Bahrein, la rivolta diversa
L'Occidente ha plaudito alle rivolte in Medioriente, ha preso le armi contro il tiranno in Gheddafi, ma in Bahrein l'atteggiamento è del tutto diverso
Quando tutto è cominciato, il 17 febbraio, ci chiedevamo come sarebbe finita la rivolta della Rotonda delle Perle a Manama, in Bahrein. Una cosa era prevedibile: la sete di diritti e l'aspirazione alla libertà fiorite in gran parte del Medioriente non avrebbero trovato lo stesso entusiastico supporto delle democrazie occidentali.
La centralità strategica dell'arcipelago nel Golfo Persico - dove staziona la Quinta Flotta degli Stati Uniti -, e l'interesse dell'Arabia Saudita a tener lontana la minaccia iraniana sono due ragioni sufficienti a svilire le richieste della maggioranza sciita sottoposta al dominio sunnita della dinastia al-Khalifa.
Quelle stesse richieste avanzate in Egitto, Tunisia e soprattutto in Libia non hanno la stessa legittimità in Bahrein.
Il 14 marzo scorso - previa autorizzazione degli Stati Uniti e (impropriamente) in virtù di un Trattato di difesa congiunta siglato dai paesi del Golfo nel 1984 (Peninsula Shield Force) - il re saudita Abdullah ha inviato nel vicino regno del Bahrein mille soldati per alleggerire le forze di sicurezza di re al-Khalifa.
Il 16 marzo, un mese dopo l'inizio della rivolta, la polizia ha represso nel sangue la protesta: almeno quattro i morti e più di duecento i feriti. L'accampamento di tende è stato smantellato e lo stesso monumento al centro della rotonda è stato demolito. Anche il simbolo della piazza, il simbolo della protesta, andava cancellato.
Dati alla mano - divulgati dal partito d'opposizione sciita al-Wifaq - in un mese di proteste ci sono stati almeno quindici morti a cui si aggiungono quattro poliziotti e tre cittadini stranieri. Dal momento della repressione della rivolta, molti sciiti non sono tornati al lavoro: troppi check point e troppo alto il rischio di essere arrestati (in maniera anche indiscriminata) dalle forze di sicurezza che presidiano gran parte dei villaggi sciiti.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon non è andato oltre un monito per l'uso eccessivo delle forza. Anche Washington ha invitato alla prudenza il suo alleato al-Khalifa per evitare che un massacro della popolazione sciita possa dare forza alle accuse di Teheran. Sul fronte del mondo arabo, i paesi del Golfo - impauriti dalle ambizioni sciite dell'Iran nell'area - si sono stretti tutti intorno all'Arabia Saudita. Il re Abdullah, per evitare che il virus della rivolta si espanda anche in Arabia Saudita, ha stretto la morsa intorno alla minoranza sciita (il dieci per cento della popolazione): nel fine settimana appena trascorso sono stati arrestati più di cento sciiti che manifestavano per chiedere più diritti e maggiore libertà. Mentre l'Iran denuncia il maltrattamento degli sciiti e soprattutto "l'invasione del Bahrein" da parte dei soldati sauditi, la Siria - il più stretto alleato di Teheran - ha dichiarato come legittima la repressione e l'uso della forza contro i manifestanti (ma questo si spiega con il fatto che in queste ore Damasco si trova alle prese con il germoglio della protesta e avallando l'operato di Manama si è creata il presupposto per agire nello stesso modo).
L'Occidente ha bisogno del sostegno dei Paesi del Golfo che detengono quasi il 50 per cento delle risorse petrolifere mondiali. Le aspirazioni di alcune centinaia di migliaia di sciiti, dopo tutto, possono passare in secondo piano. Nessuno stupore dunque se anche l'Europa, schierata in prima linea al fianco dei ribelli di Bengasi, giustifica la repressione violenta: come ha detto Robert Cooper, primo consigliere della responsabile Ue degli Esteri Catherine Ashton, "forse la polizia (ndr, del Bahrein) non si era mai trovata ad affrontare questioni di ordine pubblico [...] e qualche incidente può anche verificarsi".
peacereporter.net
Quando tutto è cominciato, il 17 febbraio, ci chiedevamo come sarebbe finita la rivolta della Rotonda delle Perle a Manama, in Bahrein. Una cosa era prevedibile: la sete di diritti e l'aspirazione alla libertà fiorite in gran parte del Medioriente non avrebbero trovato lo stesso entusiastico supporto delle democrazie occidentali.
La centralità strategica dell'arcipelago nel Golfo Persico - dove staziona la Quinta Flotta degli Stati Uniti -, e l'interesse dell'Arabia Saudita a tener lontana la minaccia iraniana sono due ragioni sufficienti a svilire le richieste della maggioranza sciita sottoposta al dominio sunnita della dinastia al-Khalifa.
Quelle stesse richieste avanzate in Egitto, Tunisia e soprattutto in Libia non hanno la stessa legittimità in Bahrein.
Il 14 marzo scorso - previa autorizzazione degli Stati Uniti e (impropriamente) in virtù di un Trattato di difesa congiunta siglato dai paesi del Golfo nel 1984 (Peninsula Shield Force) - il re saudita Abdullah ha inviato nel vicino regno del Bahrein mille soldati per alleggerire le forze di sicurezza di re al-Khalifa.
Il 16 marzo, un mese dopo l'inizio della rivolta, la polizia ha represso nel sangue la protesta: almeno quattro i morti e più di duecento i feriti. L'accampamento di tende è stato smantellato e lo stesso monumento al centro della rotonda è stato demolito. Anche il simbolo della piazza, il simbolo della protesta, andava cancellato.
Dati alla mano - divulgati dal partito d'opposizione sciita al-Wifaq - in un mese di proteste ci sono stati almeno quindici morti a cui si aggiungono quattro poliziotti e tre cittadini stranieri. Dal momento della repressione della rivolta, molti sciiti non sono tornati al lavoro: troppi check point e troppo alto il rischio di essere arrestati (in maniera anche indiscriminata) dalle forze di sicurezza che presidiano gran parte dei villaggi sciiti.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon non è andato oltre un monito per l'uso eccessivo delle forza. Anche Washington ha invitato alla prudenza il suo alleato al-Khalifa per evitare che un massacro della popolazione sciita possa dare forza alle accuse di Teheran. Sul fronte del mondo arabo, i paesi del Golfo - impauriti dalle ambizioni sciite dell'Iran nell'area - si sono stretti tutti intorno all'Arabia Saudita. Il re Abdullah, per evitare che il virus della rivolta si espanda anche in Arabia Saudita, ha stretto la morsa intorno alla minoranza sciita (il dieci per cento della popolazione): nel fine settimana appena trascorso sono stati arrestati più di cento sciiti che manifestavano per chiedere più diritti e maggiore libertà. Mentre l'Iran denuncia il maltrattamento degli sciiti e soprattutto "l'invasione del Bahrein" da parte dei soldati sauditi, la Siria - il più stretto alleato di Teheran - ha dichiarato come legittima la repressione e l'uso della forza contro i manifestanti (ma questo si spiega con il fatto che in queste ore Damasco si trova alle prese con il germoglio della protesta e avallando l'operato di Manama si è creata il presupposto per agire nello stesso modo).
L'Occidente ha bisogno del sostegno dei Paesi del Golfo che detengono quasi il 50 per cento delle risorse petrolifere mondiali. Le aspirazioni di alcune centinaia di migliaia di sciiti, dopo tutto, possono passare in secondo piano. Nessuno stupore dunque se anche l'Europa, schierata in prima linea al fianco dei ribelli di Bengasi, giustifica la repressione violenta: come ha detto Robert Cooper, primo consigliere della responsabile Ue degli Esteri Catherine Ashton, "forse la polizia (ndr, del Bahrein) non si era mai trovata ad affrontare questioni di ordine pubblico [...] e qualche incidente può anche verificarsi".
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