venerdì 21 novembre 2014

C’ERA UNA VOLTA IL BUON IMPRENDITORE (CHE SALTA ADDIRITTURA I PASTI!) di Norberto Fragiacomo


Va di moda, oggi, distinguere tra imprenditori buoni e pessimi.
I secondi – adeguatamente rappresentati dal “caimano” Davide Serra, l’amico di Renzi che propone di limitare il diritto di sciopero1 – sarebbero identificabili nei supermanager alla guida di multinazionali e fondi d’investimento, che storpiano le economie, “tagliano” popoli interi, vivono di speculazione e non creano nulla; i “buoni”, invece, corrispondono alla classe dei piccoli e medi produttori che, stabilmente (?) legati al territorio, sono stati gli artefici di miracoli italiani reali o presunti, ed oggi appaiono strozzati dalla crisi.
In sintesi: finanza contro manifattura. Alle piccole e medie imprese, sostenitrici in passato (perlopiù) del centrodestra, si rivolge l’efficacissima propaganda di Matteo Salvini, che – appropriatosi di un’inedita dimensione nazionale – annuncia la riscossa contro l’euro e le tecnocrazie europee, ma strizzano pure l’occhio molti ideologi della sinistra extraparlamentare. L’auspicio è quello di un’alleanza fra datori e forza lavoro, che consenta al Paese di riacquistare un minimo di prosperità e - prima ancora - di uscire dalle secche in cui la tecnocrazia europea l’ha cacciato.
Alla domanda se la strada sia percorribile se ne affianca nella mia mente un’altra, affatto diversa: è auspicabile, in concreto, un ipotetico percorso comune? Vale a dire: questo patto federativo arrecherebbe benefici ad entrambi i contraenti o ad uno soltanto?
Doverosa premessa: prima di essere tale, l’imprenditore è un essere umano, onesto/generoso o disonesto/avido di suo (comunque sia, non indifferente al denaro). La Storia però ci rammenta che per un Owen o un Olivetti ci sono stati centinaia di sfruttatori: colpa del caso o di circostanze oggettive? Può un imprenditore di medie capacità (le due eccezioni citate erano dei fuoriclasse in odor d’eresia) permettersi il lusso di far prosperare i propri dipendenti, garantendo loro alte retribuzioni, libertà e diritti?
Affido l’onere della risposta ad economisti onesti; in quest’articoletto mi limiterò a riportare un caso, a mio avviso emblematico.
Sul Messaggero Veneto del 5 novembre compare un’intervista a Diego Travan, titolare assieme alla moglie del Gruppo Interna di Tavagnacco, un’impresa friulana che va forte anche in tempi di stagnazione (v. http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2011-03-20/solo-calcio-miracolo-friuli-081523.shtml?uuid). Il titolo è stuzzicante («Alla cena di Renzi? Io non ci vado, potrei stare male»), lo scambio di battute iniziali conferma l’impressione positiva: Travan è contrario “proprio in linea di principio” alle “cene degli imprenditori”, perché “sanno tanto di classista”; lui non è tipo da salire sul carro del vincitore – assicura – e potrebbe “avere dei conati di vomito” sentendo “qualche imprenditore o finanziere chiedere di limitare il diritto di sciopero”. Seguono un durissimo attacco all’imprenditoria italiana “storicamente prostrata davanti al potere”, l’orgogliosa rivendicazione di aver sempre mantenuto le distanze dal potere politico, il commosso ricordo del nonno operaio a Monfalcone (“era comunista”, precisa) e della propria giovanile militanza marxista. Il “compagno” Travan, estimatore di Bersani, non lesina critiche a Matteo Renzi – in cui “c’è tutto e il contrario di tutto” – e alla penultima domanda, sull’articolo 18, svicola un poco, ma solo per fare l’apologia del sindacato, che auspica forte e potente come in Germania.
Verrebbe da commentare, rasserenati: ecco un imprenditore democratico, dinamico e spiritoso – l’esatto contrario del “padrone delle ferriere” che tratta i suoi operai come bestie da soma! La chiusa dell’intervista, però, spiazza il lettore, e merita di essere riprodotta integralmente: “Invece di sparare sulla croce rossa bisognerebbe affrontare le sfide che il processo di globalizzazione, a mio avviso positivo e importante, pone a tutti noi. Nessuno, per esempio, ha il coraggio di metter mano ai contratti di lavoro che, per la maggior parte dei lavoratori, garantisce (sic!) tra ferie, permessi e giorni festivi, due mesi di ferie l’anno. In Cina o in molti dei Paesi emergenti con i quali dobbiamo competere i lavoratori fanno due settimane di ferie l’anno. Questo è il vero problema: dirci con realismo e franchezza che forse per competere nel mondo dovremmo rinunciare a qualcosa2 (…) avviando un grande sforzo collettivo per tenere il nostro Paese al passo con i tempi.”
Errata corrige: il simpatico Travan ha la mentalità del tipico padrone delle ferriere – pardon: del tipico imprenditore, che non va giudicato sulla base del numero dei sottoposti. Per quanto mi riguarda, nessuna sorpresa: anni fa, ad un incontro organizzato a Udine dal PSI, avevo udito un manager della Danieli proporre la medesima ricetta – prolungare gli orari e dimezzare le ferie a parità di salario (tanto poi, grazie alle “benefiche” liberalizzazioni, si può andare a far compere la domenica). Allora reagii con veemenza, sbattendo in faccia al dirigente i valori non negoziabili di una sinistra degna di questo nome… ascoltandomi, il tizio assunse un’espressione stupita, più che contrariata, e immagino che neppure il buon Travan si renda conto che i suoi suggerimenti sono più “di destra” delle porcate inserite da Renzi nel famigerato Jobs Act (e non meno punitivi, per chi lavora, delle sparate reazionarie di un Serra). Più di destra, sostengo, perché priverebbero il lavoratore di quel poco di esistenza che gli spetta, condannandolo ad una schiavitù senza scampo che avvalla il pessimismo di Teognide (“non nascere è la cosa migliore per i mortali e non
vedere mai il triste raggio del sole”), ma in fin dei conti figli della medesima impostazione che ispira la reintroduzione dei controlli a distanza, la libertà di demansionamento e la licenziabilità a capriccio3: in quanto strumento produttivo, il lavoratore deve inchinarsi alle superiori esigenze dell’impresa, e vivere in funzione di essa. Visto che i macchinari non vanno in ferie, perché mai dovrebbe andarci l’operaio?
In realtà, malgrado la sua fede nella globalizzazione, Travan è il modello di imprenditore cui guarda Salvini: con una sessantina di dipendenti e un fatturato di 20 milioni l’anno4, Il Gruppo Interna è un’azienda media, quasi piccola5, che “opera nel settore dei progetti di alta gamma destinati all’industria dell’ospitalità e del contract” (http://miojob.repubblica.it/aziende/9028Interna_Group/135Chi_siamo), cioè nell’arredamento di alberghi e boutique di lusso: un made in Italy di cui andare orgogliosi, che nulla ha a che fare con le sozzure della finanza speculativa. L’atteggiamento complessivo nei confronti della manodopera è tuttavia analogo a quello delle grandi società transnazionali, e un tanto non dipende da sadismo individuale né dalla frequentazione dei mercati internazionali, bensì da quella necessità di accumulare profitti che affratella tutte le imprese private del pianeta – e il profitto non cresce sugli alberi: è legato a doppio filo al livello di sfruttamento quantitativo (in termini di ore lavorate) e qualitativo (in termini di controlli ed “esigibilità”) delle energie dei prestatori d’opera. La Nestlè e Mario Bianchi, costruttore edile di paese, potranno avere interessi contrastanti (e se vengono a conflitto, la prima schiaccerà il secondo senza manco avvedersene), sicuramente hanno un giro d’affari incomparabile e operano su scala diversa, ma traggono ambedue la propria forza da un’unica pozione magica: il plusvalore. Di questo elisir non esistono surrogati.
Conclusione: un asse le tra piccole e medie imprese italiane6, da un lato, e le masse lavoratrici dall’altro contro lo strapotere della UE, dei mercati ecc. avvantaggerebbe – “a legislazione vigente”, e nell’eventualità di un esito positivo della lotta – esclusivamente le prime: a crisi finita, ovvero ad Europa privatizzata, ci saranno comunque lavoro servile e paghe da fame per (quasi) tutti. Il discorso cambierebbe se la sinistra, conquistata l’egemonia tra le forze ostili alla globalizzazione, riuscisse ad imporre al padronato nostrano una sorta di Magna Charta che sancisse, ad esempio, limiti insuperabili ai licenziamenti ingiustificati, divieto assoluto di delocalizzare, partecipazione delle maestranze alle decisioni aziendali e agli utili, una drastica riduzione delle disparità stipendiali ecc. La lezione del 1848 francese, registrata per noi da Karl Marx, andrebbe riascoltata: il rischio di fare i comodi altrui è sempre in agguato. Fare i propri – come lavoratori – significa, se non realizzare il Socialismo, apportare tante e tali modifiche al sistema attuale da mutarne i connotati, creando comunque un nuovo modello: se permaniamo in quello vecchio, magari ridimensionato e “nazionalizzato”, a cambiare saranno i carcerieri, non le catene.

NOTE
1 Ma forse ancor meglio da Mister Eternit Stephan Schmidheiny (“graziato” iersera dalla Suprema Corte di Cassazione), malgrado costui abbia incominciato a occuparsi di finanza in età relativamente tarda.
2 Chissà perché il nostro usa la prima persona plurale in luogo della terza: nessuno vieta all’imprenditore, se lo desideri, di lavorare 7 giorni su 7…
3 Perché all’ex compagno imprenditore non garba Renzi, allora? Forse per incompatibilità caratteriale, forse per quell’eccesso di spocchia e scomposta aggressività che, a lungo andare (certi sondaggi negativi suonano come un campanello d’allarme), potrebbe esasperare gli italiani e contribuire ad incendiare il Paese, prospettiva certo sgradita al padronato. In molti, ci scommetto, avrebbero preferito a Palazzo Chigi un Bersani con doti di comunicatore o un Letta “svelto”… qualcuno, insomma, capace di “riformare” a fondo il Paese senza isterismi, usando le buone maniere. Visti anche i precedenti, mi sa che gli toccherà accontentarsi di quel che passa il convento…
4 V. l’elogiativo articolo de Il Sole24 ORE.
5 La Raccomandazione della Commissione europea n. 1442 del 6 maggio 2003 classifica come “piccole imprese” quelle che impiegano fino a 50 persone e raggiungono un fatturato di 10 milioni, come “medie imprese” quelle che arrivano a 250 dipendenti e 50 milioni di fatturato. Sotto i dieci addetti l’impresa è definita “micro”.
6 Non è per dimenticanza che non ho citato le microimprese, per lo più a condizione familiare: per molti padroncini, ormai, la proletarizzazione è un dato di fatto.
 
 
La vignetta è del Maestro Mauro Biani

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