[Il contributo del nostro lettore intende essere una risposta alla recensione, apparsa qui, di Alessandro Barile all’importante libro di Carlo Formenti La variante populista (Derive Approdi, 2016), e al libro stesso.]
Secondo lo storico Dror Wahrman, la “classe media” non sarebbe che un artificio retorico[1], un espediente inventato dai politici wigh nell’Inghilterra dell’Ottocento per allargare la propria base elettorale.
L’invenzione della classe media
Gli anni sono quelli attorno al 1820, nel parlamento inglese si discute della possibilità di riformare la legge elettorale.
Il dibattito è polarizzato tra conservatori (tory) e radicali: i
primi sostengono il diritto a governare delle classi alte, i secondi
rivendicano il suffragio universale maschile. Entrambi elaborano le
proprie analisi servendosi di uno schema duale, che riduce le classi
sociali a due: classi alte e classi inferiori.
I liberali, che fino al 1868 erano chiamati wigh, sono stati
estromessi dal governo nel 1794, la polarizzazione del dibattito tra
tory e radicali li stritola e sembra non dar loro vie d’uscita. In
questo contesto cominciano a fare appello a quella che definiscono
“classe media”, sostenendo la necessità di una riforma elettorale che,
pur non introducendo il suffragio universale maschile, dia spazio
politico ai gruppi sociali che hanno guidato il rinnovamento economico
della Gran Bretagna durante la Rivoluzione industriale.
La nuova descrizione sociale elaborata dai wigh, basata su tre
classi, a molti pare plausibile: sembra accogliere i mutamenti
socio-economici che in quegli anni sono sotto gli occhi di tutti. Dal
punto di vista sociologico, però, è largamente imprecisa, né alcun capo
wigh si curerà mai di dare una descrizione dettagliata di ciò che
intendesse per “classe media”. Per loro fu fondamentale far credere che
questa classe esistesse, non spiegare come si fosse formata e come fosse
composta.
Così, gli sforzi dei wigh si concentrarono nel dimostrare che la
classe media fosse caratterizzata da connotazioni etiche positive, la
descrissero come la più onesta, moralmente sana, saggia, laboriosa e
dinamica. Di conseguenza loro, che si proponevano di rappresentarla,
erano portatori delle stesse caratteristiche e la riforma elettorale che
proponevano era la più saggia e onorevole, proprio come la classe alla
quale volevano dar voce.
Quella che i wigh stavano costruendo non era un’analisi dettagliata
della realtà sociale britannica, ma un’immagine retorica convincente e
plausibile, in grado di aumentarne il sostegno elettorale.
Una narrazione che gode ancora oggi di una certa forza, e che, dalle
nostre parti, si è particolarmente affermata tra la fine degli anni
Settanta del Novecento e i primi anni del nuovo secolo, un periodo
durante il quale anche molti lavoratori salariati hanno dismesso le
vesti proletarie per indossare quelle del ceto medio. Paradossalmente,
ai nostri giorni, questa narrazione è messa in crisi dalle politiche e
dalle ideologie degli stessi eredi di coloro che l’avevano creata, oltre
che dalle contraddizioni interne al capitalismo contemporaneo.
L’eclissi della classe media
Anche Marx, come i tory e i radicali dei primi anni dell’Ottocento,
ha una visione dicotomica delle classi sociali, la sua, però, è una
descrizione tendenziale. Marx non nega che nella sua epoca, e in quelle
successive, possano esistere più classi nella medesima società, sostiene
che il capitalismo, evolvendosi e avvicinandosi alla maturità,
semplificherà estremamente le cose, riducendo le classi a due: coloro
che posseggono i mezzi di produzione, e coloro che ne sono privi,
trasformando tutti coloro che ne sono privi, qualsiasi sia la loro
mansione all’interno del processo produttivo, in un’unica classe
antagonista a quella di chi detiene i capitali. Il movimento proletario –
dice Marx – è il movimento autonomo dell’immensa maggioranza,
nell’interesse dell’immensa maggioranza, mentre tutti i movimenti del
passato erano movimenti di minoranze nell’interesse di minoranze.
Questa teoria marxiana, detta della “proletarizzazione crescente”, è
stata spesso criticata nel corso degli anni. Eppure, se si guardano i
dati attuali, l’analisi di Marx acquista nuova forza e sembra la più
appropriata a descrivere il capitalismo contemporaneo, che pare essersi
avvicinato parecchio alla sua fase matura.
Negli Stati uniti del 1980 la percentuale dei lavoratori salariati,
sul totale degli occupati, era pari al 90,6%, trentatré anni dopo, nel
2013, era del 93,4%.[2]
In Spagna, cioè in un paese che ha conosciuto una recente espansione
economica, lo stesso dato era, nel 1980, pari al 70%, nel 2014, era
cresciuto di più del 10%, attestandosi all’82,4%.
In Germania, invece, si passa dall’87,4% registrato nel 1983, all’89%
rilevato nel 2014, mentre in Francia si passa dall’83,7% del 1980
all’88,5% del 2014.
Bisogna però segnalare che il dato riguardante la Francia, e relativo
al 2014, fa registrare una lievissima contrazione, poiché torna più o
meno sugli stessi valori del 2003, mentre tra il 2004 e il 2009 la
percentuale dei salariati sul totale degli occupati aveva toccato cifre
superiori all’89%.
In Italia, dove storicamente la libera professione e il lavoro
autonomo sono stati incentivati, e nelle forme considerate d’élite
tutelati, si registra un dato in costante crescita, anche se la
percentuale dei salariati sul totale degli occupati è significativamente
inferiore rispetto agli altri Paesi occidentali presi in
considerazione: nel 1980 i lavoratori salariati erano il 71,4%, nel 2014
diventano il 75,3%.
I dati relativi alla Gran Bretagna sono invece in controtendenza: nel
1980 i salariati erano il 91,9%, nel 2014 questa percentuale era scesa
all’84,4%. Un dato che si può spiegare anche con l’utilizzo del lavoro
autonomo per mansioni storicamente svolte da lavoratori salariati, col
fine di abbassare lo standard dei diritti e quello salariale (si pensi,
per esempio, ai “padroncini” che lavorano nel settore dei trasporti e
della logistica, o alla miriade di lavoratori della conoscenza
free-lance).
A questo proposito è necessario osservare che, con la
riorganizzazione del modello produttivo, si è fatto strada quello che
Sergio Bologna ha definito “lavoro autonomo di seconda generazione”:
l’esternalizzazione di alcune parti della produzione, sia materiale, ma
soprattutto immateriale, a lavoratori free-lance, ai quali sono
destinate committenze nei momenti in cui le imprese appaltanti ne hanno
bisogno. Un fenomeno che riguarda soprattutto i lavoratori della
conoscenza, e che sancisce la “proletarizzazione” (anche se in un senso
in parte diverso da quello marxiano) di lavoratori che negli anni
passati godevano di un certo prestigio sociale, oltre che di un discreto
riconoscimento economico.
In questo contesto il lavoro diviene sempre più precario, i salari
reali sono più bassi rispetto ai primi anni Settanta del secolo scorso,
mentre la disoccupazione si attesta, in tutti i paesi presi in
considerazione, su cifre strutturalmente più alte rispetto al periodo
caratterizzato dal modello produttivo “fordista”.
Così, se da un lato la precarizzazione dei rapporti di lavoro, la
facilità dei licenziamenti e l’elevata disoccupazione creano una massa
di individui ricattabili, anche dal punto di vista elettorale,
dall’altro depotenziano tutti quei meccanismi che li portavano a
identificarsi con la classe media. Un’identificazione che era resa
possibile soprattutto dalla capacità di consumare un determinato tipo di
prodotti e servizi, che era garantita principalmente da un accesso al
credito relativamente facile.
Significative per comprendere questo meccanismo, sono alcune indagini demoscopiche condotte in Italia e negli Stati uniti.
Nel 2015 Demos ha chiesto a un campione rappresentativo della
popolazione italiana: “Lei personalmente a quale classe sociale ritiene
di appartenere?”.
Il 52% ha risposto di considerarsi parte dei “ceti popolari/classe
operaia”, il 42% di appartenere ai “ceti medi” e solo il 3% pensava di
far parte della “classe dirigente/borghesia, ceti superiori”.[3]
Nel 2006, prima dell’inizio della crisi economica, lo stesso istituto
di ricerca aveva posto agli intervistati la medesima domanda. In quel
caso solo il 40,2% pensava di appartenere ai “ceti popolari/classe
operaia”, mentre il 53,7% riteneva di appartenere ai “ceti medi”.[4]
Se ci chiediamo come mai il dato è cambiato tanto drasticamente, la
risposta la troviamo nell’indagine Demos del 2006, quando, oltre alla
classe di appartenenza, veniva chiesto: “Secondo lei, oggi, cosa
differenzia maggiormente la classe operaia dal ceto medio?”[5].
La maggioranza, il 48% degli intervistati, aveva risposto “il tenore di
vita e i beni di consumo come auto, vacanze, abbigliamento, ecc.”, al
secondo posto (41,8%) vi era la ricchezza, al terzo, staccata di diverse
lunghezze, si trovava invece “l’immagine e la considerazione sociale”
(25,9%), quasi a sottolineare come il senso di appartenenza a una classe
sociale dipenda soprattutto da variabili di tipo economico.
La crisi economica, la contrazione dei salari, la conseguente
difficoltà nell’accedere al credito, oltre che le incertezze relative al
futuro, hanno distrutto la narrazione che portava molti individui a
identificarsi con la classe media, poiché quegli individui non possono
più mantenere il tenore di vita e il livello di consumi che rendevano
possibile tale identificazione.
Un fenomeno che probabilmente diventa più chiaro se si prende in
considerazione la percezione della classe di appartenenza della propria
famiglia. Sempre secondo le indagini condotte da Demos, nel 2006 solo il
28% degli italiani pensava che la propria famiglia appartenesse alla
“classe bassa”, nel 2016 questa percentuale è quasi raddoppiata,
attestandosi al 54%. Al contrario, nel 2006, ben il 60% degli
intervistati riteneva che la propria famiglia appartenesse alla “classe
media”, mentre nel 2016 solo il 39% continua a crederlo.[6]
Con la crisi economica non solo è mutata la percezione relativa alla
propria classe di appartenenza, ma è mutata anche la percezione della
classe alla quale appartiene la propria famiglia, poiché i sacrifici di
una volta non bastano più per garantire quel tenore di vita e quei
consumi che portavano il padre, la madre, o entrambi, che
individualmente magari si identificavano nei “ceti popolari/classe
operaia”, a considerare i propri figli, e la propria famiglia in
generale, come appartenenti alla “classe media” (nel 2006 il 40,2% degli
intervistati riteneva di appartenere, individualmente, ai “ceti
popolari/classe operaia”, ma solo il 28% pensava che la propria famiglia
appartenesse alla “classe bassa”).
Se dall’Italia ci spostiamo negli Stati uniti, notiamo che la
tendenza è la stessa: nel 2008 solo il 35% degli americani riteneva di
appartenere alle “working and lower class”, nel 2015 questa percentuale
sale al 48%. Al contrario, nel 2008 il 63% degli americani era convinto
di appartenere alle “upper-middle and middle class”, nel 2015 questa
percentuale è scesa al 51%.[7]
Una percezione relativa all’appartenenza di classe che caratterizza
soprattutto i più giovani: tra chi oggi ha meno di 35 anni ben il 56,5%
pensa di appartenere alla working class, mentre tra coloro che hanno tra
i 35 e i 45 anni la percentuale è del 49,8%.[8]
Se in quest’epoca, segnata dalla maturità del capitalismo, la
“proletarizzazione” è crescente, anche nelle coscienze, proprio come
aveva previsto Marx, le classi dominanti, con il crollo delle narrazioni
rivolte alle “classi medie”, hanno perso un importante strumento di
controllo sociale.
È in questo contesto che nascono i populismi.
Populismi
I ceti medi – scriveva Marx – combattono la borghesia per evitare di
scomparire. Non sono rivoluzionari, ma reazionari, perché cercano di far
tornare indietro la ruota della storia. Essi, quando divengono
rivoluzionari, lo divengono in vista del loro movimento verso il
proletariato, smettono di difendere i loro interessi presenti per
concentrarsi su quelli futuri.[9]
Se vogliamo intendere i populismi[10] contemporanei, non possiamo mettere da parte queste considerazioni di Marx.
I populismi sorgono proprio perché le forze politiche fino a oggi
portatrici degli interessi delle classi dominanti non possono più fare
appello alla classe media, alla solidarietà che un tempo la legava alle
classi alte, alle quali i membri del ceto medio sognavano di
appartenere. Quella narrazione è crollata.
Morta una narrazione è necessario costruirne un’altra, in grado di
affascinare individui che lentamente vanno impoverendosi: se non sono
più i consumi a farli immedesimare e a renderli solidali con i settori
più ricchi della società, bisogna inventarsi qualcos’altro. Il richiamo
alla nazione, al recupero della posizione dominante persa, nel caso di
Trump, o a un astratto concetto di sovranità, nel caso dei populismi
europei, probabilmente pare loro l’antidoto migliore per disinnescare la
coscienza di classe che va maturando. In quanto nazione siamo diversi
dagli altri popoli, non tra di noi, membri dello stesso stato. Non è la
classe sociale che ci divide a livello globale e all’interno delle
nazioni stesse, ma è la nazionalità che ci divide tra popoli.
Di fatto i populismi non sono altro che un tentativo di annacquare la
coscienza di classe, di traghettare coloro che fino a oggi ritenevano
di appartenere alla classe media, magari essendo operai, impiegati o
lavoratori autonomi, su posizioni reazionarie e non rivoluzionarie.
Posizioni congeniali alle classi dominanti. Le blande politiche sociali
che questi movimenti propongono, non sono che uno specchietto per le
allodole, come a loro tempo lo furono le promesse del fascismo della
prima ora.
Un aspetto dei populismi sul quale è necessario fare chiarezza è
proprio il nazionalismo: esso non sorge esclusivamente da un romantico
sentimento di appartenenza, le sue radici sono materiali, affondano
nell’economia e nel neoliberismo.
Milton Friedman, uno dei padri del neoliberismo, colui che sperimentò
le proprie teorie economiche nel Cile di Pinochet, scriveva,
riferendosi agli Stati uniti, ma facendo un discorso facilmente
estendibile a uno scenario globale:
“Il campo d’azione del governo deve essere limitato. La sua funzione
principale deve essere quella di […] mantenere la legalità e l’ordine,
far rispettare i contratti privati, favorire la concorrenza nel
mercato.[…]
Se le autorità devono esercitare un potere, è preferibile che ciò
avvenga a livello di contea piuttosto che di stato, e se necessario è
meglio che tali poteri siano attribuiti al governo dello stato piuttosto
che concentrati a Washington, nelle mani del governo federale. […]
Se non mi piace quello che fa il mio stato, posso trasferirmi in un altro.”[11]Dividere
il mondo in una miriade di staterelli deboli e totalmente incapaci di
influenzare e regolamentare un sistema economico che agisce a livello
globale: probabilmente è questo che sperano le classi dominanti quando
pensano ai populismi odierni e al nazionalismo che professano.
“Tutte le forze globali – scriveva nel 1997 Zygmunt Bauman – sono,
per così dire, interessate agli stati deboli, ossia a quegli stati che
sono deboli pur rimanendo stati. Tali stati possono venire facilmente
ridotti al ruolo di commissariati di polizia in grado di assicurare
ognuno sul proprio terreno quel minimo di ordine indispensabile a
condurre affari, ma incapace di frenare le ambizioni sovraterritoriali e
le attività delle aziende sovranazionali.
E’ facile immaginare quanto la sostituzione degli stati territoriali
deboli con qualche tipo di autorità legislativa ed esecutiva mondiale,
dotata di effettivo potere esecutivo, risulterebbe dannosa per gli
interessi delle aziende sovranazionali; possiamo quindi presumere che i
processi di globalizzazione economica e di tribalizzazione politica non
solo non si facciano guerra tra loro, ma siano strettamente alleati o
addirittura membri della stessa congiura.”[12]
Guardare al futuro
Probabilmente il termine proletariato non è più adatto a descrivere
la classe sociale che emerge dal capitalismo odierno, forse precariato
potrebbe essere un nome più appropriato per descrivere quella che agli
occhi di alcuni appare semplicemente come una massa informe, ma chi ha
come obiettivo il superamento del capitalismo non può che proporsi di
dare un progetto e un’organizzazione politica a questa classe, per fare
in modo che essa influenzi il corso della storia, che non si riduca a
mera reazione, cosa che avvantaggerebbe esclusivamente le classi
dominanti.
Nessuno paese europeo, nel contesto attuale, è in grado di reggere la
botta, di difendere i diritti dei lavoratori e di competere in un mondo
globalizzato. Il neoliberismo poté affermarsi negli anni Settanta
proprio perché le politiche economiche keynesiane, tarate su base
nazionale, non furono in grado di garantire risultati in un mondo che
andava globalizzandosi.
Non è tornando allo stato nazione che sconfiggeremo il neoliberismo,
ma favorendo l’unità di classe, anche politica, a livello globale.
In questo contesto, la lotta contro l’Unione europea potrebbe
rivelarsi molto presto come una lotta inutile, se non dannosa. Il
ritorno a una moneta nazionale, per esempio, causerebbe molti più
problemi e contraddizioni di quanti ne causa l’euro. Le politiche
industriali, inoltre, non sarebbero che una copia, spesso anche mal
riuscita, di quelle elaborate dal governo Renzi che, nella speranza di
attrarre investitori esteri, ha propagandato nel mondo quanto sia
conveniente produrre in Italia visti i bassi salari che caratterizzano
ogni mansione.
Probabilmente sarebbe molto più proficuo lottare per una radicale
revisione dei trattati che istituiscono l’Unione europea, tutti
improntati al neoliberismo per il semplice fatto che al neoliberismo si
ispiravano i governi che li hanno elaborati e firmati. Forse sarebbe più
utile lottare per abbattere ogni frontiera, mentre i populisti vogliono
innalzare muri.
Il contesto europeo non chiude spazi, li apre. Apre lo spazio per una
battaglia costituente, per esempio. Spazio che a livello nazionale è
ormai irrimediabilmente chiuso. Apre lo spazio per estendere a tutta
l’Europa, e oltre, i valori delle costituzioni nate dall’antifascismo
tanto invise a Jp Morgan, e per avanzare rispetto a esse. Apre lo spazio
per la pubblicizzazione di molte attività produttive e di servizi
essenziali, cosa che, a livello nazionale, sarebbe impossibile se non
inutile. Apre lo spazio per accordi paritari e di collaborazione con
paesi del Sud America o dell’Africa, accordi in base ai quali le materie
prime vengono scambiate al giusto prezzo evitando lo sfruttamento dei
lavoratori e l’arricchimento dei dittatori locali. Apre lo spazio per
elaborare un sistema di welfare, di diritti e di garanzie a tutela dei
lavoratori improntato all’eguaglianza e dal respiro universale. Apre lo
spazio per una rivoluzione che potrà affermarsi solo se continentale e
con aspirazioni globali. Tutto sta nell’elaborare lotte e rivendicazioni
all’altezza degli spazi che si aprono.
Secondo Marx solo con lo sviluppo universale delle forze produttive
possono aversi relazioni universali tra gli uomini, si possono
sostituire agli “individui locali individui empiricamente universali”[13]. Ciò – dice – fa dipendere ogni popolo dalle rivoluzioni degli altri.
Il capitalismo, vista anche la concentrazione globale della proprietà
dei mezzi di produzione, sembra essere giunto a questa fase della sua
maturità. Ora sta a chi si propone di superarlo saper guardare avanti e
saper sfruttare a proprio favore quegli elementi che già attualmente il
capitalismo ha in seno e che sono fonte di innumerevoli contraddizioni
al suo interno. Guardare indietro, cercare di invertire il corso della
storia, non farebbe che allontanarci dal comunismo.
Il vecchio motto “proletari di tutto il mondo, unitevi!” mai come oggi è attuale, l’alternativa è la barbarie.
[1] Dror Wahrman, Imagining the middle class. The political representation of class in Britain, c. 1780 – 1840, Cambridge university press, Cambridge,1995.
Alberto Mario Banti, Le questioni dell’età contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2010.
[2] Tutti i dati relativi alla percentuale dei salariati sul totale degli occupati sono liberamente consultabili sulla banca dati della Banca mondiale.
[3] Demos, Osservatorio capitale sociale- Classi sociali, 2015.
[4] Demos, Osservatorio capitale sociale- Focus sulle classi sociali, 2006.
[5] A questa domanda era possibile dare due risposte.
[6] Demoso, Osservatorio capitale sociale – Classi e mobilità sociale, 2016.
[7] Gallup, Fewer Americans Identify as Middle Class in Recent Years, 2015.
[8] Shiv Malik, Caelainn Barr, Amanda Holpuch, US millennials feel more working class than any other generation, the Guardian, 15 marzo 2016.
[9] Karl Marx, Il manifesto del partito comunista, 1848.
[10] Col termine populismo indico sempre quelli che alcuni definiscono populismi di destra. Non credo esista un populismo di sinistra.
Podemos, spesso indicato come esempio rappresentativo di quest’ultimo,
ha una lettura di classe della realtà sociale, una lettura nella quale
il richiamo al popolo assume tutt’altra veste rispetto ai populismi.
[11] Milton Friedman, Capitalismo e libertà, IBL Libri, 2010 (prima edizione 1962).
[12] Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano, 2002 (prima edizione 1997).
[13] Karl Marx, Friederich Engels, L’ideologia tedesca, 1846.
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