di Checchino Antonini
Quando la Lady di Ferro lasciò per sempre il mondo che aveva contribuito a imbarbarire, nel Belpaese più di una voce si alzò rammaricata per dire che ci vorrebbe una Thatcher anche per l'Italia.
Peccato (peccato per gli italiani, s'intende) che l'Italia sia «già ora la prima nazione per dimensioni delle privatizzazioni», spiega Marco Bersani a Liberazione.
Dunque, a rigor di logica, la Thatcher italiana si chiama Prodi. Perché è dalla fine degli anni '80, dalla dismissione dell'Iri, dal suo spezzatino, che si avvia l'equivoco della «modernizzazione italiana». «Siamo secondi solo al Giappone nel mondo, ed è stata privatizzata più roba da noi che in Inghilterra. Pensa che nel '90 c'era il 74% del controllo pubblico delle banche. Ora quel livello è a zero. La Germania ne controlla il 60%, la Francia il 50%. Siamo stati più realisti del re».
Marco Bersani, laureato in filosofia, è dirigente comunale dei servizi sociali. Socio fondatore di Attac Italia, e tra i portavoce del Genoa Social Forum nel luglio 2001, è tra i principali animatori del Forum italiano dei movimenti per l’acqua che ha dato vita alla vittoriosa campagna referendaria del 2011. Inoltre figura fra i promotori del Forum per una nuova finanza pubblica e sociale.
Per Edizioni Alegre ha scritto “Acqua in movimento. Ripubblicizzare un bene comune" (2007), “Nucleare: se lo conosci lo eviti" (2009) e “Come abbiamo vinto il referendum" (2011). L'ultima sua fatica libraria è “Katastroika. Le privatizzazioni che hanno ucciso la società", un libro particolarmente preveggente se si pensa che, solo pochissimi giorni fa, il premier Letta ha annunciato da Atene: «Credo che in autunno presenteremo un importante piano di privatizzazioni». Accanto a lui il premier greco Samaras e, giustamente, c'è chi ha fatto notare che Letta parlava di corda in casa dell'impiccato. Prima di lui anche il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni aveva avvertito che «non è escluso che il Tesoro decida di cedere quote di società pubbliche – incluse Eni, Enel e Finmeccanica – per ridurre il debito».
Peccato (peccato per gli italiani, s'intende) che l'Italia sia «già ora la prima nazione per dimensioni delle privatizzazioni», spiega Marco Bersani a Liberazione.
Dunque, a rigor di logica, la Thatcher italiana si chiama Prodi. Perché è dalla fine degli anni '80, dalla dismissione dell'Iri, dal suo spezzatino, che si avvia l'equivoco della «modernizzazione italiana». «Siamo secondi solo al Giappone nel mondo, ed è stata privatizzata più roba da noi che in Inghilterra. Pensa che nel '90 c'era il 74% del controllo pubblico delle banche. Ora quel livello è a zero. La Germania ne controlla il 60%, la Francia il 50%. Siamo stati più realisti del re».
Marco Bersani, laureato in filosofia, è dirigente comunale dei servizi sociali. Socio fondatore di Attac Italia, e tra i portavoce del Genoa Social Forum nel luglio 2001, è tra i principali animatori del Forum italiano dei movimenti per l’acqua che ha dato vita alla vittoriosa campagna referendaria del 2011. Inoltre figura fra i promotori del Forum per una nuova finanza pubblica e sociale.
Per Edizioni Alegre ha scritto “Acqua in movimento. Ripubblicizzare un bene comune" (2007), “Nucleare: se lo conosci lo eviti" (2009) e “Come abbiamo vinto il referendum" (2011). L'ultima sua fatica libraria è “Katastroika. Le privatizzazioni che hanno ucciso la società", un libro particolarmente preveggente se si pensa che, solo pochissimi giorni fa, il premier Letta ha annunciato da Atene: «Credo che in autunno presenteremo un importante piano di privatizzazioni». Accanto a lui il premier greco Samaras e, giustamente, c'è chi ha fatto notare che Letta parlava di corda in casa dell'impiccato. Prima di lui anche il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni aveva avvertito che «non è escluso che il Tesoro decida di cedere quote di società pubbliche – incluse Eni, Enel e Finmeccanica – per ridurre il debito».
Nel pieno della crisi, dunque, il verbo dominante in tutta Europa resta ancora uno solo: privatizzare tutto e consegnare i beni comuni ai capitali finanziari: dall’acqua alle infrastrutture, dall’istruzione alla sanità, dalla previdenza al welfare state.
Può essere fermata la nuova ondata di privatizzazioni?
Marco Bersani, intanto, fa il bilancio di ciò che le politiche liberiste e le privatizzazioni hanno prodotto negli ultimi quarant’anni, dall’America Latina alla Gran Bretagna, dalla Russia del post socialismo reale all’Europa occidentale, con un documento esclusivo: il rapporto con cui la Deutsche Bank ha dato il via libera ad un poderoso processo di privatizzazioni nell’Unione Europea che, per l’Italia, prevede per il prossimo futuro la svendita di 400 miliardi di euro di patrimonio pubblico. Un libro che arriva nel pieno della crisi e propone percorsi di possibile alternativa, proprio quando l’Italia vive il momento più acuto della crisi verticale della democrazia rappresentativa.
La “scoperta" è che, sebbene ogni volta vengano presentate come ineluttabili, mai nella storia dell'umanità un processo di privatizzazione ha rispettato le promesse di riduzioni di costi e di efficienza ma sempre ha contribuito a un processo di desertificazione sociale e al gigantesco trasferimento di ricchezze dal monte salari al monte rendite/profitti. «Il fondo monetario internazionale - continua Bersani - compila periodicamente i piani di aggiustamento strutturale ma in cambio pretende la privatizzazione dell'economia. Nei suoi rapporti ammette regolarmente di avere sbagliato, dice che in fondo la recessione non funziona ma poi formula una nuova strategia che divide il mondo tra rigore ed equità. Il liberismo non è una teoria ma una religione. Per oltre quarant’anni il fondamentalismo neoliberista ha potuto scorrazzare per il pianeta, riuscendo a produrre il massimo della diseguaglianza sociale proprio nel momento in cui la ricchezza prodotta poteva consentire il massimo delle possibilità individuali e collettive. Oggi, di fronte ai nodi sistemici di una crisi profonda del capitalismo, che è al contempo economica e finanziaria, sociale e ambientale, le soluzioni che ci vengono imposte sono le stesse che la crisi l’hanno provocata, approfondita, portata a un punto di difficile reversibilità. I poteri dominanti ripetono ossessivamente che siamo alla fine della storia e che questo è l’unico mondo possibile. Noi sappiamo che si tratta semplicemente di riappropriarci di tutto ciò che ci appartiene».
Perché la memoria delle privatizzazioni deve servire a «parlare di oggi, a comprendere il bivio che disegna la crisi. Deprivatizzare la società, sottrarre i servizi sociali, non solo l'acqua, al disegno dei mercati finanziari, operare un salto di qualità: dalla resistenza a valle alla riappropriazione a monte. Ecco il filo rosso del libro e la sua stringente attualità.
Può essere fermata la nuova ondata di privatizzazioni?
Marco Bersani, intanto, fa il bilancio di ciò che le politiche liberiste e le privatizzazioni hanno prodotto negli ultimi quarant’anni, dall’America Latina alla Gran Bretagna, dalla Russia del post socialismo reale all’Europa occidentale, con un documento esclusivo: il rapporto con cui la Deutsche Bank ha dato il via libera ad un poderoso processo di privatizzazioni nell’Unione Europea che, per l’Italia, prevede per il prossimo futuro la svendita di 400 miliardi di euro di patrimonio pubblico. Un libro che arriva nel pieno della crisi e propone percorsi di possibile alternativa, proprio quando l’Italia vive il momento più acuto della crisi verticale della democrazia rappresentativa.
La “scoperta" è che, sebbene ogni volta vengano presentate come ineluttabili, mai nella storia dell'umanità un processo di privatizzazione ha rispettato le promesse di riduzioni di costi e di efficienza ma sempre ha contribuito a un processo di desertificazione sociale e al gigantesco trasferimento di ricchezze dal monte salari al monte rendite/profitti. «Il fondo monetario internazionale - continua Bersani - compila periodicamente i piani di aggiustamento strutturale ma in cambio pretende la privatizzazione dell'economia. Nei suoi rapporti ammette regolarmente di avere sbagliato, dice che in fondo la recessione non funziona ma poi formula una nuova strategia che divide il mondo tra rigore ed equità. Il liberismo non è una teoria ma una religione. Per oltre quarant’anni il fondamentalismo neoliberista ha potuto scorrazzare per il pianeta, riuscendo a produrre il massimo della diseguaglianza sociale proprio nel momento in cui la ricchezza prodotta poteva consentire il massimo delle possibilità individuali e collettive. Oggi, di fronte ai nodi sistemici di una crisi profonda del capitalismo, che è al contempo economica e finanziaria, sociale e ambientale, le soluzioni che ci vengono imposte sono le stesse che la crisi l’hanno provocata, approfondita, portata a un punto di difficile reversibilità. I poteri dominanti ripetono ossessivamente che siamo alla fine della storia e che questo è l’unico mondo possibile. Noi sappiamo che si tratta semplicemente di riappropriarci di tutto ciò che ci appartiene».
Perché la memoria delle privatizzazioni deve servire a «parlare di oggi, a comprendere il bivio che disegna la crisi. Deprivatizzare la società, sottrarre i servizi sociali, non solo l'acqua, al disegno dei mercati finanziari, operare un salto di qualità: dalla resistenza a valle alla riappropriazione a monte. Ecco il filo rosso del libro e la sua stringente attualità.
Da Liberazione.it
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