Ci sono tutti gli ingredienti per
considerare questo un momento delicato, se non proprio cruciale. Da una
parte c’è un governo precario, nato, stando all’ufficialità, per fare la
legge elettorale e portare il paese alle urne, benché la missione sia
un’altra.
Quella di far decantare la batosta del
referendum e far maturare il diritto al vitalizio per i parlamentari in
carica. Dall’altra, la sinistra sembra nuovamente in grado di svolgere
un ruolo, benché frammentata tra le anime belle della minoranza Pd (un
paradigma di subalternità) e il cantiere in perenne ristrutturazione
della cosiddetta sinistra radicale, paralizzata dall’eterno dilemma tra
intransigentismo e realismo.
Si capisce che ci si interroghi su come
trarre vantaggio dalla congiuntura, ma come stanno le cose? È davvero
ragionevole attendersi sviluppi positivi?
Facciamo come al cospetto di un dipinto
di grandi dimensioni, indietreggiamo per cogliere la scena nel suo
insieme. Sul piano sociale, una crisi sempre più severa: poco lavoro (e
sempre più precario e mal pagato); quindi diffusa povertà, mentre lo
Stato sociale (ma anche la scuola e l’università, per non dire del
territorio e delle infrastrutture) fa acqua da ogni parte. Né potrebbe
essere altrimenti, con buona pace del ministro Padoan novello critico
dell’austerity, visto che – al netto della crisi mondiale – su nessun
altro paese «avanzato» grava (protetta da tutti i governi) una manomorta
strutturale come quella costituita in Italia da corruzione, evasione ed
elusione fiscale; e dato che nessun paese industriale può permettersi
una cronica mancanza di politiche industriali e di investimenti nella
ricerca tecnologica.
Sul piano politico, una crisi verticale
della rappresentanza alimenta l’astensionismo e fa la fortuna di
imprenditori della protesta capaci di incanalare il risentimento dentro
una generica critica del sistema. È questa una situazione non priva di
pericoli ma in teoria ottimale per la sinistra, perché cosa c’è di più
fecondo di una crisi che nasce dalla sofferenza del mondo del lavoro e
che nessuna forza conservatrice è in grado di affrontare? Eppure la
sinistra nel suo intero, dentro e fuori il Pd, raccoglie oggi forse un
10% dei consensi. Quindi da una domanda bisognerebbe partire, al di là
delle scelte tattiche o di convenienza: perché questa persistente
marginalità che non accenna a venir meno, che anzi si stabilizza e tende
ad apparire inevitabile?
Propongo due risposte, inevitabilmente sgradevoli, che riguardano le due componenti della sinistra.
Per quanto concerne la crisi della
sinistra Pd penso che essa rifletta le sue enormi responsabilità nel
disastro abbattutosi sul lavoro in questi trent’anni. Il problema non è
che Bersani e D’Alema non critichino l’Europa nemmeno quando ammettono
di essersi sbagliati sul conto della globalizzazione neoliberale. È che
questa autocritica è superficiale e di facciata. Spieghino quali furono
le cause (ideologiche e politiche) di quell’errore e quali, soprattutto,
le sue conseguenze (politiche e sociali). I loro silenzi mostrano che
siamo lontani anni luce dal superamento di una prospettiva che ha
disancorato la parte maggioritaria della sinistra italiana dal conflitto
sociale, o meglio: che l’ha di fatto schierata dalla parte del grande
capitale, privando il paese di un’efficace forza di opposizione radicata
nel mondo del lavoro.
Quanto alla sinistra «radicale», reca
anch’essa serie responsabilità. Che risalgono in parte agli anni Novanta
(quando le scissioni del Prc uccisero la speranza di contrastare
efficacemente la Bolognina) ma che perdurano: che concernono
l’incapacità di rinnovarsi (nonostante la lunga sequenza di sconfitte)
ed evocano gli spettri del settarismo (il male antico della litigiosità
interna) e del carrierismo.
Tutto questo per dire che la sinistra
italiana è marginale (a guardar bene dalla fine del Pci) e tale resterà
nonostante sussistano in linea di principio le premesse per una
riscossa.
Nel Pd non succederà nulla, ma
soprattutto, anche in caso di scissione, che cosa ce ne faremmo di un
Bersani e della sua scuola? Non succederà nulla neanche a sinistra del
Pd, dove tutte le manovre in corso alludono al perpetuarsi della
situazione attuale, con un drappello di parlamentari intenti a
esercitare il «diritto di tribuna» nel teatro politico. Il che non solo
giova a poco (salvo che a un’infantile nostalgia identitaria) ma, come
ogni finzione, sortisce anche effetti perversi.
C’è un’alternativa? Si potrebbe fare
qualcosa per uscire da questo ghetto? Nell’immediato probabilmente no.
Non basta la buona volontà per lasciarsi alle spalle una distruzione
sistematica e capillare. Sarebbe tuttavia già un passo avanti
riconoscere che la sinistra in Italia (come in tutta Europa) risorgerà
solo se e quando una nuova leva di animali politici nascerà direttamente
nei luoghi del disagio sociale e del conflitto, lungo i confini fisici e
simbolici delle nostre città.
ALBERTO BURGIO
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