martedì 14 ottobre 2014

Palestina, tre libri per tornare a riflettere dopo l’emergenza

foto di Fabio Ciabatti, Carmillaonline.com

Con l’ultimo attacco a Gaza non abbiamo soltanto assistito a una escalation della violenza bellica israeliana. Come ha sottolineato recentemente il Tribunale Russell, c’è stata anche, da parte israeliana, una “ripresa al vetriolo” della “retorica e dell’incitamento razzista” che sono stati espressi sia sui social media, sia su quelli tradizionali, da tifosi di calcio, funzionari di polizia, opinionisti, leader religiosi, legislatori e ministri del Governo. Leggendo The idea of Israel (Verso, London New York, 2014) dello storico israeliano Ilan Pappe, compendiamo che ci sono dinamiche di lungo periodo che spiegano questo crescendo di violenza.
Pappe identifica tre filoni che caratterizzano il discorso pubblico israeliano: il sionismo classico, il post-sionismo e il neo-sionismo. Il primo era pervaso da uno spirito messianico che rimaneva però in secondo piano rispetto alla narrazione secolare di un movimento nazionale che avrebbe portato la modernizzazione e il progresso a una Palestina primitiva. Ciò si basava su un enorme rimosso: i palestinesi erano del tutto assenti dal discorso pubblico, in continuità con il vecchio slogan “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Al massimo comparivano come fanatici, primitivi, terroristi, fuggiti spontaneamente dalla loro terra su invito degli eserciti arabi durante la guerra del ’48 che poteva così apparire come una guerra d’indipendenza e di liberazione.
L’occupazione dei Cisgiordania e di Gaza, l’emergere dell’Olp, i massacri di Sabra e Chatila, la prima intifada impongono la riemersione del rimosso. L’ideologia modernizzatrice si scontra con la segmentazione razziale imposta ai danni degli ebrei non occidentali. L’apertura degli archivi dello Stato israeliano permette agli stessi storici israeliani di smascherare i miti fondativi della guerra del ’48, primo fra tutti quello dell’esodo volontario dei palestinesi. La pulizia etnica diviene così un fatto storico accertato.
Siamo negli anni ‘90. Israele e Olp siglano gli accordi di Oslo. Emerge, senza riuscire a diventare egemone, il post-sionismo, insieme eterogeneo di correnti culturali e accademiche. Questo periodo viene interrotto dalla seconda Intifada e dal fallimento degli accordi di Oslo. Dopo l’11 settembre 2001 lo “scontro di civiltà” legittima ideologicamente il neo-sionismo: ultra-nazionalismo, esclusivismo ebraico e fondamentalismo religioso divengono egemoni nel discorso pubblico israeliano, sostenuti da una coalizione di coloni, religiosi ultra-ortodossi, immigrati russi, ebrei orientali, intellettuali neocon. Paradigmatica è la figura dello storico israeliano Benny Morris: dopo aver tra i primi documentato le responsabilità del nascente stato israeliano nei confronti dei profughi palestinesi, finisce per criticare Ben Gurion per non essere risuscito a “pulire” l’intera terra di Israele. I neo-sionisti fanno propri i risultati fattuali della ricerca storica post-sionista, ma ne invertono il giudizio di valore: i misfatti sono ammessi, ma sono considerati necessari per il compimento del progetto sionista. La pulizia etnica non è più un tabù. Basta chiamarla “dearabizzazione”.
Non può dunque sorprendere l’estrema violenza materiale e ideologica cui abbiamo assistito con l’ultimo attacco a Gaza. Si rimane però attoniti pensando alle debolissime reazioni degli stati arabi. In effetti la solidarietà panaraba nei confronti dei palestinesi (fin a tempi recenti assicurata, anche se non di rado soltanto a livello ideologico) è stata spazzata via dai flussi di capitale internazionale che attraversano il Medio Oriente e il Nord Africa, come ampiamente dimostrato da Adam Hanieh in Lineages of revolt (Haymarket Books, Chicago, 2013). L’autore documenta come i tempi dell’isolamento e del boicottaggio di Israele da parte dei paesi arabi siano tramontati. Dagli anni ‘90 gli Usa accelerano il processo di ristrutturazione neoliberista degli stati arabi con l’intenzione di creare sotto la loro egemonia un’area di libero commercio di cui faccia parte integrante Israele. Il tutto si concretizza in una serie di accordi bilaterali di libero commercio tra paesi arabi e Usa, e nella creazione di Zone Industriali Qualificate, per le quali fanno da apripista Giordania e Egitto, le cui produzioni hanno libero accesso al mercato statunitense purché una percentuale minima degli input sia israeliana.
Si sviluppa così una borghesia araba integrata regionalmente e interconnessa con il capitalismo internazionale. Non viene però meno il forte legame con i rispettivi stati che mantengono il loro carattere autoritario proprio in quanto neoliberisti: occorre infatti gestire l’allargamento della disparità di distribuzione delle ricchezze, il peggioramento delle condizioni lavorative soprattutto per i giovani, anche se ad alta scolarizzazione, la massa di disoccupati o semi-occupati inurbati, precedentemente occupata nella piccola produzione agricola schiacciata dai giganti dell’agro-business.
Le politiche neoliberiste hanno colpito anche la Palestina. Il Piano di sviluppo per il 2008-2010 ha imposto un taglio all’occupazione pubblica del 21% in un paese afflitto da un’altissima disoccupazione, mitigata soltanto dai posti assicurati dall’Autorità Palestinese. Un sottile strato di borghesia locale si è potuto arricchire soltanto in connessione con quest’ultima, di fatto controllata economicamente da Israele, come gli interi Territori Occupati.
Ad aggravare la situazione sociale palestinese è stata l’ampia sostituzione della forza-lavoro autoctona impiegata da imprese israeliane con lavoratori asiatici ed est-europei. Questa dinamica conferma una delle caratteristiche specifiche dello stato sionista che viene ripetutamente messa in evidenza da Moshe Machover (esponente del Matzpen, piccolo ma importante gruppo israeliano marxista nato nel 1962 e attivo fino agli anni ‘80) in Israelis and Palestinians (Haymarket Books, Chicago, 2012), una raccolta di saggi pubblicati a partire dagli anni ’70. Secondo Machover, Israele è uno stato colonialista, ma il paragone con il Sud Africa dell’apartheid è fuorviante. Non perché Israele non faccia ampio uso di misure razziste. Ma perché i bianchi del Sud Africa sono sempre rimasti una minoranza che sfruttava i lavoratori neri di cui non poteva fare a meno. Il colonialismo israeliano, invece, è un colonialismo di popolamento, teso a rimpiazzare la popolazione locale. Ciò rende la posizione politica dei palestinesi assai più debole rispetto a quella dei neri sudafricani e assai più difficile una soluzione del conflitto limitata alla sola Palestina storica. Sia che si punti a due stati sia che si opti per uno stato binazionale.
Per superare questa impasse, Machover sostiene che sono necessari due processi: il declino del dominio globale americano, fino ad oggi in grado di supportare Israele senza pesanti costi economici e politici; una radicale trasformazione sociale, economica e politica del Medio Oriente che porti a una qualche forma di unificazione araba, presumibilmente di tipo federalista, al cui interno collocare la Palestina storica. Ciò implicherebbe riconoscere agli ebrei israeliani non soltanto diritti individuali all’interno di una nuova compagine statuale, ma anche diritti collettivi in quanto nazione che ha un’identità distinta da quella delle comunità ebraiche nel mondo e che per questo dovrebbe rinunciare alla legge del ritorno (che assicura a tutti gli ebrei la cittadinanza israeliana) e riconoscere il diritto al rientro ai profughi palestinesi.
In uno scenario di questo tipo, secondo Machover, l’alternativa tra uno stato binazionale o due stati diverrebbe meno drammatica. La questione centrale diverrebbe quella di costruire un’entità politica nell’interesse delle masse sia arabe sia israeliane.
Ammettiamolo, tutto ciò appare oggi quasi impossibile. Ma non possiamo non fare nostre le parole di Edward Said: per discutere razionalmente problemi apparentemente insolubili occorre cambiare i termini e le prospettive con cui vengono affrontati. Le primavere arabe sembravano per un breve periodo aver aperto questa diversa prospettiva. La storia può ancora sorprenderci: la primavera dei popoli europei dell’’800 fu sconfitta e tuttavia riuscì a gettare i semi delle successive rivolte.

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