Per parlare, Pierluigi Bersani, ha scelto il Washington
Post. E non è un caso. L'amministrazione Usa, le cancellerie europee, e i
mercati, si stanno interrogando con qualche timore su quale sarà il
destino dell'Italia dopo le elezioni.
La settimana scorsa il Financial Times aveva accusato il segretario del
Partito Democratico di essersi spostato troppo a sinistra, sulle posizioni dell'area massimalista rappresentata dalla Cgil e dal responsabile economico Stefano Fassina.
Ora dunque è il momento di rassicurare. Bersani lo fa con il Washington Post, aprendo definitivamente ad un "patto di collaborazione" con Mario Monti dopo il voto.
"Siamo aperti alla collaborazione", ha spiegato il leader del
Centrosinistra, "non uno scambio di favori, ma la firma di un patto per
le riforme e la ricostruzione del paese". Poi Bersani si è rivolto
direttamente agli investitori. "I mercati", ha spiegato, "non hanno
nulla da temere, a patto di accettare la fine dei monopoli e posizioni
dominanti". Non solo. "Capisco quanto strano possa sembrare di vedere la
sinistra italiana aprire i mercati", ha aggiunto Bersani, "ma questo
deriva dal fatto che in Italia, la destra non ha una tradizione di
libero mercato, tende a dare più potere allo Stato ed è più fortemente
influenzato dalle lobby professionali".
Per il Pd tranquillizzare i mercati è un imperativo categorico. Come
dimostra l'intervista rilasciata da Fassina allo stesso Financial Times
che lo aveva attaccato. Il
responsabile economico del Pd al quotidiano della city ha spiegato che
un eventuale governo a guida Bersani non smonterà le riforme di Monti,
a partire da quella della Fornero sul mercato del lavoro. Niente
revisione dell'articolo 18, questione sulla quale, invece, Sel di Nichi
Vendola ha raccolto le firme per un referendum abrogativo. Fassina, come
Bersani, ha teso la mano a Monti, ricordando che con il professore il
Pd "divide un terreno comune sulle riforme costituzionali, sull'Europa e
sulla necessità di riforme strutturali". Fassina assicura che il Pd non
rimetterà mano al Fiscal compact, ma che farà leva sull'Europa per le
politiche di sviluppo, aprendo anche all'ipotesi di un super-commissario
al bilancio lanciato dalla Germania.
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