domenica 30 novembre 2014

All it needs is love di Carlo Formenti


“Non ci amano più”: questo il lamento di un formidabile articolo dell’Economist. A dire il vero il titolo recita, parafrasando quello di un famoso successo dei Beatles, “All it needs is love”. Ma dietro quell’impersonale it (riferito al capitalismo) si nasconde il noi di una intera classe, ben rappresentata dalla prestigiosa testata. Ma chi non lo (li) ama più? Secondo un sondaggio del 2013, solo una maggioranza di misura (il 53%) dei cittadini americani si è espressa a favore del libero mercato, mentre la percentuale scende seccamente sotto il 50% in analoghi sondaggi condotti in Grecia, Spagna e Giappone. Ma soprattutto il 56% dei cittadini dei Paesi ricchi ha identificato nella crescente disuguaglianza il problema più grave.
Di chi la colpa? Della finanziarizzazione dell’economia, scrive l’Economist: alla gente non è piaciuto che, per salvare i grandi speculatori, gli stati abbiano riversato nelle loro tasche i soldi prelevati da quelle delle classi medie e inferiori (quel che si chiama privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite).
La crisi ha fatto dimenticare i “vantaggi” che due secoli di capitalismo avevano regalato al mondo e riesumato l’antica diffidenza cristiana nei confronti dei ricchi (un’allusione a Papa Francesco?) e le velleità delle sinistre antagoniste, che tornano a contendere l’egemonia sulle classi subordinate a una “sinistra” che, dagli anni 80, si era finalmente convinta delle virtù del libero mercato.
Quale il rimedio? Per fortuna, argomenta l’autore dell’articolo, si può ancora contare sulla “dissonanza cognitiva”, cioè sul fatto che buona parte di coloro che manifestano diffidenza nei confronti del capitalismo, in quanto proprietari della propria casa e in quanto consumatori, si sarebbero dichiarati senza riserve a favore della proprietà privata e dei benefici della concorrenza.
Per ricucire la dissonanza occorrono due cose: 1) rilanciare il mito secondo cui tutti noi, nella misura in cui abbiamo a che fare con il mercato e ci assumiamo dei rischi, siamo capitalisti; 2) dissociare il più possibile l’immagine del capitale produttivo da quello del capitale finanziario. Insomma: la questione è sempre quella dell’egemonia culturale, ovvero: come controllare il modo in cui si chiamano le cose per occultarne la realtà.
Una pratica in cui si distingue – fra i tanti, compresi i nostri leader di “sinistra” – il conservatore David Cameron, il quale, intervenendo nel dibattito sulla trattativa per gli accordi di libero scambio fra Usa e UE (TTIP), ha rintuzzato l’argomento dei sindacati inglesi, secondo i quali tali accordi sarebbero l’anticamera della privatizzazione del Servizio Sanitario Nazionale (NHS).
Cameron ha ribadito che Stati Uniti ed Europa non potranno che trarre benefici da una ulteriore liberalizzazione dei commerci che genererà investimenti e posti di lavoro, oltre a uniformare gli standard alimentari e ambientali.
È vero che tutte le precedenti liberalizzazioni hanno al contrario provocato contrazione dei posti di lavoro e caduta dei salari; ed è vero che, come spiega Paolo Ferrero nel suo ultimo libro, l’approvazione del TTIP implicherebbe l’allineamento dell’Europa su standard americani che consentono l’introduzione negli alimenti di sostanze proibite dalle nostre leggi e una drastica riduzione delle garanzie ambientali, ma poco male: tanto i contenuti delle trattative sono tenuti accuratamente riservati (quindi non accessibili al pubblico), mentre i media e i politici delle due sponde dell’Atlantico, invece di chiamare le cose con il loro nome, li battezzano con nomi rassicuranti.

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