Sarà colpa dell’articolo 18? Sarà colpa dell’eccesso di prerogative,
che ostacola la vocazione delle imprese a investire in produzioni,
sicurezza, tecnologia, facendo preferire altre forme e altre geografie
per incrementare la redditività? Sarà colpa di tutte le tipologie che
caratterizzano l’attività dei gufi, dei disfattisti, quelli che fermano
le grandi opere, fanno ricorso ai Tar per impugnare appalti e incarichi
opachi? Sarà colpa della natura degli italiani, indifferenti, poco
solidali, ingrati nei confronti di magnati, Paperoni, professionisti,
luminari, dai quali gradirebbero fatture trasparenti e scrupolose
denunce dei redditi?
Fatto sta che il sistema Target 2 della BCE, che controlla
periodicamente i rapporti di credito-debito tra i paesi membri
dell’Eurozona, ha registrato per il mese di agosto un deflusso di
capitali dall’Italia di 30,3 miliardi. E a settembre, il dato è
peggiorato: -37 miliardi. In soli due mesi, sono emigrati dall’Italia,
insieme a cervelli, pizzaioli, gelatai e aziende impacchettate durante
il weekend e de localizzati, armi, bagagli, macchine e cassa, anche
capitali per oltre 67 miliardi. Si tratta dei dati peggiori dai tempi
che parevano i più bui della crisi dell’euro, quelli compresi tra la
metà del 2011 e la metà del 2012, quando i mercati finanziari
scommettevano sull’imminente scomparsa della moneta unica.
Possiamo scommettere almeno che la colpa non è delle avverse
condizioni atmosferiche che espongono il Bel Paese a eventi
meteorologici sfavorevoli e persuadono a scegliere destinazioni esotiche
e confortevoli per il gruzzoletto di insospettabili e soliti sospetti. E
infatti gli italiani provinciali e frustrati, cui piace pensare che
criminali tradizionali, quelli di nuovo conio, tycoon, imprenditori,
manager, professori, fiscalisti, scelgano il sole e il mare, porti
affollati di yacht, isole caraibiche, insomma i paradisi che hanno
popolato immaginario, cinepanettoni, intercettazioni, settimanali di
gossip, saranno delusi: certo le Bahamas contano 400 banche, le Cayman
hanno uno sportello ogni 30 abitanti, e sono le destinazioni preferite
da 47 banche delle 50 più importanti e influenti del mondo.
Ma se si vuole essere certi della protezione del paravento degli
unici diritti custoditi, quello alla riservatezza, al segreto, alla
privacy, allora è meglio restare in Europa, in Olanda, in Austria, in
Lussemburgo, location preferita da 16 banche italiane, che ospita 250
istituti e dove ogni richiesta di accesso viene in tempo reale
comunicata al titolare. E qualcuno magari, più casalingo, decide di
restare sul suolo patrio, a San Marino, in Vaticano, che poi costituire
società schermo mica è reato e lo sarà sempre meno, se diventa un’arma
legittima e legalizzata per “semplificare”, combattere la burocrazia,
far circolare denaro, aiutare lo sviluppo. E infatti, sempre secondo
Target 2, dei 67,3 miliardi fuggiti dall’Italia, circa la metà avrebbe
preso la via della Germania, mentre il resto con ogni probabilità
sarebbe stato dirottato verso il Nord Europa, che proprio negli ultimi
mesi sta registrando un apprezzamento delle sue valute, tanto che le
banche centrali di paesi come Danimarca, Svezia e Norvegia hanno
iniziato ad adottare una politica monetaria più accomodante per evitare
che le loro corone forti creino un contraccolpo all’export scandinavo.
Il Fmi che va a rilento nella comunicazione di dati “sensibili”
calcola che ammontino a cinquecento miliardi di dollari l’anno,
diecimila miliardi con i depositi, secondo fonti indipendenti. Le nostra
banche contribuiscono a questo festoso export con oltre 220 sportelli
nei paradisi offshore, dai quali passano più di cinquemila miliardi di
dollari provenienti dal nostro Paese, secondo le stime delle autorità
monetarie internazionali.
Si aggiungono poi nuovi “istituti” e strumenti a quelli già
collaudati come l’Anstalt, il format di diritto societario presente in
Lichtenstein che conta una media di 2,5 società per abitante, in Austria
e in Germania, o ai trust: oggi gli investitori si rivolgono al mercato
associativo, tramite compagnie che fittiziamente coprono i rischi, in
realtà servono ad effettuare formidabili movimentazioni di denaro. Ma la
principale forma di circolazione resta il brand dei fondi di
investimento gestito da società offshore, che muovono azioni e
obbligazioni, in quell’aereo e immateriale gioco d’azzardo che è
diventato il turbo capitalismo.
E ancora una volta si può verificare il ruolo egemonico svolto dai
vecchi e nuovi sacerdoti della giurisprudenza, quel ceto costituito da
giuristi e avvocati, dai grandi studi internazionali che predispongono
principi, valori e regole del diritto globale su incarico delle
multinazionali, in grado di trasformare una mediazione tecnica in una
procedura sacralizzata, a difesa della religione del profitto. E che
producono misure che favoriscono anonimato, che promuovono le scatole
cinesi necessarie a rendere impenetrabile il mistero sulla proprietà dei
patrimoni e la rintracciabilità. Quegli stessi che in condizioni
“particolari” studiano le modalità per indulgenti condoni, per generosi
scudi, per garbate sanatorie. Come quel voluntary disclosure,
“dichiarazione volontaria” o, se preferite “auto-smascheramento”, che,
dopo essere stata approvata dalla Commissione Finanza della Camera dei
Deputati, è ormai prossima a passare l’esame dell’Aula.
Nello spirito del tempo pare proprio che a fronte di tante inique
differenze, a essere uguali sono i modi e i protagonisti del business
più colossale, fatto di evasione, riciclaggio, trasferimento di
capitali. Ormai si assomigliano fino a coincidere, malavitosi e manager,
mafiosi e professionisti, clan e imprese che trovano una sponda
propizia in assenza dello stato di diritto e in latitanza degli Stati.
E possono stare tranquilli, anche le vecchie mete restano sicure.
Proprio l’altro ieri la Ministra delle Finanze svizzera, Eveline
Widmer-Schlumpf, ha fatto una solenne lavata di testa al suo collega
italiano, Padoan, a causa dei ritardi nel concludere quell’ accordo
fiscale con Berna che verte sui circa 120 miliardi di euro che i
cittadini italiani detengono, illegalmente, nelle banche svizzere,
principalmente in quelle ticinesi. “Ho detto a Padoan che la mia
pazienza ha un limite, gli ho ricordato il numero dei ministri delle
finanze italiani con i quali ho parlato, con i quali ogni volta ho
dovuto ricominciare da capo rispondendo ogni volta alle stesse domande”,
avrebbe detto la Ministra svizzera. Aggiungendo che la sua pazienza ha
un limite e che bisogna trovare una soluzione, “entro e non oltre la
primavera prossima”. In caso contrario a farne le spese sarebbero i
nostri 60 mila transfrontalieri, le cui imposte sono riversate nei
comuni d’origine. “Senza accordo fiscale in tempi brevi, senza quella
convenzione,niente più riversamento delle imposte”. Ecco sarò
malfidente, ma sospetto che a Padoan, al governo che non ha annoverato
nelle tappe del cammino dei 1000 giorni nessuna “riforma” antievasione,
nessuna norma antiriciclaggio, della sorte di 60 mila emigranti e di 67
miliardi emigrati importi poco. Vengono dalle uniche tasche nelle quali
sono risoluti a non mettere le mani.
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