venerdì 11 gennaio 2013

Crisi di coscienze... sporche di Stefano Porcari, www.contropiano.org

Prima Stiglitz (Banca Mondiale), poi Blanchard (Fmi), adesso Juncker (Commissione Europea). I “pentiti” delle terapie d'urto antisociali fanno autocritica sui diktat che hanno imposto nella loro “vita precedente”.


Qualche anno fa era stato l'ex direttore della Banca Mondiale Joseph Stiglitz, ieri è toccato al presidente uscente dell'Eurogruppo, Jean Claude Juncker, il quale è giunto alla fine del suo mandato di tecnocrate e nel discorso di commiato davanti al Parlamento Europeo ha avanzato la proposta di introdurre un salario minimo a livello europeo per sostenere il reddito dei ceti sociali in maggiore difficoltà nella crisi. “Avevamo detto che l’euro avrebbe riequilibrato la società ma invece la disoccupazione aumenta, oggi è drammatica, ed è una tragedia che stiamo sottovalutando”, ha spiegato agli eurodeputati, alcuni annoiati, altri stupefatti. “Unione economica non significa solo conti in ordine, ma anche società senza squilibri”. La soluzione è quindi nella riscoperta della dimensione sociale, e in misure come il salario minimo garantito: “Altrimenti, per dirla con Marx, perderemmo l’approvazione della classe operaia” ha detto Juncker, il quale, tra l'altro, cita decisamente a sproposito Karl Marx. La proposta di salario minimo era infatti di Ferdinand Lassalle contro il quale Marx condusse un'aspra polemica. Ma Juncker è solo l'ultimo a esternare una crisi di coscienza per le misure “lacrime e sangue” che stanno devastando le società in interi paesi.

Qualche giorno fa c'era stato il mea culpa da parte del capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard. In un articolo pubblicato dal Washington Post veniva riportato uno studio appena pubblicato dal FMI – a cura dello stesso Blanchard e di Daniel Leigh in the study Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers (IMF WP/13/1) – riconosce che i piani di austerità proposti, o meglio imposti, a mezza Europa negli ultimi anni, sono un danno per l’economia e l’occupazione. Peggio ancora, non funzionano nemmeno per rimettere a posto i conti pubblici, ovvero per diminuire il famigerato rapporto tra debito pubblico e PIL, vero e proprio faro che guida le scelte politiche di tutti i Paesi occidentali.

Fino a oggi il FMI ha segnalato che la strada maestra per ridurre il rapporto debito/PIL era una sola: piani di austerità, tagli alla spesa pubblica, smantellamento del welfare. Se si taglia la spesa pubblica, a parità di entrate diminuisce il deficit e quindi il debito pubblico. C’è però una difficoltà: tagliare la spesa pubblica vuole dire meno investimenti, meno denaro per i dipendenti pubblici, meno servizi e via discorrendo, ovvero una diminuzione del PIL. Da un lato quindi i piani di austerità fanno calare il numeratore, dall’altro però cala anche il denominatore. Il Fmi ha sempre sostenuto che questo non era un problema, era un prezzo da pagare ma nel suo insieme l'economia degli stati sottoposti alle terapie d'urto sarebbe migliorato.

Ma questo ultimo studio del FMI segnala invece che tagliando la spesa pubblica il PIL diminuisce più rapidamente di quanto non diminuisca il debito e il rapporto continua a peggiorare. I piani di austerità non solo sono devastanti dal punto di vista sociale, ma sono nocivi anche da quello macroeconomico. Se oggi anche il FMI ammette di avere completamente sbagliato le sue previsioni, appare decisamente strano – e inaccettabile - che in Italia abbiamo avuto un governo – sostenuto da almeno due partiti, Pd e PdL, che oggi lo contrastano e domani sono disposti a tornare a”baciarlo” - che ha imposto i piani di austerità come un dogma. E nessuna voce si è alzata nei tredici mesi di montismo al governo per dire che era un dogma sanguinoso per lavoratori, pensionati, disoccupati. Lo hanno fatto solo quando il governo si è dimesso, lo faranno in queste settimane di campagne elettorale, lo dimenticheranno subito dopo, quando definiranno le linee strategiche del nuovo esecutivo all'insegna dell'obbedienza ai diktat della troika.
 
Juncker, la crisi del liberismo e quella idea consolatoria del marxismo
Rileggere Karl Marx per uscire dal dramma della disoccupazione: l'invito del presidente uscente dell'eurogruppo Jean Claude Juncker, formulato ieri nel corso del suo ultimo intervento al Parlamento europeo per risvegliare l'Europa dal trauma di mesi di austerita' e spiegarle che 'Unione economica' non significa solo conti in ordine (proprio lui!!!), ma anche societa' senza squilibri, lascia davvero l’amaro in bocca. Quella soluzione della riscoperta della dimensione sociale, e in misure come il salario minimo garantito, sembra la classica pezza, peraltro fuori tempo massimo. Più o meno nelle stesse ore a Francoforte, al Consiglio direttivo della Bce, Mario Draghi ricordava i guasti che una applicazione unilaterale della flessibilità in entrata ha prodotto sulla condizione giovanile. La sua soluzione non è Marx, ovviamente, e nemmeno il santino del grande filosofo tedesco, bensì un abbassamento delle garanzie per chi qualche regola ce l’ha ancora:
Juncker più che marxista sembra disorientato. E’ la dimostrazione lampante della crisi totale del pensiero liberista. Stiamo perdendo, dice, “l'approvazione della classe operaia''. Juncker non e' soddisfatto dell'Europa di oggi, perche' non e' ne' equa e ne' solidale: ''Avevamo detto che l'euro avrebbe riequilibrato la societa' ma invece la disoccupazione aumenta, oggi e' drammatica, ed e' una tragedia che stiamo sottovalutando'', ha spiegato agli eurodeputati. Per il presidente dell'eurogruppo, che il 21 gennaio lascera' l'incarico, e' ora di reindirizzare lo sguardo, orientandolo verso la dimensione sociale che e' ''la parte carente dell'Unione economica e monetaria''. Serve subito, ad esempio, una misura come il ''salario minimo garantito in tutti i Paesi dell'eurozona'' per ridurre gli squilibri, e poi ''politiche del lavoro piu' attive''.
Juncker, negli ultimi tempi sempre piu' deluso dal comportamento dei Paesi del Nord Europa, lamenta anche la mancanza di solidarieta' e la divisione tra Nord e Sud: ''Il Nord non e' piu' virtuoso del Sud, siamo diventati arroganti e non amiamo chi non e' come noi'', ha spiegato, ricordando come lui abbia invece proposto ''un sistema di ricompensa'' per chi come Grecia, Irlanda e Portogallo e' stato costretto a drastiche misure di austerita'. Misure sulle quali Juncker si e' detto ''pieno di interrogativi''.
Sempre in tema di delusioni, al premier lussemburghese non piace l'Europa di oggi anche perche' non ha una visione di lungo respiro, ma si limita a rispondere alle emergenze. Dando cosi' una brutta immagine di se' a chi come gli Usa le fa domande sul suo futuro: ''Non c'e' accordo sulla strada da imboccare nei prossimi anni, gli Usa e gli altri ci interpellano a proposito e noi abbiamo solo risposte di cortissimo respiro'', ha ammesso amaro, ricordando come nell'ultimo vertice europeo i leader fossero divisi sulla 'road map' per creare un'Europa piu' integrata.
L'austerity insomma non piace a Juncker, esponente del Ppe, che comunque non vede venire un periodo facile: ''I tempi che viviamo sono difficili, non dobbiamo dare all'opinione pubblica l'impressione che il peggio sia alle nostre spalle perche' ci sono ancora cose da fare molto difficili''. Ma a differenza dei falchi del Nord, per il lussemburghese e' tempo di ridefinire la rotta, magari allentando i vincoli per dare piu' respiro ai Paesi stremati da misure per sanare i bilanci. Difficile pero' che l'arrivo di un olandese alla testa dell'eurogruppo - e' favorito il ministro delle Finanze Jeroen Dijsselbloem – spinga 'a sinistra' il corso dell'eurozona.
Il discorso di Juncker è impressionante. L'incapacità e la sprovvedutezza che si rivela dietro questi "grandi strateghi" del liberismo europeo mette davvero i brividi. Se da una parte "rivelazioni" come questa dimostrano che ormai nessuno è più in grado di dare ricette, dall'altra è evidente che i "falchi" non demorderanno certo per qualche disastro sociale, come quello che si va profilando sull'occupazione. E la vicenda di Monti lo dimostra benissimo. E per regolare i falchi non servono le ricette nostalgiche e consolatorie, ma la lotta di classe.

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