un salto, a un secco
passaggio in avanti su questa linea di scontro (oltreché con Cina, Brics
e America Latina, ovviamente) per i motivi cui accennavo. Ora, Trump
viene continuamente messo in seria difficoltà dal fronte liberal, che
non solo è supportato dal cosiddetto Stato profondo e dai media
mainstream ma è anche in grado di mobilitare e/o utilizzare le piazze
del blocco sociale clintoniano-obamiano che percepisce nell'eventuale
rinculo della globalizzazione il rischio del proprio declino (di queste
contraddizioni e strumentalizzazioni mi pare, per quel che si può
capire da qui, che gli attivisti radical non siano affatto avvertiti, ma
speriamo che parta prima o poi lì qualche riflessione critica su una
situazione peraltro obiettivamente contorta), non è detto dunque che la
sua presidenza regga. In effetti, mi pare che al momento in politica
estera la sua prospettiva ristagna sotto spinte contrapposte
(particolarmente evidenti nei confronti di Mosca). Ma, comunque sia, sul
fronte interno Trump deve assolutamente procedere nel tentativo di
riportare in Usa un parte di produzione manifatturiera - e dunque
attaccare i surplus commerciali tedesco e cinese- non solo per
consolidare il rapporto con la middle class, ma -e questo è in
prospettiva altrettanto se non più importante - anche per prepararsi a
nuovi, possibili crack finanziari innescati dalla nuova bolla
speculativa gonfiatasi in questi anni a seguito della politica monetaria
della Federal Reserve. E questo, ripeto, non può che acuire tutti i
rapporti internazionali attraverso un nazionalismo economico (altro che
"isolazionismo") anche verso l'Europa, contro quello che è additato
oramai apertamente come un blocco regionale concorrente o, più
precisamente, un potenziale blocco regionale che si tratta di
destrutturare, dall'esterno e dall'interno (ché Stati europei che già
fanno o potrebbero fare sponda a questo gioco non è che manchino) anche mandando a picco l'euro.
Come sta rispondendo la Germania (anche in vista delle difficoltà di Merkel, montante populismo Afd, elezioni ecc.)?
La vittoria elettorale di Trump è stata uno choc, come dappertutto. È
vero che è da un po' che, pur in maniera non eclatante,
nell'establishment tedesco si ragiona di un corso politico internazionale più autonomo
ma ciò non toglie che finora -pur sottraendosi spesso alle pressioni
statunitensi, come su Libia e Siria, Ucraina, gasdotti con la Russia,
rapporti economici con la Cina- un vero shift strategico era
l'impensabile per la classe dirigente tedesca e lontano anche dal
sentire del grosso della popolazione. Da oggi, in prospettiva, le cose
potrebbero cambiare. Per l'èlite si tratterebbe di indirizzare il
crescente disagio della società tedesca - la fine dell'illusione di
essere immuni dalla crisi globale
- verso una presa di distanza dal padrino americano e però in nome
della difesa dei "valori liberali occidentali" e della globalizzazione
come si è data finora. Una neonata politica imperialista tedesca, anche
militare, combinata con la conservazione degli assetti politici
esistenti che allontani il rischio di un'ascesa dei "populisti" (v. Afd)
e, soprattutto, soffochi sul nascere gli embrionali umori trasversali,
insieme, anti-americani e anti-globalizzazione. Il "piccolo" problema
per la borghesia tedesca però è che per non essere ricacciata in un
angolo in un quadro internazionale che va rapidamente cambiando sarà
difficile attenersi al corso fin qui seguito, un corso di stop and go
sia rispetto alle questioni geopolitiche (in primis i rapporti con
Mosca) sia rispetto al futuro dell'Europa nel mentre si è potuto
conservare un relativo compromesso sociale all'interno grazie alla
performance economica. Ma il commercio mondiale va restringendosi e gli
Usa minacciano seriamente protezionismo mentre il caos geopolitico si fa
sentire fin dentro i confini europei con la questione immigrazione e
profughi. Le scelte incombono e, tanto più dopo la Brexit, non saranno
indolori né all'interno né all'esterno andando anche a riconfigurare la
costruzione europea.
Appunto la Ue. Germania e Ue: chi usa chi nella crisi globale? Tu hai, non da ora, un punto di vista peculiare...
Facciamo un passo indietro per chiarire alcuni presupposti importanti.
Senza andare fino alla nascita del mercato comune nel quadro della
Guerra Fredda e alla prima embrionale autonomizzazione del sistema
monetario europeo dopo il crollo del regime di Bretton Woods a inizio
anni Settanta, partiamo dal varo dell'euro. La moneta unica europea non è
frutto di un errore o di una macchinazione tedesca, piuttosto si è
trattato di uno strumento per rispondere alla competizione su di un
mercato in via di globalizzazione, dal quale hanno tratto vantaggio
tutti i settori delle borghesie e dei ceti proprietari europei, in
diverso grado e con risultati differenti. Non è dunque esclusivo
strumento dell'egemonia economica di Berlino sull'Europa, certo, è anche
questo ma non solo: il rapporto Germania/Ue ha funzionato nei due
sensi, che è quanto i no-euro proprio non vedono. Al tempo stesso, sia
il gioco spesso paralizzante degli equilibri reciproci (in particolare
il potere di veto britannico, in questo vero cane da guardia degli Usa)
sia un allargamento eccessivo voluto per ragioni di controllo politico e
geopolitico da Washington sia il nanismo politico tedesco hanno nei
fatti allontanato più che avvicinato la costituzione di un vero polo
imperialista europeo.
Ora, con lo scoppio della crisi globale, a tutt'oggi irrisolta, i nodi
sono venuti al pettine. La crisi non nasce in Europa né dall'euro e però
ne mette a nudo tutte le fragilità. Il primo assalto della finanza
internazionale (sarebbe meglio dire: a stelle e strisce) ai debiti
sovrani europei e all'euro è stato rintuzzato ma con costi pesanti per
il futuro dell'Europa: sia sul piano economico con i programmi di
austerity e la quasi frammentazione dei circuiti finanziari e bancari
continentali surrogati dall'azione della Bce, sia su quello politico con
la divaricazione crescente, un po' su tutte le questioni, tra "nucleo
duro" nordico, paesi mediterranei e fianco orientale. C'è da dire che
anche il grosso delle rispettive popolazioni si sono, più o meno
passivamente, adagiate sulle sponde nazionali - nessun segno minimo di
solidarietà c'è stato verso la popolazione greca trattata come tutti
sanno - combinando verso l'Europa la preferenza strumentale per la
moneta unica (financo in Grecia) rispetto al ritorno a monete nazionali
prevedibilmente più deboli con una crescente disillusione e diffidenza.
Insomma, nessun potere costituente in giro, né in alto né in basso, ciò
di cui gli "europeisti movimentisti" non tengono sufficiente conto.
Che ruolo hanno giocato, in questo contesto, le politiche monetarie della BCE?
A tutto ciò si aggiunge la peculiare azione della Bce, come accennavo.
Questo è un punto, anche politico, delicato visto il favore con cui
questa azione viene considerata anche a sinistra (che è arrivata a
sposare la proposta del QE for the people che si pone, è bene dirlo,
sulla medesima direttrice della Bce solo volendo allargarlo al
"popolo"). In particolare con Draghi la Bce si è completamente allineata
sulla politica monetaria espansiva della Federal Reserve statunitense.
Si può discutere quanto ciò sia fin qui servito a non far precipitare la
crisi delle banche europee e dei debiti sovrani degli stati più
indebitati, comunque è certo che non c'è stata alcuna ricaduta positiva
né può essercene sui ceti medio-bassi. Ma, notare, anche dal punto di
vista del rafforzamento di un capitalismo europeo, il rapporto
costi/benefici è tutt'altro che positivo: se l'austerity negli ultimi
tre anni è stata messa in standby, l'immissione di liquidità in euro ha
nei fatti non solo congelato ogni ristrutturazione dei debiti sovrani
senza per questo rilanciare l'economia, ma ha creato una potenziale
bolla speculativa sulla quale potrà scorrazzare la speculazione
anglo-sassone al prossimo assalto (che è quanto l'austerity di marca
teutonica, in un'ottica neomercantilista, puntava ad evitare). La
situazione critica di una parte delle banche europee così come gli
enormi deficit (in particolare italiani e spagnoli) verso la Germania
accumulatisi nel sistema inter-europeo Target 2 dicono di squilibri
sempre più ampi all'interno della Ue. Insomma, mentre ci si approssima
alla fine delle politiche monetarie espansive in Occidente con la
Federal Reserve che ha iniziato ad alzare i tassi e il QE europeo che
non potrà continuare... l'Europa si ritrova con i medesimi problemi di
prima, addirittura ampliati, e sicuramente meno coesa.
In tutto questo c'è poi un nodo fondamentale che sia gli "europeisti a
prescindere" della sinistra sia i "no-euro" saltano bellamente.
Guardando al solo perimetro ristretto europeo e al ruolo-guida in esso
della Germania -ovvero senza provincializzare l'eurocrisi
- si perde di vista l'elemento fondamentale che è, appunto, il ruolo
degli Stati Uniti (e del dollaro). Gioca qui una speculare miopia, del
resto convergente. Da un lato, il viva Draghi abbasso Merkel in nome del
keynesismo (finanziario) di Obama non solo mistifica i "successi" della
politica economica d'oltreoceano (non si capisce da dove sarebbe
spuntata fuori la vittoria di Trump) ma porta acqua al mulino della
ricetta americana fin qui incentrata sulla "crescita" da indebitamento,
ovvero pagare debito con altro debito (degli altri): si sproloquia di
Keynes e ci si ritrova... Soros.
Dall'altro, la prospettiva di fuoriuscita dall'euro da "sinistra
anti-tedesca" neanche si avvede che nelle attuali condizioni è proprio
l'amministrazione Trump a voler far fuori l'euro spaccando l'Europa: si
sogna, anche qui, di un rinnovato deficit spending sponsorizzato da una
rediviva "nostra" banca centrale e si rischia di avere... lirette
ipersvalutate e dollarizzate e salari ultradecurtati. Il punto, qui, non
è affatto l'influenza attuale di queste posizioni quanto piuttosto la
ricaduta politica negativa nel dibattito e in quel poco di iniziativa
politica che è oggi possibile mettere in campo: ci si muove sempre su
false alternative imposte dal campo capitalistico che impediscono anche
solo di impostare un "nostro" discorso autonomo, per quanto difficile
questo oggi possa essere. Sia chiaro, questa non vuole essere una
critica ideologica o purista: ben altra cosa è investigare le ragioni
materiali profonde, e a rapida mutazione, che spingono pezzi della
società a posizionarsi in un senso o nell'altro sul campo dato (dal
nemico di classe), individuare quale trend prevalga a date condizioni e,
insieme, lavorare su contraddizioni e ambivalenze di queste dinamiche
che ne rovescino o almeno interdicano il loro segno di classe. Su
questo, del resto, mi pare evidente che il trend prevalente oggi sia
quello che in prospettiva spinge, pur tra mille oscillazioni, per una
divaricazione e frantumazione del quadro europeo, dall'interno e
dall'esterno. Ma, oltre al piccolo "particolare" che nelle condizioni
date questo non sarà certo deciso "dal basso", la domanda è allora: che
fare se e quando si darà per non correre al rimorchio delle soluzioni
borghesi?
Veniamo all'oggi e al domani immediato. Stanti così le cose, quali prospettive per l'Europa...?
Per dirla con una battuta, la UE ha forse iniziato la lotta contro la
implosione puntando a una ... disgregazione lenta e controllata. Per
Berlino, che ovviamente cerca di tirare le fila, per quel che può, del
gioco, la situazione è altamente contraddittoria. Perché da un lato ha
bisogno di una certa tenuta del quadro europeo, non solo nel circolo più
ristretto, ma sull'intero continente, pena un indebolimento e una
completa estromissione anche dal resto del mondo. Dall'altro, deve per
questo chiaramente "stringere" sugli altri paesi, nei due sensi: sulle
politiche da portare avanti, e con chi farlo. La proposta - che Merkel
ha chiesto di formalizzare al prossimo vertice europeo, dunque un
passaggio non da poco - dell'Europa a due velocità è, per quanto ancora
assai vaga, immediatamente rivolta contro i paesi est-europei, rei di
"approfittare" delle politiche europee e della libera circolazione
interna senza "ricambiare" (v. profughi), avendo inoltre fatto da sponda
alla politica anti-russa di Washington. Ma chiaramente è molto più di
un monito anche contro i paesi del fronte meridionale, in particolare
l'Italia, incapace fin qui di qualunque seria ristrutturazione (cosa
verissima, la parabola di quel pallone gonfiato di Renzi lo esemplifica
più di ogni trascorso berlusconismo). Vale a dire, il "piano B" di uno
sganciamento del nucleo forte europeo dal resto e dunque della fine
della moneta unica non è affatto archiviato per Berlino. Comunque sia,
il problema per la Germania e la sua residua prospettiva europeista è
che a breve dovrà rintuzzare l'aggressività americana e le sponde che
questa troverà qui in Europa (Italia di un redivivo tandem
Renzi-Berlusca?) mentre solo sul medio-lungo periodo potrebbe farsi
forte di una più profonda integrazione con la Cina, a sua volta
necessitata ad autonomizzarsi dal vincolo che l'ha fin qui tenuta
stretta e subordinata agli Usa. All'immediato, molto probabilmente, il
governo Merkel cercherà di evitare lo scontro diretto magari accettando
una rivalutazione dell'euro e facendo concessioni di facciata sulla
questione del surplus commerciale.
Attenzione, e qui finisco, a non scambiare queste eventuali misure per
un cambio di passo sostanziale nelle politiche economiche della Ue,
eventualmente consolidato da una vittoria elettorale socialdemocratica
alle prossime elezioni tedesche che aprirebbe, vuoi con una Grosse
Koalition più curvata a sinistra vuoi addirittura con un governo
rosso-rosso-verde, a un rilancio europeista in chiave "post-austerity". A
parte le facili considerazioni che chiunque può trarre dall'operato
anche solo di questi ultimi anni della socialdemocrazia tedesca su tutti
i piani - del resto lo stesso candidato socialdemocratico Schulz parla
di Europa non a due ma a più velocità - non sono solo le ragioni che
dicevo a far escludere quella prospettiva ma, più nel profondo, è il
fatto che la Germania non può, né a breve né a medio termine, sostituire
gli States nella funzione di riciclo dei surplus commerciali e della
rendita globali attraverso la moneta mondiale, l'indebitamento e
l'apertura del proprio mercato interno. E questo per ragioni, ripeto,
profonde che rimandano alla divisione internazionale del lavoro, al
comando globale via moneta, alla geopolitica, alla stessa storia
(l'apparato produttivo tedesco è sempre stato esorbitante rispetto al
mercato interno). Non solo: neppure gli Usa sono in grado, questo è
quanto segnala il passaggio Trump, dovesse anche venir buttato giù la
cosa non cambia, non sono più in grado di svolgere pienamente quella
funzione a beneficio di se stessi, innanzitutto, e insieme dell'intero
sistema. Il gioco globale si fa sempre più a somma zero, tutto un lungo
ciclo capitalistico e forse una civiltà stanno approssimando la fine, e i
giochi si fanno duri. Forse faremmo bene a provare a posizionarci a
questi livelli - per quanto difficili da agire politicamente
all'immediato - piuttosto che perderci fuori tempo massimo dietro
improbabili riedizioni di un capitalismo europeo ben regolato di marca
socialdemocratica.
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