Intervista a Fausto Bertinotti di Marco Berlinguer, Pubblico
«È
da molto che preferisco non parlare, ma ho seguito le interviste che
state facendo con Pubblico e lo trovo importante. Ci sarebbe bisogno di
un luogo dove ricominciare a discutere».
Fausto Bertinotti mi riceve
con la sua consueta gentilezza. Da tempo ha rinchiuso i suoi impegni tra
sporadiche lezioni in alcune università e la sua rivista Alternative
per il socialismo. Sono andato a trovarlo con curiosità. Provo a
tirargli fuori qualcosa sulle primarie. Ma ci vuole quasi il forcipe.
«Ho
una grande ritrosia a intervenire sulla prima linea. Comunque, se devo -
al di là dell ’istanza della partecipazione, che scavalca lo stesso
ragionamento politico - io credo che la carta d’intenti abbia costituito
una prigione. Entro quei confini, non si è potuta aprire una dialettica
veramente politica nelle primarie.
Per esempio, tra parità di bilancio o
no. Ed ha prevalso inevitabilmente un conflitto fuorviante tra vecchio e
nuovo». Va bene. Ci samo tolti il dente. E adesso, visto che hai letto
le precedenti interviste, scegli tu da dove vuoi cominciare.
Forse
potremmo iniziare da quello che rispondono sia Rossanda che Rodotà,
quando gli chiedi che cosa c'è stato di interessante dopo l'89 sulla
scena europea e mondiale: i movimenti. Immagino non ti sorprenderà: ma
anche io credo che si debba partire da lì, da queste realtà e
potenzialità.
Parliamo allora del tema dell'efficacia, che non c'è,
come dice la Rossanda? Va bene, però facciamo un passo indietro.
Partiamo invece dalla sconfitta. Nel 1989 c'è stata una sconfitta
storica. Molti di noi l'hanno sottovalutata. Forse perché non amavamo
quei regimi. Ma è vero, come dice Hobsbawm: il 1989 chiude il secolo
breve. E lo chiude con una sconfitta storica. E allora, se vogliamo
capire le difficoltà oggi dei movimenti, forse conviene partire da
un'altra grande sconfitta, che è stata molto importante per il movimento
operaio.
Quale?
La comune di Parigi del 1871.
Accipicchia. E perché?
Perché
anche allora si dovette elaborare una sconfitta. E anche allora il tema
che si posero tutti, da Marx in giù, fu quello di come conquistare la
vittoria, o come diremmo oggi, l'efficacia. Alla fine quella ricerca
generò l'invenzione geniale del partito operaio, sia nella versione
tedesca che leniniana. Però, pensaci, per arrivarci, fu necessario un
lungo ciclo, durato decenni, di transizione. Ci furono tanti tentativi,
moti, grandi conflitti, una grande idea teorica che prende forza. Ma
tutte le forme di organizzazione restarono a lungo incerte e labili.
Insomma tempi lunghi?
Capisco
l'impazienza verso i movimenti. Ma siamo all'indomani di una sconfitta
storica, ancora più grande, anche se meno violenta. D'accordo. Assumiamo
l'analogia. Non c'è tuttavia qualcosa nei nuovi movimenti che mette in
scacco le forme di organizzazione, unificazione e quindi di efficacia
che abbiamo conosciuto nel '900?
Sono d'accordo. Anch'io come la
Rossanda sono sicuro che qualcosa rinascerà. Ma non credo che il
problema dell'efficacia si possa risolvere rifacendo il partito del
'900. E neanche il sindacato. Però certe difficoltà non sono nuove.
Pensa – alle origini del movimento operaio - ai conflitti a fuoco tra
operai generici e specializzati, quando gli uni funzionavano come massa
di manovra contro gli altri; o tra operai e contadini; tra operai e
intellettuali. Anche allora, per superarli fu necessaria una grande
costruzione culturale. Il problema dell'organizzazione è sempre un
problema politico a tutto tondo.
Quindi niente di nuovo sotto il
sole? No, naturalmente. Siamo di fronte a un grande mutamento della
composizione sociale. E ogni volta che cambiano le figure sociali
prevalenti, bisogna innovare i contenuti della politica e le forme di
organizzazione. Pensa all'irruzione negli anni 60, dell'operaio comune
di serie e dello studente di massa; e per restare solo alla prima di
queste figure, all'invenzione dei consigli di fabbrica e
all'egualitarismo nelle rivendicazioni sindacali. Ma oggi, la vera
differenza è un'altra. Quale?
Quello che rende drammatica l'attuale
mutazione è che avviene nella totale solitudine operaia. Non ha
un'armatura, né ideologica, né culturale né organizzativa. La differenza
è l'assenza del movimento operaio, delle sue organizzazioni e cultura.
Perché non mi si dica che la sinistra che c'è oggi in Europa è erede del
movimento operaio.
E cosa è?
La sinistra prevalente oggi ha
culture liberali o social-liberali, come le chiama Bellofiore. Pensa
alla vicenda Marchionne o la contiguità al montismo. Non si possono
spiegare se non si vede che è stato abbandonata ogni lettura di classe.
Chi oggi usa in questa sinistra, categorie come salario, profitto e
rendita? E questo come lo spieghi?
È che la sinistra, in tutte sue
componenti, non ha saputo fare l'operazione che gli avi hanno fatto dopo
la comune di Parigi. Invece di elaborare le ragioni della sconfitta, ha
derubricato la sconfitta. Ha evitato di elaborare il lutto. E così non
ha avuto la capacità di rielaborare le ragioni della propria esistenza.
Per questo oggi i partiti sono realtà estremamente insignificanti dal
punto di vista delle culture politiche. E per questo mi interessano i
movimenti. Perché stanno facendo questa elaborazione? Io credo di si.
Direi che acchiappano le questioni, pur senza risolverle. Forse c'è un
offuscamento della lettura di classe. Ma provano a rielaborare i temi
dell'uguaglianza, della democrazia e si confrontano criticamente, sia
pure solo prevalentemente dal punto di vista delle conseguenze, e senza
saper proporre alternative, con l'attuale capitalismo finanziario.
Viceversa tutti questi temi sono stati posti fuori dell'agenda della
politica. E a proposito di efficacia: quanto efficaci sono oggi i
pariti? Eppure, io insisto. A me sembra che c'è davvero qualcosa di
nuovo nei movimenti, che rende difficile il loro strutturarsi. Per
esempio c'è un'inedita forte rivendicazione di diversità e autonomia.
Sono
d'accordo. Ed è un elemento promettente, ma anche un bel casino. È
promettente perché ci permette un ragionamento critico sulla nostra
esperienza, che ha sacrificato diversità e libertà all'idea della
vittoria o dell'efficacia. Sarei più cauto a dire all'idea
dell'uguaglianza: perché secondo me, la repressione delle libertà e del
dissenso nella tradizione comunista, è stata fatta più in nome della
preservazione del potere o dell'efficacia dell'organizzazione. Comunque
questo fatto, secondo me, è utile.
Però dicevi è anche un casino? Sì.
Perché – e ce lo aveva già annunciato il femminismo –pone il tema della
non rappresentabilità. Allora le donne ci mostrarono che non sarebbe
stato facile immettere la loro soggettività nella cultura e nelle forme
di organizzazione della sinistra. E oggi il tema si pone anche in
termini di soggetti collettivi. E come si affronta?
Secondo me
bisogna ripartire – più che dai partiti, che mi sembrano ormai degli
elementi morti - dall'idea di coalizione. Ma la coalizione non è ciò che
si prova a fare da più di 10 anni nei movimenti, senza successo? Io
proverei a vedere questi anni in modo meno lineare. Sono stati anche
tempi di occasioni mancate. Nel 2001, all'epoca del movimento
alterglobalista. non è vero che all'ordine del giorno c'era la
coalizione. Almeno in Europa, il tema era quello del rapporto tra
movimenti e partiti. E sindacati. E lì c'è stato il fallimento dei
partiti, anche di quelli più interessati. Ti riferisci a Rifondazione
comunista? È la responsabilità più grande che sento. Rifondazione, che è
stato il partito più interessato e interno al movimento non ha avuto il
coraggio di giocarsi per intero la partita: sciogliersi per costruire
insieme a quelle forze un progetto nuovo.
Quindi questo pensi sia stato l'errore più grande: il mancato scioglimento? Sì.
Non è stata più fatale l’esperienza di governo? Sì, dal dal punto di vista di Rifondazione non c'è dubbio.
E
rispetto a quell’esperienza, cosa ti rimproveri? Non so onestamente
cosa avremmo potuto fare di diverso, perché eravamo sotto il macigno
dell’accusa di far vincere Berlusconi. Ma certamente ho peccato di
ottimismo. Ho sopravvalutato la permeabilità delle istituzioni ai
movimenti. Non ho visto la crisi istituzionale, già in atto, lo
svuotamento del parlamento. Ho anche sopravvalutato la forza dei
movimenti. Però il tema che propongo è che a Genova c'è stata
un'occasione. Per noi che avevamo una struttura si poteva tentare quella
strada.
Pensi al caso di Syriza, che si ispirò molto, all'inizio, a Rifondazione?
Possiamo
non chiamarlo scioglimento. Però il punto è che la trasformazione del
Synaspismos in Syriza avvenne in quel momento. Assumendo in pieno quel
rapporto con i movimenti. Era niente. Erano una forza quasi
insignificante. E sono diventati protagonisti sulla base della loro
osmosi con i movimenti; e oggi del loro rapporto interno con la rivolta,
del loro matrimonio con la rivolta.
Insomma tu dici, allora ci fu
un'occasione. Ma quella stagione si è chiusa. Sì, per questo metto
l'accento sulla coalizione. Perché, diversamente dal passato quando il
processo di autoriforma poteva essere tentato, oggi quello che rimane
sul campo in termini di forze politiche, mi sembra privo di possibilità
di autoriforma. Io credo che per ricostruire una sinistra si debba
pensare a un processo costituente, che parta dalle potenzialità di
questi soggetti emergenti. Il tema è imparare a stimolare le nuove
istituzioni che i movimenti possono darsi.
A proposito di movimenti, sei andato alla manifestazione del 14?
Sì.
Sono andato a vedere gli studenti medi. C'erano anche i miei nipoti. Mi
ha colpito molto l'omogeneità e la compattezza. Tutti ragazzi e ragazze
tra i 14 e i 19 anni. Nessuno sopra i venticinque anni.Non c'erano
leader, partiti, organizzazioni, bandiere. C'erano due soli contenitori:
l'essere medi e gli istituti. E tu cosa ci hai visto?
Al di là delle
rivendicazioni specifiche, io ho visto una generazione che sviluppa una
coscienza critica di sé. Chi siamo? Siamo gli esclusi. Siccome stiamo
fuori, vogliamo entrare. A fare che? A presentarci. Vogliamo arrivare ai
palazzi del potere per dire: presente. Io ci ho visto la costruzione di
un elemento identitario e anche un modo riformato di praticare la
politica.
E sul tema degli scontri?
Sai quanto per me sia
importante il tema della non violenza. Però se ci parli, loro ti dicono:
io non sono un violento. Non voglio fare lo scontro. Però voglio
passare. Perché è un mio diritto. E se tu mi fermi io mi metto il casco.
E prima o poi passerò. Comunque, il tema è: chi ci parla con questi
ragazzi?
Tu dici, i partiti no?
No. Questo è il punto. Io credo
che ormai ci sia un'irriformabilità dall'interno del sistema politico
italiano e dei partiti così come sono. Lo dimostra ciò che sta ormai
fuori dal sistema politico. E lo dimostra anche il dibattito sulla legge
elettorale.
In che senso?
Dico: dovresti mettere a fuoco il tema della crisi della rappresentanza. Dovresti interrogarti su quale
sistema
può dare spazio e voce a chi non ha più rappresentanza. L'unico quesito
che ci pone è invece come vincere una campagna elettorale. L'importante
è conquistare il governo, o il tema della governabilità. Magari
tenendosi il Porcellum. E di Grillo cosa pensi?
Io penso che va
guardato con un occhio diverso da quello con cui siamo abituati a
guardare alle forze politiche.Non perché non lo sia. Lo è. Ma perché mi
sembra un esercizio un po' sovrabbondante, inutile. Vuoi che, se ci
mettiamo a discutere, non abbiamo tutti fastidio per le sue forme di
iper-leaderismo, l'uso del gesto clamoroso, la forma autoritaria di
intervento sui gruppi dirigenti? Va bene. Però una volta fatto tutto
questo, parliamo d'altro. Perché?
Perché per me è un fenomeno
parallelo all'astensione. Sono due fenomeni fratelli di fuoriuscita dal
sistema politico e dalla democrazia rappresentativa: con più o meno
collera, sdegno, rancore, ma di fuoriuscita di massa. Che vuoi dire?
Voglio
dire che è poco importante il giudizio di merito sul Movimento 5 stelle
o chiedergli qual è il suo programma. Quanto il fatto di capire perché
prende forza. E lo fa perché è un ariete contro il sistema politico. Il
suo obiettivo è abbattere questo sistema politico. E il punto è che è un
obiettivo fondato. Ha una giustificazione storica: la morte della
seconda repubblica e l'esigenza di seppellirla. Solo che
questa esigenza non trova riscontro dentro il sistema politico.
Cosa pensi si stia preparando? Proprio non so dirlo. Del resto in tutta Europa non si capisce. Pensa alla Grecia. Ma
anche
al crollo vertiginoso del consenso a Hollande. Comunque, se il sistema
non si riforma - e io non credo sia capace di farlo - il crollo può
essere traumatico. Cosa vedi tu in campo?
Da un lato vedo
sostanzialmente
evoluzioni del montismo. La soluzione che la classe dirigente italiana
ed europea ha trovato alla crisi italiana. E qual è?
È quella
prigione a cui facevo riferimento parlando delle primarie. Un nuovo
ordinamento che mira alla conservazione del modello economico e sociale,
fondato su parità di bilancio e introduzione di elementi di governo
oligarchico: entrambi presentati come ineluttabili, anche attraverso il
riferimento ai mercati e all'Europa. E che altro?
Poi vedo i
conflitti in tutte le loro manifestazioni, che rimangono tutti esterni a
questa ipotesi di fuoriuscita, governata dall'alto, dalla crisi della
seconda repubblica. Esprimono un'opposizione incompiuta nel corpo della
società: con elementi di rivolta, ma al momento, senza alternativa.
Infine, distinto, c'è il partito dell'opposizione al sistema politico.
Che sarebbe?
È un conflitto che invece di essere un conflitto destra
contro sinistra, classi subalterne contro classi proprietarie, è tra
sistema politici e abbattimento di questo sistema. Un tempo si sarebbe
detto tra l'alto e il basso della società. Un fenomeno populistico?
Sì,
possiamo chiamarlo così, purché non usiamo questo concetto come una
categoria immobile. E dismettiamo un atteggiamento – non dico critico,
che è necessario –ma sprezzante, per indagare bene il fenomeno. Quello
che oggi chiamiamo populismo, sono fenomeni molto diversi e magmatici.
Perché non si sono ancora costituiti con una loro fisionomia. Comunque è
chiaro: c'è una pulsione anti- elitaria, che si proietta contro la
casta e i suoi privilegi, ma dietro la quale c'è un senso profondo di
disagio, abbandono, frustrazione e solitudine.
E in tutto ciò la sinistra?
Io
credo che una sinistra che non sia in grado di riprendere la critica
del capitalismo del nostro tempo non ce la fa ad esistere. La scomparsa
della nozione di capitalismo è cruciale. Questo tema non c'è più nella
scena politicoculturale da 25 anni. Senza questa critica, non hai
autonomia; e le forze che ti richiamano alla responsabilità sono troppo
forti. E senza questa critica, anche i movimenti, o la polarizzazione
alto-basso, possono anche raggiungere momenti altissimi di mobilitazione
della protesta, ma non vanno ai nodi di fondo: non si risale alle cause
e non si risolve il tema dell'efficacia.