lunedì 31 ottobre 2011
Sono entrato in crisi, Renzi mi ha dato del reduce ed allora ho pensato di scrivergli una lettera aperta. Potrebbe essere mio figlio ma, fortunatamente, non lo è.
Caro Matteo ti scrivo direttamente perchè potresti essere mio figlio, lui ha tre anni più di te ma, fortunatamente per me, non lo sei.
C'è posta per te . Alessandra Daniele, www.carmillaonline.com
Pace
fatta fra i leader europei: finalmente è stato individuato l'autentico
responsabile della crisi economica mondiale, che perciò dovrà pagarne
tutte le spese. TU.
No, non è il solito ''tu'' retorico, si tratta proprio di te che stai leggendo.
Sei licenziato.
Alza il culo, raccogli le tue cianfrusaglie, e levati dai coglioni.
Sì, subito, i mercati non aspettano.
No, non c'è più niente che tu possa fare per evitarlo, l'Articolo 18 è clinicamente morto. Ormai si tratta solo di staccare la spina, e il Vaticano non si oppone. Chiamalo pure Articolo Mortis.
Cosa c'è, sei incazzato/a, anzi ''indignado'' come dite voi? Calmati.
Ti sconsigliamo di scendere in piazza, ha piovuto, è allagata dal fango.
Ti sconsigliamo di provare a bruciare un'automobile, sei così incapace che finiresti per bruciare la tua.
Torna a casa, e accendi la Tv. Ci sono sempre in onda vari talk show, e in tutti c'è Sallusti. Terreo e ubiquo, come Padre Pio. Ascolta le sue sante parole, e vergognati.
Tu sei un parassita. Un peso morto. Per anni hai preteso di essere pagato per lavorare, e persino di essere pagato dopo aver lavorato, ormai vecchio e inutile.
Un sopruso che i mercati non intendono più subire.
Il lavoro non è un diritto, è una merce. E tu non potrai più costringere nessuno a comprare la tua merce avariata.
Tu non ci servi. Al mondo ci sono milioni di disperati pronti a strisciare per un decimo del tuo stipendio, tu non sei competitivo, sei un pessimo affare, anzi, sei proprio una patacca.
Levati dai coglioni, e ringraziaci di non averti denunciato per truffa.
Ringraziaci di aver difeso la libertà dei mercati, di aver trovato l'ingranaggio guasto che inceppava la meravigliosa macchina del Capitalismo.
Tu sei il guasto. E sarai rimosso, in modo che la macchina del Capitalismo torni a macinare risorse umane e naturali a pieno regime.
Il futuro di cui parli non ti è stato rubato, non è mai esistito. Tu non hai mai avuto nessun futuro. Tu sei un rudere, un fossile, un rifiuto tossico del passato da spazzare via.
Sei un ostacolo al progresso, sei una zavorra per l'alta velocità. Sei la carcassa scheletrica del cane randagio che blocca la strada al SUV dell'avvenire.
Raccogli le tue ossa marce, e sgombera.
La pazienza del Capitalismo è finita.
No, non è il solito ''tu'' retorico, si tratta proprio di te che stai leggendo.
Sei licenziato.
Alza il culo, raccogli le tue cianfrusaglie, e levati dai coglioni.
Sì, subito, i mercati non aspettano.
No, non c'è più niente che tu possa fare per evitarlo, l'Articolo 18 è clinicamente morto. Ormai si tratta solo di staccare la spina, e il Vaticano non si oppone. Chiamalo pure Articolo Mortis.
Cosa c'è, sei incazzato/a, anzi ''indignado'' come dite voi? Calmati.
Ti sconsigliamo di scendere in piazza, ha piovuto, è allagata dal fango.
Ti sconsigliamo di provare a bruciare un'automobile, sei così incapace che finiresti per bruciare la tua.
Torna a casa, e accendi la Tv. Ci sono sempre in onda vari talk show, e in tutti c'è Sallusti. Terreo e ubiquo, come Padre Pio. Ascolta le sue sante parole, e vergognati.
Tu sei un parassita. Un peso morto. Per anni hai preteso di essere pagato per lavorare, e persino di essere pagato dopo aver lavorato, ormai vecchio e inutile.
Un sopruso che i mercati non intendono più subire.
Il lavoro non è un diritto, è una merce. E tu non potrai più costringere nessuno a comprare la tua merce avariata.
Tu non ci servi. Al mondo ci sono milioni di disperati pronti a strisciare per un decimo del tuo stipendio, tu non sei competitivo, sei un pessimo affare, anzi, sei proprio una patacca.
Levati dai coglioni, e ringraziaci di non averti denunciato per truffa.
Ringraziaci di aver difeso la libertà dei mercati, di aver trovato l'ingranaggio guasto che inceppava la meravigliosa macchina del Capitalismo.
Tu sei il guasto. E sarai rimosso, in modo che la macchina del Capitalismo torni a macinare risorse umane e naturali a pieno regime.
Il futuro di cui parli non ti è stato rubato, non è mai esistito. Tu non hai mai avuto nessun futuro. Tu sei un rudere, un fossile, un rifiuto tossico del passato da spazzare via.
Sei un ostacolo al progresso, sei una zavorra per l'alta velocità. Sei la carcassa scheletrica del cane randagio che blocca la strada al SUV dell'avvenire.
Raccogli le tue ossa marce, e sgombera.
La pazienza del Capitalismo è finita.
sabato 29 ottobre 2011
Ripartire dai contenuti e dalla democrazia - di Coordinamento "No debito"
Un
documento del Coordinamento: “No debito”.
Quelli del 1 ottobre
rilanciano e danno appauntamento alle assemblee locali in tutto il paese
e ad una nuova assemblea nazionale il 17 dicembre.
La Bce
in agosto ha mandato una lettera al governo italiano in cui chiede di
distruggere tutto lo stato sociale, tutti i nostri diritti, di mettere
all’asta i nostri beni comuni, per pagare le cambiali del nostro debito
alle banche e alla speculazione finanziaria internazionale. Berlusconi
alla fine ha risposto, accettando tutte le condizioni capestro e
mettendocene anche qualcuna in più.
Non
si tratta più solo dell’annuncio della libertà di licenziamento, sempre
desiderata e sempre più vicina, visto l’articolo 8, visti i ricatti
aziendali, vista la distruzione dei diritti e l’estensione della
precarietà. Oggi un tallone di ferro schiaccia il mondo del lavoro e
ogni misura di flessibilità e di liberalizzazione serve solo a calare i
salari e i diritti, a sfruttare di più. Per questo l’accordo del 28
giugno non è un freno ma è una inutile resa a questa aggressione.
Ma
a tutto questo si aggiungono le misure apparentemente più neutre, a
partire dall’avanzo primario di bilancio, che significa in realtà la
distruzione di ciò che resta dello stato sociale, per finanziare le
banche. E si aggiungono le privatizzazioni e le liberalizzazioni. Così
si cancella la nostra democrazia, tradendo il referendum di giugno, ove
la grande maggioranza degli italiani aveva detto no alla privatizzazione
dell’acqua e dei beni comuni. Siamo all’opposto di ciò che grida il
movimento occupy wall street: non ci si preoccupa di ciò che
chiede e di ciò di cui ha bisogno il 90% della popolazione, ma si
difendono gli interessi e il potere della parte più ridotta, del 10%.
La
lettera di intenti di Berlusconi è semplicemente una cambiale sulla
nostra democrazia. Bisogna rifiutarla oggi, con le lotte e con la
mobilitazione democratica: ci trattano come la Grecia, dobbiamo reagire
come il popolo greco. Per difendere la nostra democrazia le opposizioni e
i sindacati devono dire prima di tutto che quelle lettere non valgono
nulla e non sono esigibili. Altrimenti la crisi della nostra democrazia
affonderà nella palude delle finzioni. La lettera della Bce, la lettera
di Berlusconi vanno strappate in faccia all’Europa, altrimenti sono
tutte chiacchiere.
La
drammatica evoluzione della crisi italiana, l’aggressione sempre più
estesa ai diritti sociali e civili, danno ragione al percorso che
abbiamo iniziato il 1° ottobre e mostrano tutta la validità e tutto il
potenziale della mobilitazione del 15 ottobre.
Chi
ha manifestato in quel giorno, così come chi lotta in Val Susa, nelle
scuole, nelle università, nelle fabbriche, nei territori e nelle città,
oggi non è solo contro il governo Berlusconi, ormai alla conclusione
della sua parabola, ma anche contro quel potere economico finanziario
che nel nome del debito vuol far pagare alla maggioranza della
popolazione tutti i costi della crisi. La manifestazione del 15 ottobre,
le iniziative che l’hanno preceduta, erano quindi contro due avversari:
il governo e, assieme ad esso, la Bce e la dittatura finanziaria che
sta distruggendo i diritti in tutta Europa.
Gli
scontri del 15 ottobre e la successiva loro gestione mediatica hanno
oscurato per alcuni giorni tutto questo. Si è così prodotta una
regressione del confronto, si è tornati indietro di molti anni e sono
state cancellate le novità vere della mobilitazione. Questa regressione è
un risultato negativo che non può essere ignorato. Il problema non è
riproporre una divisione tra buoni e cattivi nelle lotte e nei
movimenti. La questione di fondo è quella della autodeterminazione dei
movimenti e delle lotte, che le manifestazioni successive al 15, da
quella dei metalmeccanici a quelle della Val Susa, hanno esemplificato.
Una
manifestazione composita, plurale ma unitaria non può essere spinta e
segnata da scelte che la manifestazione del 15 ha subìto, percepito in
gran parte come ostili e, soprattutto, mai discusso. Nessuno può imporre
pratiche e azioni di distruzione durante il corteo, che si sono ritorte
contro la manifestazione stessa. La questione non è quella della rabbia
esistente e del modo di farla valere e vedere. La questione è quella
che nessuno può imporre le proprie modalità a tutto il movimento, né
soprattutto può imporre scelte che la grande maggioranza non condivide.
Allo stesso modo affermiamo che la gestione della polizia a piazza San
Giovanni è stata evidentemente irresponsabile e ha prodotto la
radicalizzazione e la generalizzazione degli scontri.
Riteniamo
però a questo punto che non si possa andare avanti all’infinito in
questa discussione. Occorre prendere atto che la manifestazione del 15
ha determinato questo risultato negativo e trovare le modalità per cui
il proseguimento delle iniziative, reso indispensabile dall’aggravarsi
della crisi, non ripresenti gli stessi problemi. Questa è la ragione per
cui riteniamo necessaria una discussione di merito politico tra tutte
le forze che hanno in comune la lotta contro la globalizzazione e la
politica della Bce e dell’Unione europea. L’ultimatum consegnato al
governo pochi giorni fa, a cui Berlusconi ha risposto con la sua
vergognosa lettera, conferma che abbiamo due avversari. Oltre al governo
Berlusconi, dobbiamo essere contro l’Unione europea così come è oggi,
con la dittatura delle banche e della finanza che impone le sue scelte a
tutti i governi.
La
manifestazione del 15 conteneva un vuoto politico e una debolezza, che
si è cercato di affrontare anche con proposte come quella
dell’accampata, che avevano lo scopo di affermare una radicalità
necessaria e diversa da quella delle manifestazioni tradizionali. Questa
debolezza politica era accentuata dal fatto che la manifestazione del
15 appariva di più come una scadenza importata, nel quadro di un
appuntamento internazionale di grandissimo valore, piuttosto che un
obietto di lotta nostro. Occorre una piattaforma precisa, oggi, contro
gli avversari italiani ed europei dei diritti sociali e civili; per
questo pensiamo che non sia riproducibile nel nostro paese l’esperienza
dei social forum. Esauritasi l’esperienza del social forum italiano e in
profonda crisi quella europea, è necessario pensare a nuove modalità di
costruzione e a una precisa piattaforma da collocare in spazi politici
pubblici italiani ed europei.
Abbiamo
quindi lanciato il 1° ottobre un movimento contro il pagamento del
debito, contro la dittatura delle banche, con 5 punti sul piano sociale e
politico che per noi rappresentano una reale alternativa. Abbiamo anche
sottolineato che oggi come oggi non solo il centrodestra, ma anche il
centrosinistra non assumono questi temi e anzi, in molti casi, ne sono
addirittura controparte. Per questo abbiamo rivendicato la necessità di
un nuovo spazio politico pubblico che dia legittimità piena a
rivendicazioni politiche e sociali oggi assolutamente estranee a gran
parte dell’attuale sistema rappresentativo. Su questo, secondo noi, si
deve sviluppare il confronto, se si vuole mantenere il dialogo tra
espressioni diverse del movimento.
Occorre
quindi che da ogni parte si faccia la scelta precisa di rinunciare
all’egemonia e di aprirsi al confronto di merito. Noi non pretendiamo di
essere tutto il movimento, così come pensiamo che nemmeno altre forze o
gruppi lo siano. Tutti insieme, misurandoci concretamente sulle
differenze e sui contenuti, siamo in grado di costruire grandi
iniziative. Ma per superare la crisi del 15 ottobre occorre
un’operazione di verità e non il diluvio di polemiche.
La
crisi politica nel nostro paese rende sempre più chiaro che la nostra
democrazia è commissariata dal regime delle banche e della finanza
d’Europa. Per questo comprendiamo la diffidenza che si sviluppa tra chi
lotta, rispetto a tutte quelle istituzioni che sorridono alle
mobilitazioni, salvo poi sostenere scelte economiche e politiche che
vanno esattamente contro i contenuti di esse.
Il
futuro dei movimenti in Italia è quindi fondato sull’indipendenza
dall’attuale quadro politico. Questo è il punto su cui si deve davvero
discutere, anche misurandoci sulle diverse opzioni. Forse questo è il
punto su cui si è discusso meno, occorre cioè una pratica democratica
assembleare dove ci si confronti davvero sulla piattaforma, dal debito,
al lavoro, all’ambiente, alle questioni sociali, alla democrazia. Non è
più tempo di diplomatismi o di minimi comun denominatori, abbiamo visto
che questi creano una debolezza politica che viene poi coperta da altre
scelte e altre forze.
Se
vogliamo uscire dalla sindrome del post 15 ottobre dobbiamo quindi
affrontare con democrazia, partecipazione e rispetto una grande
discussione democratica sui contenuti della nostra piattaforma.
Per
queste ragioni il nostro movimento
decide di rilanciare la compagna e l’organizzazione della lotta contro
il debito e per una vera alternativa sul piano economico, sociale e
democratico. Andremo avanti, sui contenuti e nella ricerca di forme
nuove di partecipazione e democrazia, disposti e interessati al
confronto con tutti, ma nella consapevolezza che la crisi italiana è
troppo grave per continuare con inutili polemiche.
Il
comitato promotore del movimento No debito, dà appuntamento il 17
dicembre a Roma per una grande assemblea, preceduta da iniziative e
incontri in tutto il territorio del paese.
Comitato promotore “No debito”
Leopolda, se la politica è solo status symbol
Che lo scrivente non abbia mai avuto simpatia per Renzi, chi lo segue da quattro anni, sin dai tempi di Orgoglio Democratico – per la Questione Morale,
ben sa perché. Per chi se lo fosse perso, inizialmente fu per il suo
rifiuto di partecipare a Firenze alla commemorazione per il 25°
anniversario della scomparsa di Berlinguer in qualità di candidato
sindaco a Firenze. Poi Sindaco lo divenne e ne inforcò una dietro
l’altra, dal sostegno a Marchionne fino alle gitarelle ad Arcore.
Renzi ha esordito alla Leopolda bis
dicendo che lui da Premier per prima cosa rimetterebbe a posto i conti,
tagliando la spesa (esattamente come sta facendo Berlusconi); sarà che
sono fresco dalla serata antimafia più esaltante della stagione,
ma io pensavo, sciocco, che per risanare i conti bastasse andare a
prendere i soldi dalla corruzione e dall’evasione (200 miliardi
sottratti alla collettività ogni anno); ma si sa, Renzi non è di
Sinistra. E poi, visto che siamo in condizioni economico-finanziarie
pessime da 20 anni, è evidente che il problema principale non è quello,
ma a che fare con la credibilità e l’etica di una classe dirigente.
Poi ha detto che Bersani ha un’idea di
partito novecentesca; mi verrebbe da dire, vista la scenografia,
l’antipolitica imperante e gli slogan, che lui e i suoi hanno semmai
un’idea berlusconiana della politica, che mi pare sia ben peggio.
Ma c’è qualcosa di pericoloso nel
messaggio che veicola Renzi, che va aldilà della politica berlusconiana e
in qualche modo la supera: la politica dello status symbol. Nel
berlusconismo lo status symbol è stato per 15 anni Berlusconi
stesso, in Renzi invece vi è un conformismo di massa al consumismo più
becero e ignorante dei nostri tempi, che implica ovviamente tutti i
prodotti di casa Apple, senza i quali non si è abbastanza cool.
La Leopolda è iniziata da nemmeno un’ora e prima di avere uno scatto d’ira, sono riuscito a sentire le parole di un certo Davide Faraone, che nella sua requisitoria contro tutto e tutti, affermava solenne: “Dobbiamo imbarcare chi ha il macbookpro e chi è affamato come Jobs.”
Eccoli qua i nuovi fan di Bob Kennedy che si spingono laddove nemmeno
Veltroni si era mai osato spingere in quindici anni di kennedismo di
sinistra: se non hai 1600 euro da spendere in un pc che il giorno dopo è già vecchio, non puoi fare politica.
La politica che si può fare solo se hai il telefonino giusto, il
computer giusto, la macchina giusta, il lettore mp3 giusto, la cravatta
giusta e così via…
Pura apparenza, niente sostanza. O
meglio, quello che rimane è una dipendenza da un sistema che si dovrebbe
abbattere o quanto meno combattere, non cercando di influenzare più del
dovuto orde di giovani che ora hanno ritrovato come appuntamento
culturale il Big Brother e guardano con favore al Big Bang di Renzi solo perché dice le cose di Grillo senza parolacce.
Vedremo cosa ne verrà fuori. Una cosa è certa. Quando la settimana scorsa parlavo di “persone in violento contrasto con l’immagine consueta dell’uomo politico“, citando Foa su Berlinguer, non mi riferivo a quelli come Renzi, nuovi fuori e vecchi dentro. Loro, semmai, sono “in violento contrasto”. Con cosa, ancora non lo si è ben capito.
P.S. Ma chi paga per tutto questo?
Banchetti, scenografie da cinema etc. Sarebbe bello vedere la lista dei
finanziatori di Renzi…
http://www.enricoberlinguer.it/
Il miracolo dell’acqua partenopea
Dalle parole ai fatti. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, come
promesso in campagna elettorale, crea – seguendo il modello di Parigi –
la prima azienda in Italia completamente di diritto pubblico che si
occuperà della gestione delle risorse idriche. Perchè l'oro blu è un
bene comune.
di Antonio Musella, Rete Commons
Ci sono dei giorni in cui ritrovi il senso di ciò che si fa. Ritrovi le risposte ai perché di tante contraddizioni, di sacrifici, della passione messa nelle lotte.
Il 26 ottobre scorso il Consiglio Comunale di Napoli ha approvato la trasformazione dell'azienda delle risorse idriche la ARIN s.p.a. nella A.B.C. Acqua Bene Comune, la prima azienda speciale in Italia completamente di diritto pubblico nell'era post referendum che si occuperà della gestione delle risorse idriche a Napoli.
In tanti, nonostante la pioggia, abbiamo assistito a 6 ore di consiglio comunale, tra interventi, emendamenti e mozioni, per poter festeggiare Napoli come la capitale dell'acqua bene comune.
Tra gli spettatori bagnati anche Alex Zanotelli con un buffo cappello a forma di rubinetto, e poi gli attivisti della Rete Commons, quelli del Comitato Acqua Napoli, Marco Bersani del Forum Acqua Nazionale. Dall'altro lato dei banchi il sindaco De Magistris che con questa delibera realizza un punto del suo programma elettorale. Un punto di programma che insieme al piano alternativo dei rifiuti era stato discusso e concordato con i movimenti cittadini. Movimenti che trovano rappresentanza anche tra i banchi. C'è l'assessore ai beni comuni Alberto Lucarelli, che aveva già redatto con Navarra e Mattei i referendum sull'acqua e che oggi mette la firma sulla delibera che dà vita all'azienda speciale Abc. C'e Pietro Rinaldi, consigliere comunale, che legge in aula il volantino della Rete Commons.
La Abc è un'azienda speciale il cui statuto, approvato nella stessa seduta di consiglio comunale, diventerà senza dubbio un punto di riferimento nel paese. Tra le peculiarità della Abc c'è innanzitutto un Cda che dovrà vedere la partecipazione di due rappresentanti delle associazioni ambientaliste ed un comitato di sorveglianza e controllo esterno alla azienda in cui ci saranno gli esponenti dei comitati che si sono battuti per la ripubblicizzazione dell'acqua, che hanno animato i referendum, insieme a 5 consiglieri comunali. Un comitato che avrà funzioni di controllo ed indirizzo su questioni come le tariffe e la qualità della risorsa. Lo statuto prevede un minimo vitale garantito giornaliero gratuito a tutti e tutte e che il piano programmato dell'azienda debba essere discusso prima con i cittadini, in maniera orizzontale e poi presentato in consiglio comunale.
La Abc prevede anche il Bilancio ecologico, ovvero un piano che valuti l'impatto ambientale delle opere e delle infrastrutture della rete.
Inoltre, la Abc vincola gli utili al reinvestimento per potenziare la rete idrica, oltre a prevedere la partecipazione al Fondo di solidarietà internazionale da destinare a progetti di sostegno all'accesso all'acqua, gestiti attraverso forme di cooperazione decentrata e partecipata dalle comunità locali dei paesi di destinazione senza alcuna finalità lucrativa o interesse privatistico.
Napoli dunque diventa la capitale dell'acqua bene comune. Gli applausi e la soddisfazione nel volto degli attivisti dopo il consiglio comunale fanno il paio con quella di Alberto Lucarelli che ha voluto fortemente questa delibera, approvata solo dopo quattro mesi dall'insediamento della giunta comunale.
Prima di arrivare alla formazione della Abc è stato avviato un processo di studio con il supporto dei principali giuristi della materia, oltre ad un confronto serrato ed approfondito con i comitati territoriali che hanno animato la campagna referendaria. Un metodo, quello che si sta provando a costruire a Napoli, che ci racconta come il governo dal basso dei beni comuni sia non solo un orizzonte di prospettiva ma anche e soprattutto qualcosa che si può cominciare a praticare in quei territori dove la costruzione di alternativa irrompe al centro dell'agenda politica.
Per fare questo c'è bisogno di due fattori fondamentali. Da un lato la maturità e la capacità dei movimenti di cimentarsi in forme di sperimentazione dell'esercizio del governo dal basso, dall'altro un'interlocuzione politica disposta a cedere quote di sovranità. Un tema questo che ci riporta all'altro grande progetto che si sta provando a costruire a Napoli tra movimenti ed istituzioni: le consulte della democrazia partecipata.
Un progetto nato sempre da Alberto Lucarelli che ha visto già dei primi passi importanti nelle assemblee del popolo convocate in estate. Un'architettura che è stata indicata grazie al contributo di tantissime realtà, associazioni, reti, comitati, singoli cittadini che hanno dato vita ad una bozza di regolamento che prevede la costituzione di 14 consulte da cui si dirameranno i tavoli di lavoro che presenteranno le proprie proposte deliberative alla giunta. Una delibera che tra poco dovrà essere oggetto di discussione in giunta comunale per poi arrivare all'approvazione del consiglio. Un processo che vede nell'orizzontalità una caratteristica peculiare nella costruzione del quadro normativo.
Praticare l'alternativa significa provare a fare questo. È evidente che solo con dei movimenti forti, radicati e radicali, che non abdichino mai alla propria autonomia ed al conflitto sociale è possibile costruire esperienze di questo tipo.
Abc... è solo l'inizio di un alfabeto tutto da scrivere.
di Antonio Musella, Rete Commons
Ci sono dei giorni in cui ritrovi il senso di ciò che si fa. Ritrovi le risposte ai perché di tante contraddizioni, di sacrifici, della passione messa nelle lotte.
Il 26 ottobre scorso il Consiglio Comunale di Napoli ha approvato la trasformazione dell'azienda delle risorse idriche la ARIN s.p.a. nella A.B.C. Acqua Bene Comune, la prima azienda speciale in Italia completamente di diritto pubblico nell'era post referendum che si occuperà della gestione delle risorse idriche a Napoli.
In tanti, nonostante la pioggia, abbiamo assistito a 6 ore di consiglio comunale, tra interventi, emendamenti e mozioni, per poter festeggiare Napoli come la capitale dell'acqua bene comune.
Tra gli spettatori bagnati anche Alex Zanotelli con un buffo cappello a forma di rubinetto, e poi gli attivisti della Rete Commons, quelli del Comitato Acqua Napoli, Marco Bersani del Forum Acqua Nazionale. Dall'altro lato dei banchi il sindaco De Magistris che con questa delibera realizza un punto del suo programma elettorale. Un punto di programma che insieme al piano alternativo dei rifiuti era stato discusso e concordato con i movimenti cittadini. Movimenti che trovano rappresentanza anche tra i banchi. C'è l'assessore ai beni comuni Alberto Lucarelli, che aveva già redatto con Navarra e Mattei i referendum sull'acqua e che oggi mette la firma sulla delibera che dà vita all'azienda speciale Abc. C'e Pietro Rinaldi, consigliere comunale, che legge in aula il volantino della Rete Commons.
La Abc è un'azienda speciale il cui statuto, approvato nella stessa seduta di consiglio comunale, diventerà senza dubbio un punto di riferimento nel paese. Tra le peculiarità della Abc c'è innanzitutto un Cda che dovrà vedere la partecipazione di due rappresentanti delle associazioni ambientaliste ed un comitato di sorveglianza e controllo esterno alla azienda in cui ci saranno gli esponenti dei comitati che si sono battuti per la ripubblicizzazione dell'acqua, che hanno animato i referendum, insieme a 5 consiglieri comunali. Un comitato che avrà funzioni di controllo ed indirizzo su questioni come le tariffe e la qualità della risorsa. Lo statuto prevede un minimo vitale garantito giornaliero gratuito a tutti e tutte e che il piano programmato dell'azienda debba essere discusso prima con i cittadini, in maniera orizzontale e poi presentato in consiglio comunale.
La Abc prevede anche il Bilancio ecologico, ovvero un piano che valuti l'impatto ambientale delle opere e delle infrastrutture della rete.
Inoltre, la Abc vincola gli utili al reinvestimento per potenziare la rete idrica, oltre a prevedere la partecipazione al Fondo di solidarietà internazionale da destinare a progetti di sostegno all'accesso all'acqua, gestiti attraverso forme di cooperazione decentrata e partecipata dalle comunità locali dei paesi di destinazione senza alcuna finalità lucrativa o interesse privatistico.
Napoli dunque diventa la capitale dell'acqua bene comune. Gli applausi e la soddisfazione nel volto degli attivisti dopo il consiglio comunale fanno il paio con quella di Alberto Lucarelli che ha voluto fortemente questa delibera, approvata solo dopo quattro mesi dall'insediamento della giunta comunale.
Prima di arrivare alla formazione della Abc è stato avviato un processo di studio con il supporto dei principali giuristi della materia, oltre ad un confronto serrato ed approfondito con i comitati territoriali che hanno animato la campagna referendaria. Un metodo, quello che si sta provando a costruire a Napoli, che ci racconta come il governo dal basso dei beni comuni sia non solo un orizzonte di prospettiva ma anche e soprattutto qualcosa che si può cominciare a praticare in quei territori dove la costruzione di alternativa irrompe al centro dell'agenda politica.
Per fare questo c'è bisogno di due fattori fondamentali. Da un lato la maturità e la capacità dei movimenti di cimentarsi in forme di sperimentazione dell'esercizio del governo dal basso, dall'altro un'interlocuzione politica disposta a cedere quote di sovranità. Un tema questo che ci riporta all'altro grande progetto che si sta provando a costruire a Napoli tra movimenti ed istituzioni: le consulte della democrazia partecipata.
Un progetto nato sempre da Alberto Lucarelli che ha visto già dei primi passi importanti nelle assemblee del popolo convocate in estate. Un'architettura che è stata indicata grazie al contributo di tantissime realtà, associazioni, reti, comitati, singoli cittadini che hanno dato vita ad una bozza di regolamento che prevede la costituzione di 14 consulte da cui si dirameranno i tavoli di lavoro che presenteranno le proprie proposte deliberative alla giunta. Una delibera che tra poco dovrà essere oggetto di discussione in giunta comunale per poi arrivare all'approvazione del consiglio. Un processo che vede nell'orizzontalità una caratteristica peculiare nella costruzione del quadro normativo.
Praticare l'alternativa significa provare a fare questo. È evidente che solo con dei movimenti forti, radicati e radicali, che non abdichino mai alla propria autonomia ed al conflitto sociale è possibile costruire esperienze di questo tipo.
Abc... è solo l'inizio di un alfabeto tutto da scrivere.
venerdì 28 ottobre 2011
La sovranità fuggita, di Dante Barontini, www.contropiano.org
Dopi 18 mesi di tormenti continentali intorno alla debacle della Grecia,
all'emergere di problemi irresolubili anche per Irlanda, Portogallo
Spagna e Italia, il concetto di “sovranità limitata” è stato affinato
fino al punto da non prevedere vie di fuga o rinegoziazioni in corso
d'opera.
Per la Grecia si dice apertamente che è
addirittura “sotto tutela”. E i greci lo sanno bene. Un numero
eccezionale di scioperi generali tutti riuscitissimi, con manifestazioni
popolari oceaniche, in presenza di un governo ufficialmente
“socialista” neppure responsabile della falsificazione dei conti
pubblici (realizzata negli anni precedenti dai conservatori, che ora
criticano i tagli), hanno prodotto un risultato chiaro: zero.
Il governo greco dunque non esiste più.
Esiste un “liquidatore amministrativo” (Bce, Ue, Fmi) che dà
disposizioni a un “amministratore locale” (Papandreou e Venizelos) su
come mettere a valore il patrimonio pubblico residuo e cancellare
l'autogoverno di un popolo. Se non può decidere su cosa fare della
propria produzione di ricchezza, infatti, uno stato nazionale non esiste
più. Tecnicamente.
Ma sulla Grecia è stato messo a punto un format che
ora viene applicato a tutti gli altri Piigs. Di cui l'Italia
rappresenta il pezzo forte. “Troppo grande per fallire, troppo grande
per essere (eventualmente) salvata.
La “lettera al Consiglio d'Europa”
firmata da Berlusconi (ma scritta da Sacconi e Brunetta) indica come una
parte della classe dirigente di questo paese pensa di risolvere i
problemi “strutturali” della nostra economia: azzerando il lavoratore
quanto a tutele, diritti, salario, reddito, attese e livelli di vita,
possibilità di parlare e far pesare anche il proprio interesse nella
definizione di quello considerato “generale”.
Quella lettera accetta la “limitazione di
sovranità” che l'Unione e “i mercati” pretendono, ma chiarisce anche
quale parte – ancorché ampiamente maggioritaria della popolazione
dovrà perdere completamente e fin da subito il proprio “diritto
sovrano”, la propria quota. C'è insomma un'asimmetria evidente tra le
limitazioni che valgono per l'intero paese e quelle che valgono interamente per una sua parte.
Ogni programma economico, lo sappiamo, è
un programma sociale e uno spartito politico. Il fatto che l'Europa
abbia apprezzato, chiedendo addirittura l'anticipazione del
“licenziamento libero”, non rovescia affatto il giudizio continentale
sul “Tappo” di Arcore, ma chiarisce quale sia il programma europeo di gestione della crisi. Indipendentemente dal governo in carica,
come si è preoccupato subito di chiare il presidente Napolitano, vero
garante – insieme a Mario Draghi – della fedeltà italiana all'Unione.
Abbiamo dunque l'attuale situazione: Gli
stati nazionali “con problemi” non controllano più da tempo la politica
militare (gli aerei italiani hanno preso a bombardare la Libia mentre
ancora Berlusconi esitava); ora hanno perso anche l'autonomia sulla
politica di bilancio.
Non siamo ingenui. Una costruzione sovranazionale deve avvenire con cessione di sovranità da parte delle nazioni. Il problema è sempre come e in quale direzione.
La cessione che si è realizzata è asimmetrica sia
a livello di rapporti tra gli stati (la Germania non ne ha ceduta
affatto, anzi), sia e soprattutto a livello sociale (“pagare la crisi”
significa non solo peggiorare le condizioni di vita, ma rendere
politicamente ininfluenti intere figure sociali, classi, ceti). La
direzione tracciata è dunque quella di una centralizzazione politica sottratta ad ogni “controllo democratico” come conseguenza della creazione di un mercato e una moneta comuni. Svuotamento dei poteri intermedi “condizionabili” elettoralmente, creazione di superpoteri intangibili autocentrati.
Non esiste ovviamente una via a ritroso,
verso “politiche nazionali”. Nè per i governi, né per i popoli. Quindi
neppure per i sindacati, i movimenti, le forze politiche.
L'internazionalizzazione della “politica di classe” non è mai stata un
fatto ideologico, ma oggi diventa la condizione minima per poter
immaginare una dimensione dell'agire conflittuale all'altezza dei
problemi, per incidere sulle soluzioni. Ovvero, all'altezza delle mosse
dell'avversario.
Come dice la Ue all'Italia, anche qui si tratta di “passare dalle parole ai fatti”. Subito.
Annamo bene, annamo proprio bene!
LICENZIAMENTI; BERLUSCONI: SEGUIREMO LA STRADA ICHINO (pd)
«Il nostro obiettivo è incentivare le assunzioni, non i
licenziamenti», replica Silvio Berlusconi ad un giornalista che gli
chiedeva se ci sarà lo scontro sociale. «Ci siamo impegnati a rendere
più efficienti gli strumenti di sostegno al reddito -dice il Presidente
del Consiglio - I dipendenti troveranno nello Stato, attraverso la cig,
la garanzia di essere remunerati e di avere il tempo di trovare un nuovo
lavoro». «La strada - dice su Canale 5- è quella indicata al Senato da
un senatore dell'opposizione: il giuslavorista Ichino (pd). Per
aumentare la competitività del Paese, anche lui prevede la riforma delle
norme sui licenziamenti». E' proprio il caso di dire che abbiamo
un'opposizione costruttiva grazie al genio di Valter Weltroni e di
Enrico Letta che di fatto condivide gli stessi giudizi del premier
LICENZIAMENTI; LETTA (pd) NOSTRO RIFERIMENTO E' RICETTA ICHINO, COME PER BERLUSCONI
Dopo aver preso una delle "musate" più grandi attaccando il
Governo da destra pensando di farlo cadere sulle pensioni, Enrico Letta
continua a dare testate contro un muro come un pazzo. E' proprio vero
che al peggio non c'è fine. Questa mattina, mentre Silvio Berlusconi annunciava
che seguirà il modello Ichino per quanto riguarda i licenziamenti
abbiamo letto Letta che in un'intervista al Mattino si diceva d'accordo
col senatore democratico e giuslavorista Ichino: quella dei
licenziamenti è «una materia che sicuramente può essere oggetto di
confronto ma bisogna capire con precisione quali sono i punti di
un'eventuale trattativa. Non è certo la facilità di licenziare il
problema di oggi, piuttosto la priorità è dare lavoro ai giovani».
«Essenziale», per Letta è un «governo di responsabilità nazionale». «II
modello è Ciampi: a guidare deve essere una personalità in grado di
fornire risposte nei settori dell'economia e con una forte credibilità
europea». Chissà cosa intende Letta per personalità con una credibilità
europea, forse è un modo garbato per dire che occorre un boia per fare
il massacro sociale che l'Europa c'impone.
Feltri, baby-pensionato ben pagato
Per rimettere in sesto i conti pubblici bisogna innanzitutto intervenire
sulle pensioni innalzando l’età in cui si smette di lavorare. La
ricetta, in verità non nuovissima, arriva da Vittorio Feltri che martedì sera durante la trasmissione In Onda condotta su La7 da Luisella Costamagna e Luca Telese, ha detto la sua sulla manovra appena varata dal governo. “Bisogna fare come la Germania”, ha detto sicuro l’editorialista de Il Giornale. “Tutti sanno che in Germania si va in pensione a 67 anni”, ha spiegato Feltri, “mentre noi ci ostiniamo ad andarci a 58,59, 60”.
Tutto vero, come no. Anzi, a volte capita perfino che qualcuno riesca a raggiungere l’agognata pensione anche prima, molto prima. Feltri per esempio ce l’ha fatta a soli 53 anni, nel 1997. Una pensione d’oro: ben 347 milioni di lire all’anno, circa circa 179 mila euro, a carico dell’Inpgi, l’Istituto previdenziale dei giornalisti. Da allora Feltri ha continuato a scrivere e a dirigere giornali, ricevendo ricchi e meritati compensi e spiegando al mondo intero che è meglio per tutti se si va in pensione a 67 anni.
Vittorio Malagutti, Il Fatto Quotidiano,
Tutto vero, come no. Anzi, a volte capita perfino che qualcuno riesca a raggiungere l’agognata pensione anche prima, molto prima. Feltri per esempio ce l’ha fatta a soli 53 anni, nel 1997. Una pensione d’oro: ben 347 milioni di lire all’anno, circa circa 179 mila euro, a carico dell’Inpgi, l’Istituto previdenziale dei giornalisti. Da allora Feltri ha continuato a scrivere e a dirigere giornali, ricevendo ricchi e meritati compensi e spiegando al mondo intero che è meglio per tutti se si va in pensione a 67 anni.
Vittorio Malagutti, Il Fatto Quotidiano,
giovedì 27 ottobre 2011
ECCO LA MODERNITA' - Galapagos, Il Manifesto
Il capitalismo aumenta del 275% il reddito dell'1% della
popolazione mondiale e appena del 18% quella del 99% restante. Un
sistema prepotente, assolutamente irriformabile. Eppure c'è chi, anche a
sinistra, pensa che si possa avere un futuro su questa terra con
un'economia di questo tipo...
John Kenneth Galbraith
nel suo celebre saggio «Il grande crollo», dedicato alla crisi del '29,
identificava nella profonda sperequazione nella distribuzione dei
redditi (l'1% della popolazione Usa si prendeva una fetta di torta del
reddito pari a un terzo del Prodotto lordo) la causa prima di quella
crisi. Insomma, non furono gli imbrogli finanziari (anche allora
abbondanti) o la mancanza di controlli a far esplodere la grande crisi.
Negli anni successivi al «grande crollo» le politiche di Roosvelt
portarono a un parziale riequilibrio delle distribuzione dei redditi. E nel dopoguerra, la paura del comunismo e la diffusione delle politiche
di welfare diedero un nuovo impulso positivo. Ma da una ventina di anni
stiamo tornando alla situazione della fine degli anni '20.
Secondo uno
studio del Cbo,l'Ufficio di bilancio del Congresso, pubblicato ieri
negli Usa, dal 1979 al 2007 la media dei redditi dell'1% delle famiglie
più ricche si è quasi triplicato, aumentando del 275%, mentre quello
della middle class è cresciuto di appena il 40%. Ovviamente, tutti i
dati sono stati depurati della componente prezzi. Si tratta cioè di
redditi reali. Anche se, come è noto, l'inflazione non è mai neutrale e
tende a penalizzare categorie di redditi (persone) in base ai consumi.
Escluso l'1% più ricco, il reddito del 20% delle famiglie ai vertici della scala sociale è invece cresciuto del 60%. Sul versante opposto, il 20% della popolazione più povera ha visto aumentare negli stessi anni il suo reddito solo del 18%, ovvero poco più dello 0,5% l'anno. Insomma, gli indignati che rappresentano il «99%» della popolazione, hanno materiale in abbondanza per dimostrare la giustezza della loro protesta: ci sono masse di popolazione che non hanno reddito, lavoro e proprietà. E sono loro, i derelitti, le persone alle quali si vorrebbe far pagare una crisi nata con l'esplosione della finanza globale.
Ai dati sul reddito delle famiglie statunitensi non sono esaustive dei profondi squilibri non sole negli Usa, ma in tutto il mondo. Un recente Studio del Credit Suisse (una banca che di queste cose se ne intende) ha rivelato che meno dell'1% della popolazione mondiale nel 2011 controlla il 39% della ricchezza totale. In un solo anno la ricchezza dei più ricchi è salita del 3,4%. Il dato assoluto ci dice che 27,9 milioni di persone (e relative famiglie, ma in ogni caso meno dell'1% della popolazione mondiale) hanno una ricchezza superiore al milioni di dollari e posseggono un patrimonio complessivo di 89 trilioni di dollari. Ovvero, 89 mila miliardi di dollari con un incremento in un solo anno (non di crescita tumultuosa) di 20 mila miliardi di dollari.
Dove si trovano tutti questi milionari? La prima sorpresa è che nel 2011 il Vecchio Continente ha scavalcato gli Stati uniti per numero di milionari. Il 37,2% del totale mondiale infatti ha casa in Europa, contro il 37% che risiede in Nord America. Eppure, anche (e soprattutto) in Europa tutte le politiche economiche correttive sono indirizzate a far pagare la crisi ai ceti popolari, come dimostra quanto fatto in Grecia, in Portogallo, in Irlanda e come si cerca di fare in Italia.
Le cifre ci dicono, dunque, che il 74,2% dei ricchi del globo è concentrato in Europa e nel Nord America. Si tratta, in totale, di oltre 22 milioni di persone. Nel ricco Giappone, invece, i milionari (sempre in dollari) sono 3,1 milioni (l'11% del totale) mentre anche in Cina i milionari avanzano: sono 1 milione, oltre il 3% del totale, la stessa percentuale dell'Australia. Che, tuttavia, vista la popolazione, è il continente dove si conta il maggior numero di super ricchi.
Secondo calcoli del Credit Suisse, nei prossimi cinque anni la ricchezza mondiale dovrebbe crescere di circa il 50% (a 345 trilioni) e saranno i paesi emergenti quelli nei quali la crescita della ricchezza e dei milionari sarà più rapida. La globalizzazione, quindi, non produrrà un benessere diffuso, come molti cercano di dimostrare, ma porterà una profonda sperequazione, affossando in una vita senza speranza centinaia di milioni di persone.
Escluso l'1% più ricco, il reddito del 20% delle famiglie ai vertici della scala sociale è invece cresciuto del 60%. Sul versante opposto, il 20% della popolazione più povera ha visto aumentare negli stessi anni il suo reddito solo del 18%, ovvero poco più dello 0,5% l'anno. Insomma, gli indignati che rappresentano il «99%» della popolazione, hanno materiale in abbondanza per dimostrare la giustezza della loro protesta: ci sono masse di popolazione che non hanno reddito, lavoro e proprietà. E sono loro, i derelitti, le persone alle quali si vorrebbe far pagare una crisi nata con l'esplosione della finanza globale.
Ai dati sul reddito delle famiglie statunitensi non sono esaustive dei profondi squilibri non sole negli Usa, ma in tutto il mondo. Un recente Studio del Credit Suisse (una banca che di queste cose se ne intende) ha rivelato che meno dell'1% della popolazione mondiale nel 2011 controlla il 39% della ricchezza totale. In un solo anno la ricchezza dei più ricchi è salita del 3,4%. Il dato assoluto ci dice che 27,9 milioni di persone (e relative famiglie, ma in ogni caso meno dell'1% della popolazione mondiale) hanno una ricchezza superiore al milioni di dollari e posseggono un patrimonio complessivo di 89 trilioni di dollari. Ovvero, 89 mila miliardi di dollari con un incremento in un solo anno (non di crescita tumultuosa) di 20 mila miliardi di dollari.
Dove si trovano tutti questi milionari? La prima sorpresa è che nel 2011 il Vecchio Continente ha scavalcato gli Stati uniti per numero di milionari. Il 37,2% del totale mondiale infatti ha casa in Europa, contro il 37% che risiede in Nord America. Eppure, anche (e soprattutto) in Europa tutte le politiche economiche correttive sono indirizzate a far pagare la crisi ai ceti popolari, come dimostra quanto fatto in Grecia, in Portogallo, in Irlanda e come si cerca di fare in Italia.
Le cifre ci dicono, dunque, che il 74,2% dei ricchi del globo è concentrato in Europa e nel Nord America. Si tratta, in totale, di oltre 22 milioni di persone. Nel ricco Giappone, invece, i milionari (sempre in dollari) sono 3,1 milioni (l'11% del totale) mentre anche in Cina i milionari avanzano: sono 1 milione, oltre il 3% del totale, la stessa percentuale dell'Australia. Che, tuttavia, vista la popolazione, è il continente dove si conta il maggior numero di super ricchi.
Secondo calcoli del Credit Suisse, nei prossimi cinque anni la ricchezza mondiale dovrebbe crescere di circa il 50% (a 345 trilioni) e saranno i paesi emergenti quelli nei quali la crescita della ricchezza e dei milionari sarà più rapida. La globalizzazione, quindi, non produrrà un benessere diffuso, come molti cercano di dimostrare, ma porterà una profonda sperequazione, affossando in una vita senza speranza centinaia di milioni di persone.
Resa totale a banche e finanza europea: è necessario un nuovo sciopero generale!
Mentre l'Europa regala i primi 106 miliardi alle banche, pagando loro le perdite causate dalle speculazioni finanziarie, Berlusconi conferma tutte le pesanti misure già previste dalle due manovre di Luglio e di Agosto, accelera i tempi della loro realizzazione, ne peggiora i contenuti e non introduce assolutamente elementi rispetto ad evasione fiscale, patrimoniale e lotta al lavoro nero, le uniche misure che avrebbero un qualche senso in termini economici e di equità sociale. Libertà di licenziare, privatizzazioni e liberalizzazioni, peggioramento delle pensioni e delle condizioni di lavoro del pubblico impiego: così Berlusconi recepisce e applica del tutto gli ordini della BCE.
Il programma che il governo ha presentato a Nicolas
Sarkozy e ad Angela Merkel ha assunto così quasi del tutto i contenuti
della famosa lettera d'agosto della BCE, firmata da Draghi e da Trichet:
una chiara e incontrovertibile resa incondizionata alle pretese e agli
ordini dell'Europa che conta, quella delle banche e della finanza.
Insieme alla conferma, alla calendarizzazione ed al
peggioramento sostanziale di temi quali le pensioni, le liberalizzazioni
e le vendite del patrimonio pubblico (almeno per 15 miliardi in 3 anni), assistiamo all'ennesimo attacco sul fronte dei licenziamenti e su quello dei lavoratori del pubblico impiego.
Il documento prevede infatti “...una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato...”
che può voler dire soltanto completa mano libera di licenziare per le
aziende, visto che esiste già una legge per mobilità e licenziamenti in
caso di crisi (la legge 223) ed il famigerato articolo 8 della manovra
di agosto. Si vuole arrivare chiaramente anche alla cancellazione
dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, in linea con quanto previsto
dallo Statuto dei Lavori di Sacconi.
Per il pubblico impiego si prevede la “...piena attuazione della Riforma Brunetta...” (che significa taglio degli stipendi con la decurtazione del salario accessorio per il 75% dei dipendenti) e che “...Per
rendere più efficiente, trasparente, flessibile e meno costosa la
pubblica amministrazione tanto a livello centrale quanto a livello degli
enti territoriali (oltre al vigente blocco del turnover del personale) renderemo effettivi con meccanismi cogenti/sanzionatori: a. la mobilità obbligatoria del personale; b.
la messa a disposizione (Cassa Integrazione Guadagni) con conseguente
riduzione salariale e del personale (e possibilità di licenziamento); c. il superamento delle dotazioni organiche....”,
cioè la cancellazione delle “piante organiche” e di ogni relativo
elemento oggettivo di valutazione delle funzioni e dei carichi di lavoro
e quindi del personale necessario. L'insieme di queste misure portano
ad una sola conclusione: futuri licenziamenti anche nel pubblico impiego.
Ci stupiscono non poco le dichiarazioni di Cgil,
Cisl e Uil che parlano ora di attacco al lavoro e alle pensioni, quando
sono state esse stesse le artefici del peggiore accordo sindacale
firmato negli ultimi anni, quello del 28 giugno 2011 che ha aperto la
strada all'art. 8 della manovra del governo che prevede il superamento
del contratto nazionale e la possibilità di derogare addirittura alle
leggi dello stato.
Come assurdi ci sembrano i commenti di gran parte
delle forze di opposizione che addirittura bollano come inconcludenti le
misure contenute nel documento del Governo, quasi a sottolineare che ne
servirebbero di peggiori, soprattutto sul versante pensioni.
D'altra parte anche il Presidente Napolitano negli
ultimi giorni non fa che ribadire la necessità di misure “impopolari”,
quasi come se il salvataggio dell'economia italiana dipendesse da chi
lavora e da chi il lavoro non lo ha, piuttosto che dalle banche, dai
grandi gruppi finanziari che ricercano famelici la perpetuazione dei
loro profitti.
Così non si va avanti: USB intensificherà le mobilitazioni che vedranno il 7 novembre scioperare a livello nazionale il personale del trasporto pubblico locale contro le privatizzazioni e per l'occupazione e l'8 novembre i dipendenti pubblici attuare azioni di protesta in tutto il paese.
Nelle prossime ore valuteremo poi al nostro interno
ed insieme ad altre forze sindacali conflittuali, la possibilità e la
tempistica di altre forme di mobilitazione, compresa l'indizione di un
nuovo sciopero generale.
Mobilitazioni che sono certamente contro il governo
Berlusconi e le misure antipopolari che ha realizzato da luglio in poi,
ma anche contro l'Europa delle banche e dei finanzieri che sta
strangolando interi paesi e riducendo alla fame decine di milioni di
cittadini.
USB Unione Sindacale di Base
mercoledì 26 ottobre 2011
«Pensioni, partita truccata. Falso che l'Italia spenda di più»
di Roberto Farneti
su Liberazione del 26/10/2011
Intervista a Felice Roberto Pizzuti, professore di Economia all'Università di Roma
Professor Felice Roberto
Pizzuti, l'Europa ci ha lanciato un ultimatum. Al vertice europeo di
domani (oggi ndr) l'Italia si dovrà presentare con un pacchetto di
misure per la crescita, contenente anche l'innalzamento dell'età
pensionabile. Al posto del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi,
lei cosa avrebbe risposto a Francia e Germania?
Domenica scorsa l'Unione europea ci ha sollecitato a presentare un pacchetto di misure per stimolare la crescita senza fare alcun riferimento esplicito a interventi nel settore pensionistico. Del resto, non ci sono ragioni di bilancio per giustificare che si intervenga proprio lì e non, ad esempio, sull'evasione fiscale.
Il punto sono le pensioni di anzianità. E' vero che esistono solo in Italia?
Se confrontiamo l'età di pensionamento di fatto, vediamo che in Italia gli uomini vanno mediamente in pensione a 60 anni e qualche mese; in Germania a circa 61 anni; in Francia circa a 59 anni. L'Italia si situa cioè a metà strada tra Francia e Germania. Eppure in Germania l'età di pensionamento di vecchiaia è 65 anni. Allora come si spiega che c'è chi va in pensione prima? Evidentemente anche lì esistono altri canali che ti consentono di farlo. E comunque, dal punto di vista economico, quello che conta è l'età effettiva di pensionamento.
D'accordo, in Francia uomini e donne per ora vanno in pensione a 62 anni. Però Sarkozy ha già fatto una riforma che porterà gradualmente l'età per andare in pensione a 67 anni nel 2020. L'Italia non dovrebbe fare la stessa cosa?
Tanto per cominciare l'età di vecchiaia in Italia non è 62 anni, come in Francia, ma è già 65. Più un anno di differimento delle finestre, arriviamo a 66. Nel 2013, quando scatteranno i tre mesi connessi con l'aumento della vita media attesa, l'età di vecchiaia salirà a 66 anni e tre mesi, al livello più o meno della Germania. Francamente che i francesi, ma anche i tedeschi, sostengano che il nostro sistema pensionistico è più generoso del loro è molto poco credibile. Dal 1992 in Italia le prestazioni pensionistiche non sono più agganciate agli aumenti salariali reali, ma solo al costo della vita e in misura parziale. In Germania invece le pensioni sono agganciate sia ai salari reali che all'inflazione.
Il problema è che, malgrado i bassi importi degli assegni erogati, per le pensioni l'Italia spende comunque troppo. Una recente analisi comparativa della Commissione Europea ha calcolato che, senza l'introduzione di correttivi al nostro sistema previdenziale, già tra nove anni avremmo la più alta incidenza di spesa per le pensioni rispetto al Pil tra i 27 paesi dell'Ue: il 14,1% contro il 10,5% della Germania, il 9,5% della Spagna, il 6,9% del Regno Unito e via dicendo.
La comparazione europea è falsata. Basti dire che Eurostat tra le prestazioni pensionistiche italiane include anche il Tfr. Ma noi sappiamo che il Tfr non è una prestazione pensionistica, è semplicemente salario differito, un prestito forzoso che i lavoratori fanno alle imprese. ll Tfr equivale circa un punto e mezzo di Pil. Ancora, in Italia i prepensionamenti a seguito di crisi aziendali diventano spesa pensionistica, in altri paesi sono considerati interventi di politica industriale non contabilizzati nella spesa pensionistica. In Germania i soldi che escono dagli enti pensionistici sono esattamente quelli che entrano nelle tasche dei pensionati e la spesa pensionistica viene contabilizzata al netto di ciò che viene pagato. In Italia invece viene registrato come spesa pensionistica il lordo erogato, inclusa la ritenuta d'acconto. Poiché dal punto di vista contabile ciò vale altri due punti e mezzo di Pil, se togliamo dal computo questa spesa e il punto e mezzo di Pil del Tfr, già la differenza tra Italia e Germania scompare del tutto. Inoltre in altri paesi il sistema pensionistico privato è più diffuso, mentre da noi le pensioni sono ancora quasi totalmente pubbliche. La vera anomalia sta perciò nelle statistiche, che non tengono conto di questi elementi di disomogeneità.
In Italia la Confindustria è tra i più accesi sostenitori della necessità di alzare l'età pensionistica. Sul Corriere della Sera gli economisti Alesina e Giavazzi propongono di sostituire la cassa integrazione con sussidi di disoccupazione temporanei e di introdurre le gabbie salariali nel pubblico impiego. Lei cosa pensa di questa visione, neoliberista, secondo cui le protezioni sociali, siccome costano, sono di ostacolo alla crescita, mentre i diritti sindacali sono un freno alla capacità di competere delle aziende?
Alesina e Giavazzi non sembrano trarre insegnamento dalla più grande crisi della storia del capitalismo. Non capiscono che il modello economico che ha dominato negli ultimi trent'anni, a fronte del continuo aumento della capacità di offerta, non ha reso possibile una equivalente crescita della domanda effettiva. Questo mancato equilibrio è dovuto in particolare a due motivi: la cattiva distribuzione del reddito, che ha depresso la capacità di consumo dei lavoratori, e la riduzione dell'interazione con i mercati da parte dell'intervento pubblico. In quell'articolo si suggerisce di intervenire sul costo del lavoro ma non c'è un punto su come agire sulle vere cause della crisi. E' come se fossero fermi a vent'anni fa.
Domenica scorsa l'Unione europea ci ha sollecitato a presentare un pacchetto di misure per stimolare la crescita senza fare alcun riferimento esplicito a interventi nel settore pensionistico. Del resto, non ci sono ragioni di bilancio per giustificare che si intervenga proprio lì e non, ad esempio, sull'evasione fiscale.
Il punto sono le pensioni di anzianità. E' vero che esistono solo in Italia?
Se confrontiamo l'età di pensionamento di fatto, vediamo che in Italia gli uomini vanno mediamente in pensione a 60 anni e qualche mese; in Germania a circa 61 anni; in Francia circa a 59 anni. L'Italia si situa cioè a metà strada tra Francia e Germania. Eppure in Germania l'età di pensionamento di vecchiaia è 65 anni. Allora come si spiega che c'è chi va in pensione prima? Evidentemente anche lì esistono altri canali che ti consentono di farlo. E comunque, dal punto di vista economico, quello che conta è l'età effettiva di pensionamento.
D'accordo, in Francia uomini e donne per ora vanno in pensione a 62 anni. Però Sarkozy ha già fatto una riforma che porterà gradualmente l'età per andare in pensione a 67 anni nel 2020. L'Italia non dovrebbe fare la stessa cosa?
Tanto per cominciare l'età di vecchiaia in Italia non è 62 anni, come in Francia, ma è già 65. Più un anno di differimento delle finestre, arriviamo a 66. Nel 2013, quando scatteranno i tre mesi connessi con l'aumento della vita media attesa, l'età di vecchiaia salirà a 66 anni e tre mesi, al livello più o meno della Germania. Francamente che i francesi, ma anche i tedeschi, sostengano che il nostro sistema pensionistico è più generoso del loro è molto poco credibile. Dal 1992 in Italia le prestazioni pensionistiche non sono più agganciate agli aumenti salariali reali, ma solo al costo della vita e in misura parziale. In Germania invece le pensioni sono agganciate sia ai salari reali che all'inflazione.
Il problema è che, malgrado i bassi importi degli assegni erogati, per le pensioni l'Italia spende comunque troppo. Una recente analisi comparativa della Commissione Europea ha calcolato che, senza l'introduzione di correttivi al nostro sistema previdenziale, già tra nove anni avremmo la più alta incidenza di spesa per le pensioni rispetto al Pil tra i 27 paesi dell'Ue: il 14,1% contro il 10,5% della Germania, il 9,5% della Spagna, il 6,9% del Regno Unito e via dicendo.
La comparazione europea è falsata. Basti dire che Eurostat tra le prestazioni pensionistiche italiane include anche il Tfr. Ma noi sappiamo che il Tfr non è una prestazione pensionistica, è semplicemente salario differito, un prestito forzoso che i lavoratori fanno alle imprese. ll Tfr equivale circa un punto e mezzo di Pil. Ancora, in Italia i prepensionamenti a seguito di crisi aziendali diventano spesa pensionistica, in altri paesi sono considerati interventi di politica industriale non contabilizzati nella spesa pensionistica. In Germania i soldi che escono dagli enti pensionistici sono esattamente quelli che entrano nelle tasche dei pensionati e la spesa pensionistica viene contabilizzata al netto di ciò che viene pagato. In Italia invece viene registrato come spesa pensionistica il lordo erogato, inclusa la ritenuta d'acconto. Poiché dal punto di vista contabile ciò vale altri due punti e mezzo di Pil, se togliamo dal computo questa spesa e il punto e mezzo di Pil del Tfr, già la differenza tra Italia e Germania scompare del tutto. Inoltre in altri paesi il sistema pensionistico privato è più diffuso, mentre da noi le pensioni sono ancora quasi totalmente pubbliche. La vera anomalia sta perciò nelle statistiche, che non tengono conto di questi elementi di disomogeneità.
In Italia la Confindustria è tra i più accesi sostenitori della necessità di alzare l'età pensionistica. Sul Corriere della Sera gli economisti Alesina e Giavazzi propongono di sostituire la cassa integrazione con sussidi di disoccupazione temporanei e di introdurre le gabbie salariali nel pubblico impiego. Lei cosa pensa di questa visione, neoliberista, secondo cui le protezioni sociali, siccome costano, sono di ostacolo alla crescita, mentre i diritti sindacali sono un freno alla capacità di competere delle aziende?
Alesina e Giavazzi non sembrano trarre insegnamento dalla più grande crisi della storia del capitalismo. Non capiscono che il modello economico che ha dominato negli ultimi trent'anni, a fronte del continuo aumento della capacità di offerta, non ha reso possibile una equivalente crescita della domanda effettiva. Questo mancato equilibrio è dovuto in particolare a due motivi: la cattiva distribuzione del reddito, che ha depresso la capacità di consumo dei lavoratori, e la riduzione dell'interazione con i mercati da parte dell'intervento pubblico. In quell'articolo si suggerisce di intervenire sul costo del lavoro ma non c'è un punto su come agire sulle vere cause della crisi. E' come se fossero fermi a vent'anni fa.
Sparare (e pescare risorse) nel mucchio è più facile - di Galapagos, Il Manifesto
Oltre un milione di queste pensioni sono pagate in Lombardia, anche se è il Piemonte la regione nella quale il rapporto tra la popolazione e i pensionati di anzianità è più alto: 100 assegni, ogni mille abitati. In Campania e Calabria il rapporto tra pensioni di anzianità e abitanti è quattro volte inferiore a quello del Piemonte. Ovvero 25 assegni ogni 1000 abitanti.
Le pensioni di anzianità sono, quindi, un «problema» al Nord. Capire perché non è difficile: al Sud trovare lavoro per i giovani è difficilissimo è il lavoro nero la norma; al Nord trovare lavoro nelle fabbriche e fabbrichette è estremamente facile e si comincia a lavorare anche a 16 anni o, al massimo, a 19 anni appena conseguito il diploma in uno dei tanti istituti tecnici professionali. E non è un lavoro in nero: al massimo si dovrà fare la trafila di alcuni anni di apprendistato. Questo spiega perché moltissimi lavoratori al Nord maturano il diritto alla pensione di anzianità (con 35 anni di contributi) abbastanza presto, con meno di 60 anni. Nel 2004 fu varata una riforma preparata da Maroni che introduceva uno «scalone» (un aumento improvviso) per poter percepire la pensione di anzianità: almeno 35 anni di contributi e almeno 60 anni (anziché 57) di età anagrafica. Con il centro-sinistra, lo «scalone» fu trasformato in scalini: ovvero i 60 anni di età anagrafica maturavano progressivamente. A regime la quota (somma di età e contributi) matura dal primo gennaio 2013, mentre per il periodo primo gennaio 2011-31 dicembre 2012 la quota è stata fissata a 96. Il che significa che per percepire la pensione di anzianità bisogni avere non meno di 60 anni e almeno 36 anni di contributi. Nel frattempo il governo ha anche varato un sistema di «finestre» che obbligano il lavoratore a andare in pensione a scadenze precise. In generale alcuni mesi più tardi di quando matura il diritto. Con l'ipotesi di ritorno dello scalone, sarebbe anticipata di un anno la riforma che per legge andrebbe a regime nel 2013. Risultato: un lavoratore che maturava il diritto il 30 giugno 2012 (con 36 anni di contributi a 60 anni di età) ora potrà andare in pensione solo (viste le finestre) nel luglio del 2014 con 38 anni di contributi e a 62 anni.
Di più: i lavoratori nati nel 1952 rischiano di lavorare oltre tre anni e mezzo in più rispetto a quelli nati nel dicembre del 1951. Effetti ancora più devastanti per le donne. Con il paradosso che tra mamma nata nel 1946 e figlia nata nel 1966 potrebbero essere necessari fino a 21 anni e mezzo di lavoro in più e un divario di età per l'uscita che può superare i 27 anni. È evidente che modificare il regime di pensionamento anticipato produce sperequazioni enormi. Ne vale la pena? Certamente no. In alternativa il governo dovrebbe cercare risorse in altre direzioni. La strada più semplice è quella di una imposta patrimoniale o di una imposta sulle grandi ricchezze. Ma per Berlusconi sono fumo negli occhi.
lunedì 24 ottobre 2011
IKEA, CHE IDEA 2 di Renzo Massarelli
E' un terreno accidentato quello di San Martino in Campo, pur
così lineare e tranquillamente disteso oltre il lembo del Tevere, tra Deruta e
Torgiano e davanti alle magnifiche colline del contado perugino, ma non per
colpa del disinteresse generale che ha sciupato - con la presenza di piccole discariche
abusive, capannoni dismessi, costruzioni artigianali aborrite, - quelli che il
piano regolatore definiva, pur con qualche compiacente eccesso, terreni agricoli
di pregio.
Quello di San Martino in Campo non pare così naturalmente
pianeggiante da quando non è più destinato alle coltivazioni di qualità ma alle
magnifiche e progressive idee del futuro, quelle del commercio e della grande
distribuzione. E da quando, soprattutto, l’affare IKEA, che non è ancora affaire, ma ci manca poco, è entrato
nella sfera di competenza non solo dei progettisti e di tutti gli altri addetti
ai lavori, ma della magistratura. Per carità siamo solo agli inizi di un’inchiesta
e per ora la sola notizia certa è che delle persone in divisa sono entrate
nelle stanze del comune di Perugia e in quelle delle Opere Pie, proprietarie
del pacchetto di San Martino in Campo e protagoniste di uno scambio complicato
di proprietà con un imprenditore di Marsciano, per capire se dietro questa
specie di baratto si possa nascondere un reato, quello di corruzione e se in
questa storia abbia una qualche responsabilità anche il Comune.
Dunque, i terreni, è il caso di dire, sonno due, quello del
giudizio nel merito del progetto e sul quale il dibattito è aperto da tempo, e
l’altro, quello giudiziario, ed è un peccato perché la cancellazione
freddamente pianificata di una delle zone più meritevoli di tutela e di una
diversa valorizzazione, avrebbe avuto
bisogno di una discussione libera da condizionamenti di questo tipo. C’è chi guarda al valore del paesaggio, all’equilibrio
del territorio, alla necessita di coniugare le ragioni dello sviluppo con
quelle dalla tutela e chi, al contrario, costringe la stessa idea di progresso
dentro un orizzonte più limitato ed immediatamente esigibile. Sarebbe stato un bel dibattito, ma a Palazzo dei Priori hanno corso come un
treno per arrivare, senza tanti complimenti, all’obiettivo che si voleva
raggiungere. Del resto si poteva dire di no ad Ikea?
Succede sempre così a
Perugia e non è
certo cosa nuova. Si poteva dire di non
al multiplex di Centova? E si poteva dire di no al progetto di una nuova
Monteluce concepita come una specie di Perugia 2 e, negli anni più lontani, si
poteva dire di no alla Perugina e alla costruzione del centro direzionale di
Fontivegge? Sulla giustezza di queste scelte, tra l’altro ognuna con una
propria e diversa connotazione, non è più neanche il caso di discutere. Sono state
fatte e sono lì, così che ognuno può misurare nel tempo la loro utilità
sociale. In fondo questa città non è il
risultato di ciò che i piani regolatori avevano previsto, ma delle varianti che
sono arrivate, immancabili, quando c’è stata la necessità di soddisfare
esigenze fortemente sostenute.
C’è però una riflessione da non tralasciare. Tutti questi progetti, figli di altrettante
varianti, destinati a cambiare il volto della città e, in alcuni casi, il
nostro stesso modo di viverla, sono nati non per rispondere ad un bisogno
collettivo, ad una necessità di carattere generale. Di tutte queste cose si
poteva tranquillamente fare a meno o scegliere altre strade. Perché allora è
andata così? È andata così perché la ragione fondamentale di questi progetti è
sempre stata la ricerca di una rendita
fondiaria, necessaria in quel momento per ragioni ogni volta diverse. Così,
in fondo, un po’ a caso è cresciuta nel corso della nostra vita questa città. A
Monteluce servivano fondi per completare l’ospedale Silvestrini, a Fontivegge
per rinfrescare le finanze di un’azienda che assicurava occupazione. A Centova
le cose erano assolutamente diverse perché si trattava , chissà se proprio a
ragione, di soddisfare aspettative private. A San Martino in Campo l’intreccio
è più complesso ancora e i cosiddetti diritti acquisiti di chi possiede un
terreno, molto meno chiari e dimostrabili.
Siamo solo al principio di un’indagine che deve completare la
magistratura, ma l’affare Ikea è piuttosto semplice da capire. È una delle
tante storie italiane dove, ad un certo punto, compare un personaggio che è
svelto e molto furbo. Non è questo il paese dei furbi? Solo che perché ci siano
i furbi è necessario che ci siano quelli che non sanno riconoscere i furbi se
no, il furbo, è nudo come il re. Certo con gli svedesi non faremo una gran bella
figura. Troviamo, noi italiani, sempre il modo di farci riconoscere.
Fonte: Il Corriere dell’Umbria
del 22.10.2011
Giavazzi, la Grecia e le pensioni
di Bruno Ugolini, L'Unità
Tornano le pensioni, anzi la riforma
delle pensioni. E’ tra le misure che ci chiede l'Europa. Da decidere
in pochi giorni. E' stato a dire il vero Silvio Berlusconi a implorare i
plenipotenziari europei di avanzare tale richiesta, in modo tale che
lui potesse, con le mani alzate, andare dagli italiani e da Bossi
dicendosi amareggiato ma costretto. Una sceneggiata.
Un ennesimo intervento sulle pensioni è caldeggiato altresì dagli editorialisti del “Corriere della sera” Giavazzi e Alesina che lo hanno messo tra le dieci cose da fare per dare “una scossa all'Italia”. Eppure sanno bene che i bilanci dell’Inps non gridano vendetta: quelli dei lavoratori dipendenti sono in attivo. Sono in passivo, semmai, i bilanci di alcune categorie come i dirigenti d'azienda.
C'è un piccolo particolare degno di nota. L'Unione Europea ha incaricato tecnici italiani nel lavoro di monitoraggio del sistema pensionistico della Grecia. Perché tale incarico? Perche gli italiani sono considerati i più esperti in materia avendo già portato avanti una seria riforma delle pensioni in Italia. Un esempio da copiare.
Un ennesimo intervento sulle pensioni è caldeggiato altresì dagli editorialisti del “Corriere della sera” Giavazzi e Alesina che lo hanno messo tra le dieci cose da fare per dare “una scossa all'Italia”. Eppure sanno bene che i bilanci dell’Inps non gridano vendetta: quelli dei lavoratori dipendenti sono in attivo. Sono in passivo, semmai, i bilanci di alcune categorie come i dirigenti d'azienda.
C'è un piccolo particolare degno di nota. L'Unione Europea ha incaricato tecnici italiani nel lavoro di monitoraggio del sistema pensionistico della Grecia. Perché tale incarico? Perche gli italiani sono considerati i più esperti in materia avendo già portato avanti una seria riforma delle pensioni in Italia. Un esempio da copiare.
Lo si fa per trovare soldi? Oltretutto nuove misure (vedi pensioni di
anzianità), come è stato osservato da stimati economisti, non si
tradurrebbero in massicce risorse finanziarie per un governo alla canna
del gas. E perché allora Berlusconi è andato a implorare un intervento
dell’Unione europea?
Per poter agitare uno scalpo politico e per dare una fregatura ai suoi
alleati della Lega. E soprattutto al popolo degli anziani. Quelli che si
accingono a manifestare in massa a Roma venerdi 28 ottobre, per scelta
dello Spi-Cgil (altro che il Simpa di Rosi Mauro!). Per dire, ad
esempio, che ci sono in Italia 9 milioni di donne con una pensione media
da 961 Euro. Saranno loro, madri, padri, nonne e nonni, a rispondere. E
porteranno in piazza anche figli e nipoti, i giovani precari. Una
generazione costretta a lavori spesso saltuari e che godrà di pensioni
miserrime: qui ci vorrebbe davvero una “scossa”.
LA TRAPPOLA ECONOMICA DELL’AUSTERITÀ di ROBERT REICH
Il nuovo piano economico appena proposto
da Ron Paul, consistente nel taglio di 1.000 miliardi dollari dal bilancio
federale nel primo anno (presumibilmente ciò significa entro il
2013), è solo leggermente più ambizioso di quelli proposti da altri
candidati repubblicani. Tutti loro stanno spingendo per forti tagli
alla spesa , chiedendo, altresì, che essi abbiano inizio il prima possibile.
Cosa hanno fumato?
Possiamo mettere da parte solo per
un attimo l’ideologia per parlare chiaramente della realtà? La spesa
dei consumatori (il 70 per cento dell'economia) è piatta o in caduta
perché i consumatori stanno perdendo il lavoro e i salari e non hanno
più soldi. Le imprese non assumono più perché non hanno abbastanza
clienti.
L'unico modo per uscire da questo circolo
vizioso è che il governo – l’ultima risorsa come possibile
soggetto che spenda soldi - rilanci l'economia. I conservatori auspicano,
invece, che il governo faccia l’esatto contrario.
Anche se i Repubblicani non avessero
proposto questi progetti senza senso, si sta comunque andando verso
questa direzione. A meno che i Repubblicani non acconsentano per un
accordo sul bilancio entro la fine dell’anno (non trattenete il respiro
nel frattempo), la temporanea riduzione delle imposte sui salari e le
estese indennità di disoccupazione finiranno.
Il risultato sarà la più
rigida stretta fiscale sulla più grande economia del mondo.
Unendo questi nuovi tagli a quelli
già in corso a livello di governo statale e locale, la dimensione
di questa contrazione fiscale sarebbe quasi senza precedenti.
Verrà un momento in cui 25 milioni
di americani saranno alla ricerca di un lavoro a tempo pieno, i redditi
medi caleranno, aumenteranno i pignoramenti delle case e il 37% delle
famiglie americane con figli piccoli vivrà in povertà.
Facendo il punto della situazione tutto
ciò è una follia economica.
E se pensate che il 2011 sia stato
un cattivo anno, in realtà il peggio deve ancora venire.
Anche se si è atterriti dal
deficit, la strategia basata sul taglio della spesa è da pazzi.
Invece di ridurre il rapporto tra debito e PIL, questa strategia fa
incrementare tale rapporto perché induce una riduzione dell’economia.
Tutto ciò può essere definito
la “trappola mortale dell’austerità”.
Con questa strategia, più un
paese lavora per ridurre il proprio debito, più peggiora il rapporto
tra debito e PIL, perché l’economia si riduce più rapidamente.
La Grecia è già caduta
in questa trappola. La Spagna e l’Italia ne sono pericolosamente vicine.
Anche la Gran Bretagna, la Francia e la Germania vi si stanno approssimando
in punta di piedi. E noi adesso.
Gli uccellacci del malaugurio del
deficit devono capire che il primo passo da fare è rilanciare la
crescita e l'occupazione. In questo modo, i ricavi aumentano e il rapporto
debito/PIL diminuisce. Solo allora, dopo che si sarà verificato il
rilancio dell’economia, si potrà iniziare a tagliare il debito.
All’inizio dell’amministrazione
Clinton il deficit annuale di bilancio era di circa 300 miliardi di
dollari. Ma invece di prendere la falce per tagliare la spesa, abbiamo
spinto per la crescita, e lo stesso fece la Fed. L’espansione
degli anni ’90 rese semplice il controllo del budget. Nel 2000
avevamo un surplus di 226 miliardi di dollari.
Rimarrà invischiato nella trappola
dell’austerità anche il repubblicano Mitch-McConnell la cui più
alta priorità è “assicurarsi che Obama abbia un unico mandato
da presidente”.
La probabilità che i Repubblicani
riescano a raggiungere questo obiettivo aumenta, ma la cosa non si fermerà
qui. Poiché la trappola dell’austerità durerà per molti anni, e
qualsiasi sia il successore repubblicano di Obama sarà anch’egli
un presidente con un unico mandato.
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