L’accaieria Ilva, la multiutility Hera, la Cassa
Depositi e Prestiti hanno in comune una deriva pericolosa nei rapporti
tra grandi imprese e territori in cui operano, tra potere economico e
potere politico. Promemoria per una nuova politica industriale.
Il 2012 ha visto rilevanti mutamenti nella situazione
e nelle strategie di molti gruppi industriali italiani di dimensione
grande e medio-grande, mutamenti che non sono stati positivi per le
sorti del paese. Vediamo tre casi, che, pur nella diversità - di
dimensioni aziendali, di controllo azionario, di settori di attività, di
risultati economici - hanno qualcosa in comune: sono rappresentativi di
una tendenza verso la deriva del nostro sistema industriale e
finanziario e, in particolare, verso rapporti ancora più malsani con la
società e la politica.
Il caso Ilva
L’Ilva,
l’acciaieria di Taranto, non ha solo il problema del rispetto delle
norme antinquinamento. Dietro di esso c’è un’altra questione altrettanto
importante: la capacità dell’azienda di stare su un mercato sempre più
difficile senza essere travolta. I due temi si intersecano tra di loro.
Un’impresa con impianti aggiornati sul piano ambientale e tecnologico
potrebbe giocare molto meglio la partita sul mercato internazionale
dell’acciaio.
Sul primo punto, i fatti che sono emersi mostrano un
gruppo che nel corso degli anni ha trascurato di osservare le più
elementari norme sul fronte ambientale e su quello del lavoro, come
testimoniato anche dai molti procedimenti giudiziari che esso ha dovuto
subire. Poteva far questo anche per la complicità del governo e delle
strutture tecniche preposte al controllo; solo l’intervento della
magistratura ha permesso di portare alla ribalta il problema.
Sul
secondo problema, il gruppo di controllo ha gestito sino a ieri
l’azienda con una strategia molto “casalinga”, con favori da parte del
governo e con rapporti con i dipendenti e la comunità circostante da
vecchio “padrone delle ferriere”. L’Ilva è stata più attenta a speculare
sul prezzo delle materie prime che a dotarsi di una lungimirante
strategia industriale. Ora non sembra avere le capacità di far fronte a
una concorrenza sempre più agguerrita e che tende a erodere le quote di
mercato in Italia, dove il gruppo colloca i due terzi della sua
produzione. Oltre ad essere poco presente sui mercati internazionali e
ad avere dimensioni ridotte rispetto ai concorrenti principali, la
proprietà dell’Ilva non è in grado di mobilitare le grandi risorse
finanziarie che servirebbero per reggere la scena e neanche soltanto
quelle necessarie per portare avanti il programma in tema ambientale
richiesto ora dal governo.
Ci sembra che solo un intervento in
prima persona dei poteri pubblici sul fronte della proprietà e della
gestione aziendale, nonché su quello finanziario, potrebbe permettere
all’azienda di negoziare con qualche gruppo straniero un intervento di
salvataggio che ne preservi un’italianità almeno parziale.
La gestione di Hera
Il
settore dei servizi pubblici locali è assai diverso dall’acciaio, ma
offre lezioni importanti, a partire dal caso di Hera, la multiservizi a
controllo pubblico che opera in Emilia Romagna e Marche, costruita
aggregando molte aziende municipalizzate locali. All’origine di
strutture come Hera c’è l’idea liberista – che ha imperversato anche a
sinistra – sulla trasformazione dei molti servizi pubblici locali in
grandi aziende con comportamenti di mercato. Sono state così
incoraggiate le operazioni di crescita di strutture
politico-burocratiche sostanzialmente poco efficienti, fonte di
inquinamento nei rapporti tra pubblico e privato, portatrici di
inflazione.
Secondo quanto documenta la Cgia di Mestre, negli
ultimi 10 anni si sono registrati nel nostro paese aumenti record nelle
tariffe per l’acqua (+71,8%), per il gas (+59,2%) e per i rifiuti
(+56,3%), proprio alcuni dei settori principali in cui operano queste
società, mentre l’inflazione è cresciuta nello stesso periodo in
generale del 24,5%.
A causare l’impennata dei prezzi c’è
l’aumento delle tasse, ma sono rilevanti anche gli aumenti delle tariffe
dei servizi pubblici. Alla forte crescita delle bollette non è peraltro
corrisposto un corrispondente aumento della qualità dei servizi offerti
ai cittadini, anzi in molti casi essa è peggiorata.
Che non ci
siano ragioni importanti di economia di scala né altri vantaggi
significativi in diverse delle attività gestite dalle multiutility
è testimoniato, oltre che dai risultati economici poco brillanti, dal
caso tedesco, paese nel quale, almeno nel settore dell’energia, si sta
tornando con decisione alle vecchie municipalizzate su base locale.
Il
modello di funzionamento di Hera e di altre società del genere appare
semplice e perverso: data la scarsa efficienza della sua gestione, la
società aumenta in misura rilevante le tariffe e così ottiene un modesto
utile annuale, che versa interamente nelle casse dei soci, che sono poi
in maggioranza i comuni. Questi ultimi, affamati come sono di soldi,
sono obbligati a vedere di buon occhio la sviluppo di tali strutture.
Per finanziare la distribuzione dei dividendi Hera è costretta ogni anno
ad aumentare il livello dei suoi debiti, livello che nel giro di
qualche tempo diventerà preoccupante. Intanto negli ultimi anni è stato
significativamente ridotto il livello degli investimenti. Si tratta di
una strategia senza sbocchi.
Nel caso della Hera, come di
strutture consimili, la ricetta più adeguata non può che consistere in
un loro smantellamento progressivo, con un ritorno a servizi pubblici a
dimensione più vicina al territorio.
La Cassa Depositi e Prestiti
Veniamo
alla finanza “pubblica”. Sino al 2003 la Cassa Depositi e Prestiti
(CDP), organismo controllato dal Tesoro, svolgeva in maniera dignitosa
il suo compito istituzionale, che era quello di raccogliere i depositi
postali e di impiegarli per finanziare gli enti locali.
Nel 2003
il governo decideva di privatizzare la struttura, trasformandola in
società per azioni, inserendo nel capitale le fondazioni bancarie,
mentre allargava i suoi obiettivi di lavoro, che comprendevano ormai
anche il sostegno ai progetti privati, nonché il finanziamento e la
partecipazione al capitale delle imprese. Si aggiungeva inoltre la
promozione di programmi di edilizia pubblica, la protezione
dell’ambiente, la valorizzazione del patrimonio immobiliare; ma questi
ultimi obiettivi non hanno peraltro trovato alcuna applicazione
rilevante.
La partecipazione al capitale da parte delle
fondazioni è stata fatta pagare poco, mentre, dall’altra, esse hanno
ottenuto un potere di co-decisione molto rilevante e, tra l’altro, hanno
cercato di frenare l’attività della CDP nel settore dei finanziamenti
agli enti locali.
Da allora, la Cassa interviene in maniera
sempre più estesa nel sistema industriale del paese, cosa che in sè non
sarebbe necessariamente negativa. Ma in concreto essa, nella sua azione,
privilegia il sostegno al vecchio establishment, mentre fornisce un’equivoca copertura finanziaria allo stesso Tesoro per ridurre, ma solo formalmente, il debito pubblico.
Così
essa acquisisce dal governo delle partecipazioni di controllo in alcune
grandi strutture imprenditoriali, senza peraltro ottenere alcun potere
decisionale, che viene lasciato alle vecchie consorterie
burocratico-politico-affaristiche. Per altro verso, essa spinge in
direzioni certamente poco accettabili. Valga ricordare soltanto tre casi
recenti, quello dell’intervento nel settore delle multiutility e
in specifico proprio nel caso Hera; il tentativo di sostenere
finanziariamente e senza contropartite Telecom Italia; infine l’ingresso
nel capitale di Generali.
Vediamo con qualche dettaglio
quest’ultima operazione, ancora fresca d’inchiostro. Nella sostanza, il
4,5% del capitale di Generali viene trasferito dalla Banca d’Italia, che
si trovava ormai in conflitto di interessi, al Fondo Strategico
Italiano, controllato dalla CDP. La presenza del Fondo sarà totalmente
passiva; essa ha accettato di impiegare le sue risorse per mantenere gli
equilibri di potere economico preesistenti. Così Unicredit, che
controlla in sostanza la compagnia, potrà stare tranquilla.
La
CDP si può fregiare a questo punto del titolo di “banca di sistema”, un
sistema peraltro decrepito, che andrebbe demolito. Un intervento sulla
Cassa da parte del governo, oltre che un ritorno alla sua
pubblicizzazione, dovrebbe prevedere una concentrazione dei suoi sforzi
nel sostegno alla parte migliore delle nostre imprese, privilegiando, in
particolare, gli investimenti orientati verso la creazione di
occupazione e l’innovazione tecnologica, nell’ambito di un complessivo
progetto di sviluppo ecocompatibile.
Nel caso di tutte e tre i
gruppi sopra ricordati sarebbero necessari radicali mutamenti di
strategia. Chissà se il governo che si formerà dopo le elezioni, nel
quadro di un necessario ripensamento della politica industriale del
paese, avrà la lucidità e il coraggio di intervenire nei tre casi citati
per raddrizzare la rotta.
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