lunedì 29 giugno 2015

Firme false, il "clima terribile" nel Pd Piemontese. Chiamparino attacca il partito, il segretario renziano sotto accusa. E da Roma...

CHIAMPARINO
Non si farà rosolare a fuoco lento, non rimarrà incollato alla poltrona. Come sta facendo Ignazio Marino, sussurra qualche maligno. Ma soprattutto come ha fatto Roberto Cota, rimasto appeso per quattro anni alla sentenza definitiva sulle firme false che alla fine decretò l'annullamento delle elezioni. Sergio Chiamparino non ci sta. Non vuole che ci sia nemmeno un'ombra che macchi una carriera specchiata. Per cui, se il 9 luglio il Tar si pronuncerà a favore del ricorso presentato dalla Lega, trarrà le sue conclusioni e si dimetterà.
Sono ore drammatiche per il partito in Piemonte. "Quando entri nella sede del partito c'è un clima terribile, tutti che strisciano lungo i muri, che si guardano di sottecchi", racconta con la voce grave un parlamentare sabaudo. Perché è la filiera Democratica regionale che viene pesantemente messa sotto accusa dal presidente. Un modo di dire "io non c'entro nulla con voi, non pago con la mia reputazione vostri errori".
I sostenitori del "Chiampa", come viene affettuosamente chiamato dai suoi attaccano a testa bassa: "Se devi raccogliere le firme devi farlo bene, non puoi farlo in maniera approssimativa". E ancora: "Si deve ribadire la differenza e l'estraneità di Sergio da un sistema politico che dimostra una così incredibile superficialità".
A Torino e dintorni è iniziata da settimane quella che viene definita "Rimbalzopoli". Viene messa sotto accusa la segreteria regionale, che scarica il barile su quella provinciale, che mette sotto accusa i certificatori, che attaccano i responsabili della raccolta firme. Una girandola di veleni e maldicenze che è arrivata a colpire perfino i semplici dipendenti del partito.
Tecnicamente la faccenda è complicata. Ma è riassumibile così: chi doveva autenticare le firme delle liste non era presente al momento di farlo. Tanto che alcuni sottoscrittori hanno detto di non riconoscere i pubblici ufficiali che dovevano essere presenti al momento dell'autografo, e alcuni dei pubblici ufficiali stessi hanno spiegato candidamente che le firme apposte sotto alcuni moduli non erano le loro.
Il Tar può seguire quattro strade: respingere il ricorso; rinviare tutto all'autunno per ulteriori approfondimenti; accogliere le osservazioni ma attendere l'evolversi del procedimento penale prima di esprimersi; accogliere il ricorso. In questi ultimi due casi Chiamparino ha annunciato con chiarezza che mollerà. Nonostante il pressing che arriva da Roma. Il vicesegretario Lorenzo Guerini da giorni ripete che tutto il partito è con lui e che sulla faccenda delle dimissioni deve ripensarci. E, dietro di lui, anche Matteo Renzi è in costante pressing. Spiega un deputato a lui vicino: "Piuttosto che perdere il Piemonte, fossi in lui, mi taglierei una mano. Se rivinci hai fatto il tuo, se perdi, o se vinci con meno dell'ultima volta con percentuali superiori al 60%, ti si apre un problema enorme".
Eppure da quell'orecchio l'ex sindaco di Torino non ci sente. L'ultima risposta "all'amico Guerini" è arrivata oggi. Ed è perentoria: "Non credo che i nostri elettori, e nemmeno in generale tutti i piemontesi, siano d'accordo nel vedermi ripetere quanto ha fatto Roberto Cota, che ha anteposto l’attaccamento alla poltrona alla legalità e alla certezza dell’azione di governo".
Il partito è sotto shock, "dominato dalle correnti e dai capibastone". Due anni fa sarebbe bastato che il gruppo consiliare uscente certificasse le liste, e il pasticcio si sarebbe evitato. Ma, spiegano, il timore era quello che, essendo stato il Consiglio di Cota annullato, si potesse prestare il fianco a ricorsi. E quando si paventò l'ipotesi di far certificare il faldone ai gruppi nazionali, subentrò l'orgoglio del campanile.
Un orgoglio che oggi rischia di costare carissimo. Da Torino spiegano che il pressing di Renzi è forte anche in considerazione che il vertice apicale del partito, il segretario regionale Davide Gariglio, è un renziano di ferro della prima ora, considerato vicino al potente senatore Stefano Lepri. E quell'accusa di "superficialità" che arriva direttamente dalle stanze della presidenza rischia di terremotare uno dei pochi sistemi regionali che si avviavano a marcare la discontinuità nei confronti della Ditta di bersaniana memoria.
Ma il segretario è finito nell'occhio del ciclone. I suoi detrattori lo accusano di essere stato indirettamente la causa del pasticcio, avendo fatto pressioni per infilare nel listino del presidente un suo uomo, il tesoriere regionale Domenico Mangone, nonostante le contrarietà dell'allora candidato Chiamparino, e convincendosi solo all'ultimo di virare su una donna, Valentina Caputo. Portando avanti il tira e molla fino a tre giorni prima della presentazione delle liste, provocando così quella corsa forsennata le cui conseguenze oggi sono sotto gli occhi di tutti. Il segretario provinciale Fabrizio Morri ha candidamente spiegato che i tempi così esigui furono dovuti a "un problema politico, non roganizzativo"
Lo stesso Mangone è stato uno dei quattro membri di una commissione interna al partito, incaricata di fare luce su quel che era successo. Una relazione, spiega uno degli interessati, che conteneva "la consapevolezza che quella documentazione era raffazzonata, e che lo era per una precisa responsabilità politica".
Così, mentre Renzi lavora per scongiurare un'altro patatrac dopo l'imbarazzante vicenda di Vincenzo De Luca e il clima da fine impero che si respira a Roma, e i renziani tentano in tutti i modi di arginare una slavina che li travolgerebbe, sono i Giovani Turchi a schierarsi compattamente attorno al presidente, difendendo quella che ritengono "una scelta di grande integrità morale e politica". "La penso come Chiamparino", ha fatto sapere il senatore Stefano Esposito.
Chi, fino a un mese fa, giurava che il rischio elezioni era un'ipotesi irreale, oggi si è spostato su una posizione di 50 e 50. Non subito, però. Perché, dal momento dell'addio, la legge prescrive che la Regione debba tornare al voto entro tre mesi. Uno scenario troppo esasperato anche per i difensori di Chiamparino. Così la strategia dovrebbe essere quella, in caso di cattive notizie dal Tar, di annunciare le dimissioni per il prossimo gennaio-febbraio, in modo da consentire un'unica tornata amministrativa insieme al capoluogo.
Anche perché un abbandono immediato pregiudicherebbe lo sblocco della prima trance dei fondi europei, il cui piano regionale è in drittura d'arrivo. Che significherebbe il blocco, tra le altre cose, della formazione professionale e il rinvio sine die di una lunga serie di incentivi alle imprese.
I piani del presidente sembrano comunque chiari: ricandidarsi, chiedendo di fatto di svolgere, anche se informalmente, il ruolo di commissario del partito. Il che equivale a niente condizionamenti su candidature, listino e giunta, niente influenza dei capibastone e, ovviamente, niente pasticci sulla compilazione delle liste. Una piattaforma che, unita alla messa in sicurezza dei conti della Regione e all'avvio della razionalizzazione del piano sanitario, gli consentirebbero di ripresentarsi ai piemontesi con un accresciuto patrimonio di credibilità personale e ottime chance di vincere di nuovo.
Il contrario di quel che pensano i renziani: "Se lo fa, e rimane a bagnomaria fin dopo Natale, la sua amministrazione è delegittimata, e lui è politicamente finito, e dovrà assumersene le sue responsabilità". "Rimbalzopoli" e il "clima terribile" continuano a imperversare. E lo faranno per lo meno fino al 9 luglio.

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