), coppia concettuale che
deve sostituire quella, ovviamente “vecchia”, di destra/sinistra. Pier Luigi
Battista ci informa sul Corriere che “non c’è nessuna deriva autoritaria”:
ebbene, non mi sento affatto tranquillizzato. Che un giornalista, che fa di
mestiere il “commentatore” politico-culturale, appaia del tutto avulso dalla
comprensione di un fenomeno generale in corso da decenni nelle da lui tanto
osannate “liberaldemocrazie” è a dir poco è stupefacente.
Nessuno forse gli ha mai parlato della post-democrazia. Magari leggere qualche libro, sfogliare qualche rivista (alludo alle riviste di studio, non ai rotocalchi, di cui certo “Pigi” è attento lettore), non gli farebbe male. Si dà il caso che il termine sia stato coniato da uno studioso britannico, Colin Crouch, proprio a seguito di un lungo soggiorno di studio in Italia, che non è più ormai un caso marginale, ma un’avanguardia, o se si preferisce, il luogo di sperimentazione di fenomeni politici. Ma, naturalmente, la trasformazione della democrazia è un processo in atto a livello sovranazionale, precede addirittura il “crollo del Muro”, anche se da quell’evento – salutato universalmente come l’ingresso dell’umanità in un’epoca di pace e progresso indefiniti – ha ricevuto un’accelerazione pazzesca.
Ebbene, le “riforme istituzionali”, che il prode Matteo si appresta a realizzare, con metodi duceschi, sono state invocate da potenti gruppi finanziari da decenni, e sono state preparate dagli “opinionisti” mainstream, i quali su giornali e attraverso il megafono più possente degli altri media, la tv in particolare, hanno finto di scambiare la causa con gli effetti. Il novitismo, il nuovismo, il riformismo, il decisionismo, la governabilità, la necessità di “svecchiare”, che con Renzi ha assunto gli odiosi toni generazionali (la “rottamazione” degli anziani), sono parole d’ordine che hanno imperversato fin dai nefasti anni Ottanta, in particolare sotto l’imperio di Bettino Craxi, da cui discende Silvio Berlusconi, del quale erede innaturale, ma reale è proprio Matteo Renzi. Era stato quello “il ventennio populista” (per riprendere il titolo di un libro di Paolo Flores d’Arcais del 2006).
Il Renzi, dunque, ha un bel tuonare contro “i populismi”, essendone egli stesso un rappresentante e, avendo nella sua ondivaga linea politica, raccolto e tesaurizzato le spinte dell’antipolitica, con grande abilità indirizzate verso l’obiettivo principale: ridurre le garanzie del Welfare State, accelerare il processo di privatizzazione della politica e dello Stato, confermare il potere sostanziale nelle mani di pochi gruppi oligarchici, trasformare in senso presidenzialistico-plebiscitario l’assetto istituzionale. Ed ecco la trovata geniale, con la quale Renzi si appresta a vincere a man bassa, dopo il via libero compatto del suo governo, e del suo partito (aspettiamo intanto alla prova Civati, con quelle minacce di rottura sempre rinviata, mentre Cuperlo ha già mostrato di sapere benissimo piegare la testa). Renzi (i suoi spin doctors, meglio) non insiste sul tasto delle riforme in nome dell’efficienza e della modernizzazione del sistema, ma, rivolgendosi direttamente al suo popolo, lo convince e anzi lo galvanizza attaccando la casta (quanti danni ha fatto quel pur benemerito libro di Rizzo e Stella!) di cui naturalmente è un esempio ragguardevole: anzi, si può dire che il Matteo è nato in seno alla casta, vi ha prosperato, e ne ha tratto la sua stessa ragion di vita.
l’argomento forte, qual è? I soldi. La casta ci costa, potremmo dire in un motto da pubblicità. Abbattere i costi della politica, ecco il ritornello, e pervasivamente, clamorosamente, si annuncia e si riannuncia di voler abolire Province, Comuni, e, infine, il Senato della Repubblica. Come se quelli fossero i costi; come se migliaia di italiani e italiane che lavorano nelle amministrazioni provinciali e nella miriade di enti (consorzi, perlopiù) connessi potessero essere licenziati, ipso facto. E in nome di un preteso risparmio (di spiccioli) si getta via un organo costituzionale? E tutto ciò nel silenzio dei soliti indifferenti, nella complicità diffusa di una larga parte della società, fra quelle masse, come ha scritto Vittorio Melandri, “da tempo massacrate nell’intelletto dalle Tv del Cavaliere” (però, smettiamola di chiamarlo così! Non lo è più!), oltre che “nel portafoglio, da una classe dirigente incapace, esosa e vigliacca”.
Proprio la questione portafoglio risulta decisiva, sul piano della propaganda. Le cifre fasulle fornite dai tanti bocconiani emergenti su istruzione, trasporti, previdenza (le pensioni), e, infine, la sanità hanno convinto che lo Stato spende troppo; e dunque sperpera risorse. E non rimane che ridurre i poteri pubblici (a livello centrale come periferico), smantellare lo Stato (sociale), insomma, per diminuire la spesa. Menzogne e sciocchezze. Eleonora Artesio, consigliere uscente della Regione Piemonte, ricorda opportunamente – per limitarsi alla sanità – che nel 2012 la spesa sanitaria pubblica corrente dell'Italia è stata di circa 111 miliardi di euro, il 7% del Pil, 1.867 euro/annui /abitante. Fornendo tutte le specifiche, ci ricorda in sintesi, che “spendiamo il 24% in meno della media UE”.
Anche qui, insomma, ci troviamo dinnanzi a una decisione politica, come politica è la decisione di imporre l’austerità in Europa, di cui la signora Merkel si è fatta l’odioso cerbero sorvegliante, in nome delle sue banche, le vere signore dell’Unione. Gli economisti non asserviti a quelle banche (Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Richard Koo, Steve Keen e pochi altri) hanno dimostrato che la politica di austerità produce soltanto disoccupazione, e abbassa i consumi, ossia deprime l’economia reale; e soprattutto produce nuove povertà, aggravando quelle pregresse; ma, in compenso, aumenta la ricchezza di chi è già ricco. Si tratta dunque di una politica irrazionale e illogica, a meno che ne si colga il vero significato che non è economico non nel senso di risolvere la crisi, ma di gestirla in una precisa direzione: si tratta di distruggere lo Stato sociale, e di convertire il suo sistema di protezioni (dalle pensioni alla sanità, dal limite degli orari di lavoro alla tutela dei soggetti più deboli…), in opportunità di affari per le banche, e i gruppi finanziari, che investono appunto in tali settori. Lo scopo finale è però politico: il grande giornalista Robert Fisk ha sentenziato che oggi “i banchieri sono i dittatori dell’Occidente”. Mentre un altro statunitense, uno studioso, docente universitario, Michael Hudson ha denunciato quella che esattissimamente chiama “la transizione dell’Europa dalla socialdemocrazia alla oligarchia finanziaria”.
Ebbene, che c’entra Renzi? C’entra eccome. Renzi è diventato l’espressione di tali oligarchie, ma sta evitando gli errori dei suoi predecessori: sbagli nella comunicazione (appunto, parlare di necessità del risparmio in termini collettivi: il piccolo duce si intrattiene su quanto risparmieranno i singoli, o quanto riceveranno in più di salario), lungaggini, incertezze. L’errore comune a Berlusconi, Monti, Letta è in sintesi uno: l’apertura al “dialogo con le parti sociali”, che, ricordiamolo, persino in Berlusconi era presente, non tanto per scelta quanto per necessità. La CGIL sia pur in modo via via più debole, resisteva (le altre due confederazioni maggiori si erano immediatamente accomodate sugli strapuntini loro concessi), perché il PD era all’opposizione e il sindacato di riferimento era fortemente influenzato, per usare un’espressione debole, dalla linea del partito. Lo scopo del nuovo ceto politico “riformista”, dietro l’annichilimento delle forze di classe – sindacati o partiti – è quello, ribadiamolo, di cancellare, con un tratto di penna, le conquiste sociali ottenute lungo un paio di secoli. Tanto dure da raggiungere, tra sudore lacrime e sangue, tanto facili da abbattere: questa la morale che emerge dalla velocità futuristica impressa da Renzi, il giovane, lo smart, il praticante della fastpolitics (come mi è già capitato di etichettarlo qui).
Il modello è quello avviato dalla coppia di ferro Thatcher-Reagan, lungo i mefitici anni Ottanta, gli anni della Grande Restaurazione, conclusi con la “fine del comunismo”.
Nell’Europa continentale tutto è stato più difficile; essendo diversa la tradizione politica. Ma l’obiettivo sta per essere raggiunto. Le alchimie costituzionali – dalla legge elettorale, peggiore di quelle infami di Acerbo del 1923-24, e di Calderoli tuttora in vigore, benché dichiarata incostituzionale, all’abolizione della Camera Alta, sostituita con un indecoroso pasticcio che assegna a un pugno di amministratori anche lo scranno di senatori, senza alcuna elezione – sono una sorta di paravento dietro il quale si nasconde la sostanza acre del turbocapitalismo: anche Renzi “ha messo il turbo”, come si dice nell’eloquio familiare: e va “diritto per la sua strada”, come egli stesso ha enunciato ripetutamente, bacchettando, sempre più rudemente, chiunque osi esprimere dubbi o addirittura (udite, udite!), critiche. Compreso il presidente del Senato, seconda carica dello Stato, accusato da qualche cretino di “ingerenza politica” (nessuno ha obiettato però alla prima carica dello Stato, quando ha avallato il “processo riformatore”!), che il giovinotto fiorentino non ha esitato a trattare da “conservatore”.
Il presidente Grasso ha sbagliato a difendersi proclamando di essere lui pure un “riformista”, o “modernizzatore”. L’ho già scritto su MicroMega: se quella di Renzi (e prima di lui Berlusconi e gli altri), è l’innovazione, dobbiamo dichiararci risolutamente conservatori. E mobilitarci perché questo disegno scellerato si areni, o si impantani: ci accusano di essere coloro – “i soliti intellettuali conservatori” – che fanno “impantanare” le riforme, in nome di assurde paure politiche o di grotteschi distinguo filosofici. Ebbene, accettiamo l’accusa, facciamone una bandiera, e lottiamo per far sì che si “impantani” la barca di Renzi: un giorno l’Italia ce ne sarà grata.Ed eccola, la Santa Alleanza, dalla “nuova” (immutabile) destra alla “nuova” (quanto mutata) sinistra, che si appresta a manomettere la Costituzione, a stravolgere l’assetto istituzionale del Paese, con la benedizione di Marchionne, e il pur tardivo avallo di colui che dovrebbe essere il “supremo garante” dello Stato di diritto sancito dalla Carta costituzionale.
Un po’ alla volta pressoché tutti i quotidiani, dal Corriere della Sera al Messaggero, dalla Stampa al Mattino, dal Giornale al Foglio, compresa, con qualche distinguo, la Repubblica, si allineano alla nuova onda “riformatrice”. Del resto, se si è allineata, tutto sommato in modo ubbidiente e pronto, l’Unità, perché gli altri organi di stampa dovrebbero esprimere dubbi su quello che sta accadendo? Resistono, Il Fatto Quotidiano e, naturalmente, il Manifesto. E, con altri minori, questo spazio sulla Rete, ultimo ridotto di quelli che la stampa allineata sta apostrofando con la solita trivialità “sacerdoti della Costituzione”, “ayatollah del conservatorismo”, “custodi del sacro Verbo”, “soloni fuori tempo massimo” e via seguitando.
Già, imperversa il mantra della opposizione conservazione/innovazione, che, secondo Matteo Renzi, a suo dire mutuato dall’incolpevole Bobbio (ne ho parlato proprio
Nessuno forse gli ha mai parlato della post-democrazia. Magari leggere qualche libro, sfogliare qualche rivista (alludo alle riviste di studio, non ai rotocalchi, di cui certo “Pigi” è attento lettore), non gli farebbe male. Si dà il caso che il termine sia stato coniato da uno studioso britannico, Colin Crouch, proprio a seguito di un lungo soggiorno di studio in Italia, che non è più ormai un caso marginale, ma un’avanguardia, o se si preferisce, il luogo di sperimentazione di fenomeni politici. Ma, naturalmente, la trasformazione della democrazia è un processo in atto a livello sovranazionale, precede addirittura il “crollo del Muro”, anche se da quell’evento – salutato universalmente come l’ingresso dell’umanità in un’epoca di pace e progresso indefiniti – ha ricevuto un’accelerazione pazzesca.
Ebbene, le “riforme istituzionali”, che il prode Matteo si appresta a realizzare, con metodi duceschi, sono state invocate da potenti gruppi finanziari da decenni, e sono state preparate dagli “opinionisti” mainstream, i quali su giornali e attraverso il megafono più possente degli altri media, la tv in particolare, hanno finto di scambiare la causa con gli effetti. Il novitismo, il nuovismo, il riformismo, il decisionismo, la governabilità, la necessità di “svecchiare”, che con Renzi ha assunto gli odiosi toni generazionali (la “rottamazione” degli anziani), sono parole d’ordine che hanno imperversato fin dai nefasti anni Ottanta, in particolare sotto l’imperio di Bettino Craxi, da cui discende Silvio Berlusconi, del quale erede innaturale, ma reale è proprio Matteo Renzi. Era stato quello “il ventennio populista” (per riprendere il titolo di un libro di Paolo Flores d’Arcais del 2006).
Il Renzi, dunque, ha un bel tuonare contro “i populismi”, essendone egli stesso un rappresentante e, avendo nella sua ondivaga linea politica, raccolto e tesaurizzato le spinte dell’antipolitica, con grande abilità indirizzate verso l’obiettivo principale: ridurre le garanzie del Welfare State, accelerare il processo di privatizzazione della politica e dello Stato, confermare il potere sostanziale nelle mani di pochi gruppi oligarchici, trasformare in senso presidenzialistico-plebiscitario l’assetto istituzionale. Ed ecco la trovata geniale, con la quale Renzi si appresta a vincere a man bassa, dopo il via libero compatto del suo governo, e del suo partito (aspettiamo intanto alla prova Civati, con quelle minacce di rottura sempre rinviata, mentre Cuperlo ha già mostrato di sapere benissimo piegare la testa). Renzi (i suoi spin doctors, meglio) non insiste sul tasto delle riforme in nome dell’efficienza e della modernizzazione del sistema, ma, rivolgendosi direttamente al suo popolo, lo convince e anzi lo galvanizza attaccando la casta (quanti danni ha fatto quel pur benemerito libro di Rizzo e Stella!) di cui naturalmente è un esempio ragguardevole: anzi, si può dire che il Matteo è nato in seno alla casta, vi ha prosperato, e ne ha tratto la sua stessa ragion di vita.
l’argomento forte, qual è? I soldi. La casta ci costa, potremmo dire in un motto da pubblicità. Abbattere i costi della politica, ecco il ritornello, e pervasivamente, clamorosamente, si annuncia e si riannuncia di voler abolire Province, Comuni, e, infine, il Senato della Repubblica. Come se quelli fossero i costi; come se migliaia di italiani e italiane che lavorano nelle amministrazioni provinciali e nella miriade di enti (consorzi, perlopiù) connessi potessero essere licenziati, ipso facto. E in nome di un preteso risparmio (di spiccioli) si getta via un organo costituzionale? E tutto ciò nel silenzio dei soliti indifferenti, nella complicità diffusa di una larga parte della società, fra quelle masse, come ha scritto Vittorio Melandri, “da tempo massacrate nell’intelletto dalle Tv del Cavaliere” (però, smettiamola di chiamarlo così! Non lo è più!), oltre che “nel portafoglio, da una classe dirigente incapace, esosa e vigliacca”.
Proprio la questione portafoglio risulta decisiva, sul piano della propaganda. Le cifre fasulle fornite dai tanti bocconiani emergenti su istruzione, trasporti, previdenza (le pensioni), e, infine, la sanità hanno convinto che lo Stato spende troppo; e dunque sperpera risorse. E non rimane che ridurre i poteri pubblici (a livello centrale come periferico), smantellare lo Stato (sociale), insomma, per diminuire la spesa. Menzogne e sciocchezze. Eleonora Artesio, consigliere uscente della Regione Piemonte, ricorda opportunamente – per limitarsi alla sanità – che nel 2012 la spesa sanitaria pubblica corrente dell'Italia è stata di circa 111 miliardi di euro, il 7% del Pil, 1.867 euro/annui /abitante. Fornendo tutte le specifiche, ci ricorda in sintesi, che “spendiamo il 24% in meno della media UE”.
Anche qui, insomma, ci troviamo dinnanzi a una decisione politica, come politica è la decisione di imporre l’austerità in Europa, di cui la signora Merkel si è fatta l’odioso cerbero sorvegliante, in nome delle sue banche, le vere signore dell’Unione. Gli economisti non asserviti a quelle banche (Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Richard Koo, Steve Keen e pochi altri) hanno dimostrato che la politica di austerità produce soltanto disoccupazione, e abbassa i consumi, ossia deprime l’economia reale; e soprattutto produce nuove povertà, aggravando quelle pregresse; ma, in compenso, aumenta la ricchezza di chi è già ricco. Si tratta dunque di una politica irrazionale e illogica, a meno che ne si colga il vero significato che non è economico non nel senso di risolvere la crisi, ma di gestirla in una precisa direzione: si tratta di distruggere lo Stato sociale, e di convertire il suo sistema di protezioni (dalle pensioni alla sanità, dal limite degli orari di lavoro alla tutela dei soggetti più deboli…), in opportunità di affari per le banche, e i gruppi finanziari, che investono appunto in tali settori. Lo scopo finale è però politico: il grande giornalista Robert Fisk ha sentenziato che oggi “i banchieri sono i dittatori dell’Occidente”. Mentre un altro statunitense, uno studioso, docente universitario, Michael Hudson ha denunciato quella che esattissimamente chiama “la transizione dell’Europa dalla socialdemocrazia alla oligarchia finanziaria”.
Ebbene, che c’entra Renzi? C’entra eccome. Renzi è diventato l’espressione di tali oligarchie, ma sta evitando gli errori dei suoi predecessori: sbagli nella comunicazione (appunto, parlare di necessità del risparmio in termini collettivi: il piccolo duce si intrattiene su quanto risparmieranno i singoli, o quanto riceveranno in più di salario), lungaggini, incertezze. L’errore comune a Berlusconi, Monti, Letta è in sintesi uno: l’apertura al “dialogo con le parti sociali”, che, ricordiamolo, persino in Berlusconi era presente, non tanto per scelta quanto per necessità. La CGIL sia pur in modo via via più debole, resisteva (le altre due confederazioni maggiori si erano immediatamente accomodate sugli strapuntini loro concessi), perché il PD era all’opposizione e il sindacato di riferimento era fortemente influenzato, per usare un’espressione debole, dalla linea del partito. Lo scopo del nuovo ceto politico “riformista”, dietro l’annichilimento delle forze di classe – sindacati o partiti – è quello, ribadiamolo, di cancellare, con un tratto di penna, le conquiste sociali ottenute lungo un paio di secoli. Tanto dure da raggiungere, tra sudore lacrime e sangue, tanto facili da abbattere: questa la morale che emerge dalla velocità futuristica impressa da Renzi, il giovane, lo smart, il praticante della fastpolitics (come mi è già capitato di etichettarlo qui).
Il modello è quello avviato dalla coppia di ferro Thatcher-Reagan, lungo i mefitici anni Ottanta, gli anni della Grande Restaurazione, conclusi con la “fine del comunismo”.
Nell’Europa continentale tutto è stato più difficile; essendo diversa la tradizione politica. Ma l’obiettivo sta per essere raggiunto. Le alchimie costituzionali – dalla legge elettorale, peggiore di quelle infami di Acerbo del 1923-24, e di Calderoli tuttora in vigore, benché dichiarata incostituzionale, all’abolizione della Camera Alta, sostituita con un indecoroso pasticcio che assegna a un pugno di amministratori anche lo scranno di senatori, senza alcuna elezione – sono una sorta di paravento dietro il quale si nasconde la sostanza acre del turbocapitalismo: anche Renzi “ha messo il turbo”, come si dice nell’eloquio familiare: e va “diritto per la sua strada”, come egli stesso ha enunciato ripetutamente, bacchettando, sempre più rudemente, chiunque osi esprimere dubbi o addirittura (udite, udite!), critiche. Compreso il presidente del Senato, seconda carica dello Stato, accusato da qualche cretino di “ingerenza politica” (nessuno ha obiettato però alla prima carica dello Stato, quando ha avallato il “processo riformatore”!), che il giovinotto fiorentino non ha esitato a trattare da “conservatore”.
Il presidente Grasso ha sbagliato a difendersi proclamando di essere lui pure un “riformista”, o “modernizzatore”. L’ho già scritto su MicroMega: se quella di Renzi (e prima di lui Berlusconi e gli altri), è l’innovazione, dobbiamo dichiararci risolutamente conservatori. E mobilitarci perché questo disegno scellerato si areni, o si impantani: ci accusano di essere coloro – “i soliti intellettuali conservatori” – che fanno “impantanare” le riforme, in nome di assurde paure politiche o di grotteschi distinguo filosofici. Ebbene, accettiamo l’accusa, facciamone una bandiera, e lottiamo per far sì che si “impantani” la barca di Renzi: un giorno l’Italia ce ne sarà grata.Ed eccola, la Santa Alleanza, dalla “nuova” (immutabile) destra alla “nuova” (quanto mutata) sinistra, che si appresta a manomettere la Costituzione, a stravolgere l’assetto istituzionale del Paese, con la benedizione di Marchionne, e il pur tardivo avallo di colui che dovrebbe essere il “supremo garante” dello Stato di diritto sancito dalla Carta costituzionale.
Un po’ alla volta pressoché tutti i quotidiani, dal Corriere della Sera al Messaggero, dalla Stampa al Mattino, dal Giornale al Foglio, compresa, con qualche distinguo, la Repubblica, si allineano alla nuova onda “riformatrice”. Del resto, se si è allineata, tutto sommato in modo ubbidiente e pronto, l’Unità, perché gli altri organi di stampa dovrebbero esprimere dubbi su quello che sta accadendo? Resistono, Il Fatto Quotidiano e, naturalmente, il Manifesto. E, con altri minori, questo spazio sulla Rete, ultimo ridotto di quelli che la stampa allineata sta apostrofando con la solita trivialità “sacerdoti della Costituzione”, “ayatollah del conservatorismo”, “custodi del sacro Verbo”, “soloni fuori tempo massimo” e via seguitando.
Già, imperversa il mantra della opposizione conservazione/innovazione, che, secondo Matteo Renzi, a suo dire mutuato dall’incolpevole Bobbio (ne ho parlato proprio
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