La discussione nella sinistra radicale continua spesso a concentrarsi più sui contenitori politici piuttosto che sui contenuti e il posizionamento di classe. In realtà, siamo convinti che le forme debbano essere dialetticamente connesse alla sostanza e quindi ai contenuti , la cui chiara definizione è centrale in vista della importantissima scadenza delle prossime elezioni europee.
Bisogna fare uno sforzo di innovazione nell’analisi e nella proposta politica, perché molte cose, intorno a noi, sono cambiate. L’Italia presenta una situazione politica inedita: è l’unico Paese in cui non è al governo alcun partito afferente a uno dei due storici raggruppamenti europei, il Ppe e il Pse. Certamente il bipartitismo tradizionale, basato sull’alternanza centro-sinistra/centro-destra è in crisi in tutta l’Europa eurista, dove partiti di lunga trazione, come il partito socialista francese, non esistono più. Ma solo in Italia il bipartitismo tradizionale è collassato e per la prima volta sono al governo due partiti, il M5S e la Lega, entrambi euroscettici e fautori di politiche anti-immigrazione.
La situazione dell’area politica di sinistra radicale, a sinistra del Pd, non è mai stata così confusa, le posizioni sono molte e variegate, comprese tra due estremi autolesionistici e politicamente suicidi.
La situazione dell’area politica di sinistra radicale, a sinistra del Pd, non è mai stata così confusa, le posizioni sono molte e variegate, comprese tra due estremi autolesionistici e politicamente suicidi.
Uno secondo cui è giusto appoggiare o comunque aprire una linea di credito al governo Lega-M5S, in funzione anti-Europa a egemonia tedesca e/o anti-capitale transnazionale, e un altro secondo cui si sia ormai alle soglie del fascismo e che quindi bisogna allearsi con tutti quelli che ci stanno, magari anche con il Pd o quantomeno con personaggi che vi erano fino a ieri. La cosa bizzarra è che il modello del comitato di liberazione nazionale pare essere il modello politico di riferimento degli impropriamente detti sovranisti e degli europeisti “a ogni costo”.
Purtroppo, il dibattito non è sempre basato sull’analisi della situazione concreta, cui si spesso si sostituisce l’invettiva con accuse reciproche, che divaricano le posizioni, disgregando ancora di più l’area della sinistra. Questa deriva è visibile in particolare sulla questione dell’uscita dall’euro e sull’immigrazione. L’euro non è una imposizione della Germania, per la sua conquista “pacifica” dell’Europa. L’euro nasce primariamente come strumento di tutto il capitale europeo, soprattutto del suo strato superiore (quello di grandi dimensioni e internazionalizzato), per modificare a proprio favore e a sfavore del lavoro salariato i rapporti di forza ereditati dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma i cambi fissi e l’austerity, allargando i divari tra Paesi e riducendo il mercato interno, incentivano anche la competizione tra stati e capitali e quindi la tendenza imperialista dei paesi europei. In effetti, lo stato nazionale non viene indebolito né tantomeno abolito. Il suo meccanismo di funzionamento viene rimodulato, dando maggiore forza agli esecutivi a scapito dei parlamenti, ma soprattutto (o solamente) per quanto riguarda la definizione delle politiche economiche e sociali.
In questo quadro, anche alcuni settori del capitale sono stati danneggiati dall’euro: le imprese meno internazionalizzate e più piccole che non sono al vertice delle catene globali del valore. Ma anche altri settori, dalle banche alle grandi imprese di stato e non, che hanno scontato la scarsa capacità dei governi italiani di farsi valere nei confronti di Francia e Germania, ad esempio sulla patrimonializzazione delle banche, in Libia, ecc. Sono questi settori che stanno dietro il nuovo governo Lega-M5S e che sostengono, più che la necessaria uscita dall’euro, una ridefinizione dei rapporti di forza tra l’Italia e gli Stati più forti della Uem, Germania e Francia. La questione più importante da capire, per le classi subalterne, è che gli eventuali dividendi della difesa degli interessi “nazionali” di questo governo si risolveranno a favore delle imprese, non solo quelle piccole e medie ma soprattutto, come sempre, di quelle grandi.
Infatti, la pace fiscale, la flat tax, il taglio del cuneo sul costo del lavoro si inseriscono nel solco della tendenza già vista di riduzione dei costi delle imprese e redistribuzione della ricchezza a sfavore delle classi subalterne. Nello stesso tempo il ministro dell’economia, Tria, conferma la necessità della riduzione del debito pubblico e il mantenimento del deficit primario. È, quindi, evidente che non c’è spazio per un vero reddito di cittadinanza, né sono possibili investimenti tali da risolvere il principale problema italiano, quello della disoccupazione. Tantomeno appare, neanche sullo sfondo, una strategia di uscita dall’euro. In questo quadro, l’attacco agli sbarchi degli immigrati è, da una parte, una abile mossa comunicativa per tenere nel blocco sociale che sostiene il governo la classe lavoratrice e i disoccupati del Sud e, dall’altra una scusa, per rimettere tutti e due i piedi in Libia, contrastando le mire francesi. In questo senso, qualunque cedimento alla retorica dell’invasione è un errore grave, perché spacca ulteriormente il fronte delle classi subalterne, cosa che del resto è già avvenuta. Inoltre, il vero problema non sono i flussi di immigrazione, ma - a parte gli eventi catastrofici determinati dall’Europa (guerre, ecc.) - il crollo della crescita europea che impedisce l’assorbimento di nuove forze di lavoro, autoctone e immigrate, e l’impoverimento di milioni di europei. Ma il crollo della crescita e l’impoverimento sono in parte notevole imputabili al modo in cui, grazie all’euro, tutta l’Europa ha affrontato la crisi.
Purtroppo, il dibattito non è sempre basato sull’analisi della situazione concreta, cui si spesso si sostituisce l’invettiva con accuse reciproche, che divaricano le posizioni, disgregando ancora di più l’area della sinistra. Questa deriva è visibile in particolare sulla questione dell’uscita dall’euro e sull’immigrazione. L’euro non è una imposizione della Germania, per la sua conquista “pacifica” dell’Europa. L’euro nasce primariamente come strumento di tutto il capitale europeo, soprattutto del suo strato superiore (quello di grandi dimensioni e internazionalizzato), per modificare a proprio favore e a sfavore del lavoro salariato i rapporti di forza ereditati dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma i cambi fissi e l’austerity, allargando i divari tra Paesi e riducendo il mercato interno, incentivano anche la competizione tra stati e capitali e quindi la tendenza imperialista dei paesi europei. In effetti, lo stato nazionale non viene indebolito né tantomeno abolito. Il suo meccanismo di funzionamento viene rimodulato, dando maggiore forza agli esecutivi a scapito dei parlamenti, ma soprattutto (o solamente) per quanto riguarda la definizione delle politiche economiche e sociali.
In questo quadro, anche alcuni settori del capitale sono stati danneggiati dall’euro: le imprese meno internazionalizzate e più piccole che non sono al vertice delle catene globali del valore. Ma anche altri settori, dalle banche alle grandi imprese di stato e non, che hanno scontato la scarsa capacità dei governi italiani di farsi valere nei confronti di Francia e Germania, ad esempio sulla patrimonializzazione delle banche, in Libia, ecc. Sono questi settori che stanno dietro il nuovo governo Lega-M5S e che sostengono, più che la necessaria uscita dall’euro, una ridefinizione dei rapporti di forza tra l’Italia e gli Stati più forti della Uem, Germania e Francia. La questione più importante da capire, per le classi subalterne, è che gli eventuali dividendi della difesa degli interessi “nazionali” di questo governo si risolveranno a favore delle imprese, non solo quelle piccole e medie ma soprattutto, come sempre, di quelle grandi.
Infatti, la pace fiscale, la flat tax, il taglio del cuneo sul costo del lavoro si inseriscono nel solco della tendenza già vista di riduzione dei costi delle imprese e redistribuzione della ricchezza a sfavore delle classi subalterne. Nello stesso tempo il ministro dell’economia, Tria, conferma la necessità della riduzione del debito pubblico e il mantenimento del deficit primario. È, quindi, evidente che non c’è spazio per un vero reddito di cittadinanza, né sono possibili investimenti tali da risolvere il principale problema italiano, quello della disoccupazione. Tantomeno appare, neanche sullo sfondo, una strategia di uscita dall’euro. In questo quadro, l’attacco agli sbarchi degli immigrati è, da una parte, una abile mossa comunicativa per tenere nel blocco sociale che sostiene il governo la classe lavoratrice e i disoccupati del Sud e, dall’altra una scusa, per rimettere tutti e due i piedi in Libia, contrastando le mire francesi. In questo senso, qualunque cedimento alla retorica dell’invasione è un errore grave, perché spacca ulteriormente il fronte delle classi subalterne, cosa che del resto è già avvenuta. Inoltre, il vero problema non sono i flussi di immigrazione, ma - a parte gli eventi catastrofici determinati dall’Europa (guerre, ecc.) - il crollo della crescita europea che impedisce l’assorbimento di nuove forze di lavoro, autoctone e immigrate, e l’impoverimento di milioni di europei. Ma il crollo della crescita e l’impoverimento sono in parte notevole imputabili al modo in cui, grazie all’euro, tutta l’Europa ha affrontato la crisi.
Un approccio di sinistra, quindi, non può tradursi nel “sovranismo”, intendendo con questo termine il semplice recupero della autonomia dello Stato nazionale rispetto agli organismi europei, perché lo Stato (nazionale o no) non è, da punto di vista di classe, neutrale. La questione decisiva sono i rapporti di forza tra le classi dentro lo Stato: l’euro e il “vincolo esterno” (l’alienazione di certe funzioni a livello europeo) sono strumenti tesi a realizzare la governabilità, cioè a ridurre quello che la Trilaterale definiva l’eccesso di democrazia, per imporre alle classi subalterne la disciplina di bilancio e la riorganizzazione dei rapporti di produzione e politici. Di conseguenza, non è la sovranità nazionale a dover essere recuperata ma la sovranità democratica e popolare dover essere ristabilita e allargata ulteriormente. Sostenere il governo Conte vuol dire essere subalterni al capitale e all’impresa.
Dall’altro lato, sarebbe assurdo pensare che, per contrastare il governo Lega-M5S, bisogna fare una alleanza con chi ha determinato la situazione che ha portato alla vittoria del governo Lega-M5S. Sarebbe come curare la febbre inoculando dosi massicce di virus. In particolare, non si può pensare ad alcuna union sacré anti-fascista con il Pd, che in Italia è stato ed è il rappresentante più “puro” del capitale transnazionale e che dell’euro e del “vincolo europeo” è stato il maggiore fautore. Senza contare che l’unione “antifascista” verrebbe stabilita proprio con chi ha fatto strame della Costituzione e dei meccanismi parlamentari della Repubblica. E a fronte di forze che, invece, si fanno, strumentalmente, paladine del rispetto della Costituzione. Né il discorso cambia molto quando dal Pd si passa a personaggi che, fino a ieri, vi erano dentro, e che sono stati autori e protagonisti delle peggiori scelte politiche del Pds-Ds-Pd, o a forze politiche fortemente compromesse con alleanze e accordi con il Pd e poco chiare su Ue e Uem.
La questione più bizzarra è che si continua imperterriti a fare gli stessi errori, sensibili al “richiamo della foresta” o del centro-sinistra o di alleanze di “salvezza nazionale”. Anzi, quanto più si è deboli tanto più ci sembra che solo appoggiandosi a qualcun altro si può sopravvivere. Al contrario, come gli ultimi venti anni hanno dimostrato, questo è il miglior modo per sparire definitivamente. Viceversa, bisogna costruire un proprio e definito punto di vista sulla realtà e, sulla base di questo, stabilire un posizionamento politico autonomo, dal punto di vista di classe, che abbia l’ambizione di rappresentare i lavoratori salariati e i disoccupati di questo paese. Ciò è necessario, ma certamente non permette un immediato e magico recupero di consensi e radicamento sociale. Ormai i buoi sono scappati dalla stalla e la crisi del capitale non ha prodotto una prateria da occupare. Davanti a noi c’è un territorio in cui si sono stabilite e ormai radicate altre forze, il M5S e la Lega, cui bisognerà contendere il terreno palmo a palmo. Si tratta di un lavoro lungo, che sarà tanto più lungo quanto meno saremo disposti a confrontarci con una analisi seria della realtà e a ridefinire i fondamentali di una nuova politica in modo adatto a una fase storica inedita. Al contrario, se continueremo a muoverci su binari puramente ideologici (e per di più vecchi) ci metteremo molto più tempo, ammesso che si riesca a sopravvivere.
In tutto questo come si inserisce Pap? Il punto non è se Pap deve esistere ma come deve farlo. Pap va mantenuto perché, nell’arretrato quadro politico italiano ed europeo, sotto il profilo del posizionamento in termini di costruzione di alleanze, Potere al Popolo rappresenta un passo in avanti rispetto alla situazione precedente. Infatti, il rifiuto che alcuni oppongono alla continuazione dell’esperienza di Pap nasconde la volontà di riproporre vecchie formule politiche e alleanze con soggetti e personaggi politici compromessi, che mantengono come prospettiva di fatto il centro-sinistra, in modo da implicare persino una alleanza con un Pd “derenzizzato”. Soprattutto queste alleanze impedirebbero di fare chiarezza sui contenuti, riproducendo la solita contrapposizione ideologica tra cosmopolitismo e nazionalismo, e rifacendosi a un europeismo e a illusioni di cambiamento della Ue e della Uem che hanno consegnato la sinistra disarmata alle strategie del capitale. Proprio sull’Europa, l’adesione di Pap al documento di Lisbona, firmato dalle forze di sinistra con le posizioni più avanzate a livello continentale (Podemos, Bloco de Izquierda e soprattutto La France Insoumise) consente un passo in avanti. Il documento, per quanto ancora insufficiente dal nostro punto di vista, prende le distanze nei confronti delle illusioni di democratizzazione della Ue e della Uem che ancora animano parte della sinistra radicale italiana e europea.
Il vero problema di Pap è invece il come. Infatti, che Pap sia necessario non vuol dire che vada bene così com’è o che il punto sia quello di trasformarlo in soggetto politico. Qui non si tratta soltanto o soprattutto del risultato elettorale al di sotto delle aspettative. Infatti, una coalizione che sorge tre mesi prima della elezioni rende queste ultime un banco di prova tutt’altro che risolutivo, a meno che l’illusione leaderistica non abbia fatto breccia tra le nostre fila e si ritenga possibile ottenere risultati significativi in un battito di ciglia. La questione è che Pap va rafforzata sotto diversi profili su cui, riteniamo, sia oggettivamente ancora debole. Uno è quello della comunicazione e del linguaggio, che pure, secondo alcuni, avrebbe dovuto essere nuovo e quindi il suo punto di forza. Invece, proprio il linguaggio denota una debolezza sul piano dei contenuti. La riorganizzazione eurista, a fronte della crisi del capitale, come detto sopra, non ci apre praterie ma scava contraddizioni al nostro interno. C’è, quindi, la necessità di definire i contorni di una nuova solidarietà di classe, tra lavoratori e disoccupati italiani e tra questi e i lavoratori e i disoccupati immigrati. Invece, spesso la comunicazione, non solo sull’immigrazione, rispecchia linguaggi vecchi, caratterizzati da un umanitarismo generico, tipico della tradizione cattolica. Un’altra debolezza, più importante, è riscontrabile sul mutualismo. Forme di mutualismo fanno parte della tradizione operaia. Recuperarle in maniera inedita può essere significativo verso alcuni strati sociali ma metterle come unico centro del processo di ri-radicamento di classe rischia di portare fuori strada. Inoltre, dobbiamo essere molto oculati a non farci promotori, anche involontariamente, di forme sussidiarie private di welfare, perché va rivendicato il welfare pubblico come vero obiettivo del mutualismo che si mette in campo. Soprattutto, non possiamo continuare a essere subalterni alla ormai dominante frammentazione, locale e contenutistica, del conflitto. Infatti, il movimento comunista, sin dai suoi inizi con Marx, pur riconoscendo i meriti del mutualismo, rivendicò la priorità della lotta politica, come ricomposizione della parzialità delle lotte economiche e sociali in una critica generale, e perciò politica, alla società del capitale.
La questione principale oggi è, quindi, quella del recupero della politica, intesa come modificazione dei rapporti di forza generali delle classi subalterne nei confronti del capitale e dello Stato. Si tratta di acquisire la capacità di definire linee guida e orientamenti generali che, in prospettiva, ricompongano le lotte e la classe lavoratrice stessa, ponendosi nella prospettiva di parlare a milioni di lavoratori e disoccupati. Solo tale recupero della politica può rendere utile in termini di supporto anche il mutualismo ma soprattutto è necessario non disperdersi in mille rivoli di proposte e di sensibilità di vario tipo, e pretendendo di rappresentarle tutte e tutte allo stesso modo. Centrale, invece, è la questione del modello di sviluppo economico, perché collegato alla creazione di lavoro e alla capacità di investire nelle infrastrutture e nella soddisfazione dei bisogni collettivi, che a sua volta pone la questione dell’uscita dalla Uem. L’indubbia necessità di ampliare la capacità inclusiva di Potere al Popolo si è scontrata sovente in questi mesi con una modesta capacità di relazione con il corpo attivo delle residue organizzazioni di massa: CGIL, Anpi e Arci. L’ambizione egemonica di Potere al Popolo, che si vorrebbe estesa all’intera società, si è scontrata cioè con una lettura non differenziata di queste grandi realtà associative, in cui militano molti comunisti e che in taluni contesti territoriali da essi sono dirette. Questa circostanza, nel caso della CGIL ad esempio, non sposta di un centimetro il giudizio politico sul suo gruppo dirigente nazionale ma da qui a rinunciare, sovente con boria, a proporre una direzione politica generale a questi compagni è un errore molto grave, che può compromettere l’intero percorso politico. Logica vorrebbe quindi tatto e prudenza nella relazione con questi compagni, in luogo di giudizi sommari e privi di ogni benché minimo fondamento politico.
Senza risolvere ed affrontare i nodi succitati l’avvitarsi sulle discussioni attorno alle forme non ha senso, come purtroppo avviene da anni troppo spesso. Bisogna avere un atteggiamento flessibile. Da una parte bisogna dare la possibilità di partecipare in modo compiuto anche a chi non afferisce a nessuna delle organizzazioni presenti in Pap, dall’altra parte non sussistono né le ragioni strategiche né le condizioni pratiche, politiche e organizzative, per scogliere le organizzazioni e i partiti esistenti. Compito prioritario e realizzabile, invece, è oggi quello di dare prova di capacità di sintesi e di collaborazione tra le forze che compongono Pap, rafforzandolo mediante la scelta della comunicazione più adeguata e soprattutto la definizione di poche linee guida, che alle elezioni europee facciano emergere un profilo politico chiaro. La situazione è molto difficile, perché, in parte, le speranze legate alla nascita di Pap corrono il rischio di essere disattese e, come spesso accade in fasi di transizione, emergono tendenze disgregatrici le quali si fanno strada in un quadro politico di crisi. Bisogna, quindi, sforzarsi di avere un atteggiamento equilibrato. Da una parte, non si può buttare a mare questa esperienza, che ha consentito di superare vecchie coazioni a ripetere. Dall’altra parte, affinché cominci a produrre risultati, bisogna che Pap riesca a tradurre le contraddizioni della realtà attuale in termini politici e finalmente adeguati alla fase storica in corso.
Un segnale positivo in questo senso è provenuto dalla manifestazione nazionale dello scorso 16 giugno a Roma, promossa dalla Federazione Sociale dell’USB a seguito dell’omicidio di Soumayla Sacko, e che ha visto partecipare i due segmenti più avanzati della lotta di classe nel nostro paese: i lavoratori della logistica e quelli della terra. Il tema oggi più di ieri è sollecitare, organizzare il conflitto e tradurlo in termini generali
Dall’altro lato, sarebbe assurdo pensare che, per contrastare il governo Lega-M5S, bisogna fare una alleanza con chi ha determinato la situazione che ha portato alla vittoria del governo Lega-M5S. Sarebbe come curare la febbre inoculando dosi massicce di virus. In particolare, non si può pensare ad alcuna union sacré anti-fascista con il Pd, che in Italia è stato ed è il rappresentante più “puro” del capitale transnazionale e che dell’euro e del “vincolo europeo” è stato il maggiore fautore. Senza contare che l’unione “antifascista” verrebbe stabilita proprio con chi ha fatto strame della Costituzione e dei meccanismi parlamentari della Repubblica. E a fronte di forze che, invece, si fanno, strumentalmente, paladine del rispetto della Costituzione. Né il discorso cambia molto quando dal Pd si passa a personaggi che, fino a ieri, vi erano dentro, e che sono stati autori e protagonisti delle peggiori scelte politiche del Pds-Ds-Pd, o a forze politiche fortemente compromesse con alleanze e accordi con il Pd e poco chiare su Ue e Uem.
La questione più bizzarra è che si continua imperterriti a fare gli stessi errori, sensibili al “richiamo della foresta” o del centro-sinistra o di alleanze di “salvezza nazionale”. Anzi, quanto più si è deboli tanto più ci sembra che solo appoggiandosi a qualcun altro si può sopravvivere. Al contrario, come gli ultimi venti anni hanno dimostrato, questo è il miglior modo per sparire definitivamente. Viceversa, bisogna costruire un proprio e definito punto di vista sulla realtà e, sulla base di questo, stabilire un posizionamento politico autonomo, dal punto di vista di classe, che abbia l’ambizione di rappresentare i lavoratori salariati e i disoccupati di questo paese. Ciò è necessario, ma certamente non permette un immediato e magico recupero di consensi e radicamento sociale. Ormai i buoi sono scappati dalla stalla e la crisi del capitale non ha prodotto una prateria da occupare. Davanti a noi c’è un territorio in cui si sono stabilite e ormai radicate altre forze, il M5S e la Lega, cui bisognerà contendere il terreno palmo a palmo. Si tratta di un lavoro lungo, che sarà tanto più lungo quanto meno saremo disposti a confrontarci con una analisi seria della realtà e a ridefinire i fondamentali di una nuova politica in modo adatto a una fase storica inedita. Al contrario, se continueremo a muoverci su binari puramente ideologici (e per di più vecchi) ci metteremo molto più tempo, ammesso che si riesca a sopravvivere.
In tutto questo come si inserisce Pap? Il punto non è se Pap deve esistere ma come deve farlo. Pap va mantenuto perché, nell’arretrato quadro politico italiano ed europeo, sotto il profilo del posizionamento in termini di costruzione di alleanze, Potere al Popolo rappresenta un passo in avanti rispetto alla situazione precedente. Infatti, il rifiuto che alcuni oppongono alla continuazione dell’esperienza di Pap nasconde la volontà di riproporre vecchie formule politiche e alleanze con soggetti e personaggi politici compromessi, che mantengono come prospettiva di fatto il centro-sinistra, in modo da implicare persino una alleanza con un Pd “derenzizzato”. Soprattutto queste alleanze impedirebbero di fare chiarezza sui contenuti, riproducendo la solita contrapposizione ideologica tra cosmopolitismo e nazionalismo, e rifacendosi a un europeismo e a illusioni di cambiamento della Ue e della Uem che hanno consegnato la sinistra disarmata alle strategie del capitale. Proprio sull’Europa, l’adesione di Pap al documento di Lisbona, firmato dalle forze di sinistra con le posizioni più avanzate a livello continentale (Podemos, Bloco de Izquierda e soprattutto La France Insoumise) consente un passo in avanti. Il documento, per quanto ancora insufficiente dal nostro punto di vista, prende le distanze nei confronti delle illusioni di democratizzazione della Ue e della Uem che ancora animano parte della sinistra radicale italiana e europea.
Il vero problema di Pap è invece il come. Infatti, che Pap sia necessario non vuol dire che vada bene così com’è o che il punto sia quello di trasformarlo in soggetto politico. Qui non si tratta soltanto o soprattutto del risultato elettorale al di sotto delle aspettative. Infatti, una coalizione che sorge tre mesi prima della elezioni rende queste ultime un banco di prova tutt’altro che risolutivo, a meno che l’illusione leaderistica non abbia fatto breccia tra le nostre fila e si ritenga possibile ottenere risultati significativi in un battito di ciglia. La questione è che Pap va rafforzata sotto diversi profili su cui, riteniamo, sia oggettivamente ancora debole. Uno è quello della comunicazione e del linguaggio, che pure, secondo alcuni, avrebbe dovuto essere nuovo e quindi il suo punto di forza. Invece, proprio il linguaggio denota una debolezza sul piano dei contenuti. La riorganizzazione eurista, a fronte della crisi del capitale, come detto sopra, non ci apre praterie ma scava contraddizioni al nostro interno. C’è, quindi, la necessità di definire i contorni di una nuova solidarietà di classe, tra lavoratori e disoccupati italiani e tra questi e i lavoratori e i disoccupati immigrati. Invece, spesso la comunicazione, non solo sull’immigrazione, rispecchia linguaggi vecchi, caratterizzati da un umanitarismo generico, tipico della tradizione cattolica. Un’altra debolezza, più importante, è riscontrabile sul mutualismo. Forme di mutualismo fanno parte della tradizione operaia. Recuperarle in maniera inedita può essere significativo verso alcuni strati sociali ma metterle come unico centro del processo di ri-radicamento di classe rischia di portare fuori strada. Inoltre, dobbiamo essere molto oculati a non farci promotori, anche involontariamente, di forme sussidiarie private di welfare, perché va rivendicato il welfare pubblico come vero obiettivo del mutualismo che si mette in campo. Soprattutto, non possiamo continuare a essere subalterni alla ormai dominante frammentazione, locale e contenutistica, del conflitto. Infatti, il movimento comunista, sin dai suoi inizi con Marx, pur riconoscendo i meriti del mutualismo, rivendicò la priorità della lotta politica, come ricomposizione della parzialità delle lotte economiche e sociali in una critica generale, e perciò politica, alla società del capitale.
La questione principale oggi è, quindi, quella del recupero della politica, intesa come modificazione dei rapporti di forza generali delle classi subalterne nei confronti del capitale e dello Stato. Si tratta di acquisire la capacità di definire linee guida e orientamenti generali che, in prospettiva, ricompongano le lotte e la classe lavoratrice stessa, ponendosi nella prospettiva di parlare a milioni di lavoratori e disoccupati. Solo tale recupero della politica può rendere utile in termini di supporto anche il mutualismo ma soprattutto è necessario non disperdersi in mille rivoli di proposte e di sensibilità di vario tipo, e pretendendo di rappresentarle tutte e tutte allo stesso modo. Centrale, invece, è la questione del modello di sviluppo economico, perché collegato alla creazione di lavoro e alla capacità di investire nelle infrastrutture e nella soddisfazione dei bisogni collettivi, che a sua volta pone la questione dell’uscita dalla Uem. L’indubbia necessità di ampliare la capacità inclusiva di Potere al Popolo si è scontrata sovente in questi mesi con una modesta capacità di relazione con il corpo attivo delle residue organizzazioni di massa: CGIL, Anpi e Arci. L’ambizione egemonica di Potere al Popolo, che si vorrebbe estesa all’intera società, si è scontrata cioè con una lettura non differenziata di queste grandi realtà associative, in cui militano molti comunisti e che in taluni contesti territoriali da essi sono dirette. Questa circostanza, nel caso della CGIL ad esempio, non sposta di un centimetro il giudizio politico sul suo gruppo dirigente nazionale ma da qui a rinunciare, sovente con boria, a proporre una direzione politica generale a questi compagni è un errore molto grave, che può compromettere l’intero percorso politico. Logica vorrebbe quindi tatto e prudenza nella relazione con questi compagni, in luogo di giudizi sommari e privi di ogni benché minimo fondamento politico.
Senza risolvere ed affrontare i nodi succitati l’avvitarsi sulle discussioni attorno alle forme non ha senso, come purtroppo avviene da anni troppo spesso. Bisogna avere un atteggiamento flessibile. Da una parte bisogna dare la possibilità di partecipare in modo compiuto anche a chi non afferisce a nessuna delle organizzazioni presenti in Pap, dall’altra parte non sussistono né le ragioni strategiche né le condizioni pratiche, politiche e organizzative, per scogliere le organizzazioni e i partiti esistenti. Compito prioritario e realizzabile, invece, è oggi quello di dare prova di capacità di sintesi e di collaborazione tra le forze che compongono Pap, rafforzandolo mediante la scelta della comunicazione più adeguata e soprattutto la definizione di poche linee guida, che alle elezioni europee facciano emergere un profilo politico chiaro. La situazione è molto difficile, perché, in parte, le speranze legate alla nascita di Pap corrono il rischio di essere disattese e, come spesso accade in fasi di transizione, emergono tendenze disgregatrici le quali si fanno strada in un quadro politico di crisi. Bisogna, quindi, sforzarsi di avere un atteggiamento equilibrato. Da una parte, non si può buttare a mare questa esperienza, che ha consentito di superare vecchie coazioni a ripetere. Dall’altra parte, affinché cominci a produrre risultati, bisogna che Pap riesca a tradurre le contraddizioni della realtà attuale in termini politici e finalmente adeguati alla fase storica in corso.
Un segnale positivo in questo senso è provenuto dalla manifestazione nazionale dello scorso 16 giugno a Roma, promossa dalla Federazione Sociale dell’USB a seguito dell’omicidio di Soumayla Sacko, e che ha visto partecipare i due segmenti più avanzati della lotta di classe nel nostro paese: i lavoratori della logistica e quelli della terra. Il tema oggi più di ieri è sollecitare, organizzare il conflitto e tradurlo in termini generali
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