Le Vent Se Lève intervista Juan Carlos Monedero
Traduciamo qui un’intervista di Le Vent Se Lève a Juan Carlos Monedero, cofondatore di Podemos e professore di scienze politiche all’Università di Madrid
Si sente spesso dire che Podemos è nato sulla base di un’«ipotesi populista» costruita a partire dai lavori del teorico argentino Ernesto Laclau e delle esperienze latino-americane. Sei stato uno dei primi fondatori del partito ad opporsi a questa «ipotesi», considerandola una “tattica” più che una “strategia”. In effetti, già in un articolo apparso nel giugno 2015 presentavi le debolezze di questa impostazione. Potresti tornare su queste critiche in merito alla logica populista?
Ernesto Laclau non ha avuto alcuna influenza nella creazione di Podemos: questa è stata un’intellettualizzazione a posteriori. Sapevamo quello che dovevamo fare, non perché un teorico ce l’aveva dettato, ma prima di tutto grazie alle nostre esperienze in Spagna e America Latina: sapevamo che non bisognava più parlare di destra e di sinistra, sapevamo che la vita politica mancava di emozione. Lo sapevamo non per aver letto Spinoza, ma perché potevamo percepirlo grazie alle nostre stesse esperienze. Nel mio caso, avevo per esempio girato la Spagna per tre anni con il Frente Cívico, un movimento sociale creato nel 2012 da Julio Anguita [segretario del Pce dal 1988 al 1998, ndr]. In tale occasione, avevo potuto rendermi conto che le proposte e le alternative che avanzavamo (l’idea di formare un blocco civile, un contro-potere) suscitavano molto interesse ed attenzione. Era necessario recuperare questo consenso rispetto alla freddezza tradizionale del pensiero moderno della sinistra. In altre parole, bisognava iniettare un po’ di post-modernità nella sinistra. Avevamo anche capito, grazie all’esperienza latino-americana, che ci mancava un nemico, che la designazione di un tale nemico era un fatto essenziale. Sapevamo anche che in Spagna avevamo un problema supplementare per il fatto di non avere una patria, mentre tutti i processi latino-americani si erano ricostruiti sulla base di una reinvenzione della patria. Ma tutte queste cose di cui ci rendevamo conto non erano allora concettualizzate in un quadro teorico definito.
Nella sua tesi di dottorato, discussa nel 2012, due anni prima della nascita di Podemos, Íñigo Errejón si fondava già ampiamente sui lavori di Ernesto laclau e di Chantal Mouffe. Allo stesso modo, Pablo Iglesias ha fatto riferimento in più occasioni a questi due autori nel programma televisivo Fort Apache, a cui Chantal Mouffe è stata d’altronde più volte invitata. Benché questa influenza sia forse esagerata dai media che presentano Laclau e Mouffe come gli “ispiratori” di Podemos, mi sembra tuttavia che i loro lavori sul populismo abbiano avuto un’influenza importante sulla strategia politica del partito.
Noi siamo un gruppo di professori di scienze politiche, il che significa che tutto ciò che pensiamo, tutto ciò che diciamo e tutto ciò che facciamo sono legati. Che cosa alimenta cosa? Quando leggo qualcosa, mi sembra interessante in quanto fa eco a situazioni con cui mi sono già misurato. È dunque vero che quando abbiamo analizzato la situazione in Spagna Laclau ci è sembrato interessante, anche perché nessuno di noi veniva da un marxismo classico. Gli approcci post-marxisti ci seducevano. Penso che l’«ipotesi populista» si sia formulata chiaramente per la prima volta in Podemos in occasione delle elezioni andaluse di marzo 2015. Il documento allora presentato doveva inizialmente essere sottoscritto da tutti i fondatori di Podemos. In quel momento, decisi di non apporvi la mia firma perché in disaccordo con il suo contenuto ed ecco che apparvero le discussioni intorno alla questione. Finirono per sottoscriverlo soltanto Pablo Iglesias e Íñigo Errejón, gli unici due fondatori che difendevano in quel momento tale «ipotesi».
Che cosa non ti convinceva in quel documento?
In primo luogo, penso che l’«ipotesi populista», che funzionava bene in un contesto latino-americano, non fosse applicabile né in Spagna, né in Europa. La Spagna, anche al culmine della crisi, non è mai stata distrutta come l’America latina dopo la fase neo-liberista. Qui, nel momento peggiore, il 65% dei disoccupati continuava a ricevere un sussidio di qualche tipo. La struttura sociale in America latina era tale che il popolo era completamente dissolto e poteva allora essere reinventato. In secondo luogo, ritengo che l’«ipotesi populista» non sia che un momento, vale a dire che il populismo è un momento utile nella fase destituente: nella fase in cui ti confronti con le élite responsabili del divorzio fra la tradizione liberale e la tradizione democratica tipiche dell’Occidente. Ogni crisi – nel 1929, nel 1973 o nel 2008 – si caratterizza per le tensioni che sorgono tra queste due tradizioni che fondano i nostri Stati democratici, i nostri Stati di diritto. Nei periodi di crisi, si manifestano tensioni perché le forze dello status quo tentano di ignorare la dimensione democratica, quella dei diritti sociali, della partecipazione, dello sciopero. Queste tensioni generano sempre una collera popolare che provoca di conseguenza una disaffezione verso coloro che comandano, cioè, nel contesto delle nostre democrazie rappresentative, verso quelli che occupano il parlamento e il governo – oppure, se vi è una buona lettura della situazione, verso i media e le grandi imprese. Vi è sempre una disaffezione nei confronti del mondo politico ed è quello che è successo nel 2008.
In cosa è utile il populismo in quella che designa come la fase destituente?
Il populismo è una fase destituente che ci ha permesso, in Spagna, di costruire un “noi” e un “loro” a partire da due significanti vuoti: la casta e il popolo. Questa costruzione è stata articolata grazie ad un leader. Ma c’era un problema in questa ipotesi che mi aveva sempre preoccupato: la costruzione della catena di equivalenza implica che tutte le lotte debbano perdere in intensità e forza, essere meno esigenti con sé stesse. Penso che il significante vuoto che illustra meglio la mia posizione sia il peronismo. Il peronismo si è trasformato in un nulla, sicché chiunque poteva alla fine rivendicarne l’appartenenza: un ecologista, una persona che lotta per il diritto all’aborto, una persona di estrema sinistra, ma anche una persona di estrema destra. Il peronismo poteva includere tutto perché era vuoto. In Spagna, con la creazione di Podemos, ci trovavamo di fronte sfide complicate: non esistevamo ancora e di colpo dovevamo esistere, ci trovavamo a giocare con gli strumenti del sistema per poterlo superare utilizzando i suoi stessi spazi, come la televisione, costituendoci come partito politico. Dovevamo diventare uno di loro per poter lottare contro di loro. Era allora della massima importanza restare molto rigorosi per non trasformarci in uno di loro. C’è una frase che amo ripetere per spiegare il mio intento: «bisogna urlare con i lupi affinché essi non ti divorino».
Perché, secondo te, l’«ipotesi populista» non può essere valida che in questa prima fase?
Da questa fase destituente possono nascere tanto populismi di sinistra quanto populismi di destra. Il sistema cercherà un populismo di destra per rispondere alla crisi, come nel 1929 o nel 1973. In Spagna, se non avessimo rimarcato la nostra differenza, se non avessimo approfittato dell’apporto più importante del movimento 15M [il movimento degli indignados del 2011, ndt], ovvero dell’aver costruito una nuova narrazione, sarebbe potuto facilmente nascere un populismo di destra. Trump, Le Pen, Grillo, Corbyn, Sanders, Mélenchon, Podemos. Tutti noi raccontiamo le difficoltà del modello neoliberista e puntiamo il dito contro gli stessi problemi: la disoccupazione, la precarietà, gli sfratti, la globalizzazione neoliberista.
Qual è dunque la differenza tra Le Pen, Grillo e Podemos?
Ce ne sono due. La prima riguarda l’identificazione dei responsabili della situazione attuale: noi accusiamo i banchieri, i finanzieri, le élite politiche, mentre il populismo di destra indica come colpevoli i sindacati o gli immigrati. È sicuramente più facile addossare la responsabilità all’immigrato, una persona che puoi incontrare ogni giorno, piuttosto che ad un banchiere che vive in Svizzera. La seconda differenza, che è essenziale, risiede nella costruzione, vale a dire non tanto nella fase destituente quanto in quella costituente. L’«ipotesi populista» si riferisce ad una tattica, non ad una strategia di lungo termine. Avevamo bisogno formulare chiaramente ciò che andavamo a proporre come alternativa.
Quale strategia doveva quindi essere adottata in questa fase costituente? Secondo te perché era importante distaccarsi dalla logica populista?
I difensori dell’«ipotesi populista», primo fra tutti Íñigo Errejón, pensavano che quest’ultima avrebbe dovuto semplicemente mobilitare quegli elementi che avrebbero potuto farci guadagnare consenso e che noi non avremmo dovuto parlare di quei temi che avrebbero potuto farci perdere voti, vale a dire che avremmo dovuto parlare unicamente di cose astratte per ottenere l’appoggio più ampio possibile: la patria, la casta, la corruzione. Il mio approccio è stato diverso, io ritenevo che quest’ipotesi fosse stata valida per l’America Latina, ma che non lo fosse per la Spagna. Nel continuare ad insistere sulla fase destituente, nell’evitare di formulare chiaramente la nostra alternativa, abbiamo lasciato campo libero al populismo di destra. Secondo me, costruire un programma era prioritario dal momento che si stava iniziando a parlare di alcune questioni e tematiche che dovevano essere discusse rapidamente perché altrimenti, una volta al governo, non saremmo stati in grado di applicare le nostre politiche. Il popolo ci avrebbe allora domandato: «Perché mettete in pratica queste politiche senza averne mai parlato prima?». E la destra e le élite ci avrebbero attaccato senza che nessuno ci potesse difendere, dal momento che non avevamo formulato chiaramente e a priori le nostre proposte e che non le avevamo inserite nella nostra agenda politica. Per tutte queste ragioni, nel momento in cui l’«ipotesi populista» favorisce lo svuotamento dei significanti, finisce per svuotare di senso le reali possibilità di cambiamento.
Quando dici che la logica populista in definitiva impedisce di mettere in campo dei veri cambiamenti, a cosa ti riferisci concretamente?
Penso alle lotte sociali, alle rivendicazioni professionali o alla struttura del lavoro. C’è un esempio concreto di qualcosa che abbiamo deciso di non accantonare pur sapendo che non sarebbe stato un cavallo vincente, ma piuttosto uno perdente: la questione della plurinazionalità.
La battaglia per la plurinazionalità è difesa da Íñigo Errejón, uno dei principali sostenitori dell’«ipotesi populista» in seno a Podemos.
Abbiamo avuto importanti dibattiti riguardo questa questione. Io mantengo delle differenze di fondo con Íñigo Errejón e Pablo Iglesias. Io ritenevo che fosse importante parlare di Spagna visto che noi siamo un partito spagnolo. Ti puoi presentare come un partito catalano se ti presenti in Catalogna. Nel nostro caso, noi siamo un partito spagnolo e dunque non possiamo essere a favore dell’indipendenza della Catalogna. L’indipendenza della Catalogna è una battaglia fondamentale nella biografia di Errejón, e questa è la ragione per cui ha insistito affinché noi difendessimo la questione della plurinazionalità. Per contro, ha anche insistito affinché Podemos non parlasse di politica di classe. L’«ipotesi populista» si è trasformata in questo modo in una «politica delle classi medie». Quest’«ipotesi» sbaglia nella sua lettura di Gramsci. Gramsci differenziava l’egemonia organica, che si costruisce sulle contraddizioni reali, dall’egemonia arbitraria. In Laclau, tutto è discorso, fino ad arrivare all’economia: anche l’economia è un discorso.
Certo, ma nei termini di Laclau, il discorso non è solamente un sinonimo di «linguaggio»: il termine include anche, per esempio, le pratiche sociali.
Quando Laclau dice che la politica e l’economia sono la stessa cosa, mette da parte le condizioni materiali della lotta di classe. Secondo me, è un errore. Cosa implica questo postulato? Nell’«ipotesi populista» di Íñigo Errejón – ma non in quella di Pablo Iglesias – c’è di fatto una sensibilità più marcata alle rivendicazioni post-moderne, una tendenza a mettere da parte il resto. C’è una cosa importante da approfondire: qual è la posizione di ciascuno dei fondatori di Podemos rispetto alle categorie sociali più colpite dalla crisi? Questa questione permette di mettere in luce gli elementi centrali che hanno strutturato le nostre discussioni sul 15M. Fra Íñigo Errejón e me c’è stata una divergenza dal principio. Errejón pensava che fosse necessario rappresentare il 15M. Io, no. Io pensavo che fosse necessario ricondurre il 15M. Il 15M era composto da settori popolari così come da classi medie colpite dalla crisi il cui fine era semplicemente tornare alla loro precedente condizione. L’interesse di queste classi medie era quindi di risolvere la crisi, non perché fossero contro il sistema, ma perché erano contro gli eccessi del sistema. A me non interessava rappresentare dei borghesi interessati ad andare tre volte all’anno in vacanza o al bar a bere, ma a cui non era mai interessato nulla dei dieci milioni di poveri che c’erano in Spagna al momento della crisi. Queste persone sono ben rappresentate da Albert Rivera [presidente del partito centrista Ciudadanos, ndr]. Io non volevo rappresentare loro. Io volevo fare in modo che le persone in collera potessero avere un’analisi e una posizione più emancipatrici.
Per vincere le elezioni, non è necessario riuscire a parlare anche a queste classi medie che tu descrivi? Non è importante riuscire ad ampliare l’elettorato?
Certo, ma tutto si reduce a quello che ho appena detto. Se un borghese mi vota perché l’ho ingannato, quando metterò in piedi le mie politiche lo troverò contro di me. Non mi sosterrà. Secondo la mia opinione, questo sarebbe quindi mentirgli, farlo cadere in una trappola. Ma io non voglio che questi mi votino. Io non voglio sedurli. Sedurre vuol dire imbrogliare. Io voglio che le persone facciano le loro riflessioni e che votino una formazione politica per il suo discorso emancipatore, non per un discorso mirato solamente a salvare le classi medie impoverite dalla crisi.
Pedro Sánchez, che viene rappresentato come l’ala sinistra dello Psoe, è da poco stato rieletto alla testa del suo partito. Cosa ci dici dei rapporti fra Podemos e il Psoe? C’è una competizione per lo spazio politico di sinistra fra i due partiti?
Sto per pubblicare un articolo a riguardo, nel quale spiego che siamo in tre a contenderci lo spazio destituente: Ciudadanos, Podemos e il Psoe di Pedro Sánchez. Quest’ultimo si trova davanti delle contraddizioni impossibili da risolversi. In primo luogo, deve tranquillizzare l’apparato del suo partito senza potersi confrontare direttamente con esso. Eduardo Madina e José Carlos Díez, le due persone più importanti dentro il Psoe, hanno per esempio rifiutato di far parte dell’esecutivo del partito a seguito dalla sua elezione. Madina ha persino dichiarato che Sánchez porterà il partito alla sconfitta. L’apparato ti divora. Sánchez deve costruire delle maggioranze nel suo confronto con Podemos. Il Psoe l’ha d’altro canto detto chiaramente: il Partito Popolare è il suo avversario, Podemos è il suo nemico. Quindi, anche se la base militante desidera che il Psoe si avvicini a Podemos, questo è impossibile dato che l’apparato di partito ci considera come il suo nemico. È una contraddizione molto importante. In più, Sánchez deve riavvicinarsi a Ciudadanos. Infine, deve soddisfare la base del partito che l’ha votato per attuare politiche di sinistra. Tutto questo mi pare contraddittorio.
Di fronte a queste contraddizioni, pensi che Podemos possa recuperare gli elettori del Psoe? È questo l’obiettivo per le elezioni politiche del 2020?
Ne sono certo. Era del resto la mia ipotesi tre anni fa: quando Podemos è nato, nel gennaio 2014, fra i 7 e gli 8 milioni di spagnoli non si riconoscevano in nessun partito politico e sono poi andati a votare per noi. Io avevo una lettura differente da quella di Iglesias e di Errejón: non ho mai pensato che avremmo potuto ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento alle prime elezioni politiche del dicembre 2015. Nella mia lettura della situazione, una volta che saremmo riusciti a diventare una forza rilevante della politica spagnola, il Pp e il Psoe si sarebbero raggruppati in una sorta di grande coalizione. Questo avrebbe significato che una parte importante del Psoe avrebbe finalmente abbandonato il partito. È inevitabile che questo succeda, prima o dopo. Il Psoe si spaccherà: o verso destra o verso sinistra, ma in tutti i casi finirà per rompersi. Per esempio, possiamo vedere oggi come Sánchez si sia già allineato a Rajoy sulla mozione di sfiducia e sul referendum in Catalogna. Le sue contraddizioni sono troppo forti perché il partito tenga.
Come giudichi la situazione politica nel resto d’Europa? Vedi un affaticamento generale della socialdemocrazia?
In Francia ed in Italia possiamo fare la medesima constatazione sull’affaticamento del vecchio mondo. Il problema, in questi due paesi, risiede nel fatto che il nuovo, la novità, ha seguito dei percorsi diversi perché non ha avuto niente di analogo al 15M. In Francia, le Nuit Debout sono state un’imitazione del 15M. Ho avuto la sensazione che loro guardassero troppo verso la Spagna, cercando di imitare il movimento che noi abbiamo conosciuto. C’era poi anche un altro problema. In Spagna, col 15M, potevamo vedere che il vecchio mondo, nel suo insieme, stava soccombendo. Podemos esiste grazie al 15M, che ha costruito una narrazione che colpevolizza i banchieri. Qui in Spagna, le persone non potevano più rivolgersi a Pp, Psoe o Izquierda Unida. Sarebbe stato impossibile: erano troppo vecchi. Al contrario, in Francia, per certi aspetti il vecchio mondo continua a rivendicare il suo spazio. È spettacolare che un banchiere come Emmanuel Macron rappresenti la novità più di Jean-Luc Mélenchon. Credo al tempo stesso che Mélenchon non sia stato molto «generoso»: avrebbe dovuto lasciare la possibilità ad altri leader di emergere. In Italia, la stessa sinistra – sempre per mancanza di «generosità» e per la sua frammentazione – non ha potuto far emergere nuovi leader. Questo ha permesso la nascita del movimento di Beppe Grillo. Eppure, qualcosa di alternativo e proveniente da sinistra sarebbe potuto emergere in Italia. In ogni momento di crisi, nel 1929, nel 1973 od oggi, si osserva esattamente lo stesso fenomeno. Ci sono sempre quattro risposte da parte del potere: 1) dire che non ci sono alternative; 2) formare una grande coalizione, che vuol dire ugualmente che non c’è alternativa; 3) la nascita di un populismo di destra, come Dollfuss, Hitler, Rivera o Trump; 4) una soluzione autoritaria. Questi populismi di destra fanno parte del sistema. Trump è il sistema, è un milionario, non farà mai niente contro il sistema, così come Marine Le Pen è parte integrante del sistema, anche se pretende di non esserlo. Noi di Podemos non siamo contro gli eccessi del sistema, siamo contro il sistema, dato che pensiamo che le situazioni di crisi siano dovute interamente al sistema stesso.
Quale strategia deve quindi adottare oggi la sinistra in Europa?
Tre sono le assi più importanti per capire cosa dobbiamo fare oggi: 1) destra/sinistra, un’asse che continua ad esistere nonostante sia indebolita; 2) vecchio/nuovo; 3) alleato/opposto alle forze tradizionali. Noi dobbiamo opporci, rappresentando il nuovo e la novità. Questa è una cosa che si può fare tanto da destra quanto da sinistra. Se tu lo fai da destra, stai mentendo, perché non rappresenterai mai un vero rinnovamento o una reale opposizione. Bisogna quindi farlo da sinistra. Questo è il punto chiave. Quando Podemos è nato, non volevamo reinventare la sinistra, o dare nuova linfa alla vecchia sinistra: noi volevamo ricostruire uno spazio di emancipazione.
Nessun commento:
Posta un commento