Il 12 e 13 giugno saremo chiamati a votare 4 quesiti referendari. Due riguardano la privatizzazione dei servizi idrici integrati, uno gli investimenti sull'energia nucleare, il quarto il cosiddetto "legittimo impedimento". Pur se con origini molto diversi, i 4 quesiti sono intrinsecamente legati.
La Costituzione italiana dichiara sin dal primo articolo che la sovranità appartiene al popolo. Essa prevede tre strumenti di "democrazia diretta", ovvero di potere esercitato da cittadini non eletti. Si tratta della petizione (art. 50), dell'iniziativa legislativa popolare (art. 71), e del ricorso alle varie forme di referendum: quello abrogativo (art. 75) e quello confermativo (art. 138) a livello nazionale, e quello abrogativo, consultivo e propositivo a livello locale.
Tutte queste forme di democrazia diretta sono rimaste sempre armi spuntate. Solo alcuni referendum abrogativi nazionali si sono dimostrati, nel corso della storia della Repubblica, i soli in grado di mobilitare le coscienze, l'opinione pubblica e, quindi, l'intervento dei cittadini sulla politica, al di là dell'evento delle lezioni, ovvero del processo di delega.
Ecco qual è il filo rosso che lega i 4 prossimi referendum. Essi sono l'arma più potente, che ci piaccia o no, per ribadire la volontà di partecipare alle decisioni del governo, e con essa ribadire le nostre convinzioni. Ovvero dire con forza che i diritti non si vendono, che il futuro non può essere messo a rischio dalla voracità di alcuni, e che la legge è uguale per tutti.
Il tentativo di privatizzazione dei servizi idrici, innescato con la legge Ronchi del 2009, ma in realtà ultimo atto di un processo molto più lungo, contiene in sé tutti gli elementi di questo attentato ai nostri diritti, alla loro mercificazione. Basta leggere l'articolo 15 della legge Ronchi, dove si fa esplicito riferimento ai servizi locali di rilevanza economica. Ecco: distribuire acqua potabile è considerato un business. Non è - come lo intendiamo noi - un impegno, un costo necessario per garantire un diritto. Ma un ambito economico sul quale, per legge, bisogna fare profitto. Che cosa accade se il profitto entra nell'ambito dei diritti? Accade che il denaro decide chi può permettersi di soddisfare un bisogno. E che un bene comune - e per bene comune intendiamo il fatto che una comunità sostiene lo sforzo economico di garantire a se stessa, a tutti i suoi membri, indipendentemente dalla loro condizione, un diritto - venga dato in pasto al mercato.
A nulla valgono i risibili tentativi di spacciare questa privatizzazione come una "liberalizzazione", parola che evoca equità ed efficienza. Non c'è nessuna libertà in un servizio che, per legge, viene affidato a un privato per 30 anni. Non c'è nessuna concorrenza, nessun vantaggio per i cittadini. Tanti invece per chi si spartirà la torta, e lo dimostrano le esperienze, all'estero e in qualche caso anche in Italia, dove la gestione privatistica di alcuni acquedotti ha già portato danni.
Non era necessaria poi la catastrofe giapponese per ribadire che l'energia nucleare non è sicura. Lo è stata semmai per dimostrare, semmai ce ne fosse stato il bisogno, la pochezza di chi ha sostenuto in questi mesi il ritorno al nucleare. Personaggi che ora ritrattano, prendono "pause di riflessioni", o addirittura fanno finta di niente, tacciono e si defilano. Anche la sicurezza energetica è un bene comune, anche la tutela della nostra salute. Non è tollerabile che si possano fare affari scaricandone i rischi sulla collettività. Anche -infine- un'oculata spesa pubblica è un bene comune. Perché l'energia nucleare è costosa e inefficiente, a meno che non sia foraggiata da finanziamenti pubblici. Lo dimostrano le esperienze all'estero, lo dimostra il fatto che dal 2006 - non dall'11marzo 2011, giorno del terremoto in Giappone - la produzione di energia elettrica da fonte nucleare sia in constante diminuzione in tutto il mondo.
La verità è che le fonti non rinnovabili, come il nucleare, sono intrinsecamente non democratiche. Perché prevedono concentrazione nell'approvvigionamento delle materie prime (uranio, carbone, gas, petrolio), concentrazione nella loro distribuzione, concentrazione nella produzione, concentrazione nella vendita. Ovvero, concentrazione di potere nelle mani di potenti multinazionali energetiche.Le fonti rinnovabili sono invece democratiche, perché la produzione è diffusa e il potere è dalla parte dei consumatori, ovvero dei cittadini.
Per tutti questi motivi dovremmo tutti presentarci alle urne, il 12 e 13 giugno, raggiungere il quorum e votare sì. Non per paura, non per egoismo, ma per utilizzare i pochi strumenti di democrazia diretta che abbiamo e cancellare le leggi che attentato ai nostri diritti. E per riprenderci qualcosa che è nostro: ovvero quei beni comuni che chiamiamo giustizia, equità, sostenibilità.
di Pietro Raitano Direttore di Altreconomia
(www.altreconomia.it)
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