sabato 23 aprile 2016

Dalla "stagnazione secolare" all'agonia del capitale - Notti in cammino... - di Clément Homs

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Anche ad aver seguito gli avvenimenti solo da lontano, il 2015, nello spazio pubblico borghese francofono e in una parte della Triade, risulta essere stato l'anno di una grande offensiva della tesi della "stagnazione secolare" . Col passare degli anni, tutte le teorie della crisi ciclica e tutte le diverse sette economiche che per due secoli hanno predetto l'eterno ritorno del capitalismo hanno reso l'anima, lasciando il posto alla tesi della "stagnazione secolare" come nuova ristrutturazione e attuazione del pensiero borghese sempre prigioniero dei suoi stessi presupposti. Se quindi adesso la "stagnazione secolare" ha il vento in poppa, ciò avviene perché spiega quel che rimane inspiegabile per un economista. Alcuni segmenti del pensiero economico borghese cercano adesso di spiegare, sempre a partire dalle loro forme di coscienza feticizzata, ciò che rimane come l'impensato di tutto il pensiero economico: la nuova qualità di una crisi della valorizzazione che sembra loro non assomigliare a nessun'altra crisi.
Quasi dieci anni dopo l'inizio di un nuovo crollo di un'economia mondiale che ha visto il collasso della dinamica della produzione di capitale fittizio quanto meno nel settore privato, niente di quello che era stato "previsto" si è verificato: la ripresa a "V" e a "W", poi a "WW", "l'inversione della curva" oppure la "purga" di una crisi ciclica ed il ritorno al "business as usual", tutto questo non si è ancora visto. Non si intravvede nessuna macchia di cielo più blu per un nuovo boom di accumulazione di capitale nei centri capitalistici (neppure negli Stati Uniti); non più emergenti, le grandi economie "emergenti" non sono affatto diventati i nuovi motori della crescita mondiale, come credevano ancora gli ingenui ed i filosofi "di poco cervello" che nel 2008 profetizzavano che la crisi non era altro che un semplice cambiamento della polarizzazione dell'economia mondiale, dagli Stati Uniti verso la Cina e gli altri BRICS.
Sebbene questo tipo di superamento borghese delle teorie cicliche abbia già conosciuto un picco durante la crisi degli anni 1930, dietro il dibattito sulla "stagnazione secolare" ci sono oggi dei macro-economisti come Larry Summers, James Galbraith o Barry Eichengreen, e questo dibattito è diventato recentemente l'ultima paccottiglia d'importazione che viene venduta in Francia dai Daniel Cohen, Patrick Artus (co-autore di "Crescita zero, come evitare il caos?"), ecc.. Sembra che negli Stati Uniti la tesi sia stata lanciata nel 2011, quando tutte le speranze di un'improvvisa e forte ripresa della crescita americana era già andata in cenere, per mezzo del libro "The Great Stagnation. How America Ate All the low-hanging Fruit of Moderne History, Got Sick, and Will (Eventually) Feel Better". Il dibattito infuria e i "capitalisti keynesiani di Stato" ed i "capitalisti del libero mercato" sono generalmente contrari ad una simile tesi, ma per ragioni diverse. I primi sono certi che se la crescita mondiale non riparte tutta la colpa sia da attribuire alla speculazione ed alle politiche di austerità che hanno compresso la domanda di merci; mentre per i secondi tutta la colpa risiede nel debito dello Stato ed è lo shock dell'offerta (le "riforme", nel vocabolario della neolingua capitalista) a non essere abbastanza potente, bisogna perciò allentare ancora di più le briglie alla tigre rabbiosa del mercato al fine di poterla meglio cavalcare. Rifiutando l'idea di un limite interno ed esterno alla valorizzazione del capitale, i sostenitori della "stagnazione secolare" commettono loro l'errore colossale di pensare che all'origine ci sia il collasso di un "potenziale" delle economie. Ma con lo sguardo fisso sul solo livello immediatamente percettibile dagli attori economici, ed al quale alla fine si sono sempre interessate le scienze economiche borghesi, rimangono prigionieri delle forme fenomeniche, senza riuscire a vedere che la crisi ha ben poco a che vedere con una "depotenzializzazione" di queste forme sempre mediatizzate, e che invece si tratta piuttosto di una crisi assai più soggiacente, una crisi della stessa sostanza sociale del capitale, una crisi quindi del lavoro astratto (cfr. la prima parte del libro di Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, "La Grande dévalorisation. Pourquoi la crise n’est pas dû à la spéculation et à la dette de l’État", Post-éditions, 2014). Il capitale lanciato ad alta velocità nella folle logica della concorrenza, perde sempre più la sua sostanza sociale (il lavoro astratto) in seguito alla massiccia espulsione della forza lavoro dai settori produttivi di plusvalore, nel mentre che la dinamica motrice del capitale fittizio, installata all'inizio degli anni 1980 dal neoliberismo per fare una trasfusione al sistema, raggiunge oggi i suoi primi seri limiti.
Ma per i nostri brontoloni del capitalismo stagnante, la valorizzazione non conoscerebbe alcuna auto-contraddizione interna che pregiudichi la sua stessa logica, si tratta soltanto di "potenziali/risorse" della stessa che verrebbero a mancare, e che spiegherebbero "dall'esterno", rispetto a questa stessa logica altrimenti sana e ben messa, il rallentamento secolare della sua satanica crescita. Dal momento che non si tratta affatto di mettere a nudo le cause e le basi della crisi, ed ancor meno di criticare la costituzione fondata sul lavoro del feticcio-capitale che nelle sue forme di denaro e di merce ci macina con il suo movimento autonomo e fa di noi dei semplici ingranaggi intercambiabili della sua stessa crescita, le cause superficiali invocate a sostegno di questo collasso del "potenziale" spesso variano in funzione degli autori. Generalmente, le tre cause favorite che vengono invocate sono il declino demografico, l'insufficienza degli investimenti e/o la cosiddetta diminuzione dei profitti da produttività legati all'innovazione tecnologica (alcuni tirano fuori dal loro cappello la cifra di una crescita di produttività negli USA che sarebbe stata solamente del +0,7% a partire dal 2010).
Quest'ultima cosa fa colpo in particolare fra i funzionari del capitale che vogliono alimentare il loro mulino per mezzo del futuro "shock di produttività e concorrenza". Ciechi di fronte al fatto che è stata l'inversione del rapporto fra processi di produzione innovativi e nuovi prodotti innovativi ad aver minato, fin dall'inizio della terza rivoluzione industriale negli anni 1960, la valorizzazione e la possibilità delle classiche contro-tendenze alla sua auto-contraddizione interna, agli occhi dei sostenitori della "stagnazione secolare" le nuove tecnologie digitali del 21° secolo non permetterebbero più di migliorare la produttività in maniera fondamentale come hanno fatto l'elettricità, l'automobile ed il computer (tesi di Robert Gordon, il guru di questo segmento della tesi). E' una vecchia tendenza, che ha seguito la frase senza alcun fondamento pronunciata nel 1987 da Robert Solow, secondo cui è evidente dappertutto l'era delle tecnologie dell'informazione, "tranne che nelle statistiche della produttività" (Lohoff e Trenkle smontano in maniera convincente tale tesi nel loro libro a partire dai problemi posti dalla statistica borghese). Altri invocano anche lo spettro del capitalismo giapponese e il recente fallimento dell'Abenomics, che ancora ieri entusiasmava gli apologeti della crisi ciclica, i quali speravano ancora una volta che la fenice del capitale rinascesse dalle sue proprie ceneri. Da parte sua, se il neokeynesiano Paul Krugman sposa la tesi di Larry Summers, lo fa sostenendo che all'origine di questa lunga e duratura atonia della crescita mondiale ci sarebbe una trappola della liquidità creata dai bassi tassi d'interesse. Da buon neokeynesiano che oppone il cattivo capitale finanziario che serve alla speculazione al gentile capitale produttivo che serve realmente la macchina per sfruttare (altrimenti detta "economia reale"), amerebbe che tutta la massa di capitale fittizio creata dalle banche servisse veramente questa "economia reale" delle piccole imprese, delle grandi imprese e delle aziende transnazionali: semplice nostalgia che le banche ritrovino il loro "vero ruolo", secondo l'immagine dei bigotti del capitalismo dal volto umano come Paul Jorion che ancora ieri pensava che la causa della crisi risiedesse nella non separazione fra operazioni di deposito ed attività finanziarie delle banche. Quando non si tratta di lamentare un presunto declino della produttività, le tesi sulla stagnazione secolare riconducono sempre la "stagnazione" ad un problema di utilizzo del denaro.
Avendo interiorizzato per troppo tempo il "contesto muto" (Marx) delle forme sociali capitalistiche del lavoro, del valore, della merce, del diritto e dello Stato, l'Illuminismo, il pensiero economico e la sinistra del capitale continueranno a prenderlo in pieno viso, talmente l'hanno naturalizzato. Non c'è dubbio che, nel caso in esame, e dal momento che le strutture essenziali della vita moderna si fondano su delle forme determinate e storicamente specifiche di pratiche sociali (lavoro astratto, valore e merce), e non su un'ontologia eterna e trans-storica, tutte questa scienza economica, sia ortodossa che eterodossa ("économistes atterrants", Scuola della regolamentazione, marxisti tradizionali, declinisti, ecc.) è condannata, stagnazione o meno, a non essere altro che un'apologia dell'esistente nello stesso momento in cui rifiuta di riconoscere il carattere storico del suo oggetto.
Quello che il capitalismo si trova davanti, ed ai fianchi, è la crisi. La ristrutturazione avvenuta al volgere degli anni 1980, da un "capitalismo classico" a regime di accumulazione auto-sostenuto di produzione di valore attraverso lo sfruttamento di lavoro vivo, in un "capitalismo tardivo" (Perry Anderson) che si deve ora definire come "capitalismo invertito" (Lohoff & Trenkle), dal momento che il suo regime di accumulazione è costituito dall'anticipazione della produzione futura di futuro valore, adesso è arrivata essa stessa alla fine della sua corsa ed ha fatto praticamente tutto quello che poteva fare per mantenere in vita il feticcio-cadavere. 

 A partire dalla fine degli anni 1970, minato all'interno e nella sua stessa logica dalla terza rivoluzione industriale, il capitalismo ha potuto sopravvivere soltanto consumando in anticipo la sua crescita futura attraverso la produzione di merci di second'ordine (capitale fittizio), soprattutto con l'acquisto di debito pubblico e privato da parte delle banche centrali, l'ultima stampella che tiene illusoriamente in piedi un capitalismo ormai oggettivamente e globalmente in pessimo stato. Dislocare il problema finisce per aggravarlo sempre più, e la respirazione bocca a bocca a colpi di "socializzazione delle perdite" e la defibrillazione monetaria delle banche centrali trasformate in "bad banks" hanno sempre più difficoltà a risvegliare un capitalismo piombato nel coma della sua secolare agonia. Come i sommi sacerdoti dell'economia per i quali a partire dal 2008 le politiche delle banche centrali sono delle "eresie", molti non vogliono vedere che la politica della "creazione monetaria", ed il suo ruolo ormai centrale in quanto turbo-motore dell'industria finanziaria, non sia altro che l'espressione dell'obbligo costituito dal rinnovamento continuo, esponenziale e sempre meno performativo dell'anticipazione del valore.
Così malgrado la dose da mammut, in termini di quantitative easing, immessa per rilanciare un'accumulazione reale auto-sostenuta (dal 2007 nell'economia mondiale sono stati iniettati dalle banche centrali 11.400 miliardi di euro) e anche malgrado la quantità di merci versate da apparecchiature inanimate dalle fabbriche quasi deserte, ma che producono senza posa e vomitano i loro prodotti sul mercato, dopo le speranze di ripresa a "V", "W", e "WW", l'encefalogramma del "capitalismo invertito" rimane - per i nostri turbo-capitalisti - disperatamente sempre più piatto. Con tutto l'accanimento terapeutico che a partire dal 2008 attua la produzione statalizzata del capitale fittizio che succede alla defunta produzione del capitale fittizio del settore privato, all'orizzonte non si vede nessun "grande boom" di accumulazione regionale o mondiale. E come già prevedono alcuni economisti di superficie, non ci sarà più nessuna retromarcia della banche centrali. Il capitalismo si trova ad affrontare irrimediabilmente la convergenza di un triplice limite che comincia già a fondersi: un limite interno alla produzione di plusvalore; un limite esterno quanto quest'ultimo impatta la fine delle risorse di cui si deve ingozzare il feticcio-capitale per auto-accrescersi; e infine il limite logico della moltiplicazione del capitale fittizio. E' per questo che l'effetto indotto sull'accumulazione reale da parte della produzione surreale di capitale fittizio diventa sempre più insignificante per quel che concerne la terrificante costrizione al rinnovo dell'anticipo del valore, che questo processo di crisi dell'economia capitalista si fenomenalizza alla superficie in una "stagnazione secolare" [*1]. Se la produzione statalizzata dell'immensa montagna di capitale fittizio si viene a trovare ostacolata, è tutta la forma di vita capitalista ad entrare in eruzione, e il vulcano del capitale fittizio sputerà soltanto le ceneri di un "denaro senza valore" (Robert Kurz). Ormai la montagna dei debiti deve crescere, o crollare del tutto. Ma più in alto arriverà, più dolorosa sarà la caduta.
E chi può credere ancora che l'approfondirsi di questa crisi ci porterà la rivoluzione su un piatto d'argento o che costituirà un'opportunità? C'è la possibilità che quanto più si aggraverà la decomposizione del capitalismo, tanto più non avverrà niente a livello "rivoluzionario". Ci sono possibilità che aggravandosi la crisi, tutto ciò sfocerà in un'unica certezza: la barbarie capitalista in cui già ci troviamo. Noi che ci troviamo ai piedi di questo vulcano e che viviamo nelle pieghe del movimento autotelico del denaro che ci ha sussunto, in quanto riproduciamo il rapporto sociale capitalista, noi ci troviamo esattamente nell'incapacità di immaginarne e crearne un altro. Ciononostante, un alto livello di intensità ed una determinazione delle lotte sociali non fa affatto presagire un superamento del contesto immanente al capitalismo. Non è soltanto il livello di intensità, la combattività, il carattere spontaneo o organizzato o la forma più o meno violenta (e necessariamente insurrezionale) in sé, a far sì che questa o quell'altra lotta superi finalmente il trattamento immanente delle contraddizioni del capitalismo e ci porti fuori dalla socializzazione capitalista, ma è il suo contenuto in termini di nuova sintesi sociale, di nuova forma di vita sociale al di là del lavoro, del denaro, del valore, del patriarcato produttore di merci e di quel "capitalista collettivo di idee" che è lo Stato. Il superamento del capitalismo comporterà l'abolizione - e non la realizzazione - della sua "sostanza sociale", vale a dire l'abolizione del lavoro nella sua capacità di costituire la forma di vita sociale capitalistica, e pertanto l'abolizione della totalità sociale che lo ha costituito, l'economia.
Bisogna sbattere giù quello che sta cadendo, e strappare collettivamente noi stessi all'economia.
I morti sono vivi. Le notti in cammino...

- Clément Homs - 14 aprile 2016 -
[*1] - Voir, le chapitre 3.4.1. « L’obligation de croissance de l’industrie financière : une contrainte au potentiel renforcé », in Trenkle & Lohoff, La Grande dévalorisation, op. cit., p. 281-291.

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