martedì 21 febbraio 2017

Basta frasi scarlatte e demagogia. Il comunismo e la politica sono cose serie di Ramion Mantovani


Il nostro X Congresso è un congresso di un partito che ha resistito, che è sopravvissuto a numerosi tentativi di liquidarlo (dall’esterno e dall’interno), che ha elaborato un’analisi delle contraddizioni economiche e sociali originale e confermata dall’evoluzione, della crisi, che ha ostinatamente insistito su una linea politica unitaria per il conflitto e nella sfera ineludibile della rappresentanza elettorale ed istituzionale.
Credo sia noto che io sono d’accordo con il 1° documento. Che mi sembra all’altezza del compito, che è frutto di una elaborazione collettiva non improvvisata, che contiene punti aperti ad approfondimenti dell’analisi e della discussione e che, con gli emendamenti collegati, anche su punti controversi colloca ed incanala la nostra discussione futura in un ambito di ricerca analogo, se non identico, a quello che attraversa tutte le forze comuniste e di sinistra radicale in Europa.
Non è su questo, quindi, che mi soffermerò in questo modesto contributo.
Nei congressi si vota. E spesso, purtroppo, si vota senza aver studiato i documenti e aver discusso approfonditamente. Tornerò più avanti sulle cause che hanno prodotto un tale impoverimento dei livelli di militanza e di direzione politica. Ma intanto voglio subito dire che questo limite innegabile richiederebbe, da parte di tutti, una maggiore serietà, onestà intellettuale e modestia nella discussione.
Evitando di utilizzare facili suggestioni, demagogia, semplificazioni ed altri espedienti ancor più nocivi ancorché apparentemente utili a conquistare voti. Per il semplice motivo che producono divisioni artificiali, impediscono l’approfondimento della discussione e soprattutto cristallizzano posizioni astratte ed incomunicanti fra loro. Il cui primo effetto nefasto è quello di allontanare dal partito militanti che non hanno nessuna voglia di doversi iscrivere ad una fazione in perenne lotta con altre.
Per evitare fraintendimenti voglio chiarire che considero questo impoverimento un problema generale, che riguarda tutte le culture politiche e posizioni e su cui, ripeto, tornerò alla fine di questo scritto.
Tuttavia mi pare proprio di rintracciare questo problema negli argomenti usati nel 2° documento per contrapporsi al 1°.
Spero mi si perdoni la schematicità ed anche l’incompletezza dell’esposizione che farò, soprattutto perché questo mio scritto non sarà breve. Ma perseguo esplicitamente l’obiettivo di enucleare i punti che a me paiono viziati dagli espedienti di cui sopra.
1) il primo è quello che giustifica l’esistenza stessa del 2° documento. Ed è forse il più importante perché inerisce la stessa concezione del partito e della sua dialettica interna.
Nel 2° documento si dice: “A partire da questa importante premessa abbiamo proposto di svolgere un congresso unitario e a tesi, non di conta, non di riaffermazione di maggioranza e minoranza, non di ripetizione di noi stessi: di fare, invece, di questo congresso un momento di rivoluzione e rifondazione di noi stessi. Di rivoluzione e rifondazione, a partire dai noi, come ci ha insegnato il femminismo. In breve, abbiamo proposto un congresso unitario che consentisse la costruzione di una elaborazione teorica condivisa a partire dalle pratiche, un bilancio della nostra storia recente e un confronto circoscritto sulle differenze nella linea politica attraverso le tesi. Abbiamo provato a rendere possibile un congresso diverso: i numeri non ce lo hanno permesso. Di certo un congresso diverso non è possibile con un regolamento che di fatto invita alla presentazione di documenti contrapposti non garantendo alcuna rappresentanza proporzionale alle tesi. In un congresso unitario a tesi non ci possono essere padroni di casa e ospiti di cui “tenere conto”. Se la maggioranza di questo gruppo dirigente preferisce sedersi dalla parte della ragione dei numeri, ci sediamo orgogliosamente e gioiosamente dalla parte del torto.”
Mi spiace doverlo dire in modo crudo ma questo argomento è purtroppo un imbroglio bello e buono.
Un classico espediente demagogico
molte volte usato nella storia del movimento operaio, sintetizzabile nel detto “grida all’unità e prepara la divisione”, per scaricare sugli altri la colpa di una divisione che si promuove ed apparire unitari allo stesso tempo.
Fondo questo mio giudizio su due argomenti. Uno banalmente materiale e tecnico ed uno squisitamente politico.
Da un punto di vista materiale è impossibile attribuire una rappresentanza proporzionale a tesi alternative presentate a corredo di un documento di tesi complessivo. Per il semplice motivo che ogni tesi è diversa e può insistere su punti di analisi, di proposta o di aggiunta.
Va da sé che se si è d’accordo sull’impianto di un documento e sulla linea politica complessiva ma non su un punto di analisi anche importante e si propone, su quel punto, una tesi alternativa, non si potrà pretendere che su quella tesi alternativa, e su ognuna delle altre possibili tesi alternative si elegga una rappresentanza proporzionale negli organismi dirigenti. È impossibile materialmente.
Il principio del “tener conto” dei voti ottenuti da emendamenti o tesi alternative che dir si voglia non è discriminatorio. Al contrario serve a far si che quella posizione, anche se minoritaria, sia rappresentata negli organismi dirigenti in modo che si possa procedere ad approfondire la discussione. È invece impossibile che diverse tesi alternative, che possono per altro essere totalmente contraddittorie fra loro, ottengano una rappresentanza proporzionale.
In altre parole, per esempio, se c’è un documento considerato base comune da tutti e poi otto tesi alternative che ottengono ognuna una certa percentuale di voti, come si fa ad eleggere proporzionalmente un organismo dirigente? Chi rappresenterà il/la militante che avrà votato una o due tesi alternative e contro le altre?
Confesso che sento un certo imbarazzo a dover spiegare cose così elementari.
Ma non c’è solo un impedimento materiale all’elezione proporzionale di organismi dirigenti sulla base di emendamenti o tesi alternative.
C’è anche un punto politico sostanziale.
Se si sostiene che l’unità della sinistra si deve costruire dal basso e nei conflitti e NON in modo “politicista” e “verticista”, ed è questo il punto di vera divergenza di linea politica in questo congresso, per quanto ci si dica d’accordo su analisi e per quanto si indichino gli stessi esempi da seguire (come Barcellona) è giusto che una divergenza che inerisce non la discussione teorica e approfondimenti di analisi, bensì l’azione immediata e concreta di tutto il partito il giorno dopo il congresso, venga sottoposta ad un vaglio democratico definitivo. E questo si può fare solo con documenti contrapposti. Se su questo punto fondamentale si ha un giudizio così negativo dell’operato del gruppo dirigente dal congresso di Chianciano ad oggi è legittimo ed anche democratico presentare un documento alternativo. Se si propone di cambiare linea politica (come dimostrerò nel punto successivo) tutto si può fare tranne che far finta di “essere stati costretti” a presentare un documento alternativo al solo scopo di imbrogliare militanti che giustamente malsopportano le divisioni del gruppo dirigente.
Se invece si fa, si tratta di un elemento inquinante la discussione che crea appositamente confusione.
Magari “gioiosamente” (sic) ma ci si siede non dalla “parte del torto” intesa come controcorrente, bensì dalla parte del pensiero dominante che si nutre di demagogia e false suggestioni.

2) L’unità dei conflitti e dei movimenti sociali, oggi dispersi ed isolati, e l’unità di tutte le organizzazioni alternative alle politiche neoliberiste, contrarie a qualsiasi riedizione del centrosinistra e collocate nel campo del Partito della Sinistra Europea e del Gruppo parlamentare della Sinistra Unitaria Europea (GUE), sono entrambe indispensabili ed intimamente collegate al fine della costruzione di una alternativa in Italia ed in Europa. Senza questo collegamento e senza queste unità i conflitti e i movimenti sociali sono destinati a rimanere dispersi ed isolati e ad essere sconfitti, e le forze politiche, siano esse coalizioni o partiti, sono destinate ad un ruolo nel migliore dei casi testimoniale, o ad essere riassorbite in una dialettica politico-istituzionale dalla quale è esclusa ogni possibile alternativa reale.
Questo punto politico è ineludibile per chi si proponga di costruire un’alternativa di governo al campo delle forze interne al sistema dominante e alle politiche neoliberiste e d’austerità.
Non c’è lotta, grande o piccola, che non rivendichi leggi e/o misure di governo per risolvere in modo vincente il conflitto. Sia a livello locale sia a livello nazionale vertenze e rivendicazioni, per vincere, necessitano di un rovesciamento dei rapporti di forza nelle istituzioni in modo che leggi e provvedimenti di governo soddisfino i bisogni che le hanno prodotte. È così per la TAV come per la chiusura di un inceneritore. Per ripubblicizzare acqua e servizi. Per perseguire l’omofobia e per ampliare diritti civili. Per tornare al sistema contributivo e per abbassare l’età pensionabile nel sistema pensionistico. Per nazionalizzare i settori strategici in economia. Per ristrutturare il debito. Per abrogare le leggi che hanno precarizzato il lavoro. Per uscire dall’euro e dalla NATO. E così via.
Grazie alla Costituzione, alla natura parlamentare della Repubblica, ai partiti di massa che rappresentavano direttamente interessi sociali, tutto ciò era ed è stato possibile anche dall’opposizione. Oggi no.
Fin dalla nostra nascita abbiamo detto che l’elezione diretta del sindaco e lo svuotamento dei poteri del consiglio comunale e le riforme elettorali maggioritarie avrebbero privato le forze antagoniste della possibilità di incidere dall’opposizione sulle scelte legislative e sulle decisioni del governo. Condannandole all’impotenza, e cioè a non poter conquistare nulla per le lotte, e quindi espellendole tendenzialmente dalle stesse istituzioni. O trasformandole in una appendice comunque impotente del centrosinistra anche quando erano decisive per la stessa vita del governo.
Certamente abbiamo commesso errori, anche gravi, nel corso di questi 25 anni. Ma sottovalutare i problemi oggettivi, totalmente estranei alle nostre responsabilità, come la natura escludente del sistema politico per ogni rivendicazione e programma antagonista, è un errore enorme.
Credere e predicare che l’unità dei conflitti possa rovesciare i rapporti di forza sul piano politico senza proporsi la costruzione di una forza unitaria e nettamente antagonista nei contenuti, capace di conquistare il consenso necessario, è un’illusione nefasta, fondata proprio sulla sottovalutazione della natura del sistema politico. Credere e predicare che si possa influenzare positivamente la politica di un governo di centrosinistra dal suo interno lo è altrettanto.
Sono due facce della stessa medaglia. E del resto non per caso sono all’origine di tutte le innumerevoli scissioni che ha subito il PRC.
Se c’è qualcosa che ancora manca pienamente nel corpo del nostro partito è la consapevolezza di questa realtà. Ovviamente ciò vale altrettanto, se non di più, sia per i protagonisti dei conflitti sia per i militanti delle ormai molte organizzazioni e aggregazioni politiche. Da Sinistra Italiana al Partito Comunista del Lavoratori.
Proprio per questo accusare il gruppo dirigente del PRC di aver perseguito l’unità della sinistra in modo verticistico e politicista, oltre ad essere una falsità, è la fuga dalla realtà concreta del rapporto fra le lotte e i conflitti e la “politica” quale essa è percepita e poi praticata dagli stessi protagonisti dei conflitti.
Le persone in carne ed ossa che lottano, scioperano, manifestano, quando si vota alle elezioni assumono comportamenti separati e spesso contraddittori con le rivendicazioni per cui si impegnano. Da chi vota 5 Stelle, a chi vota centrosinistra, a chi vota uno dei 4 o 5 partiti comunisti, a chi si astiene, tutti lo fanno o illudendosi che sia la volta buona (salvo poi deludersi inevitabilmente) o per un qualche motivo che nulla c’entra con gli obiettivi della lotta alla quale partecipano. Per scegliere il meno peggio, per affidarsi ad un leader, per evitare che qualcun’altro vinca, e così via. Se questo vale per le persone che lottano figuriamoci per la gran massa di individui-consumatori che non sono nemmeno consapevoli di avere interessi che solo con la lotta si possono difendere.
Perciò, fin dal congresso di Chianciano, la linea politica del partito è sempre stata: costruire, praticare e sostenere il conflitto sociale su obiettivi radicali e antagonisti, e costruire l’unità di tutte le forze suscettibili di essere unite sulla base di tre precise discriminanti: programma antiliberista, alternatività al centrosinistra e al Partito Socialista Europeo, pluralità e rispetto delle identità ideologiche ed organizzative di tutti.
Per poter unificare e connettere le lotte è necessaria l’unità di tutte le culture e forze politiche che si riconoscono nelle lotte e che elaborano un programma capace di conquistare gli obiettivi di lotta rovesciando i rapporti di forza politici.
Va da sé che la base di tutto sono le lotte e gli interessi delle classi subalterne, e che nessuna unità è utile se finalizzata ad insediare rappresentanze istituzionali fini a se stesse.
Ma le elezioni esistono, sia a livello nazionale che a livello locale. E i loro tempi e modalità non sono a disposizione delle nostre decisioni.
Per questo abbiamo dovuto tentare ad ogni occasione possibile di costruire liste, coalizioni e programmi unitari. Non nel tentativo banale, ma non per questo inutile, di eleggere qualche compagno o compagna del PRC. Bensì esattamente nel tentativo, difficile ma indispensabile, di costruire l’unità sufficiente a rendere minimamente incisive le lotte.
Ci siamo sempre rivolti a tutti coloro che dicevano di essere in sintonia con le lotte. Anche se propensi a stare nel centrosinistra dicendogli di dismettere l’illusione. Anche se propensi alla pura testimonianza dicendogli che la competizione elettorale fra diverse liste identitarie è nociva per le lotte. Abbiamo sollecitato persone, comitati di lotta, realtà sociali a promuovere loro liste unitarie, consapevoli che nella realtà delle divisioni a sinistra sarebbe stata più efficace la loro iniziativa che quella del nostro partito.
Per costruire queste esperienze unitarie non abbiamo mai sacrificato nessun contenuto importante e, al contrario, proprio in nome dei contenuti e dell’autonomia del nostro partito, quando abbiamo dovuto presentarci da soli l’abbiamo fatto a testa alta, sapendo che avremmo avuto risultati deludenti e che ci avrebbero accusati di essere settari e derisi come irrilevanti.
In ogni esperienza unitaria che si conosca è necessario concordare fra i soggetti che vi partecipano per lo meno l’inizio di un processo unitario. Altrimenti è impossibile.
L’accusa di verticismo e di politicismo sarebbe fondata se il PRC avesse come obiettivo, come fu per la Sinistra e L’Arcobaleno, la costruzione di una lista e poi di un partito nuovo nel quale sciogliere il PRC. Sarebbe giusta se noi non avessimo sempre detto ai 4 venti che il nostro obiettivo era promuovere un’aggregazione unitaria su precise discriminanti che una volta avviata cominciasse a funzionare con il criterio di una testa e un voto.

Noi abbiamo sostenuto e continuiamo a sostenere che una forza politica antiliberista e democratica, con un programma di fase e collocata in Europa nel campo del GUE è necessaria ed indispensabile. Non al nostro partito. È vitale per le lotte e per la possibilità che queste ricomincino a conquistare vittorie. Lo è proprio nel momento in cui la crisi ha scavato un solco abissale fra i governi e gli stessi sistemi politici e la gran parte della popolazione. Nel momento in cui, anche se confusamente, la coscienza che le politiche liberiste e d’austerità sono incompatibili con la difesa dei diritti sociali. E che le forze sedicenti di sinistra che le hanno prodotte, promosse, difese e appoggiate non possono essere alleate.
Il gruppo dirigente del PRC ha portato avanti questa linea politica, per altro confermata puntualmente dai congressi. Ed ha dovuto farlo controcorrente rispetto alla stessa concezione della “politica” corrente, ed anche nonostante le minoranze interne abbiano spesso agito come opposizioni dedite ad impedire che quanto deciso dai congressi potesse realizzarsi. Minoranze che non hanno esitato a promuovere campagne interne ed esterne al partito sostenendo che si voleva sciogliere il partito, che il “partito sociale” era sbagliato e che era roba da dame di san vincenzo, oppure che con le nostre discriminanti sul centrosinistra ci condannavamo all’irrilevanza, oppure che invece che l’unità della sinistra antiliberista dovevamo promuovere l’unità dei comunisti con un partito che aveva rotto con noi esattamente sull’internità o meno al centrosinistra. E potrei continuare a lungo.
Oggi il 2° documento ci accusa di insistere su questa linea politica che sarebbe fallita.
E ne propone un’altra. I rapporti di forza si rovesciano unificando le lotte. E promuovendo la rete delle “città ribelli”. Non c’è altro. Null’altro che un’illusione movimentista di vecchia e più recente memoria per cui il movimento è il fine e la politica un inganno e un cedimento,
e l’altrettanto illusoria idea che il municipalismo sia la vera ed unica dimensione di una possibile alternativa.
Sono opinioni e posizioni rispettabili ed anche legittime. E non sono nuove giacché esistono organizzazioni e aggregazioni che le propongono da anni. Ma a mio parere sono profondamente sbagliate.
È vero che ad oggi non siamo riusciti a realizzare l’obiettivo di avviare la costruzione di una forza unitaria. Ma se l’obiettivo è giusto per le classi subalterne e per lo stesso paese perché dovremmo dismetterlo? Perché Sinistra Italiana ha in animo di fagocitare tutto? Perché Rossa o altre organizzazioni propongono contenuti e discriminanti tali da non unire nemmeno se stesse? Perché forse arriverà l’uomo della provvidenza nella persona di un sindaco meridionale che si deciderà a fondare una aggregazione intorno a se stesso?
La nostra proposta è vieppiù difficile da realizzare in Italia. A causa della mutazione che il sistema politico maggioritario ha prodotto nelle forze organizzate, noi compresi. A causa del delirio leaderistico e personalistico prodotto dal sistema elettorale e dai mass media. A causa del trasformismo dei gruppi dirigenti sindacali e politici della sinistra. A causa della frammentazione e isolamento delle classi subalterne e delle lotte.
Ma questi ostacoli e problemi sono oggettivi ed esterni alle nostre responsabilità. Non sono addebitabili a nostri errori. Tornerò su questo punto nell’ultima parte che riguarda direttamente il partito e la sua dialettica interna.
Rimane il fatto che contro ogni difficoltà è necessario unire tutto quel che si può unire contro il sistema attualmente dominante sconfiggendo sia la deriva testimoniale sia la deriva politicista, questa si, della costruzione di un nuovo partito modellato secondo il sistema elettorale vigente e nel quale tutti dovrebbero sciogliersi.
Insistere su una cosa giusta è una virtù, spesso costosa e faticosa. Abbandonare un obiettivo giusto perché difficile è una scorciatoia, questa si fallimentare.
Quando si scende nel concretissimo e si indicano esempi importanti a convalida delle proprie proposte curiosamente entrambi i documenti citano Napoli e Barcellona. Dico curiosamente perché nessuna delle due esperienze a mio parere conferma le posizioni del 2° documento.
Su Napoli sarò brevissimo perché è una realtà ben conosciuta in Italia.
L’esperienza nasce nel 2011, come ormai non può essere diversamente dato il sistema elettorale comunale in Italia, perché il signor De Magistris si candida a sindaco e perché Italia dei Valori, Federazione della sinistra, una lista civica dal nome “Napoli è tua” e un fantomatico Partito del Sud, decidono di essere alternativi al centrosinistra. 27 % al primo turno e 65 % al secondo. E nel 2016 la coalizione si allarga a ben 12 liste e PRC, SEL, Pdci ed altri ancora formano una lista dal nome Napoli in Comune-A Sinistra. 43 % al primo turno e 67 % al secondo.
Si tratta di un’esperienza molto interessante, cui segue quella altrettanto interessante di Palermo. Interessante perché dimostra che si può vincere contro destra e centrosinistra, che si può avere un programma minimamente controcorrente, che si può incarnare un’alternativa e raccogliere consensi in una giusta direzione nonostante la coalizione sia tutt’altro che radicale e antagonista. De Magistris era dell’Italia dei Valori ed infatti la lista del suo partito e la lista civica “Napoli è tua” prendono 23 consiglieri contro i 6 della Federazione della Sinistra nel 2011. E le sue liste civiche 18 consiglieri contro i 4 della lista Napoli in Comune e 2 dei verdi.
La personalità di De Magistris e i necessari accordi di vertice fra partiti hanno permesso che una parte grande della città votasse una coalizione con un programma alternativo. Senza queste due cose sarebbe stato impossibile.
Parlare di Napoli come se i conflitti e i movimenti sociali dal basso avessero costruito un’unità capace di costringere le forze politiche a seguirli è una balla grande come una casa.
Resta il fatto che grandissima parte del grande successo della coalizione
(ma non si può certo parlare di grande successo delle liste di sinistra in essa presenti) è dovuta al sindaco.
Ma non si può certo affidarsi alla speranza che qualcosa di analogo succeda a livello nazionale, come ha dimostrato inequivocabilmente l’esperienza di Rivoluzione Civile promossa intorno alla figura di Ingroia. E alla quale, come è noto o dovrebbe esserlo ai militanti del PRC, noi ci siamo associati perché era quello che passava il convento e perché una divisione del campo alternativo al centrosinistra avrebbe dimostrato il contrario di quel che noi volevamo.
Barcellona, invece, è esattamente l’esperienza che noi indichiamo come modello da seguire. Tenendo ovviamente conto delle differenze oggettive dei sistemi politici istituzionali e della realtà sociale e politica.
La portavoce del forte movimento contro gli sfratti (sconosciuta alla grande opinione pubblica) a nome di un collettivo politico (Guanyem Barcelona) propone che tutte le forze della sinistra radicale e alternativa, che esponenti dei movimenti sociali e dell’associazionismo, si uniscano in un’unica lista per tentare di vincere il governo della città. Una ad una quasi tutte le forze politiche della sinistra radicale, a cominciare da Esquerra Unida i Alternativa, accettano di discutere la proposta. Seguono riunioni di vertice fra le 6 forze politiche che partecipano e alla fine concordano programma, liste (e quindi gli eventuali eletti perché le liste sono bloccate) e capolista (possibile sindaco giacché non esiste l’elezione diretta). Si autoesclude la CUP (Candidatura d’Unitat Popular) che è l’estrema sinistra indipendentista con la motivazione che non vuole far parte di una lista che vede presente il partito Iniciativa per Catalunya giacché questo ha partecipato in passato ai governi della città insieme al Partito Socialista.
È evidente che dopo il Movimento degli Indignados la proposta di un movimento di lotta organizzato per conquistare il governo della città era difficilmente rifiutabile da parte delle forze politiche. Ma è altrettanto evidente che la stessa proposta non sarebbe nemmeno stata fatta se non fossero prima intercorsi colloqui ed accordi di vertice informali. E che la gestione di programmi e liste non potevano che essere discussi e prodotti da accordi di vertice.
Non mi dilungo sull’ottima esperienza amministrativa. Ma è necessario sapere che la lista Barcelona en Comù ha vinto le elezioni nel senso che ha ottenuto, come lista più votata il 25 % dei voti e 11 cosiglieri su 41. Giacché nei comuni spagnoli si può governare in minoranza se le opposizioni non riescono ad esprimere una maggioranza alternativa, la Sindaca Ada Colau è stata eletta in consiglio con i 5 voti di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), i 4 dei socialisti e 1 voto su 3 della CUP dato esplicitamente per decisione politica perché indispensabile. Analogamente è stato approvato il bilancio e dopo il primo anno di governo Barcelona en Comù ha chiesto a ERC, PSC e CUP di entrare nel governo. Solo i socialisti hanno accettato.
Tutte le altre esperienze di città grandi e piccole nello stato spagnolo sono state analoghe.
Alle elezioni comunali sono seguite le elezioni catalane e poi due turni di elezioni spagnole.
L’esperienza unitaria è stata ripetuta con un relativo insuccesso nelle elezioni regionali e con grande successo della lista unitaria catalana “En Comù Podem” alle elezioni spagnole che per due volte è stata la lista più votata con il 25 %.
Dopo due anni e 4 passaggi elettorali ora la lista ha deciso di trasformarsi in forza politica funzionante con il metodo di una testa un voto. I partiti coinvolti parteciperanno rinunciando a presentarsi alle elezioni in proprio e potranno decidere autonomamente se sciogliersi o meno nella nuova formazione.
Come si vede dire che bisogna unire i conflitti e le città ribelli per far nascere una forza capace di tentare di cambiare realmente le cose, senza ottenere dalle forze politiche esistenti l’impegno unitario, è una pura suggestione.
Insistere su una proposta politica giusta non è insistere nell’errore. È condurre una battaglia affinché lotte, movimenti e conflitti dispongano di uno spazio unitario per portare nelle istituzioni rivendicazioni e programmi alternativi.
Fare incontri di vertice, come del resto fa qualsiasi organizzazione politica che non sia una setta, serve ad impedire che progetti sbagliati sia sul versante del centrosinistra che sul versante della testimonianza producano divisioni elettorali infinite che lasciano attonite milioni di persone impossibilitate a capire perché chi si oppone all’austerità, chi lotta contro le guerre, per i diritti sociali e civili, per rimettere il lavoro al centro della politica, si presenti diviso alle elezioni litigando per contendersi voti nella stessa base elettorale.
Insistere perché la forza nascente funzioni sulla base di una testa un voto è necessario perché la stragrande maggioranza delle persone che possono partecipare, e sono molte volte più numerose degli iscritti ai partiti, sono indubitabilmente radicali sui contenuti, unitarie e indisponibili a farsi usare per piccoli calcoli di bottega di questo o quel presunto leader e di questo o l’altro partito. Ed è unendo questo corpo politico e sociale che si può far egemonia. Non separandosene o contribuendo a frantumarlo.
È ovvio ed anche scontato che possiamo non riuscire a realizzare questo obiettivo. Ciò può produrre un effetto indesiderato: la presentazione di due o anche tre diverse liste.
Ma sarebbe una sconfitta proprio per le lotte e i movimenti sociali. Non un chiarimento. Non una prova di coerenza.
3) il 2° documento inizia citando i negativi dati del tesseramento. Per poi dire che è vero, abbiamo resistito e tenuta ferma la discriminante sul centrosinistra e sullo scioglimento del partito. Ma immediatamente propone una critica secondo la quale sono i fallimenti del politicismo il vero problema.
Si dice: “gli anni che ci separano da Chianciano sono all’opposto costellati da un susseguirsi di simboli che rappresentano tutti la stessa cosa: il fallimento di tentativi politicisti che hanno assorbito gran parte delle energie del partito di costruzione dall’alto dell’unità della sinistra come precondizione per attivare partecipazione, fino ad arrivare a parlare della necessità di costruire una sinistra di governo.”
Prima di parlare del tema del tesseramento e cioè della militanza, vorrei dire alcune cose su questo passaggio della seconda mozione che considero molto importante.
a) credo di aver spiegato che per creare qualsiasi aggregazione è indispensabile che le forze sociali e politiche che vi possono partecipare parlino tra loro per concordare il minimo per poter attivare una partecipazione di massa. Sono i contenuti a definire se si tratta di politicismo o meno. Non le forme. Non si può dire che abbiamo difeso l’idea di comunismo, che ci siamo rifiutati di sciogliere il partito, che abbiamo posto discriminanti programmatiche e di schieramento chiarissime, e poi dire che siamo stati politicisti perché abbiamo promosso e ci siamo seduti a tavoli unitari ai quali abbiamo sempre proposto la stessa cosa, la costruzione di una forza unitaria dal basso (perché proporre il criterio una testa un voto vuol dire mettere d’accordo i vertici per dare potere e parola al basso).
b) se è vero, come è vero, che diversi tentativi sono falliti è per responsabilità nostra? Per esempio potevamo trasformare la lista della Federazione della Sinistra nell’unità comunista sorvolando sul centrosinistra, sulla cultura politica del Pdci. Oppure potevamo evitare di proporre che le decisioni importanti venissero prese con un referendum della base. O potevamo proporre di allargarla a SEL che avrebbe eletto nel gruppo del PSE. In questo caso l’accusa di politicismo sarebbe stata fondata. La realtà è che la Federazione è saltata esattamente perché abbiamo tenute ferme le discriminanti dei contenuti e perché abbiamo tentato, invece di fare mediazioni di vertice impossibili, di risolvere le divergenze dando la parola alla base. È il contrario del politicismo. Analogamente ci siamo comportati in tutte le altre esperienze.
c) da Chianciano in poi il gruppo dirigente del partito ha detto, scritto, proclamato ed insistito su un concetto: le lotte, il conflitto sociale, l’autorganizzazione e le forme vecchie e nuove di mutualismo solidale devono essere il centro della riflessione e dell’azione del partito. Le elezioni sono importanti ma secondarie. E noi usiamo tatticamente le scadenza elettorali per proporre un’aggregazione ampia e partecipata dal basso. È vero che si è discusso moltissimo dell’unità della sinistra e pochissimo delle lotte. È vero. Ma non è vero che i rapporti di vertice con altre forze abbiano “assorbito gran parte delle energie del partito“. Sono state le accuse di voler sciogliere il partito, di non volere l’unità comunista, di far sparire il comunismo dalla scheda elettorale, e così via a costringere il partito a discutere infinitamente. A organizzare una riunione di vertice ci vogliono poche ore di lavoro. A difendersi da un’accusa infondata ed infamante demagogicamente propinata ad un corpo militante sconfitto e disorientato ci vuole pazienza e molto lavoro. Purtroppo.
d) è vero che i tentativi che abbiamo messo in atto per promuovere l’unità sono falliti. Ma ci sono altre due cose che vanno dette. Se non li avessimo fatti la situazione sarebbe migliore? Davvero si pensa che ad ogni scadenza la presentazione di più liste avrebbe dato un risultato migliore per la nostra? Davvero si pensa che sono falliti perché sono stati preceduti dal banale accordo fra forze diverse?
Da anni diciamo in sede di analisi, nei congressi e fuori dai congressi, che il sistema politico italiano della cosiddetta seconda repubblica è esiziale per le forze antagoniste. Per il più che evidente motivo che tende a condannarle alla testimonianza o alla subalternità nel centrosinistra. Perché il voto utile (e il voto di preferenza in comuni e regioni) impera su tutto. Sia a livello locale sia a livello nazionale le sirene di “contare qualcosa nel centrosinistra è meglio di non contare nulla” e di “meglio testimoniare la nostra coerenza che allearci con altri” sono irresistibili per gran parte di coloro che si considerano comunisti, di sinistra o semplicemente progressisti. Questo è un fatto oggettivo. Essere antagonisti, alternativi, radicali, ribelli (tutte parole che dovrebbero essere ben riassunte dall’aggettivo comunista) oggi significa rifiutarsi di scegliere una delle due parti in commedia previste dal sistema. È molto difficile andare controcorrente sul serio. Ed è complesso. Ed è anche facile commettere errori.
Ma quando si rimuove la natura oggettiva delle difficoltà, degli insuccessi e delle sconfitte e si dice al militante che è giustamente e comprensibilmente deluso che è colpa del gruppo dirigente e di una linea politicista si commette un atto gravissimo. Che fa leva sulla demagogia e non sull’analisi della realtà.
e) è vero che il tesseramento ci propone dati sconfortanti. Certo se avessimo accettato di avere 4 ministri e 8 sottosegretari nel primo governo Prodi e non avessimo rotto non avremmo avuto la scissione, non saremmo passati dall’8 % al 4 % e da 130 a 80 mila iscritti. Se non avessimo impedito col congresso di Chianciano che il partito si sciogliesse in una SEL più grande e non avessimo subito una campagna di stampa e televisiva, a dir poco denigratoria, di tre anni non avremmo perso la metà degli iscritti. E se negli ultimi anni non avessimo tenuto ferme le discriminanti sul centrosinistra e rifiutato l’unità comunista non avremmo subito altre scissioni sia nazionali sia in importanti regioni, federazioni e circoli. Se avessimo ancora 160 funzionari probabilmente il partito funzionerebbe meglio. Se avessimo milioni di euro da investire in comunicazione potremmo sormontare molte difficoltà ad essere “visibili”.
Queste cose fanno parte della sconfitta e del tentativo di resistere non cedendo e non svendendo identità e contenuti. Non abbiamo colpe.
Ognuna delle scissioni, grandi e piccole, di destra e di sinistra, nazionali o locali, oltre alla fuoriuscita dei protagonisti delle stesse ne hanno provocato una molto più grande di compagne e compagni delusi, amareggiati e sfiduciati.
Ed anche questo è un dato sostanzialmente oggettivo.
E ce ne sono altri.
Il pensiero dominante, fatto di luoghi comuni, semplificazioni, personalismi, è profondamente penetrato nel popolo. Ed anche nel nostro partito.
Se non sei in televisione non esisti. Se non hai un leader carismatico e giovane non hai speranza. Se non vinci sei un perdente. Se non banalizzi e non semplifichi tutto non sei in grado di farti capire. Se non compare il tuo simbolo sulla scheda elettorale vuol dire che ti sei svenduto, che hai rinunciato alle tue idee, che non sei coerente. Chi la spara più grossa e urla la frase più scarlatta è più di sinistra. E così via.
La maggioranza dei militanti non legge, non studia. Quando avevamo 130mila iscritti il quotidiano del partito vendeva circa 12mila copie. E nei circoli si discuteva della linea politica del partito così come appariva nei talk show in TV. Oggi è peggio. Non meglio, nonostante il partito sia più militante.
Perfino l’individualismo più sfrenato è penetrato fra le nostre fila.
Spesso uno screzio diventa un dramma e poi una guerra senza esclusione di colpi.
Una divergenza in un organismo diventa oggetto di insulti, diffamazioni, processi alle intenzioni non solo nelle riunioni ma soprattutto sui cosiddetti social network in internet. Gli imbecilli che appena hanno una discussione nel circolo, nel federale o addirittura nel CPN corrono ad insultare altri/e compagne/i via twitter o facebook andrebbero espulsi seduta stante, perché producono un’immagine oscena del partito che non può che allontanare persone serie e animate da uno spirito realmente militante.
Una cosa è litigare o discutere animatamente in una riunione ed un’altra è insultare per iscritto in modo che il mondo intero possa godere della rissa in internet. Talk show e reality show fanno egemonia.
In una simile situazione è perfino scontato che il tesseramento vada male.
Infine c’è un problema strutturale. Che non dovrebbe proprio esistere in un partito comunista.
Il partito comunista esiste per agire. Non per discutere. L’analisi, la discussione e le decisioni conseguenti servono per metterle in pratica. Un partito comunista dovrebbe decidere a maggioranza raramente, in presenza di decisioni controverse ed importantissime. E dovrebbe selezionare dirigenti con il criterio delle competenze, del valore, della rappresentanza di genere, dell’impegno, delle doti umane e politiche connesse alla solidarietà e al rispetto delle posizioni altrui.
Un partito di correnti non funziona così.
Una cosa sono culture politiche, correnti di pensiero, riviste. Queste cose sono indispensabili e arricchiscono la vita collettiva del partito. Un’altra cosa sono correnti che tentano di impedire che le decisioni prese democraticamente si realizzino, che praticano la “propria linea politica” contrapposta a quella nazionale nel circolo o nella federazione dove hanno la maggioranza, che praticano l’ostruzionismo negli organismi dirigenti, che non esitano ad usare la demagogia, le suggestioni e le semplificazioni più vergognose per “vincere” la loro battaglia.
Questa situazione produce effetti deleteri.
Si selezionano dirigenti sulla base della fedeltà perché la maggioranza tende a farlo per garantirsi di poter procedere all’applicazione di quanto deciso e le/la minoranze/a per poter continuare ad oltranza la battaglia contro la maggioranza.
Esistono cordate, sottocorrenti, e persone che subordinano il voto a decisioni importanti all’ottenimento di posti di direzione. E possono passare disinvoltamente da una posizione all’altra secondo interessi che nulla hanno a che vedere con la politica.
Gli organismi dirigenti invece che luoghi di pensiero, di approfondimento, di elaborazione diventano parlamentini ai quali le correnti si presentano dopo aver discusso al loro interno e dove sono costrette a praticare una disciplina interna in una guerra permanente con tanto di dichiarazioni di voto a nome della corrente. Parlamentini dove spesso si usano armi nobili e necessarie in un parlamento dove ci sono partiti contrapposti e dove l’opposizione ha il sacrosanto diritto di usare ogni espediente per mettere in difficoltà il governo, ma che sono totalmente improprie in un partito politico dove si sta per scelta, per affinità ideologica e programmatica e che per di più deve, come è il caso del partito comunista, combattere con nemici potenti e andare controcorrente.
E così si agisce sul numero legale, si elaborano ordini del giorno al solo scopo di mettere in difficoltà la corrente opposta, si chiedono conteggi dei voti anche quando è totalmente superfluo, si brandisce lo statuto con argomenti da azzeccagarbugli. Anche su questo potrei continuare a lungo.
Ma è certo che questo modo di essere e di comportarsi degli e negli organismi dirigenti ha allontanato moltissime compagne e moltissimi compagni.
Penso che durante e dopo il congresso si debba discutere seriamente di come debba funzionare un partito comunista composto principalmente da militanti e di come invertire la tendenza a diventare una somma di partitini in perenne conflitto fra loro.
 
 


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